animanga: alphonse elric

Le nuove storie sono in alto.

Pairing: Alphonse/Edward.
Genere: Introspettivo
Rating: R
AVVISI: Flashfic, Slash, Lime.
- "Sinestesia indica situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi."
Nota: E' il mio regalo di compleanno per la Caskina, ma in realtà è un'idea che mi trascino dietro da anni, vale a dire da quando FMA era il mio fandom di riferimento XD Insomma, meglio tardi che mai, o almeno spero /o\
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SINESTESIA


Alphonse ha capito fin da subito che nel suo corpo c’era qualcosa di strano. Qualcosa che non andava, magari non qualcosa di sbagliato, ma sicuramente qualcosa di fuori posto, perché per quanto fosse piccolo ai tempi della trasmutazione fallita, non gli pare di ricordare che allora provasse sensazioni simili. E dipendono dal suo corpo, dalle terminazioni nervose fuori fase, per forza, perché le sensazioni sono fisiche, non le inventa, non le immagina, non sono cose che percepisce nell’aria, non sono cose che ascolta in un’eco lontana, sono cose che sente, su cui non può sbagliarsi.
All’inizio pensava fosse solo felicità. Si è ripetuto spesso che quel brivido che sentiva scorrere lungo la schiena, dandogli la pelle d’oca ogni volta che suo fratello parlava – non necessariamente con lui, poi – dovesse essere un qualche sintomo di gioia dettato dal non vederlo da così tanto tempo. E poi, davvero, era una cosa lievissima, come una carezza in punta di dita su e giù per la spina dorsale. Niente di realmente preoccupante.
Poi le sensazioni si sono fatte più intense, e allora Alphonse ha cercato di dare la colpa al nuovo ambiente. A Monaco, al freddo, alla città, al tempo e all’universo differenti che cercavano di farsi spazio dentro di lui, e alle sue forme che cercavano di modificarsi per fare spazio a tutto ciò dentro di sé. Ha provato ad ignorare la pressante consapevolezza del fatto che ogni singolo tocco che percepiva sul collo sui fianchi e fra le cosce fosse direttamente dipendente dalle parole di Edward, e per un po’ c’è riuscito, o ha creduto di esserci riuscito.
Poi, suo fratello l’ha guardato a lungo, un pomeriggio, tornato da lavoro. Seduto sul divano, la camicia sbottonata sul petto e i capelli sciolti sulle spalle, ha allungato un braccio verso di lui, accoccolato al suo fianco sul cuscino, e se l’è stretto contro. Le sue dita fra i capelli e sul collo, Alphonse le ha sentite appena. Ma quando Edward si è allungato verso di lui e gli ha sussurrato qualcosa all’orecchio, gli è esploso qualcosa nel petto. Non è neanche riuscito a comprendere cosa gli stesse dicendo, le parole erano suoni confusi, lontani, mescolati fra loro, privi di senso. E la carezza che sentiva scivolare lungo il profilo dell’orecchio, giù per il collo e sulla spalla, non era una carezza fisica, malgrado lui la percepisse come tale. Ed lo stava solo abbracciando, non stava facendo nient’altro: lo abbracciava e parlava. Eppure Alphonse sentiva una mano scivolargli sul ventre, sotto i vestiti, fin giù fra le gambe.
Sforzandosi più di quanto non avrebbe mai creduto possibile, Alphonse ha dischiuso gli occhi e cercato la figura sfocata di suo fratello. Edward ha parlato ancora, probabilmente per chiedergli se ci fosse qualcosa che non andava, ed Alphonse, scosso da un fremito profondissimo, s’è morso un labbro a sangue, strusciandosi quasi inconsapevolmente contro di lui.
“Ancora,” l’ha implorato, ripiegando all’indietro il capo nell’incavo della sua spalla, “Ancora, ti prego.”
Edward l’ha guardato senza capire – Alphonse ha colto la sua occhiata incerta nel mezzo delle esplosioni di luce e colori che gli inondavano il cervello – e poi ha parlato ancora. E ancora, e ancora, e Alphonse non è riuscito a comprendere una sola singola parola, ma non era importante, perché c’erano mani ovunque, carezze ovunque, baci ovunque. Ogni lettera che scivolava fra le labbra di Edward era una carezza dritta fra le cosce di Alphonse, lungo la sua erezione pressata all’interno della fodera stretta dei pantaloni troppo piccoli rispetto a quanto era cresciuto da quando aveva recuperato il suo corpo.
È venuto con un gemito tanto profondo e forte da togliergli il fiato, sempre stretto fra le braccia di Edward, che ha continuato a sussurrargli parole incomprensibili all’orecchio anche dopo l’orgasmo, trascinandolo esausto nel sonno. Alphonse non sa ancora cosa ci sia di sbagliato nel proprio corpo, quale sia il meccanismo inceppato, cosa non gli permetta di funzionare alla perfezione, quale sia il motivo di una tale confusione dei sensi. Però adesso sa cos’è che aziona tutto, cosa accende la miccia, cosa fa scoppiare la bomba. E quando cerca suo fratello, di notte, nel letto, e poggia l’orecchio contro il suo petto, chiedendogli di parlare, può farlo senza sensi di colpa.
Pairing: ...uhm.
Personaggi: Alphonse, Edward.
Genere: Introspettivo
Rating: NC-17
AVVISI: Flashfic, Rape, Tentacle, Underage, Violence, What If? (o Missing Moment, dipende da come volete vederla).
- Ogni azione ha una conseguenza.
Nota: Scritta perché Caska è cattiva, ma devo anche ammettere che l'ho ideata io tutta da sola, quindi suppongo che le colpe possano essere adeguatamente divise in due.
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SCAMBIO EQUIVALENTE


Ed schiude gli occhi nel buio soltanto perché sente i gemiti di Al – gocciolano, grondano dolore, le sue lacrime si infrangono contro il pavimento di legno senza un suono e nel buco di silenzio attorno alla sua sofferenza c’è un rumore sconosciuto, schioccante, improvviso, che si muove a scatti. Ed non lo riconosce, e cerca di schiarirsi la vista, solo che non ci riesce. Sente male dappertutto, sente male ovunque, si sente mancare un pezzo di corpo e non capisce perché.
- A-Al… - cerca di biascicare, e sente in bocca il sapore del sangue. Alphonse non risponde per un sacco di tempo, e per tutto quel tempo Ed riesce solo a sentire quel suono orrendo e senza senso. Poi, la vocina di Al, sottilissima e tremolante come la fiammella di una candela, si fa strada in mezzo a tutti quei suoni assurdi e lo chiama.
- Nii-san. – dice, la voce rotta dai singhiozzi, - Nii-san, fa male…
Ed spalanca gli occhi perché la voce di Al si spezza più nettamente in un urlo che gli scuote i polmoni e lo stomaco, ed il secondo dopo sta osservando con aria inorridita il corpicino bianco e magro di suo fratello intrappolato fra le grinfie di un mostro nero e deforme, con uno spaventoso ghigno che è tutto ciò che si riesce a distinguere del suo volto – il risultato della sua trasmutazione.
Ammassi di ossa e carne e vene e nervi e sangue sangue sangue ovunque si diramano dal corpo della creatura, stringono Al tanto da cambiare colore alla sua pelle – la pelle di Al, così morbida, profuma ancora di latte, Ed non riuscirà più a sentire quell’odore senza sentire l’immediato bisogno di vomitare anche l’anima – lo soffocano, lo immobilizzano, entrano ed escono dal suo corpo scuotendolo tutto, costringendolo a urlare.
- Nii-san… - piange Al, il volto rigato di lacrime, - mi sta spaccando, mi- - ansima, - mi sta spaccando…
Edward lo guarda, lo guarda, lo guarda, e poi si tira su e urla così forte da sentirsi male, tanto da sentirsi svenire, vede tutto bianco e forse è meglio, almeno non vede più Al piangere e sanguinare e urlare e non vede la creatura approfittare del momento in cui ha aperto la bocca per violare anche quella – la bocca di Al, la bocca di Al che è piccola e dolcissima e sa di latte anche lei, e Ed ha di nuovo voglia di vomitare, Dio – e neanche se ne rende conto quando il mostro allunga un tentacolo robusto verso di lui e lo attira contro di sé.
- No… - pigola distrutto, perché è solo un bambino e non sa cosa dovrebbe fare per sistemare questa situazione che ha creato da solo, - No, mamma… - prova, ma mamma non ascolta, mamma sfiora la ferita enorme e aperta sulla gamba, la ferita che la trancia in due, e gioca ad accarezzarne il bordo che brucia come il fuoco. Ed urla, ma urla ancora di più quando sente il tentacolo entrare in un colpo dentro il suo corpo. Chiude le palpebre con tanta forza che gli pulsano le tempie, si sente lacerare solo per un attimo, perché poi qualcos’altro si aggiunge a quello che già c’è e lui non sente più nulla – forse ha superato la soglia del dolore, non saprebbe dirlo.
Il suo braccio sfiora quello di Al, accanto a lui. Si muovono in sincrono, Al ha gli occhi chiusi e piange ancora mentre il tentacolo si spinge in fondo fino alla sua gola, strozzandolo. Ed lo sente tossire, ma il tentacolo non si ritrae e poco dopo qualche schizzo di vomito sfugge all’angolo della sua bocca, scivolando lungo il mento.
- Al… - chiama, - Basta! Basta, basta, ti prego, lo stai uccidendo! – urla e piange e si sente esplodere lo stomaco e non sa più quanto può reggere perché tutto ha ricominciato a fare male in modo insopportabile, e tutto quello che sa è che poco dopo il mostro lo getta via come un fazzoletto usato, mandandolo a sbattere contro la parete, e poi i suoi tentacoli abbandonano anche il corpo di Al, che si affloscia fra le sue braccia nere e senza forma che lo cullano come quelle di una madre, grondanti sangue.
- Al… - mormora Ed, ma Al è svenuto e non risponde, e il suo corpo martoriato comincia a scomparire in mezzo agli arti sparsi e disordinati della creatura. – No no no… - piange, e tutto quello che può fare subito dopo è strisciare sul pavimento fino alla vecchia armatura abbandonata in un angolo nel ripostiglio, raccogliere le ultime forze che gli restano e usare il suo stesso sangue per disegnare il cerchio alchemico di una trasmutazione che può solo sperare vada meglio di quella che li ha quasi uccisi entrambi.

Quando si sveglia, Winry sta piangendo e la zia Pinako si sta prendendo cura delle sue ferite. Gli chiede cos’abbiano fatto, Ed non sa rispondere, o forse non vuole. Al è solo una voce che piange, le sue lacrime senza consistenza risuonano all’interno dell’armatura in un’eco innaturale che lo terrorizza. Ed usa l’unico braccio buono che gli resta per nascondercisi dietro.
Genere: Romantico, Triste.
Pairing: SheskaxMaes principalmente, un po' di sano RoyxRiza e un po' di velato AlxEd.
Rating: R
AVVISI: What if?, Incompleta.
- Maes Hughes è un uomo fedele. Maes Hughes non tradirebbe mai la fiducia di sua moglie o quella della sua amata figlia. Maes Hughes è abbastanza forte da resistere ad ogni tentazione. O forse no.
Commento dell'autrice: Inserirò un commento quando avrò concluso la storia è_é
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GROUNDLESS
Capitolo 1
Ragionevole deviazione


- Sheska, il tuo prossimo compito è...
- BASTA!
Detonazione improvvisa e violenta.
- Non la sopporto più! Non capisco se mi ha presa qui per schiavizzarmi o che altro, ma non ce la faccio più! Pensavo di stare facendo qualcosa per cui dopo sarei stata ricompensata, e invece vengo ricompensata solo con altro lavoro, ancora lavoro, sempre e solo lavoro, e se devo essere completamente sincera la paga non è poi tutto questo granché! Maledico il giorno in cui Ed mi ha raccomandata e soprattutto, sopra ogni cosa, Signore, maledico, maledico, maledico con tutto il cuore il giorno in cui ho incontrato lei, Tenente Colonnello Hughes!!!
Lei si bloccò, le braccia abbandonate lungo i fianchi e i pugni strettissimi. Lo sguardo fiero di rabbia e cieca frustrazione sferzava il militare. Faceva quasi male. Fisicamente. Lui la guardò per un po', sentendosi sopraffatto dallo stupore.
- Sh...
- No! Non ascolterò una sola parola di comando! E non mi lascerò riportare all'ordine! Basta, mi licenzio!
- Ma...
- La smetta, Hughes! Non posso più ascoltarla, la sua voce mi infastidisce, mi è insopportabile, basta, basta, basta!
- Sheska, scusa.
Ed era il suo turno di spalancare gli occhi.
- Come ha detto, prego...?
- ...ti ho chiesto scusa.
Ammutolita, continuò a fissarlo, in attesa di... qualunque altra cosa. Qualunque altra cosa, però, non arrivò; poco dopo, si rassegnò a chiedere ulteriori spiegazioni.
- ...perché?
- ...come perché?! Sheska, che storie mi fai?! Prima esplodi in lamentele, e poi quando ti chiedo scusa mi chiedi anche perché?!
- Be', sì.
- Come "sì"?
- Sì. Perché voglio vedere di cosa si sta scusando.
- Ma... di tutto quello che mi hai detto prima…
- ...altro...?
- ...sono sicuro che non faticherai a trovare dell'altro...
- Per esempio essere una persona insopportabilmente stressante, essere noiosamente fissato su sua figlia, non dare un attimo di tregua a chi le sta intorno e...
- Ok, ho capito di essere una pessima persona, puoi finirla qui...
Un po' imbarazzata, lei si strinse nelle spalle.
- Ma... no, non è una pessima persona...
Lui portò una mano alla fronte, sospirando confuso.
- Sheska, non ti seguo più...
- Intendo, non è come se si dovesse scusare di esistere, Signor Hughes. Lei è una brava persona, ha tante buone qualità, è leale, è fedele, è un buon amico, è un bell'uomo e...
S'interruppe, realizzando in un secondo di non essere riuscita a frenare la lingua al momento giusto. Sollevò lo sguardo per cercare di cogliere la reazione dell'uomo alle sue ultime parole, ma sul suo viso non c'era traccia di sorpresa o imbarazzo.
- Ecco... intendevo...
In realtà non avrebbe saputo dire cosa intendesse. Forse perché non intendeva niente. Era stanca, sì. Aveva voglia di sfogarsi, pure. E l'aveva fatto, senza stare troppo a pensare. Ma come, da questo, fosse arrivata a dare a quell'uomo del bell'uomo, be', un mistero. E perché lui rimanesse così impassibile, poi, era un mistero ancora più intricato e fastidioso.
Non sapendo cos'altro dire, rimase in silenzio e tornò al suo posto. Lui, un po' stupito dal suo comportamento, rimase a guardarla ancora per qualche minuto, come cercando di risolverla; non riuscendoci, dopo poco tornò anche lui alle sue faccende.
- ...qual era il prossimo lavoro che voleva assegnarmi, Signore...?
- Eh... la trascrizione successiva in ordine cronologico rispetto all'ultima che hai completato...
- Sissignore.
Afferrò una pila di fogli e, lentamente, cominciò a trascrivere tutto ciò che ricordava.
Ad annunciarle che Hughes s'era avvicinato a lei non fu il suo odore, né la sua ombra, né un qualsivoglia spostamento d'aria. Fu la foto di Elysia, che le apparve davanti agli occhi, sorridente e splendente nella luce del mattino, in groppa a un cavallo a dondolo dall'aria costosa.
- Non è adorabile? - chiese la sua voce melensa - poté immaginare il suo amore paterno sprizzare da ogni poro della sua pelle - Farà quattro anni fra poco! Guardalaguardalaguardala!!!
Furente, cercò di trattenersi, ma riuscì ben poco.
- SIGNORE! Ha capito un'accidenti di quello che le ho detto prima, sì o no?!
Intimorito, lui conservò la foto e fece un passo indietro.
- She...
- E basta! Dannato cocciuto insopportabile! Non ce la faccio più a sentirti parlare della tua dannata famiglia perfetta, e della tua mogliettina perfetta, e della tua figlioletta perfetta, e della tua vita perfetta!!! Smettila!!!
Sorvolò sul "tu" inappropriato.
- Sheska, cos'hai?
Lei si irrigidì tutta, stringendosi nelle spalle.
- Sono... innervosita dal tuo chiacchiericcio! - lo accusò, decisa.
- Non dirlo con quegli occhi!
- Quali occhi?!
- Quegli occhi! Come se fosse veramente questo il tuo problema!
- L-Lo è!
- Avrei potuto crederti se mi avessi detto "Signore, non sopporto sentirla parlare continuamente dei fatti suoi a lavoro". Inceve, nel tuo discorso, hai infilato tutta una sequela di "perfetti" che mi danno da pensare...
Agitata, tentò la fuga, voltandosi e cercando di imboccare la porta. Gesto codardo, sì, ma che alternativa aveva se non voleva che il problema venisse definitivamente fuori?
- Sheska!
Aumentò l'ampiezza del passo, desiderosa di uscire al più presto.
No, non le lasciò fare nemmeno questo. L'afferrò per un braccio proprio mentre era lì, a due centimetri dal suo obiettivo, a due centimetri dalla salvezza.
- Sheska.
La costrinse a voltarsi, tirandola delicatamente. Vicinissimo com'era, ora sì, riusciva a sentirne l'odore. Era un odore rassicurante. Proprio da padre di famiglia. Totalmente dissimile dai profumi economici e di cattivo gusto che usavano i militari le rare volte che si davano una lavata. Non sapeva se a darle più fastidio era la sua presenza così incombente o quel dannato profumo che, insistentemente, le ricordava "ehi, è sposato, ha una figlia, è un uomo rispettabile, PIANTALA di pensarci".
Abbassò lo sguardo. Per tutta risposta, lui l'afferrò per il mento e la costrinse a risollevarlo.
- Parla.
- Niente da dire, Signore.
- Stai negando di avere qualche problema con me?
- Sissignore.
- Sai che, se arrivo a lasciarti andare senza aver risolto niente, puoi considerare il discorso chiuso, così come la tua permanenza qui?
- Sissignore.
- Ed è quello che vuoi?
- Nossignore. Ma non ho molta scelta.
- Perché?
- Cause di forza maggiore, Signore.
- ...non sei mai stata tanto formale, prima.
- Forse avrei dovuto, Signore.
Lui la tenne più stretta per il mento, facendole male.
- E forse invece non dovresti neanche adesso! - sbottò, irritato.
- Neanche lei è mai stato così, Signore.
- Mi infastidisce che i miei sottoposti debbano avere problemi di cui non vogliono parlarmi. Soprattutto se sono coinvolto io.
- Sono problemi personali, Signore.
Fu questo, probabilmente, l'errore più grosso.
- In che senso?
- ...come, Signore?
- Come possono essere problemi personali se io ne sono coinvolto?
- ...lei... non c'entra, infatti.
- Stai esitando.
- Si sbaglia.
- Sheska.
- Non...
- ...?
- Non mi chiami per nome, la prego. Mi ha chiamata per nome già troppe volte, oggi. Non è bello.
- Perché?
- Non mi sento a mio agio, Signore. Perché io la chiamo Signor Hughes, e lei invece mi chiama col mio nome di battesimo.
- Chiamami Maes, dammi del tu e dimmi cos'è che ti sconvolge tanto, una buona volta. - disse lui, risoluto, muovendosi verso la sua scrivania e trascinandola per il mento, che non aveva ancora abbandonato.
- Mi... mi lasci andare, Signore...
- Solo un attimo.
Facendo pressione su una spalla, la costrinse a sedersi dietro la scrivania, sulla grande poltrona girevole in pelle. Solo allora la lasciò libera e, mettendo le mani sui fianchi, si limitò a guardarla, in attesa di spiegazioni. Lei non ne fornì una.
- Parla, Sheska; sto perdendo la pazienza.
- Signore, parlare vuol dire andare via.
- Tu dimmi solo come devo costringerti. Ormai, si tratta di questo, no? Non parlerai se non sotto tortura. Mi sbaglio?
- ...temo di no, Signore.
- Appunto. Consiglia tu il metodo. Consiglia il metodo coercitivo che ti sembra più semplice da superare. Giuro che lo renderò talmente insopportabile che crollerai al primo minuto.
Speventata, lo fissò dal basso, incerta sul da farsi.
- S-Signore... come mai è così-
- E' diventata una questione personale. - la interruppe lui.
Lei prese a fissare il pavimento. Lui le si chinò sopra.
- Sheska.
- Signore, le ho chiesto-
- Ti ho dato il permesso di chiamarmi per nome, se non lo usi è un problema tuo.
- La smetta di interrompermi, santo cielo! - sbottò, irritata, fissandolo con astio.
- Oh. Ecco. Questo è l'atteggiamento che voglio. Come poco fa. Sputamelo in faccia, quello che devi dirmi, e facciamola finita!
- Mi piaci moltissimo, idiota!
Interdetto, lui rimase a fissarla con occhi vacui, cercando di dare un senso a quanto aveva appena sentito.
- ...spiegati...
Lei sospirò, imbarazzata, smettendo di sostenere il suo sguardo.
- Non è così difficile. Puoi arrivarci anche tu.
- Nel senso che mi apprezzi come superiore...?
- Questo sarebbe impossibile.
- Nel senso... che mi apprezzi come collega?
- Anche questo...
- Nel senso...
- Nel senso che ti apprezzo come uomo. Nel senso che mi piaci. - si trattenne un attimo, stringendo i denti, - Nel senso che ti desidero, a volte.
Dopodiché, furono sopraffatti dal silenzio. Almeno fino a quando lui, con una di quelle buffe espressioni che metteva su quando voleva fare il finto tonto, le si avvicinò e, mormorando contrariato, le chiese "Come, a volte?".
- A volte! - rispose lei, terribilmente imbarazzata.
- Non sempre?
- Che discorso è?! Com'è possibile desiderare qualcuno ogni volta che lo si vede?
- COSA?! E' il tuo, che è un discorso assurdo! Se ti piace qualcuno, ti piace sempre!
- Ma tu mi piaci sempre!
- E non mi desideri sempre?
- No!
- E cosa fai, quando mi desideri?
- Mi arrabbio perché non posso averti, che domande!
- ...e quindi poco fa...
Ahi.
A ripensarci bene, forse fu questo qui l'errore più grosso. Quello imperdonabile. Quello della condanna.
Incapace di trovare alcunché da rispondere, si chiuse in un ostinato mutismo, che lui si occupò di riempire con perizia.
- Sheska, sono un uomo sposato. Amo mia moglie. E soprattutto amo Elysia. Solo pensare di poter far loro del male mi fa venire la nausea...
Strinse le labbra, cercando di trattenere le lacrime. Era questo che aveva cercato disperatamente di evitare, fino a quel momento.
- Nonostante questo, non posso dire tu mi sia indifferente, purtroppo.
...eh?
Lo guardò, e i suoi occhi espressero uno stupore tale che lui si sentì in dovere di rispondere.
- Avanti. Non so, credi faccia così con tutti i subordinati che non mi vogliono parlare dei loro problemi personali? Cosa cavolo vuoi che me ne freghi dei problemi personali dei miei subordinati?
Oddio.
- Oh. Parla.
Cos'avrebbe dovuto dire?
- ...
- Non so, dimmi che ti faccio schifo, o che apprezzi la mia sincerità, qualunque cosa. Solo, dì qualcosa.
- ...cos'è che dovrei dire? Non è come se mi avessi detto "Oh, Sheska, anche tu mi piaci tantissimo! Scappiamo insieme!" o una cosa simile...
- Invece ti ho detto più di quanto non mi fosse concesso di dirti. Sei una brava lettrice o no? Leggi fra le righe.
No, fra le sue non riusciva. Dannato mistero ambulante.
- Mi dispiace, Signore. Non so cosa dirle.
Lui la fissò un po', con uno sguardo tra l'affranto e il rassegnato. Sospirando, si mise una mano fra i capelli, portandoli indietro, e, sistemando gli occhiali sul naso, si voltò e cominciò a camminare verso la porta.
Poi, il corpo di Sheska decise di smettere di seguire gli ordini del cervello e cominciare ad agire da solo. E lì cominciarono i guai.
Si alzò in piedi, aggrappandosi con forza alla sua schiena.
- Maes!
Lui si fermò, lì, in mezzo alla stanza, e non disse nulla. Solo, attese.
- Maes...
Lei strinse la presa sull'uniforme, spiegazzandola all'altezza delle scapole.
- Una... volta sola... - bisbigliò, nascondendo il viso nel tessuto.
- ...eh? - chiese lui, spalancando gli occhi, incredulo.
Lei si nascose ancora di più.
- Una volta sola. Concedimela. Ti prego.
Sconvolto. Sconvolto era la parola.
- Scusa. Ti prego.
Finalmente, sì voltò. Quando lei riuscì a guardarlo nuovamente in viso, vide che sorrideva. Era il sorriso che aveva sempre pensato fosse tutto di Glacier. Quello stesso sorriso che poi era diventato anche di Elysia. La Tenerezza.
- Allora ce l'avevi, qualcosa da dire...
Imbarazzata da quanto lo trovasse bello in quel momento, non riuscì a guardarlo ancora, e si abbandonò alle sue braccia che, sicure, la ressero, trainandola dolcemente fino alla scrivania e lasciandola accomodarsi sul ripiano in legno massiccio. Quando lui le accarezzò una guancia e poi, le dischiuse le labbra con un bacio umido al sapore di caffé appena preso, le sembrò di essere nel posto più vicino alla Gioia che avesse mai visitato fino a quel momento.
Baciare Hughes era meglio che leggere.
Alle sue mani bastarono pochi minuti per insinuarsi sotto i suoi vestiti.
- Non voglio che poi ti penta... - disse lei, ansimando, quando intuì che il bacio sarebbe diventato qualcos'altro.
- Me ne pentirò comunque. - rispose lui, chinandosi sul suo collo e divorandone il biancore e la morbidezza con le labbra bagnate. - Quindi, per ora, lasciami fare.
Le sbottonò lentamente la camicetta, e lasciò che lei s'industriasse a spogliarlo dell'uniforme. Lasciò che lei si concentrasse nello scompigliargli i capelli mentre lui, sempre baciandola, la sfiorava sotto la biancheria. E poi lasciò che chiudesse gli occhi, che smettesse di pensare al resto, e lasciò sé stesso dimenticare tutto mentre con bramosia le sfilava le mutandine e le schiudeva le cosce.
- Maes, aspetta... devo dirti… sei il primo...
Fu tentato di fermarsi. L'avrebbe fatto, se lei non si fosse pressata contro di lui in quel modo. Nel modo di chi sa e accetta. Nel modo dell'amante rassegnata.
Provò qualcosa, accidenti a lei. Provò qualcosa di speciale. Provò il brivido delle prime volte con Glacier, e più gli sembrava impossibile più ne era certo.
Quando lei, ansante, s'abbandonò sul tavolo, lui la guardò, e la vide così minuta, nuda e indifesa che non riuscì a non chinarsi su di lei per coprirla e proteggerla. E sapeva che era l'atteggiamento sbagliato. Sapeva che non era un atteggiamento da "una volta sola". Sapeva che da quel momento in poi non avrebbe fatto altro che darsi del maledetto bastardo per ogni ora e ogni giorno della sua vita.
Ma lei continuò a stare lì, piccolissima e adorabile, con gli occhi chiusi e i capelli scompigliati, sotto di lui, in balia delle sue carezze tenere. E per molti minuti, lui continuò a stare tranquillo.

Fanfiction a cui è ispirata: "Skeletons" di Moon_Maiden36.
Genere: Comico.
Pairing: Alexander/Edward, poco poco EdwardSenior/Alphonse.
Rating: PG-13
AVVISI: Incest, Inglese, Spoiler.
- Alexander tries to affirm his right to stay on the top, for once, while Ed and Al look at him from the gate :)
Commento dell'autrice: ...okay, I'm doing it again XD
I know it's short, but it's just something to laugh about XD Sorry if it sucks ._.""" To prove my love to the "Alex topping campaign" <3
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The Topping One


- I can’t believe it – what the hell are they doing?
- They’re… fighting, nii-san… it’s not so unusual…
- Yeah, but, well, do you understand what are they fighting for?
Alphonse sighed, shrugging his shoulders.
- Yeah, nii-san. And, as I said, it’s not so unusual. Better, it’s not unusual at all.
- What do you mean?
- I mean, we used to fight about this a lot too, in the past…
- What?! It’s not true!
- Sure it is!
- And, anyway, it’s no use at all. Remember?
He closed his eyes and lifted up a finger, starting to recite The Rule as it was a commandment.
- Since the Elric family’s born, the “Ed” one always stood on the top, while the “Al” one stood on the bottom.
Alphonse looked at him for a long time, mouth astonishingly opened, not knowing what to say. Then, wrinkling his eyebrows, he stood up.
- Fuck this, nii-san!
- What?!
- Even if I wasn’t able to stand up for my rights, that doesn’t mean I won’t stand up for my descendant’s ones!!!
Then, he looked downside, Alex and Ed rolling on the floor as the younger brother tried to affirm his right to stay on the top – for once.
- Fight, Alex! Come on, you know you can knock him out!!!

*


Alex suddenly stopped himself, looking up and opening wide his eyes. Edward seized the opportunity, knocking him down and blocking his wrists on the floor. Then, noticing his strange, astonished expression, “What’s the matter?”, he asked.
Alex looked at him like he was frightened to be totally out of his mind.
- Ed… you heard anything…?
- …anything at all, Alex…
- How strange… I’m sure…
- What?
- Well… I’m sure I heard someone saying “Fight, Alex!”.
- …like… some strange inner voice that was trying to cheer you up…?
- And… to encourage me to win this fight too, I think…
- …
- …I’m scared, brother! Am I crazy? What was that voice? Maybe someone’s spying on us?! Brother!!!
- Now calm down, Alex! – he said, laughing a little, caressing him on a cheek, - It’s all right, it was just an illusion, it happens sometimes…
- But… I’m sure I…
- Besides, - interfered the older brother, stopping his babbling, - if you continue to distract yourself so much, you’ll never get what you want. – concluded him, smiling maliciously.

*


- Look what you’ve done! You stopped them!
Edward pulled his brother’s ears down, reproaching him.
- How many times do I have to tell you that we mustn’t interfere with their lives?
- But… but… I was just… nii-san, I was just… - he babbled.
- You were just what?!
…slowly, Alphonse started to cry. A weeping full of sad, sorry tears and heartbreaking sighs.
- Come on, now… - tried Ed, caressing his hair, - I didn’t want you to cry…
- But… I’m so sorry, nii-san… now those two had stopped and… and Alex’s so frightened and…
- …Al?
He sobbed.
- Yeah, nii-san…?
- Er… I don’t think you have to worry about it anymore…
The older brother was looking down, eyes wide opened, totally shocked.
- What…?
Alphonse looked down too.
Well, Alex and Ed weren’t still anymore.
In fact, they was already making out.
In fact, they seemed to have a lot of fun.
In fact…
…Al was on the top.
- What the fuck happened?! – Edward screamed, pointing at the scene downside.
Alphonse started to laugh.
- VICTORY!
- Victory my ass, Al, they broke the tradition!
- Tradition my ass, nii-san! What the hell of a tradition was?!
- I told you! The “Ed on the top, Al on the bottom” thing!
- And that was a tradition, according to you?!
- Sure it was!
- Ah, please!
The brunette shrugged his shoulders, walking away from his brother.
- Al! where are you going? Turn back here! I’m not finished with this!
- As you like it, as you like it… - murmured the younger brother, shaking a hand but going on walking.
- Al! AL!

*


Alex stopped himself again, just in the middle of the action.
Edward didn’t seem to like it.
- Al, what the fuck are you doing?!
- …brother, I heard it again!!!
- What?!
- Someone was calling my name!
- WHAT?!
- Yeah! Someone was calling my name out loud, like he was reproaching me!!!
Edward sighed, closing his eyes, trying to be patient.
- Al. Surely, there’s something wrong with your mind. Surely, we’re going to find out what it is. Surely, we’re going to solve the problem, so you won’t have to worry anymore. And surely, we’re going to make you feel better. But, please, right now, could you just stop thinking about it and FUCK ME?!
Al couldn’t stop himself to blush, hearing Edward talking like that. But he didn’t needed to hear it a second time to smile mischievously and silently nod, starting to move again.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: AlphonsexEdward, EnvyxEdward (one-sided).
Rating: R
AVVISI: AU, Incest, Lime, Shounen-ai, Song-fic.
- A Ed piace divertirsi “giocando” col suo fratellino: “Obbligo o verità?”, gli chiede, e sta ad Al scegliere cosa rispondere. Ma la sua scelta non pare mai essere quella giusta: suo fratello riesce sempre a trovare un modo per metterlo in imbarazzo.
Commento dell'autrice: Eeeeh, siete arrivati alla fine di questa cosa assurda? :O Me ne stupisco!
Dunque, ObbligoVerità. No, davvero, è difficile parlarne XD L’ho covata per tantissimo tempo, e come concetto è stata una delle prime storie a nascere quando Maki propose l’ormai famosa sfida del Violator Contest. Non conoscevo la canzone, ma quando lessi il testo la scaricai e fu amore immediato e improvviso *_* E mentre la ascoltavo la trama nasceva da sola e si andava consolidando <3
Poi prima che riuscissi a scriverla – causa impegni e menate varie – è passato più di un mese, ma va be’ XD
Non ero affatto sicura del risultato finale, mentre la scrivevo. Ma sono stata parecchio rassicurata in fase di scrittura e anche col betaggio sia dall’ormai onnipresente Nai che dalla preziosissima Ana, ed è proprio a lei che vorrei dedicare questa storia, perché è stata terribilmente d’aiuto, perché siamo legate da un fangirling appassionato ed adorabile e perché è la mia spacciatrice di trame preferita X3
Vi è piaciuta la scena del succhiotto? XD Ebbene, se non ci fosse stata lei la scena del succhiotto non sarebbe mai venuta fuori! Quindi ringraziatela ù_ù
…ah, e l’EnvyEd. Oddio, scusatemi XD Ma a parte il fatto che era funzionale, s’inserisce alla perfezione nel filone delle dissacrazioni che ho voluto organizzare per questa serie di shot XD Dopo il RoyEd, l’elricest non incest ed uke!Ed, non potevo esimermi dall’organizzare una cosa simile X’D
Nella prima stesura della storia il finale era semplicemente orrido X’D Melenso e totalmente afunzionale (ma esiste ‘sta parola?). L’illuminante parere della Nai e gli sgamatissimi consigli dell’infallibile Caska (che ringrazio per il “che carina <3” che mi ha mandata in brodo di giuggiole per qualcosa come due giorni ç_ç) hanno salvato questa storia dalla banalità incombente, quindi ringraziatele! XD
PS: Per il secondo sottotitolo, il bellerrimo “Teasing To Please” che sembra fatto apposta per ‘sta fanfiction e invece è il titolo di un’adorabile canzone dei Cute Is What We Aim For, si ringrazia gentilmente Ana (ma va’?).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
POLICY OF TRUTH
(or ObbligoVerità)
(or Teasing To Please)
Violator #7


Il suo primo ricordo era il giardino della casa campagnola in cui abitavano quando mamma era ancora viva. Era piccolo e curato, e sua madre vi si dedicava con straordinaria passione per giornate intere; soprattutto d’estate, ma anche d’inverno, quando il tempo era brutto e magari pioveva a dirotto, non le era possibile starne lontana per più di un paio di giorni. Quando accadeva, stava ore dietro alla finestra, e poi esplodeva in uno sbuffo angosciato, e allora la si vedeva uscire timorosa dalla porta in legno massiccio, e la si vedeva avanzare fra i roseti e i gelsomini a rischio di annegamento, mentre il suo sguardo schizzava preoccupato da un fiore all’altro, alla ricerca del più bisognoso di cure. E una volta che l’aveva trovato, la si vedeva chinarsi, stringendosi nell’ingombrante impermeabile giallo e reggendosi a malapena con gli stivali di gomma sul terriccio scivoloso. Piantava il gigantesco ombrello a decorazioni floreali multicolori per terra al suo fianco, e sfiorava ogni petalo bagnato con le dita, con tutta la premura del suo essere madre.
Trisha amava credere di essere una madre, prima di essere una donna.
Doveva essere stato terribile, per lei, morire di dispiacere – è così che si chiamano gli infarti, in questi casi, giusto? – dopo aver scoperto che suo marito aveva un’amante. Il dolore che aveva provato doveva averla confusa parecchio. Doveva averle rivelato sibilando “Hai visto? Sei donna anche tu. Sei moglie anche tu. Ma nel tentativo di essere solo una madre perfetta sei risultata inadatta a ricoprire tutte le altre cariche”.
Per certe cose si muore. Davanti a certe verità semplicemente il cuore non regge.
Alphonse ricordava di averla pensata così dal primo momento in cui aveva imparato a ragionare in termini astratti; dal primo momento, cioè, in cui il suo cervello aveva smesso di dedicarsi solo a cibo, nanna e giocattoli, e aveva cominciato a riempire i vuoti con le speculazioni psico-filosofiche.
Trovava eccezionale che la mente potesse fare cose simili. Tenere qualcuno all’oscuro di verità ovvie e importantissime e anche abbastanza banali, fino a quando non fosse stato possibile accettarle senza diventare matto a causa loro. Una cosa fantastica. Poteva essere la panacea per tutti i mali psichici, se controllata.
Era per questo motivo che Alphonse Elric voleva fare lo psichiatra.
Per questo, e per suo fratello Edward.
Se avesse avuto un secondo ricordo – e un’altra cosa che lo mandava letteralmente in estasi era il fatto che fosse così facile riportare alla memoria il primo ricordo della vita, mentre era praticamente impossibile identificare il secondo, il terzo, il quarto e così via. Come se dopo il primo tutti gli altri ricordi assumessero un’importanza cronologica nulla, tale da non meritare nemmeno un vago ordinamento numerico – se avesse avuto, appunto, un secondo ricordo, il protagonista sarebbe sicuramente stato Ed.
Ed impegnato in una qualunque azione inutile e idiota, come scavalcare la staccionata e finire con un braccio rotto, fare le capriole e lussarsi un ginocchio, nuotare nudo nel lago a gennaio e rischiare la morte per assideramento eccetera eccetera.
Non aveva un secondo ricordo ben definito, e quindi tutte queste immagini non erano altro che pezzettini del puzzle che andava a ritrarre suo fratello nel quadro della sua vita, ma se avesse dovuto stabilire quale fosse il ricordo più importante che avesse di Ed, allora non avrebbe avuto dubbi.
Aveva appena compiuto dodici anni ed era a metà della prima media. Suo fratello ne aveva quattordici e frequentava la terza. Mentre lui cercava di capire qualcosa delle proprietà delle frazioni, Ed aveva sollevato il viso dall’eserciziario d’inglese e aveva richiamato la sua attenzione con uno sbuffo annoiato.
- Facciamo un gioco. – gli aveva detto.
In tutta la sua innocenza, e colmo d’entusiasmo per il diversivo, aveva chiuso il quaderno e gli aveva chiesto che gioco volesse fare.
- Le regole sono semplici. Io ti domando “obbligo o verità?”, e se tu mi rispondi obbligo sei costretto a fare quello che ti dico, mentre se rispondi verità devi rispondere sinceramente a qualsiasi domanda io ti faccia.
- Lo conosco questo gioco… - aveva risposto lui con una smorfia, - Lo usano i ragazzi per costringere le ragazze a fare cose imbarazzanti. E viceversa.
- Ma davvero? – aveva sussurrato Ed con un sorriso oscenamente audace sul volto.
Dopodichè si era alzato, aveva preso un po’ di libri sottobraccio e si era diretto verso la porta della camera, per uscirne.
- Non cominciamo? – aveva chiesto lui, fermandolo prima che potesse andarsene.
- No. – aveva risposto suo fratello, senza neanche guardarlo, - Non adesso. Non quando te lo aspetti.
La sua espressione serena e quel dannato sorriso si riflettevano nello specchio accanto alla porta. Ed lo sapeva, e aveva sollevato lo sguardo, incontrando quello di Al senza aver bisogno di voltarsi. Aveva strizzato lievemente gli occhi, come un gattino giocherellone, e poi era scomparso oltre l’uscio con un infantile occhiolino e un ghigno malandrino che Al aveva trovato in parte divertenti e in parte assurdamente preoccupanti.
Già allora, Alphonse sospettava che le motivazioni del comportamento vagamente indisponente e indisciplinato di suo fratello fossero da ricercarsi nella morte di sua madre e nel fatto di dover vivere con un padre che per quella stessa morte riteneva responsabile, oltre che con la sua amante e suo figlio.
Quello che non sapeva, che non sospettava minimamente, era che suo fratello fosse un essere pericoloso. Che non fosse semplice come sembrava.
E soprattutto che quel dannato sorriso andava temuto.
Ma l’aveva imparato presto.
Più per autodifesa che per altro.
*

You had something to hide
Should have hidden it, shouldn’t you
Now you’re not satisfied
With what you’re being put through
It’s just time to pay the price
For not listening to advice
And deciding in your youth
On the policy of truth


- Obbligo o verità?
Sospirò pesantemente, poggiando la penna sulla scrivania e massaggiandosi le tempie.
- Nii-san, papà e Dante sono qua accanto…
- Chi ti dice che ti chiederei di fare qualcosa che non potrebbero vedere?
- …lo fai sempre, nii-san. L’ultima volta sono stato nudo al balcone per qualcosa come due ore…
Ed scrollò le spalle.
- Puoi sempre rispondere verità.
Alphonse sospirò ancora, facendo ruotare la poltroncina fino a poter guardare suo fratello che, disteso sul letto, teneva ancora l’ultimo numero di Berserk fra le mani.
Se non avesse avuto già motivi a sufficienza per pensare che suo fratello fosse un ragazzo mentalmente disturbato, l’avrebbe dedotto sicuramente dall’ostinazione maniacale con la quale continuava ad amare, seguire e cercare di trovare un senso a Berserk, quando era chiaro come la luce del sole che neanche Miura sapesse più dove volesse andare a parare.
- Obbligo. – rispose, rilassandosi contro lo schienale.
- No, davvero, Al. – protestò Ed, sedendosi di scatto e abbandonando il volumetto aperto sottosopra sul letto, - Sta diventando difficile trovare cose originali da farti fare, dopo tutti questi anni! Non ti ho mai fatto una domanda!
Scrollò le spalle, tornando a guardare il quaderno con gli appunti di filosofia.
- Allora lasciamo perdere il gioco. – propose, - D’altronde, tu ormai lavori e io l’anno prossimo cominciò l’università. Siamo diventati un po’ troppo grandi per continuare, no?
- Al, - sospirò Ed, - tu mi chiami ancora nii-san. Pensi di essere credibile, quando dici di essere cresciuto?
Ridacchiò, fingendo di capire cosa Marx stesse cercando di spiegargli sul ruolo del lavoro nella definizione dell’essere umano.
Sentì suo fratello alzarsi dal letto e raggiungerlo alle spalle, strascicando le pantofole sul pavimento.
- Avanti, - cedette infine Edward, chinandosi su di lui, - fatti leccare l’orecchio.
- Che?! – quasi strillò lui, allontanandosi per quanto possibile, - Avevi detto che non mi avresti fatto fare niente di… pericoloso!
- Non l’ho detto. – rispose tranquillamente Ed, fissandolo negli occhi.
- Ma papà e Dante-
- Nostro padre e Dante in questo momento stanno pensando a tutt’altro, Al.
- …io non voglio.
- Avresti potuto evitarlo. Potevi dire verità.
- Non volevo neanche quello!
- Allora mi auguro che tu abbia scelto il male minore.
Socchiuse gli occhi, facendoli saettare discretamente da destra a sinistra, alla ricerca di una via di fuga, ma intorno a lui non c’era niente del genere. Intorno a lui c’erano solo le braccia di Ed che, saldamente appoggiate ai braccioli della poltroncina, gli facevano da gabbia.
- E va bene. – si arrese, - Ma fa’ in fretta.
Edward sogghignò, scostandogli la lunga coda dal collo.
- Agli ordini. – rispose.
La punta della sua lingua gli sfiorò il lobo e poi scivolò verso l’alto, seguendo la curva del suo orecchio e lasciandosi alle spalle una traccia bagnata bollente che si raffreddava in un secondo, dandogli i brividi.
Riuscì a stento a mugugnare qualcosa su quanto fosse difficile avere un fratello pervertito, mentre le labbra di Ed gli si chiudevano addosso, mordicchiandolo delicatamente.
- Ah… avevi detto solo leccare…
- Mmmh… è vero, l’ho detto… ma volevo aspettare che fossi tu a lamentarti…
- Lo… lo sto facendo…
Con uno sbuffo e un grugnito, Ed si separò da lui e si rimise dritto.
- Sì, l’ho capito.
- Nii-san, perché continui a-
- Tu perché non dici mai verità?
Serrò le labbra, senza sollevare gli occhi dal pavimento.
Dopo pochi secondi, Edward si stancò di aspettare e andò via.
*

Quando aveva undici anni, e le richieste di suo fratello erano ancora innocenti, voleva sempre l’obbligo perché Edward era grandioso nell’inventare prove che lo costringevano a imprese degne di un eroe e che lui trovava divertentissime da portare a termine, come catturare qualche gatto randagio a mani nude o rotolare caprioleggiando per tutta la casa senza demolire neanche un mobile.
Quando a tredici anni suo fratello gli aveva chiesto un bacio a fior di labbra, però, Al aveva cominciato a chiedersi un sacco di cose. E tutte quelle domande l’avevano portato a scoprire una serie di pensieri scomodi annidati nel suo cervello da chissà quanto tempo e ormai radicati così in profondità da non poter essere strappati via.
Prima di tutto, si era chiesto cos’avrebbe fatto se le richieste di suo fratello avessero continuato ad essere di quel tipo. Se dal bacetto si fosse passati al bacio vero, alle carezze, ad altro – come poi in effetti era successo, accidenti a lui – che cosa avrebbe fatto? Cos’avrebbe detto? Come avrebbe reagito?
…non si era stupito poi molto, quando una vocina minuscola ma pungente gli aveva rivelato che non solo non avrebbe fatto né detto niente, non solo non avrebbe nemmeno pensato alla possibilità di ribellarsi, ma sottostare a quel gioco gli sarebbe perfino piaciuto.
Il che lo portava a farsi almeno un’altra domanda.
Ovvero, cosa diavolo aveva nella testa? E, più precisamente, cosa diavolo provava per suo fratello? Per quale assurdo motivo avrebbe dovuto piacergli il pensiero di poterlo accarezzare o baciare o chissà cos’altro, solo perché era così assurdamente bello e ogni tanto guardandolo pensava di poter morire per un sorriso e…
…e.
Ancora una volta, non s’era meravigliato poi molto, quando s’era risposto che sì, probabilmente era innamorato di suo fratello.
Chissà da quanto.
Una volta, sua madre gli aveva detto che lui ed Edward erano due persone particolari. Guardandoli, si sarebbe dato ad Ed del razionale e a lui del sognatore – sua madre amava definirsi “una fisionomista” – però in realtà sia lui che Ed erano l’esatto opposto di ciò che sembravano.
Alphonse non aveva mai condiviso quella teoria. Un po’ perché i discorsi di Trisha spesso e volentieri sembravano quelli tipici della madre che si sforza di fare apparire i suoi figli meno banali di quanto non siano in realtà, e un po’ perché non vedeva per quale motivo un paio d’occhi un attimino più grandi dovessero fare di lui un sognatore o chissà che altro.
Era sempre stato un ragazzino molto razionale. Sincero, perché sapeva bene che dalla menzogna, a lungo termine, non si ricava niente, e anzi, si perde sempre qualcosa.
Era per questo che, almeno con sé stesso, non aveva mai mentito.
Sì, ecco, amava suo fratello.
Colpevole, vostro onore.
Ma gli occhi di Ed… gli occhi di Ed, mentre le sue labbra passavano di richiesta in richiesta, di bacio in bacio, quegli occhi ardevano di curiosità.
E lui non era uno stupido.
Sapeva già cosa Edward gli avrebbe chiesto, se avesse detto verità, anche solo per una volta.
E se avesse sentito quella domanda, lui non sarebbe stato in grado di mentire.
Assieme al desiderio spasmodico di sentire ancora la bocca e le mani di suo fratello premergli addosso, era questo che lo teneva inchiodato fedelmente all’obbligo.
*

- Obbligo o verità?
Santo Dio, lasciami in pace.
- Nii-san, ho sonno…
- Non ti puoi tirare indietro.
- Non ho mai firmato un contratto, mi pare! Lasciami in pace, voglio dormire e domattina mi devo svegliare presto.
Edward sospirò e scese dal letto superiore con un salto, appendendosi all’impalcatura metallica e facendola tremare tutta.
- Che vuoi? – gli chiese, tirando su le coperte fino al naso.
Gli occhi di Ed brillarono per un secondo, illuminati dai fari di una macchina di passaggio, e Alphonse vide che nella luce di quelle pupille non c’era traccia di gioco.
Fu la prima e l’ultima volta in cui si chiese quand’è che quello avesse smesso di essere un passatempo, per suo fratello.
Si rispose subito che doveva essere stato lo stesso momento in cui aveva smesso di esserlo per lui.
Anche se era molto probabile che in realtà non lo fosse mai stato – ma questa era una possibilità troppo spaventosa per poter essere presa davvero in considerazione.
- Nii-san…
- Obbligo o verità?
Alphonse sospirò e rispose come al solito.
Edward si morse le labbra e, dopo qualche secondo di meditazione – troppo pochi per non dare l’idea che in realtà ci stesse pensando da molto prima di scendere a terra – gli chiese di fargli un succhiotto.
- …cosa…?
- Un succhiotto. Avanti. Quanti ne avrai fatti nella tua vita? Milioni?
- Neanche mezzo! – replicò, infastidito ed infuriato.
- Sei vergine, piccolo Al? – chiese Ed con un sorriso malizioso.
Arrossì vistosamente, stringendosi nelle spalle.
- Lo sai. – rispose, cercando di tornare in possesso delle sue facoltà fisiche e mentali.
Edward rise, arrampicandoglisi addosso e imprigionandolo fra le coperte e il materasso con i gomiti e le ginocchia.
- Sì, lo so. – disse, con l’aria di chi vuole chiudere il discorso e passare a qualcosa di più interessante, - Adesso, il mio succhiotto. Da bravo.
Alphonse sospirò ancora, sentendosi stranamente a disagio.
- Ricordami per quale motivo non ti obbligo anche io a fare qualcosa, una volta ogni tanto?
- Hai smesso di provarci quando hai capito che non ti stavo a sentire. – spiegò Ed con un risolino, - E comunque, anche se decidessi di giocare, sai che direi verità. Non sono uno stupido.
E sei sicuro che sarebbe la scelta meno pericolosa?
- Adesso basta parlare. – sentenziò cupamente, sbottonando in un gesto rapido e ansioso la camicia del pigiama e porgendogli il collo.
Si sporse in avanti. Accarezzò la sua pelle calda col respiro, reso agitato e spezzato dalla tensione e dall’eccitazione che, come un’onda, lo colpiva a scariche, muovendosi dal basso verso l’alto. E poi lo sfiorò con le labbra. Senza dischiuderle, senza neanche provare ad assaggiarlo.
- Al…! – lo chiamò Ed, fremente d’impazienza, pressandoglisi contro con tutte le forze, fin quasi a schiacciarlo.
- Qui si vedrà… - disse lui, frugando con la punta del naso fra il cotone e la pelle, fino a guadagnare la curva della sua spalla.
- E qui invece va bene, vero? – chiese Ed a voce bassa, sorridendo sensualmente.
Al sorrise di rimando, schiudendo le labbra e richiudendogliele addosso subito dopo.
Edward rabbrividì al tocco della sua lingua e si scosse più decisamente quando lo sentì succhiargli avidamente la pelle, la carne, le ossa, come volesse ingoiarlo per intero.
Il suo bravo fratellino ubbidiente.
Edward era eccitato. Alphonse poteva sentire la sua erezione premere contro la propria, attraverso i veli spessi delle lenzuola e delle coperte e il fastidioso tessuto aderente del pigiama. Ansimava rumorosamente, e la sua espressione concentrata – gli occhi chiusi, le labbra semiaperte e un po’ umide – sembrava a metà fra il piacere e il dolore.
- Ti faccio male? – chiese premuroso, scostandosi lievemente.
Ed rispose con un grugnito contrariato, ricacciandogli la spalla in bocca con forza, rischiando di spaccargli qualche dente.
Al riprese a succhiare, con più violenza rispetto a prima. Sembrava che quello fosse esattamente ciò di cui suo fratello aveva bisogno. Ed essere l’unico in grado di darglielo lo rendeva orgoglioso. E forte.
Poco a poco, Ed cominciò a mugugnare e lamentarsi, ma non lo lasciò fermarsi. Piuttosto, si piegò su di lui, cercando un lembo di pelle sotto la maglia, procedendo a tentoni con la punta del naso, esattamente come aveva fatto lui poco prima.
Alphonse sperò che tutte quelle manovre gli servissero per posare la bocca da qualche parte e attutire i suoni cupi e rabbiosi che gli sfuggivano dalle labbra, e per qualche secondo gli sembrò quasi di avere ragione. Ma poi sentì l’umido tocco della sua lingua addosso, e fu più forte di lui: scattò a sedere, mandando Ed sul pavimento e rischiando di essere la causa del terzo gesso della sua vita.
Ancora troppo sconvolto per parlare, suo fratello lo guardò con occhi resi opachi dall’eccitazione ormai prossima a sfumare, massaggiandosi distrattamente la spalla destra, battuta nella caduta.
- Scusa… - mormorò Al, con lo sguardo che saettava da lui alla porta, mentre il cervello si riempiva della paura di vedere apparire suo padre sull’uscio, attirato dal rumore.
Fortunatamente, la luce in corridoio non si accese, e nessun suono di passi si mosse verso quella stanza.
Dopo qualche secondo, Al si tranquillizzò.
Ed, nel frattempo, s’era risollevato da terra, e stava provvedendo a scalare il letto per tornare a dormire.
- Nii-san. – lo chiamò Al, improvvisamente smanioso di risentire la sua voce, - Davvero, scusa.
- Scusa tu. – ribatté gelido Ed, senza sporgersi a guardarlo, - Farlo a te non rientrava nell’accordo.
Alphonse deglutì, tornando a rilassarsi sul materasso.
- Nii-san, non ce l’hai con me, vero?
- No che non ce l’ho con te. – rispose lui con un sospiro stanco.
Rimase ad osservare le luci delle macchine proiettarsi sulla parete opposta alla finestra per pochi, lunghissimi attimi.
Poi, mordicchiandosi l’interno della guancia, chiese ad Ed se poteva fargli una domanda, e lui rispose di sì.
- Tu non sei vergine, nii-san?
Edward si agitò lievemente sul materasso, facendo cigolare le molle della rete.
- No. – rispose infine, - Non lo sono.
Fu come affondare con esasperante lentezza nella lava. Ogni centimetro del suo corpo era in fiamme, soprattutto le guance, e le lacrime che gli scivolavano addosso scottavano come lingue di fuoco.
Sapeva perfettamente perché stava piangendo.
Ma questo non rendeva il tutto meno folle.
- E con chi è stata la prima volta? – chiese, nascondendo caparbiamente il tremito della voce.
- Envy. – rispose lui con uno sbuffo quasi divertito, - Il primo e l’unico. Ma questo già lo sai, Al.
Ma sentirlo da te è tutta un’altra cosa.
Non credeva fosse possibile passare così repentinamente dal caldo al freddo senza morire per lo shock. Eppure, dopo la lava, gli sembrò di essere immerso nel ghiaccio, e di non poter neanche respirare, e nonostante tutto era ancora abbastanza vivo da poter pensare.
E questa era la cosa peggiore.
Envy.
Lui.
Forse, in fondo, Edward ce l’aveva davvero con lui.
Da chissà quanto tempo.
*

Things could be so different now
It used to be so civilised
You will always wonder how
It could have been if you’d only lied
It’s too late to change events
It’s time to face the consequence
For delivering the proof
In the policy of truth


La storia di Envy era tanto tanto simile alle altre storie dei tanti figli unici viziati ed arroganti che riescono in tutto non per meriti personali ma grazie al generoso aiuto dei parenti.
Prima di capire chi era, Alphonse era convinto che persone simili non esistessero davvero. Che fosse un’esagerazione di qualche invidioso, persone che non riuscivano a sopportare che qualcun altro fosse riuscito a fare cose che loro non sarebbero mai stati in grado neanche di pianificare.
Envy non era uno stupido, ma era pigro e insopportabilmente ostinato, malgrado da qualche parte dentro di lui si nascondesse un cervello valido. Non aveva mai faticato in vita sua, neanche un po’, ma aveva tutto. La sua famiglia era disgustosamente ricca, era bello, aveva frequentato scuola e università con ottimi risultati e minimo sforzo – viste anche le sovvenzioni economiche mobilitate dalla famiglia in quel senso – lavorava ai vertici dell’azienda del nonno e nonostante tutto questo aveva avuto più volte la dannatissima faccia tosta di prendere Alphonse da parte e, dopo avergli sorriso in quel modo sottile e sgradevole, così adatto ai suoi lineamenti appuntiti ed affilati, dirgli “Io ti invidio veramente tanto”.
Envy con la sua invidia assurda sarebbe stato il suo terzo ricordo, sempre se ne avesse avuto uno.
L’aveva visto per la prima volta quando aveva nove anni. Sua madre era morta da appena un anno e suo padre si apprestava ad accogliere in casa Dante, la sua amante, come seconda moglie. Envy – non era il suo vero nome, ma era perfetto per lui e quindi tutti, tranne i suoi parenti, lo chiamavano così – aveva tredici anni, ed era l’unico figlio della donna, che l’aveva avuto quando era ancora molto giovane e non era mai stata sposata.
Quel giorno, quando Envy s’era avvicinato, Ed gli si era stretto contro, quasi abbracciandolo, ed aveva guardato l’intruso con tanto odio che Dante aveva sentito il bisogno di proteggerlo poggiandogli una mano sulla spalla e tirandolo indietro.
Quando poi le cose si erano un po’ calmate – e, soprattutto, dopo aver litigato con Hohenheim, Ed era uscito con chissà chi per andare a fare chissà cosa chissà dove – Envy gli si era nuovamente avvicinato, e gli aveva prestato il gameboy. E mentre lui giocava tranquillamente a Pokémon Giallo, gliel’aveva detto. La prima volta di quella che sarebbe diventata una noiosissima lunga serie. “Ti invidio molto”.
E lui ricordava di aver pensato chiaramente “Guarda un po’ questo tipo. Mamma non c’è più e a me ora tocca dividere la stanza con questo sconosciuto, oltre che con il mio nii-san, e lui mi viene a dire che mi invidia”.
E quindi sì, l’aveva odiato fin dal primo giorno, e lo faceva infuriare l’idea che la prima volta di suo fratello fosse stata con un individuo simile.
L’aveva odiato da novenne, di un odio bambino e immaturo motivato dal suo naturale essere insopportabile, e da dodicenne poi aveva capito tante altre cose, e quindi anche il suo odio era cresciuto, nutrito e pasciuto dalle varie motivazioni che Envy si lasciava dietro semplicemente vivendo.
La colpa principale di Envy – adesso poteva ammetterlo senza vergogna – era stata mettere prima gli occhi e poi le mani addosso ad Edward, come fosse stato territorio libero di cui prendere impunemente possesso. Era arrivato e aveva cominciato subito a provarci. A tredici anni sembrava naturalmente predisposto al sorriso lascivo e alla carezza falsamente casuale; a sedici era diventato praticamente un maniaco sessuale.
E alla fine, a diciotto, aveva sconvolto l’universo.
Aveva segnato per sempre la vita di Edward e per riflesso anche la sua.
Al aveva pensato per lungo tempo che Envy avesse in mente qualcosa. Lo aveva sentito parlare con Dante della possibilità di prendere un appartamento in cui andare a vivere da solo, e in quell’occasione lei non s’era opposta.
Poi, una mattina apparentemente uguale a tutte le altre, Edward gli aveva detto che non si sentiva bene e sarebbe rimasto a casa. In un primo momento, Al s’era offerto di restare a casa con lui per tenergli compagnia, ma Envy era apparso all sue spalle come per magia ed aveva detto che lui aveva un giorno di vacanza da scuola per disinfestazione, e perciò sarebbe rimasto lui con Ed. Ovviamente, Alphonse aveva fatto il diavolo a quattro, osteggiandolo in tutti i modi, ma vista l’impossibilità di controbattere con una qualsivoglia risposta sensata alla domanda “Al, ma che problema c’è se resta lui con tuo fratello?”, alla fine gli era toccato capitolare e correre a scuola.
Quando era suonata la campanella per annunciare la fine della giornata s’era quasi rotto il collo cadendo dalle scale, e poi era tornato a casa di corsa, troppo agitato e preoccupato per restare ad aspettare l’autobus. E quando era arrivato aveva sperato che – oddio, davvero, aveva sperato che suo fratello gli saltasse fra le braccia, ringraziandolo per essere stato così veloce a tornare e averlo salvato dalle sporche manacce di quel criminale…
…e invece li aveva trovati tutti e due sul divano, affannati e scomposti come se si fossero appena presi a botte, e s’era sentito un intruso indesiderato.
Per tanto tempo era davvero riuscito a credere che si fossero picchiati per chissà che motivo e basta.
Ora sapeva di essersi semplicemente sbagliato.
Non era che l’ennesimo della lunghissima serie dei suoi errori.
*

Sarebbe stato molto più facile se quella di Envy per suo fratello fosse stata solo una sciocca attrazione di tipo fisico. Sarebbe stato più facile gestirla e anche renderla innocua probabilmente.
Ma Envy era perdutamente innamorato di suo fratello.
Lo era stato probabilmente dal primo momento in cui l’aveva visto, e dopo quasi dieci anni lo amava ancora come allora, di un amore immotivato, appassionato ed esplicito in maniera indecente.
Un amore affermato e continuamente esibito.
Un’abitudine.
Per tutti tranne che per Al, ovviamente. Anche se era chiaro che ormai aveva cominciato a farci l’abitudine. Più che altro perché s’era arreso al fatto che Envy e suo fratello portavano avanti quella cosiddetta storia da anni.
Per certi versi era perfino inquietante.
Se si fosse andati da uno qualunque degli amici di Ed, e gli si fosse chiesto “Ma Ed sta con qualcuno?”, avrebbe naturalmente risposto “Sì, certo, sta con Envy”. Questo era strano, soprattutto se si pensava che Ed non ricambiava il suo amore e non scopavano neanche tanto spesso, giusto nelle rare occasioni in cui Envy veniva a trovare sua madre. In fondo, quasi neanche si vedevano. Ma questa convinzione era rimasta radicata nelle menti di tutti dal momento in cui, quattro anni prima, Envy aveva chiesto ad Ed di andare a vivere insieme.
Quell’uomo era sempre impegnato a organizzare qualche atto eclatante che l’avrebbe posto al centro del mondo abbastanza a lungo da renderlo indimenticabile, e questo, sommato all’inspiegabile fastidio che provava per il fatto che possedesse tutti quei soldi, impensieriva molto Al.
Probabilmente perché vivere così a stretto contatto con lui per tanto tempo gli aveva insegnato non solo che non c’è niente che non abbia un prezzo, ma soprattutto che non c’era nessun prezzo che Envy non potesse permettersi. Fosse da pagare in soldi o in faccia tosta, Envy avrebbe saldato il conto con puntualità ed efficacia assassina, in ogni luogo e in ogni momento.
Perché suo fratello avrebbe dovuto essere un’eccezione?
Perché non avrebbe potuto avere un prezzo anche lui?
In realtà, però, la cosa che lo preoccupava maggiormente era sapere che Envy aveva sempre avuto il coraggio e la costanza di fare quello che per lui non era stato che un sogno, e che tanto aveva desiderato. S’era dato completamente e con irritante, fedelissima testardaggine, esclusivamente ad Edward. L’aveva sempre fatto, l’avrebbe fatto per sempre. Senza prendersi pause, senza scappare.
Dio sapeva quanto anche lui avrebbe voluto esserne capace.
Ma lui ed Envy non erano la stessa persona. Envy aveva possibilità che lui non avrebbe mai avuto.
Envy non era suo fratello.
- Obbligo o verità?
Sollevò di scatto lo sguardo dal quaderno e lo puntò su suo fratello. Envy, che stava sfogliando distrattamente una rivista, seduto in un angolo della camera, fece la stessa cosa.
In un primo momento, fu tentato di dirgli “Ma ti sei accorto che non siamo soli?”.
Poi si rese conto che sarebbe stato stupido, perché era ovvio che se ne fosse accorto.
Semplicemente, i suoi occhi dorati e scintillanti lo stavano sfidando.
Consapevolmente, sfacciatamente.
Envy sogghignò, tornando a sfogliare la rivista.
Alphonse si morse un labbro.
Cosa diavolo doveva fare?
L’obbligo l’avrebbe portato a cacciarsi in chissà che situazione imbarazzante davanti ad Envy, ma d’altro canto sapeva che se avesse detto verità Edward non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a chiedergli esattamente ciò che voleva sapere e che lui non aveva alcuna intenzione di dirgli.
Sospirò, e poggiò il quaderno sulla scrivania.
- Obbligo. – disse, ostentando un coraggio che non possedeva realmente.
Edward ghignò.
E per la prima volta ad Alphonse sembrò di capire per quale motivo il sorriso di suo fratello lo spaventasse tanto: era assolutamente folle e genuinamente cattivo, ecco tutto. Non sapeva se lo fosse sempre stato o se si fosse trasformato nel tempo, ma era così che era in quel momento, e questo bastava per terrorizzarlo, soprattutto perché era sempre lui il destinatario di quel sorriso assurdo.
- Come vuoi. – rispose Ed, scrollando le spalle, - Il tuo obbligo è rimanere a guardare fino alla fine.
Oh.
Merda.

Envy si sollevò dall’angolino in cui s’era seduto ed Alphonse capì tutto.
Rimase immobile, come pietrificato, ad osservarli avvicinarsi, sfiorarsi, guardarsi con occhi complici resi brillanti dal divertimento, dall’eccitazione e della sensazione di essere parte di un diabolico piano creato appositamente per Al, a sua misura, per colpirlo dove avrebbe fatto più male, dove il segno sarebbe rimasto più a lungo e dove il sangue non avrebbe mai smesso di scorrere.
Riuscì a rimanere immobile perfino quando si baciarono, lentamente, ad occhi chiusi, come amanti, come innamorati; restò immobile, anche se sentiva le mani pizzicare per la voglia di scattare, afferrarli e separarli, e anche se i muscoli delle gambe gli dolevano per lo sforzo della contrazione innaturale che li teneva fermi quando avrebbero preferito di gran lunga aiutarlo a saltare in piedi e fuggire da quell’inferno.
Ma poi le mani di Edward si appoggiarono lascive alla chiusura dei pantaloni di Envy, e allora non poté più trattenersi. Scalciò lontano la sedia e si ritrovò in piedi, a guardare la scenetta dall’alto tra i veli di lacrime che teneva a stento bloccate fra le ciglia.
Strinse i pugni, sostenendo lo sguardo impassibile di Ed, e poi si voltò e si diresse velocemente verso la porta.
- Non ti azzardare a uscire! – strillò suo fratello, scattando in piedi a sua volta.
Ma lui neanche lo sentì.
*

- E adesso che farai?
Lo guardò infastidito, sbuffando e tornando a sedersi per terra, al suo fianco.
- Che intendi?
Envy sogghignò, allungandosi sul pavimento per recuperare la rivista che era rimasta per terra al suo posto.
- È sfuggito al tuo controllo. È la prima volta che rifiuta un obbligo, vero?
- Sì. – confermò, mordicchiandosi un labbro e guardando altrove, - Ma dovrò concederglielo. In effetti era una richiesta antipatica.
L’altro ridacchiò sommessamente, socchiudendo gli occhi e incrociando le braccia.
- Ah, chibi-chan…
- Chi hai chiamato nano insignificante al punto che non si riuscirebbe a vederlo neanche con una lente d’ingrandimento, maniaco pervertito pedofilo sodomita che non sei altro?!
Stavolta Envy scoppiò a ridere apertamente, accavallando le gambe e lasciando andare la rivista sulle ginocchia.
- Tuo fratello ha proprio ragione, sei pazzo.
Edward si voltò a guardarlo con genuina curiosità sul volto. Non un’ombra di offesa nello sguardo.
- Al dice questo di me?
- No, ovviamente. Ma dice che vuole fare lo psichiatra “per aiutarti”, ed è la stessa cosa, no?
- No. – rispose lui con naturalezza, - Non può essere la stessa cosa se non sono le stesse parole.
- Avanti, adesso…
- No, sul serio. Ogni parola ha una sua sfumatura di significato. Dire “mi piaci” e dire “ti trovo carino” sono quasi la stessa cosa, ma non sono la stessa cosa.
- …va bene.
- Questo è quello che ti ha sempre fregato, Envy. Non sei abbastanza attento alle sfumature. Non lo sei mai stato. Fin dall’inizio.
Envy sorrise, rilassandosi contro una gamba del letto e poggiando il capo sul materasso.
- Sì, lo so. – rispose, - Ma, come al solito, sei riuscito a portare la discussione sull’argomento che tu volevi dibattere, e questo dimostra che stare molto attento alle sfumature fa di te un gran codardo.
- Balle.
- La penseresti ancora così se cominciassi a parlare di tuo fratello?
- Certo.
- Ok. Allora parliamone.
Ovviamente, Ed sbuffò e fece per alzarsi, ma Envy lo trattenne per un braccio, ridacchiando divertito.
- Ecco il coniglio che scappa. – commentò acido, - Dove sono finite le tue belle parole?
- Non volevo scappare sul serio. – borbottò Ed, incrociando le braccia sul petto.
- Bene. Allora cominciamo a parlare seriamente, ti va? Dici che dovrai concedere a tuo fratello il perdono per non aver rispettato l’obbligo. Ma andiamo, Ed. Credi davvero che, a questo punto, ad Alphonse possa fregare qualcosa delle tue concessioni?
Ed fece una smorfia infastidita.
- Certo che gli frega.
- Sì, come frega a te dei miei sentimenti.
Il più giovane ridacchiò di gusto, gettando indietro il capo.
- Adesso sei tu che porti il discorso sull’argomento che preferisci. Parli di sentimenti, Envy? I tuoi sentimenti? E quali sarebbero?
- Io ti amo.
- Tu non mi ami. Non ami nessuno. Nemmeno te stesso, per quanto possa sembrare assurdo. Tu vuoi semplicemente tutto, e ti ostini finché non lo ottieni. Non t’interessa neanche cos’è quello che chiedi, tu vuoi e basta. Se io fossi un altro, mi vorresti lo stesso, e mi vorresti anche se fossi un sasso o un tostapane.
- Saresti carino anche se fossi un tostapane, ci scommetto.
Edward rise ancora, sciogliendo la treccia e raccogliendo i capelli in una coda alta dietro la testa.
- Al invece non è così. Al vorrebbe che rimanessi come sono per sempre, perché è così che mi ama. Vorrebbe tenermi sotto controllo per non perdermi mai.
- Allora il suo non è un amore incondizionato.
- Certo che no. E per questo è ancora più prezioso.
- …non ti seguo.
- Se io domani mi svegliassi e decidessi di diventare un’altra persona, chessò, un punk, uno skinhead o un vegetariano, e Al mi amasse comunque, vorrebbe dire che non ha amato veramente la persona che ero prima. E se il suo amore di una volta era così infedele, e valeva così poco, anche il suo nuovo amore sarebbe uguale.
- Perché non puoi essere come tutte le altre persone normali, - sbuffò Envy, - e capire che se continuasse ad amarti anche da skinhead sarebbe perché di te accetta tutto?
- Perché non sarebbe un’altra parte di me. – rispose Ed, come fosse ovvio, - Sarebbe un altro me.
Envy sospirò.
- È la stessa cosa, Edward. Davvero.
Ed sorrise.
- No, non lo è.
- …
- Sfumature, Envy. Sfumature. Ho cercato di spiegarti, ma non mi aspettavo che tu capissi, né tantomeno lo pretendo.
- E allora perché questo spreco di parole? – sbottò lui, infastidito.
Edward si alzò in piedi, sorridendo sereno.
- Dovevo dare ad Al un po’ di tempo per calmarsi. – disse tranquillamente, uscendo dalla stanza.
*

Now you’re standing there tongue tied
You’d better learn your lesson well
Hide what you have to hide
And tell what you have to tell
You’ll see your problems multiplied
If you continually decide
To faithfully pursue
The policy of truth


Improvvisamente smise di tremare, e questo lo stupì moltissimo.
Aveva cominciato nel momento esatto in cui era uscito dalla camera ancora appiccicosa dell’odore fastidioso dell’eccitazione di Edward ed Envy; dal modo in cui tutto il suo corpo aveva preso a scuotersi – a scatti, come stesse singhiozzando, e con la furia del pianto, sebbene non stesse piangendo – aveva immaginato che non si sarebbe più fermato. Aveva perfino cominciato a cercare di venire a patti con la sua nuova condizione. S’era detto “Bene, tremerò per sempre. Adesso devo organizzare la mia vita in modo che questo inconveniente non mi disturbi troppo”, e dopo qualche secondo gli scossoni avevano perfino smesso di essere fastidiosi.
E poi era passata. Il pensiero di quei due, e soprattutto il loro ricordo, quell’immagine fissa, spaventosamente vivida, fisica, aveva smesso di tempestare di calci e pugni il suo stomaco e i suoi polmoni, e l’agitazione era volata via, insieme all’ansia. Così, velocemente com’era arrivata, e con la stessa sciocca semplicità, se n’era andata. E perfino il petto aveva smesso di pulsare e fargli male. Il cuore era tornato al suo posto e aveva smesso di prendere a testate lo sterno nel tentativo di evadere dalla cassa toracica e il sangue aveva ripreso la sua corsa attraverso le arterie e le vene a un ritmo più normale – un ritmo che non gli facesse provare il timore di doversi preparare a fronteggiare un’emorragia interna improvvisa e indesiderata così, da un momento all’altro.
Si era semplicemente seduto sul divano e aveva allungato una mano sul cuscino, alla cieca ricerca del telecomando. Quando l’aveva trovato, aveva acceso il televisore e aveva fatto un po’ di zapping.
La tv satellitare non sembrava avere niente di nuovo da offrirgli, e perciò si fermò su un documentario di History Channel sugli antichi egizi che ricordava di aver già visto – anche se magari non era proprio lo stesso, ma alla fine sapeva che i documentare di quel tipo erano tutti uguali, e quindi non avrebbe fatto alcuna differenza.
Suo fratello l’aveva appena torturato.
E, anche se era un pensiero difficile da accettare, doveva rassegnarsi al fatto che erano più di sei anni che suo fratello non faceva altro che torturarlo.
Magari era il suo hobby, o magari era soltanto una cosa che sentiva il bisogno di fare per stare in pace con sé stesso, o magari ancora neanche se ne rendeva conto, e se avesse anche solo immaginato con quanta fottuta violenza lo stava facendo soffrire, allora forse avrebbe subito smesso.
Ma non c’era modo di entrare nella testa di Edward.
Edward era come un giardino nascosto. Un affascinante dedalo di viuzze sterrate immerse nel profondo verde della natura, tanto fitto da non lasciare spazio neanche al sole. Un posto senza una vera entrata, e così per raggiungere l’interno si dovevano scalare le mura che lo circondavano, alte, ripide e frastagliate di schegge di vetro.
Come ogni giardino misterioso, ammaliava al punto che si sarebbe tentato di tutto per conquistare un’occhiata anche fugace all’interno.
Si sarebbe corso il rischio.
Anche di fronte alla possibilità di una delusione.
Era… era possibile che dentro le mura di Ed, alla fine, ci fossero solo un paio di erbacce e qualche carcassa ormai ridotta in briciole dal tempo.
Era possibile che Edward fosse solo uno specchietto per le allodole. Tanta maliziosa ed affascinante apparenza, e il vuoto cosmico appena oltre il guscio.
Lui non lo sapeva.
Le poche volte in cui gli era sembrato di poter scorgere una fetta del panorama del mondo di suo fratello, aveva visto solo immensi grovigli di cespugli di rovi.
E non aveva avuto modo di capire se stessero lì per proteggere un tesoro preziosissimo o fossero solo lo stravagante arredamento che Ed usava per riempire gli spazi vuoti.
*

- Sai che prima o poi dovrai pagare pegno per essertene andato prima di aver concluso il tuo obbligo, vero?
Non aveva ancora fatto in tempo a smettere di fantasticare su presunti giardini e tesori da scovare, che Edward piombò sgraziatamente sul divano accanto a lui, incrociando le braccia e accavallando le gambe.
- Nii-san… - sospirò, scrollando il capo con fare rassegnato, - non mi sembra il caso di-
- Ti concedo di giocare con me.
- …in che senso?
- Chiedimelo. Dirigi tu. Reggi le redini. Te le cedo.
Per un attimo, Al si sentì smarrito.
Tutti quegli anni ad adattarsi alla parte del sottomesso, chinando il capo e annuendo di continuo, di fronte a tutto, e ora, all’improvviso, dopo quella che gli era sembrata la fine di tutto, suo fratello gli si sedeva accanto e gli faceva provare non solo la sensazione di essere rientrato in possesso della propria vita, ma anche quella – perfino più inebriante – di poter controllare la sua.
Almeno per una volta.
Una volta sola.
- Obbligo o verità? – chiese, quasi titubante, stropicciando l’angolo di un cuscino fra le dita.
Edward sorrise come se si sentisse l’essere più furbo dell’universo.
- Verità. – rispose seccamente.
E, per un secondo, Al fu tentato di esplodere in un “Mi ami?” che lo avrebbe distrutto in singhiozzi, già lo sapeva.
Mi ami, nii-san? Mi consideri qualcosa più di un giocattolo carino da rigirarsi fra le mani? Mi vuoi bene, almeno un po’?
Ma si trattenne.
Se avesse davvero fatto quella domanda, Edward avrebbe risposto sinceramente, e qualunque fosse stata la sua risposta il discorso si sarebbe fermato lì per sempre.
Lui moriva dalla voglia di sentire un maledetto sì o un altrettanto maledetto no uscire da quelle labbra.
Ma non era disposto a perdere l’unica occasione che aveva per sfoltire il groviglio di rovi e vedere al di là della barriera di spine.
- Raccontami tutto dall’inizio.
Non era la domanda che Edward si aspettava.
- …questo è un obbligo. – protestò, mordendosi nervosamente un labbro.
- Nii-san…
- Riformulala. Sta’ alle regole, Al. O barerò anch’io.
Deglutì e strinse i pugni.
- Qual è la verità, nii-san?
Ed batté un paio di volte le dita sul braccio.
- La verità?
- Sì. Su tutto. Su di te.
Suo fratello sospirò.
- Devo raccontarti la storia della mia vita?
- Se sarà necessario, sì.
- Perché?
Avrebbe voluto ricordargli che non avrebbe dovuto esserci spazio per proteste e richieste, all’interno del gioco, e che lui non s’era mai azzardato a fare tante domande su quello che lui lo obbligava a fare.
Ma stava giocando con Edward. E sapeva quanto lui fosse volubile.
Non poteva indispettirlo, non poteva sfuggire a quell’interrogatorio, perché Edward non avrebbe risposto se prima non avesse visto chiaramente di fronte a cosa si trovava.
Incredibile, riusciva a farsi governare anche quando a reggere le redini era lui.
- Io… ho bisogno di saperlo, nii-san. – spiegò, - Ho bisogno di conoscerti. Altrimenti non riuscirò mai a capire se quello che provo per te è reale o… o se non è semplicemente una bugia che mi racconto per giustificare il fatto che sono attratto da te.
Edward sorrise teneramente, accarezzandogli una guancia e poi lasciando che la mano gli scivolasse addosso fino a fermarsi sul suo petto all’altezza del cuore.
- Se lo senti reale qui, allora lo è.
Anche Alphonse sorrise, prendendo la sua mano fra le proprie e stringendola con calore.
- Mi è bastato, fino ad ora. Credimi, ho giustificato una quantità incredibile di cose, solo ripetendomelo e convincendomene. Ma adesso non mi basta più.
Sbuffando, irritato dalla sua decisione, Ed tirò indietro il braccio e puntò gli occhi da qualche parte alla sua destra, arricciando le labbra e fingendo disinteresse.
- Nii-san… - lo richiamò Al, sporgendosi verso di lui, - Non puoi rifiutarti… è il tuo gioco, sono le tue regole, devi seguirle…
Edward si strinse nelle spalle, aggrottando le sopracciglia. Poi sbuffò, socchiudendo gli occhi.
E finalmente si arrese.
- Dammi un punto d’inizio. Sono quasi ventuno dannatissimi anni, non posso raccontarti tutto da quando sono nato.
- Io… non saprei… - disse lui, un po’ incerto, - Speravo che il punto d’inizio potessi darlo tu. Speravo che sapessi da cosa tutto è cominciato.
- Ma lo sai anche tu da cosa è cominciato tutto, Al. La mamma. Da cos’altro potrebbe essere cominciato? Un giorno mamma c’era ed era felice, e il giorno dopo era all’ospedale in coma. È morta troppo in fretta. E troppo… presto. Io non ero pronto a perderla.
- Nii-san, neanche io lo ero, chi diavolo può essere pronto a perdere sua madre? Questo non mi basta! Ti stai nascondendo dietro qualcosa di banale, io non posso farmi bastare una cosa simile, lo capisci?
- …
- Dovrai essere sincero. Mi dispiace.
Edward lo guardò per qualche secondo, e poi sorrise. Un sorriso vulnerabile.
Era la prima volta che lo vedeva sorridere in quel modo.
Aveva dimenticato… no, non sapeva affatto che i sorrisi di suo fratello potessero essere così dolci.
- Ricordi quando arrivò Envy, Al?
Annuì, ancora stregato da quel sorriso, che non accennava ad andare via.
- Eravamo entrambi così piccoli… tu avevi nove anni. Eri così delizioso… ricordi com’eri delizioso, Al?
Arrossì.
- Sinceramente non avevo idea di essere stato delizioso…
- Oh. Sciocchino. Lo sei sempre stato.
- …
- Sai, fu Envy a insegnarmi il gioco.
- …cosa…?
- Probabilmente neanche si rendeva conto di cosa mi stava facendo. Per lui era solo qualcosa di piacevole e divertente, e d’altronde io non mi ribellavo, quindi non puoi fargliene una colpa.
- Aspetta, nii-san, lui-
- Sì. Sì, Al. Non c’è bisogno di dirlo. Io, almeno, non ho alcuna intenzione di dirlo ad alta voce. È una cosa che io e lui abbiamo promesso molto tempo fa. E oltretutto è una cosa passata.
- Ma è quello che ti ha ridotto così!
Edward ridacchiò sommessamente, ironico.
- E com’è che sono ridotto, Al?
- Tu… nii-san, non venirmi a dire che credi di essere una persona equilibrata, perché non so cosa ti faccio!
- Ma no che non sono una persona equilibrata, Al! Ma non sono neanche un pazzo!
- Be’, o sei una cosa o sei l’altra!
Edward lo guardò, condiscendente, dondolando un po’ avanti e indietro, puntellandosi con le mani sul divano.
- Tu ed Envy avete molte cose in comune, sai?
- Ah, davvero? – borbottò infastidito, tirandosi indietro e rilassandosi contro lo schienale.
- Sì. Siete ugualmente insensibili. – rise, - E ugualmente belli, anche se in due modi diversi.
Alphonse sospirò pesantemente, socchiudendo gli occhi.
- Se devo essere sincero, mi sembra che l’unica cosa che ci accomuni sia tu.
Ed sorrise ancora, avvicinandoglisi.
- Sì, anche questo. Ma tu vuoi sapere tutta la verità, non è vero, Al?
- Sì!
- E allora non cambiare discorso.
- …
Non se n’era neanche accorto.
Ma quando suo fratello glielo fece notare, quasi desiderò prendersi a pugni.
Era vero. Man mano che Edward andava avanti col racconto, a lui sembrava di indietreggiare.
Era…
…spaventato.
Non sapeva neanche da cosa.
Insomma, era quello che aveva aspettato di sentire per anni, era la verità che tanto desiderava, era ciò che l’avrebbe liberato da quella prigione di obblighi dolorosi e verità scomode che lo teneva fermo, come chiuso in una bolla, da tanto di quel tempo che gli sembrava di avere dimenticato come fosse piacevole la sensazione di avere la mente libera da pensieri odiosi.
E quella verità lo terrorizzava.
- Ho sempre provato qualcosa di speciale per te. – confessò Ed a bassa voce, guardandosi le mani, adesso placidamente posate in grembo, - Tu sei il mio primo ricordo, sai Al? La cosa più antica che so. La prima registrazione del mio cervello. La tua voce era… era una melodia, non era una voce normale. Era musica. Il tuo sorriso, il tuo sorriso era il sole.
Edward sospirò e gettò l’aria fuori dai polmoni come se si stesse liberando da un peso.
- Ciò che è successo con Envy mi ha solo spinto a rendere concrete le mie fantasie. Sapevo che il gioco ti avrebbe legato e me come aveva legato me a lui. È per questo che ho cercato di abituarti a farne parte fin da piccolo, e… ho aspettato che tu fossi abbastanza grande per capire cosa stavamo facendo, prima di cominciare a chiederti quello che volevo davvero da te.
Serrò le labbra.
Avrebbe voluto strillare e dirgli di stare zitto.
Non voleva davvero sapere quelle cose.
Non voleva, perché più Ed parlava più gli sembrava di essere lui stesso la causa di tutto quello sconvolgimento.
Suo fratello lo amava.
Lo aveva amato dall’inizio con la stessa ostinazione assassina di Envy.
Per tutto quegli anni, non aveva fatto altro che impazzire e torturarlo… solo perché lo amava.
Lui era la causa. Sua era la colpa.
- Volevo che tu dicessi verità, Al. – mormorò Edward, abbassando lo sguardo fino a nascondere gli occhi con la frangia, - Volevo capire se tutti quegli anni di obblighi erano serviti a qualcosa. Ma tu continuavi a chiedere ordini. Non ti esponevi, non ti mostravi. Io avevo bisogno di strapparti la conferma, volevo sentirti dire che mi amavi. Volevo chiedertelo.
- Nii-san…
- Non te lo sei mai fatto chiedere.
Era stata sua la colpa.
Aveva fatto impazzire suo fratello.
Era stato sincero con sé stesso, ma non lo era stato abbastanza con lui. E questo l’aveva fatto impazzire.
Tutte quelle richieste frustranti non erano che un tentativo di farlo uscire dal guscio, e lui invece aveva continuato a nascondere la testa sotto la sabbia come uno stupido struzzo vigliacco.
Non aveva mai capito niente.
Ed avrebbe voluto salvarlo.
Sollevò un braccio, e gli sfiorò una guancia. Ed lo guardò. Aveva gli occhi asciutti e vuoti, come se stesse parlando solo perché andava fatto, e non perché facendolo avrebbe potuto risolvere qualcosa.
- Chiedimelo adesso, nii-san. – disse lui, fissandolo con decisione e accarezzandogli uno zigomo con due dita.
Edward dischiuse le labbra. Poi sorrise e scosse il capo.
- Chiedimelo adesso. – insisté lui, afferrandogli il mento tra il pollice e l’indice.
Un po’ stupito dalla sua irruenza, Ed cercò di tirarsi indietro, ma lui non lo lasciò fare.
- Chiedimelo. – ripeté, e cercò di sorridere.
Ed Edward rilassò le spalle. Lo guardò teneramente. E glielo chiese.
- Obbligo o verità, Al?
- Verità. Io ti-
- Aspetta.
Si chinò su di lui e lo baciò lievemente sulle labbra.
- Per ogni eventualità. – ridacchiò, tornando e guardarlo negli occhi e sfiorandogli la fronte con la propria. – Mi ami, Al?
E sapeva che quello era il suo turno. Che avrebbe dovuto dire qualcosa. Risolvere. E farlo chiaramente, una volta per tutte.
Ma il sorriso di suo fratello, la sua vicinanza, il suo profumo e la rassegnazione educata delle sue labbra lo inebetirono, come sempre, una volta di più.
Lo abbracciò, nascondendo il viso sul suo collo e sfiorandolo con le labbra.
Edward rise.
- Non c’è bisogno di dirlo. – lo rassicurò, accarezzandogli dolcemente i capelli, - Hai dato una bella risposta, Al.
Una bella risposta.
- Non ho detto niente, nii-san. – puntualizzò, sorridendo lievemente contro la sua pelle.
La mano di Edward scivolò dai capelli al collo e poi alla schiena, calda, aperta, ferma.
Sicura.
- Hai detto abbastanza.
Chiuse gli occhi.
Abbastanza.
Il sorriso di suo fratello, la sua vicinanza, il suo profumo, la rassegnazione educata e felice delle sue labbra…
Abbastanza, sì. Decisamente.
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico.
Pairing: EdwardxAlphonse.
Rating: NC-17
AVVISI: Angst, H/C, Incest, Lime, Yaoi.
- Non importa quanto sia finalmente felice di riavere suo fratello in carne e ossa al suo fianco. Edward non può fare a meno di sentirsi fuori posto. Non può fare a meno di sentirsi angosciato. Non può fare a meno di sentirsi terrorizzato dall'idea di essere lasciato solo. E per legare a sé suo fratello, Edward è disposto a fare di tutto.
Commento dell'autrice: (Chiedo perdono ç____ç Davvero ç___ç Ma in un modo o in un altro le storie che scrivo su Al e Ed mi rubano la vita XD e mi portano a scrivere quintali di post-fazioni ç_ç)
Ma prima di parlare della fic, volevo animatamente protestare contro la FOLLA ALLUCINANTE di emo!Ed sparsi per le fanfiction su Fullmetal Alchemist in quest’ultimo periodo >_< Non farò esempi e non farò nomi, ma mi è capitato fin troppo spesso di leggere di questo tipo di caratterizzazione di Ed, ultimamente. Intendiamoci: non che io vi sia contraria :O Anzi, se avete letto qualche altra mia fic (ma anche questa direi che basta e avanza XD), avrete notato sicuramente che tendo a dipingere Ed come un disadattato, un depresso, un asociale, uno talmente chiuso in sé stesso che non riesce a esprimere i pensieri che gli girano per la testa neanche quando si tratta di cavolate XD E io sono assolutamente convinta che Ed sia così, perché è così che lo vedo. Ma hey, non basta far dire ad Ed cose del tipo “la vita mi ha distrutto dentro, mi ha torturato, masticato, digerito e poi vomitato” e sperare che una cosa del genere risulti credibile mentre nello stesso contesto, nella stessa fic, lo stesso Ed si spreca in puccioserie con chicchessia, sorride allegramente e su di lui non c’è traccia del “male” che lo divora se non quando… rimugina sui suoi pensieri, in definitiva O.o La richiesta di questa povera lettrice è: caratterizzatelo come un isterico lol – cosa che può essere tranquillamente – o come un depresso cronico – cosa che è senza alcun dubbio – ma fatelo solo se sapete cosa state combinando ç_ç Vi prego, davvero ç_ç Risolleviamo un po’ la qualità di Ed nelle fanfiction ç_ç Rendiamolo coerente ç_ç
…e tenete fuori il mio Al dalle vostre dannate RoyEd, Dio ç_____________ç!!!
Detto ciò, possiamo parlare della fic :O
Per dirne cosa? Intanto per dire che ha avuto una storia incredibilmente travagliata XD Infatti figuratevi che prima di cominciare a scrivere, quando ancora la storia era in stato embrionale nella mia testa, c’è stata più di una possibilità che non venisse affatto alla luce XD (sarebbe stato meglio, mh? è_é”””) Questo perché tendo a evitare di scrivere cose eccessivamente angsty, non sono granché capace, ma questa storia la volevo proprio scrivere, e volevo che fosse proprio così, piena di sangue e pensieri cupi e Ed che rimugina sulla sua tristezza atavica >_< anche perché ero e sono fermamente convinta che una fic ispirata a una canzone come “Personal Jesus” (Depeche Mode, “Violator”, 1990, indovinate per quale sfida è stata scritta questa storia :D) non si possa vederla diversamente XD Quella canzone ha una melodia così cupa! Quindi in definitiva ho passato tutto un periodo ad angosciarmi incredibilmente (sembrava che il personaggio emo dovessi essere io, piuttosto che Ed -_-) chiedendomi se fosse giusto o meno provare a scrivere qualcosa in cui molto probabilmente avrei toppato, togliendo tempo a cose sulle quali andavo più sul sicuro perché magari ero più abituata a scriverle, e nel frattempo facevo sogni allucinanti in cui la Caska mi mandava una mail e mi implorava con le lacrime agli occhi di non scrivere questa fic 9_9
Però, oltre a desiderare di testarmi in un campo un po’ più cupo rispetto al mio solito modo di scrivere puccioso, mi interessava anche scrivere qualcosa sul genere H/C, Hurt and Comfort, in cui uno dei due protagonisti sta male e l’altro si prende cura di lui <3 Credevo fosse una situazione molto intima in cui porre i due fratellini *-*
E quindi alla fine ho deciso di procedere. Ma questo era solo l’inizio dei miei problemi XD
Infatti uno dei capisaldi che avevo stabilito all’inizio della storia era che fosse Ed l’uke della situazione, per una volta XD Generalmente lo tengo sempre attivo, nel rapporto di coppia, perché vista la quantità di pairing in cui non può essere altro che passivo (vedi Mustang – bleargh – o Envy – ri-bleargh) mi infastidisce pensare di renderlo passivo anche nell’unico rapporto con una persona più uke di lui XD Vale a dire Al. In questo caso, però, volevo decisamente provare a vedere come funzionasse Ed in un ruolo passivo, e quindi, dopo varie menate – del tipo, mi fermavo nel mezzo del racconto e dicevo “nooo, non posso farlo ç____ç” e ribaltavo i ruoli, salvo poi tornare indietro e rimettere tutto com’era prima XD – ho deciso… di non farne niente :O (ta-dah!) Ho semplicemente eliminato la scena in cui c’era il rapporto sessuale (anche perché altrimenti avrei avuto guai XD) e mi sono tolta il problema da davanti agli occhi XD E lì è diventato tutto più facile è.é D’altronde, immagino che possiate farvi bastare la scena di masturbazione fetish è.é””” Così come poi immagino possiate farvi bastare quel po’ di uke-attitude che c’è da parte di Ed, soprattutto nei suoi pensieri.
Ora, credits vari ed eventuali.
Prima di tutto :O Carla Bruni (udite udite), perché mi ha dato l’ispirazione per il discorso sul tempo. Cioè l’altra sera era a “Che tempo che fa”, il pucci-programma di Fazio e a un certo punto lui le ha chiesto quale fosse il suo rapporto col tempo, e lei ha detto qualcosa tipo “Brutto. Ho paura del tempo che passa. E mi sembra che il tempo non faccia altro”, o qualcosa del genere, insomma, tutto sommato un’osservazione abbastanza banale che mi ha spiazzata da morire O_O Io amo scrivere storie in cui “è passato qualche tempo da”, mi piace vedere i personaggi mesi o anni dopo l’evento che magari ha sconvolto la loro vita o ha cambiato il loro modo di pensare, e ogni volta il tempo fa qualcosa ai personaggi che uso. Li rende più tristi, o cura le loro ferite, o rimuove i loro brutti ricordi XD ma alla fine il tempo in sé non ha il potere di fare nulla di tutto questo. Il tempo in sé non fa che passare o_o Davvero, pensateci, non sconvolge anche voi? XD *delirio*
Secondariamente, devo ringraziare tantissimo mio fratello XD che mi ha aiutata molto sul pezzo del funerale. Dovete sapere che mentre scrivevo quel punto a un certo punto mi ero messa in testa di ficcare l’immagine di un funerale che esplode di vitalità. Ma non c’era verso né modo di trovare una frase che rendesse bene l’idea dell’esplosione, collegasse efficacemente la gioia (la vita) e la tristezza (il funerale) e contemporaneamente suonasse bene nel testo XD E quindi ero molto in crisi, fino a quando mio fratello mi fa “Perché non fai una cosa fine? :O Petrarca più o meno provò le stesse cose quando morì Laura, per lui fu come rinascere perché riscoprì la sua fede, puoi dire che quello del tuo personaggio fu il suo venticinque aprile :O”. Illuminazione XDDD Tra l’altro era pucciosissimo come concetto e si legava a tutto il fatto della fede e della salvezza dell’anima, stupendo! XD Poi abbiamo scoperto che non era il venticinque ma il sei è_é ! “Venticinque” suonava meglio, là in mezzo, ma abbiamo dovuto piegarci alle esigenze della verità storica X’D Quindi grazie fratello :* Vedi, anche tu sei utile, ogni tanto :*
Un devoto ringraziamento anche alla nai per il suo beta-reading puntuale e preciso senza il quale questa fanfiction sarebbe stata pubblicata come fosse stata scritta veramente coi piedi, e alla Caska per aver dato l’ok e avermi detto “l’impressione è buona, vai con Dio” XD Visti gli argomenti, senza la sua approvazione non l’avrei mai pubblicata.
Woooooh, ho finito, grazie a chiunque abbia letto fin qui, siete dei devoti niente male ç_ç *per restare in tema religioso <3* Vi amo <3
(Ho quasi scritto più riflessioni per questa storia che non per “Your Door”… sono pericolosa!)
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PERSONAL JESUS
(or Redemption)
Violator#3
Flavour #40 - A new iconography of resurrection


Lo sentì bussare alla porta, e stancamente aprì gli occhi.
Era esausto.
Non sapeva quanto sangue avesse perso. Non sapeva se fosse tanto e quella pesantezza allucinante che gli gravava sulle palpebre fosse dovuta al fatto che stesse finalmente crepando, oppure se fosse poco e fossero solo sonno e fame a debilitarlo tanto.
In quel momento, era un po’ tutto insieme.
Si sentiva morire, aveva sonno e fame, e altre mille cose. Gli prudevano le braccia, e gli faceva male la gola, e se si passava la lingua sulle labbra bruciavano talmente tanto che aveva quasi l’impressione che non ci fossero più.
Sorrise al pensiero dell’espressione che avrebbe avuto suo fratello sul viso, quando avesse visto in che condizioni era ridotto.
Avrebbe detto “Non posso lasciarti solo neanche un secondo, nii-san!”, avrebbe detto “Quando la smetterai di farti del male così?”, e probabilmente avrebbe pianto un po’, poi lo avrebbe abbracciato, e quando avrebbe sentito da vicino l’odore del suo sangue sarebbe stato così nauseato che non avrebbe potuto fare a meno di lasciarlo e scappare via.
- Nii-san… posso entrare…? – chiese incerto Al, oltre l’uscio, bussando ancora un paio di volte.
Lui avrebbe voluto rispondere.
Anche se non avrebbe saputo dire se desiderasse chiedergli di entrare o di andarsene via.
Ma, in ogni caso, era una preoccupazione inutile, dal momento che non riusciva a parlare.
La porta si aprì di scatto, e suo fratello apparve sulla soglia, inondando la stanza buia con la luce giallastra del corridoio.
Ed sollevò appena il capo per inquadrare meglio la sua figura snella e slanciata.
Dannazione.
C’era troppa luce per poter scorgere la sua espressione.
- Nii-san!
Ma non c’era mai abbastanza frastuono per non riconoscere la sua voce. Ed lo sapeva. Perché la voce di Al perforava continuamente il muro dei suoi allucinati pensieri, lo raggiungeva nell’isolato angolino in cui si nascondeva, terrorizzata, la sua ultima briciola di ragione, spazzava via la polvere e i detriti e per un attimo, ma solo per un attimo, gli schiariva la mente, regalandogli la consapevolezza di essere pazzo, completamente pazzo.
- Che hai fatto?! – gridò Al, allarmato, avvicinandoglisi e prendendolo fra le braccia con tanta facilità che Ed percepì il suo corpo come fosse fatto di lenzuola di cotone.
- Mmmh… - trovò la forza di mugugnare, mentre si lasciava andare alla sua stretta e si faceva mettere seduto compostamente sul letto.
- Nii-san! – continuò Al, sempre più spaventato, - Aspetta, scendi da questo letto, è tutto macchiato! Ma che hai fatto?!
E così dicendo provò a farlo mettere in piedi, ma le gambe semplicemente non lo ressero, ed entrambi si ritrovarono a terra, schiacciati contro il pavimento, la schiena di Al dolorante per la botta e Ed abbandonato che gli pesava sul ventre e sul petto.
- Nii-san! Stai bene?
- Mmmh. – rispose lui, chiudendo gli occhi e godendo del calore della sua pelle, che attraversava il tessuto sottile della camicia.
- Nii-san… - mormorò Al riprendendolo saldamente fra le braccia e mettendolo seduto, - Cosa è successo qui?
Lui lo guardò. Lo guardò a lungo negli occhi. Gli occhi limpidissimi di Al che gli davano il tormento.
Voleva che suo fratello sapesse cosa faceva, ma non voleva che sapesse come lo faceva. Non aveva mai pensato neanche per un secondo di far vedere ad Al cosa combinava con le forbici che aveva nascosto dentro al materasso, fra la gommapiuma e la lana grezza, non voleva che Al vedesse scorrere il sangue dalle ferite fresche ancora palpitanti di dolore, non voleva che Al vedesse le sue smorfie di dolore soddisfatto quando si tagliava. Non voleva perché gli sarebbe sembrato di insudiciarlo.
Ma Dio, voleva che Al avesse a che fare con il sangue rappreso, e con le ferite aperte e quasi asciutte, e con la sua espressione indifferente quando nulla che non fosse il dolore sembrava riuscire a toccarlo.
Voleva che Al si prendesse cura di lui.
Voleva che fosse Al a leccare le sue ferite.
Voleva che Al, solo lui, fosse il collegamento che lo univa al mondo esterno, che viveva, e cresceva, fuori da casa loro.
Lui sapeva che il mondo continuava a muoversi. Ma non era di quel mondo che voleva fare parte.
Finché c’era Heide, poteva ancora dirsi un essere umano come tutti gli altri. Gli mancava Al, certo, e gli mancavano Winry e zia Pinako, e anche tutti gli altri. Gli mancava Resembool e si sentiva fuori posto, ma almeno si teneva impegnato, passava il tempo, e la presenza di Heide era così dolce per riempire gli spazi vuoti…
Heide era così simile a suo fratello…
Ma poi Heide era morto.
E Heide non era morto per una fatalità, non era morto per eroismo e non era morto per seguire i suoi ideali.
Heide era morto per affetto. Per aiutarlo a tornare nel suo mondo. Heide voleva unicamente che lui tornasse ad essere l’uomo giusto nel posto giusto, l’uomo felice in mezzo ai suoi cari, l’uomo che aveva ormai spazzato via il dolore passato e si preparava a vivere felice il suo futuro.
E lui aveva gettato alle ortiche quella possibilità.
Per una buona causa, è vero. Ma già a distanza di pochi mesi non riusciva più a ricordare cosa lo consolasse del fatto di perdere la possibilità di una vita gioiosa per fare del bene all’umanità.
…ogni tanto provava a guardare fuori dalla finestra. E attraverso i vetri opachi, generalmente, vedeva persone che non gli ricordavano niente.
Ma proprio davanti casa sua c’era la bottega della fioraia, e la fioraia era la copia esatta di Glacier, e aveva sposato un uomo che era la copia esatta del colonnello Hughes.
E lui ogni tanto li vedeva.
E lo percepiva, sotto la pelle, quel qualcosa che scorreva e lo scuoteva tutto. E gli urlava nelle orecchie che lui non era di lì. Che essere l’originale in un mondo di copie era sbagliato. Che non portava bene. Che per il solo fatto di essere lì, qualcuno era già morto. La sua copia era già morta.
Copia e originale non possono stare insieme nello stesso posto.
E adesso che c’era anche Al…
…anche Heide era già morto.
Per il solo fatto di essere lì.
*

Col viso nascosto nell’incavo fra il collo e il mento di suo fratello, con gli occhi chiusi e gli arti abbandonati e molli, assaporava il dolcissimo passaggio della spugna bagnata sulla pelle del suo braccio vivo. Il petto di Al si gonfiava e si sgonfiava al ritmo del suo respiro, facendolo ondeggiare piano, come se lo stesse cullando. L’acqua fresca leniva il bruciore delle ferite ancora aperte, e ammorbidiva il prurito di quelle già crostificate.
Il profumo di Al lo circondava tutto, era come essere abbracciati da una mamma, solo meno morbida e pura.
Il profumo di Al gli dava alla testa.
Avrebbe continuato a tagliarsi per sempre, avrebbe continuato a ridursi sull’orlo del suicidio costantemente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ossessivamente, sempre, sempre, sempre, solo per risentire quel profumo tutto attorno, e quel tocco lieve su di lui, e la sensazione di essere resuscitato per miracolo dalle manine premurose di suo fratello. E se avesse avuto l’opportunità di ricevere in dono un’altra vita, se un qualche Dio magnanimo l’avesse preso in simpatia e gli avesse detto “Va’, Edward Elric, torna sulla terra e cerca di essere felice”, lui avrebbe girato tutto il mondo, e avrebbe ritrovato Al, l’avrebbe ritrovato in qualunque forma fosse rinato, e avrebbe ricominciato a farsi del male solo ed esclusivamente per osservarlo prendersi di nuovo cura di lui, devoto e ciecamente fedele come sempre.
Perché Al non aveva bisogno di chiedere spiegazioni, per tutto quello sciocco dolore.
E d’altronde non c’era nulla che Ed avrebbe potuto dirgli per fargli comprendere meglio la situazione.
Così come non c’era nulla che avrebbe potuto dire a sé stesso, per comprendersi un po’ di più.
L’unica cosa che capiva era che, già da molto tempo, aveva smesso di essere un uomo, ed era diventato Fame. Fame di Al. Del suo tocco gentile, del suo profumo rassicurante, di tutte le sue adorabili premure e della sua ferma intenzione di non lasciarlo andare. Aveva bisogno fisico e fisiologico di Al. Era qualcosa che somigliava pericolosamente alla tensione sessuale, se ne rendeva conto, ma non si sarebbe mai azzardato ad alzare un dito di troppo su di lui, quindi cercava di accontentarsi di quello che aveva già, dei cerotti, delle bende e delle carezze.
Gli bastava che lui continuasse ad esserci, che continuasse a mantenere un contatto, che potesse ancora vederlo. Gli bastava. Se lo faceva bastare. Doveva farselo bastare.
- Nii-san… adesso mettiti disteso. – mormorò Al spingendolo lievemente lontano da sé.
Per riflesso, Ed contrastò la sua spinta, tornando ad abbracciarlo.
- Che c’è, nii-san…?
- Voglio…
Era la prima parola che diceva dal giorno prima, e la voce uscì incredibilmente roca e sgradevole.
Tossicchiò lievemente.
- Voglio restare ancora un po’ così, Al.
- Nii-san, devo mettere a bagno le lenzuola sporche…
Adorava il modo in cui Al riusciva a infilare un “nii-san” in ogni frase che gli usciva dalle labbra. Era così bello sentirgli dire quella parola, così intimo…
Annuendo, si tirò indietro, stendendosi sul materasso e lasciandosi andare a una smorfia di dolore quando la pelle del braccio ormai secca e martoriata tirò sulle ferite, riaprendone qualcuna delle più profonde.
Al mormorò un’imprecazione fra i denti, afferrando un paio di bende da sopra il comodino e avvolgendogli il braccio.
- Così il sangue dovrebbe fermarsi… se stai immobile.
- Mh. – annuì lui, guardando altrove e sistemandosi meglio sul materasso.
- Nii-san. – lo chiamò Al, la voce tremante.
Lui si voltò, concentrandosi sui lineamenti del suo viso.
- Perché… perché stasera non ceni con me? In cucina, intendo… a tavola.
Disgustato dal solo pensiero di ingerire qualcosa, roteò gli occhi, sbuffando lievemente.
- Non voglio mangiare. Non mi sento ancora molto bene.
- Nii-san! – protestò Al, adesso agitato, stringendo i pugni, - Non… non hai niente che ti impedisca di alzarti dal letto!
Solo per un attimo, si fece prendere dalla rabbia, e lo fissò furioso negli occhi.
- Se dico che non mi sento bene, non mi sento bene, Al.
Suo fratello indietreggiò un po’, spaventato.
- Scusa. – mormorò, abbassando lo sguardo, - Adesso vado via.
Ed lo osservò voltarsi e uscire dalla stanza, stringendo forte le lenzuola fra le dita serrate a pugno.
Quando rimase solo, si sentì talmente perduto e confuso che ebbe voglia di ficcare le mani nel buco dietro al materasso e tirarne fuori le forbici.
Ma era ancora troppo presto. Al sarebbe potuto tornare.
E poi non c’era ancora abbastanza spazio sul suo braccio e non c’erano ancora ferite abbastanza vecchie che valesse la pena di riaprire.
*

Non aveva usato le forbici, quella volta.
Non aveva nemmeno pensato di usare le forbici.
Aveva solo sentito prurito.
Non voleva distruggersi la pelle e la carne a quel punto, non…
…non nelle intenzioni iniziali, almeno.
Quasi ipnotizzato, rimase a guardare le ferite aperte, no, spalancate sull’avambraccio sinistro, e il sangue che ne usciva, rigando la pelle dove ancora era liscia e bianca e scivolando lascivo sul lenzuolo, in gocce lente, pesanti, perfettamente sferiche.
S’era solo grattato un po’.
Davvero.
Sollevò la mano destra, osservando le punte delle dita metalliche.
Il rosso e il bianco troppo chiaro della falsa pelle che copriva le sue dita meccaniche formavano un contrasto invitante, quasi sensuale… lo stava chiamando, il suo sangue stava pulsando per lui…
Si portò l’indice alle labbra, succhiandolo come fosse affamato.
Silicone, e metallo, e l’odore ferroso del sangue…
E le dita divennero due.
E quando quel sangue fu finito fece rifornimento dal braccio dolorante e ricominciò a succhiare. Succhiava spasmodicamente, come i bambini appena nati, giocava con la lingua e le falangi insensibili, giocava immaginando che quelle non fossero le sue dita, perché se non potevano sentire niente allora potevano essere qualsiasi cosa, potevano essere le dita di Al, poteva essere…
…poteva essere quello che voleva, poteva immaginare quello che voleva, poteva immaginare che il braccio straziato che scivolava sulle lenzuola non fosse suo, nonostante il dolore, e poteva immaginare che la mano che stava sfiorando la sua erezione fosse di qualcun altro, nonostante la sensazione tattile della pelle dei polpastrelli, era buio, aveva gli occhi chiusi, e le dita in bocca, era in paradiso e poteva essere tutto e il contrario di tutto, poteva essere sé stesso, e poi Al, e poi di nuovo sé stesso. Non aveva limiti, non aveva confini, solo lui, le sue dita, il suo sangue, la sua mano e il suo cazzo.
- Nii-san!
Spalancò gli occhi sullo sguardo inorridito di Alphonse che, sulla soglia della porta, strizzava la maniglia con una mano come a volercisi aggrappare per non cadere.
- A-Al! – mormorò affannosamente, tirando fuori di scatto la mano dai boxer e facendosi un male cane, - Che… cosa…
- Era… era ora di cena, volevo portarti da mangiare, nii-san, cosa diavolo stavi facendo?!
- Io… stavo-
- Stai sanguinando ancora! – lo interruppe Al, lanciando un grido quasi terrorizzato.
In quattro passi suo fratello fu al suo fianco, e lui non ebbe neanche il tempo di accorgersene che già aveva afferrato il suo polso sinistro con la mano e l’aveva tirato verso l’alto, osservando con disgusto tutto il suo lavoro vanificato e il sangue che ricopriva il braccio fino al gomito in rivoli incrociati come i fili di una ragnatela.
- Avevo… avevo prurito…
- Se le ferite ti davano fastidio, saresti potuto venire a chiamarmi! – lo rimproverò Al, furioso, - Le avrei disinfettate e ripulite, ti avrei cambiato la fasciatura e ti saresti sentito meglio! Perché non l’hai fatto?!
Perché non ci aveva pensato.
Per il sangue.
Perché non voleva scendere dal letto.
Per il sangue.
Perché voleva fosse lui a trovarlo in quelle condizioni.
E per il sangue, dannazione, perché il suo sangue lo aveva chiamato.
- Non… non me ne sono accorto. Dormivo.
- Non dormivi! Nii-san, non dormivi affatto! Stupido!
Abbassò lo sguardo.
Era stanco, stanco, stanco di sentirlo parlare. Ogni volta che Al parlava sembrava dirgli un no. Che fosse per un abbraccio, per una dormita, per del cibo rifiutato o per i suoi stupidi dannatissimi tagli, ogni volta che Al parlava era un rimprovero, ogni volta era un no diverso.
Non avrebbe potuto prendersi cura di lui in completo silenzio?
Non avrebbe potuto sorridergli e basta, una volta tanto…?
- …stai fermo qui. Non muoverti. – gli ordinò suo fratello, pacato, lasciando la stanza e ritornando poco dopo, con qualcosa in mano.
Aguzzò lo sguardo, per capire cosa fosse, ma riuscì a vederlo veramente solo quando lui accese la luce.
Erano un paio di manette.
Argentate, lucide, nuove.
Spalancò gli occhi.
Si sarebbe potuto aspettare di tutto, di tutto, ma non… di certo non quello.
- Al…? – chiamò, titubante, mentre suo fratello distoglieva lo sguardo.
- Io non volevo fare una cosa del genere, nii-san…
…il che però non spiegava la presenza di quelle manette lì…
- Ma tu mi ci costringi. Cerca di capire.
Certo, Al.
Tu dimmi semplicemente cosa devo capire, e ti assicuro che io lo capirò.

Suo fratello si avvicinò, un po’ incerto, poggiando le manette in punta sul comodino, dove lui non sarebbe arrivato a prenderle se non gettandosi nel vuoto praticamente a peso morto.
- Per favore, non muoverti. – gli sussurrò poi, arrossendo vistosamente e ammanettandolo alla spalliera del letto.
Attonito, lui lo guardò, sentendosi per la prima volta come non fosse l’unico pazzo in quella casa.
- Al…
- Devo farlo, nii-san. – spiegò il ragazzo, senza riuscire a guardarlo negli occhi, - O tu continuerai a farti questo. E io non posso permettertelo.
- …
Era Al che non capiva.
Al non aveva la minima idea di quanto lui fosse eccitato in quel momento.
Al non comprendeva che avrebbe dato la vita perché lui lo prendesse in quel momento, in quella posizione, con i polsi ancora bloccati alla ringhiera gelida, col rumore delle manette contro il metallo come colonna sonora e il dolore ai polsi e alle spalle come accompagnamento.
- Mi dispiace, nii-san.
E così dicendo uscì dalla stanza, senza ripulirlo, senza medicarlo e senza cambiare le lenzuola.
Quando tornò, portava con sé un vassoio con un piatto colmo di denso minestrone di verdure e un bicchiere d’acqua.
Sembrava che per lui fosse tutto normale.
Si sedette sulla sponda del letto, appoggiando il vassoio sul comodino e controllando da vicino la condizione delle sue ferite, sporgendosi su di lui, col petto così vicino al suo viso che lui riuscì, per un attimo, a chiudere gli occhi e inalarne il profumo come se lo stesse abbracciando.
- Sembra che si stiano chiudendo senza problemi. – constatò Al con un sorriso minuscolo, - Hai visto che se non ti tocchi va meglio?
Lui, ancora troppo… troppo sconvolto, sì, dal suo comportamento, non trovò la forza di dire niente.
Continuando a sorridere, Al prese un cucchiaio di minestra e glielo portò alle labbra.
Un moto di disgusto gli investì lo stomaco, e scosse il capo violentemente, sbattendo contro il cucchiaio proteso verso di lui e sporcandosi una guancia.
- Ah! Nii-san! Guarda cosa hai combinato! – sbuffò Al, ripulendolo con un dito.
Ed osservò suo fratello guardarsi intorno alla ricerca di un tovagliolino con cui pulirsi, fissò la punta di quel dito in movimento e la trovò ipnotica, e lentamente, quasi senza accorgersene, dischiuse le labbra.
Quando gli occhi vaganti di Al si fermarono sul suo viso, a Ed sembrò che sia lui che suo fratello avessero smesso improvvisamente di respirare.
Al lo fissava, probabilmente chiedendosi cosa fosse giusto fare in un momento come quello.
Poi, poco a poco, avvicinò l’indice al viso di Ed, fermandosi a pochi centimetri dalle sue labbra.
Era terrorizzato, Ed poteva vederlo nei suoi occhi.
Era terrorizzato ma non spostava di un millimetro quel dannato dito.
E lui doveva raggiungerlo, doveva raggiungerlo, dannazione, sarebbe morto se non l’avesse almeno toccato!
Si tese, si inarcò, cercò di raggiungerlo e non ci riuscì, e allora tirò fuori la lingua e riempì lo spazio che lo separava da quel dito benedetto, e quando l’ebbe catturato fra le labbra giurò a sé stesso, e sul nome di Dio, che non l’avrebbe più lasciato andare.
- N-Nii-san… è strano… - mormorò Al, gli occhi socchiusi e lucidi d’imbarazzo, incerto fra la possibilità di tirarsi indietro e quella di rimanere immobile.
Ed si limitò a mugugnare qualcosa, continuando a succhiare il suo dito fino ad aver completamente spazzato via il sapore della minestra, per assaporare il gusto salato e stupendo della pelle di suo fratello.
- Nii-san, aspetta… - ansimò il ragazzo, mettendosi in ginocchio sul letto, facendosi minuscolo e combattendo contro sé stesso per impedirsi di abbandonarsi a quel gioco assurdo eppure così sensuale – E’ troppo strano, non va bene…
Senza neanche premurarsi di riaprire gli occhi, Ed mosse una gamba, e poco dopo il suo piede destro si stava strusciando, lento e lieve, sui pantaloni di Al, cercando di raggiungere la sua erezione oltre il tessuto ruvido e pesante dei pantaloni.
Il respiro già irregolare di Al venne rotto da un singhiozzo di stupore e piacere. Solo allora Ed riaprì gli occhi, serrando più decisamente le labbra attorno al suo dito mentre lo titillava incerto con la punta della lingua. Riaprì gli occhi e lo vide chino su sé stesso, privo di forze, totalmente rapito dal piacere allucinante che gli provocava il movimento del piede di suo fratello. Soddisfatto, tornò a chiudere le palpebre, a sprofondare nel suo mondo di immaginazione, i gemiti di Al gli davano la traccia sonora, i movimenti del suo bacino quella ritmica e il sapore ormai dolciastro del suo dito quella fisica. Bastava seguire quelle tracce, quelle tracce erano la strada per il paradiso.
Pian piano, gli ansiti di Al cominciarono a farsi più forti e più liberi, e quando lo guardò per la seconda volta i lineamenti del suo volto erano distesi, le sue labbra dischiuse e umide, le sue spalle scosse dai sospiri.
Chiuse gli occhi per l’ennesima volta, era distrutto dal desiderio di continuare a guardare Al godere e allo stesso tempo non riusciva ad abbandonare completamente la dolcezza dell’immaginazione e occhi chiusi, e poi…
…e poi suo fratello decise di benedirlo.
Suo fratello salvò la sua fottuta anima.
O almeno, così si sentì lui, salvato, quando una mano di Al percorse lenta lo spazio vuoto che la separava dal suo corpo e lo sfiorò da sopra i pantaloni del pigiama.
Per la sorpresa, lasciò perfino andare il suo dito, ma Al non spostò la mano, e anzi, quando sentì che anche il suo piede s’era fermato, prese ad agitare il bacino mormorando stancamente “Nii-san… nii-san, non fermarti adesso… nii-san…”. E lui si sentì come se stesse vedendo la luce, come se quello di fronte a lui non fosse più semplicemente Al, ma un angelo, un dio, il Dio del sesso, il Dio dell’amore, il Dio del piacere, non lo sapeva, ma di qualunque cosa fosse dio lo stava salvando, stava muovendo la mano e lo stava salvando, stava muovendo i fianchi e lo stava salvando, gli stava sfiorando il viso e le labbra con le dita e lo stava salvando.
Riprese a muovere il piede. E Al venne subito, con un singhiozzo strozzato che gli otturò la gola e lo costrinse a tossicchiare. Ma non si fermò, continuò a muovere quella mano santa, “Sbrigati, nii-san, sbrigati…”, “Sì, Al, mi sbrigo, mi sbrigo, non ti fermare, continua… così… Al, così…”, da quanto tempo non mormorava così?, aveva mai mormorato così?, aveva mai goduto così?, gli era mai successo, nella sua vita, di essere così stupidamente felice per qualcosa di tanto piccolo come una manina in movimento lento sul suo sesso…?
L’orgasmo lo colse a ondate, come la marea, venne a lungo, spingendosi ostinatamente contro la mano ormai ferma di suo fratello, disgustato dalla sensazione di bagnato dei boxer e dei pantaloni ed estasiato dal calore stupendo che la pelle di Al emanava, e che passava attraverso tutte le barriere e lo raggiungeva nel suo intimo, come se si stessero toccando, completamente nudi, senza ostacoli.
Rimasero entrambi in silenzio per molto tempo, senza osare rilasciare i sospiri pesanti che avrebbero avuto bisogno di liberare per tornare a respirare normalmente.
Poi Al sollevò il capo, massaggiandosi le tempie con le dita.
- …non ti toglierò le manette. – disse semplicemente, nascondendosi gli occhi con la mano aperta appoggiata sul viso.
Ed si morse il labbro inferiore.
Non gli fregava niente di quelle dannate manette. Avrebbe adorato anche tenerle fino alla fine della sua vita, se solo Al gli avesse assicurato che sarebbe tornato a toccarlo in quel modo stupendo ogni giorno e per sempre.
Quando suo fratello si alzò dal letto, lo fece così repentinamente che tutto il materasso tremò, e a lui venne la nausea.
E quando poi lo vide oltrepassare la soglia della porta, ebbe la nettissima sensazione che non l’avrebbe rivisto per molto tempo.
Ed ebbe paura.
- Al! – gridò, prima che lui riuscisse a chiudere la porta, - Non te ne andare!
Lui gli rivolse uno sguardo che diceva “non posso fare nient’altro”, e la chiuse di scatto, senza dargli neanche il tempo di replicare.
*

Doveva complimentarsi con suo fratello, quelle manette erano una forma di tortura molto sofisticata e crudele. Era sicuramente per quel motivo che, fra tutti i metodi che avrebbe potuto scegliere per impedirgli di tagliarsi, aveva scelto proprio quello. Le manette gli davano l’opportunità di muoversi, almeno un po’, e di sfiorare il metallo della spalliera del letto con la pelle. Adorava quella sensazione, il metallo gelido contro la sua pelle bollente di dolore a causa dei tagli, era magnifico, c’era qualcosa di poetico nel brivido che gli correva lungo la spina dorsale quando trovava quel contatto.
C’era qualcosa di molto meno poetico, invece, in quello che gli era rimasto fra le gambe dopo che la premurosa mano di Al aveva deciso di fargli un regalino e permettergli di venire senza neanche spogliarlo.
Si chiedeva se suo fratello capisse che cosa avevano fatto, o se lo considerasse piuttosto un gioco stupido e un po’ strano.
O se credesse, chissà, che l’eiaculazione fosse un processo psicologico, privo di implicazioni fisiche.
Infastidito, si agitò sul materasso, consolato, nel silenzio, dal sommesso clangore delle manette sul ferro.
Quelle manette erano una benedizione divina. Sentirle tintinnare lo rallegrava. Percepire la loro stretta quando cercava di cambiare posizione lo riempiva di gioia, e lo eccitava da morire. Non erano che brevissimi momenti, sensazioni fugaci che gli riempivano il cuore di speranza: se le manette erano ancora lì, Al sarebbe tornato per prendersi cura di lui.
Non poteva usare i tagli per obbligarlo a tornare, ma le manette, loro sì.
Le manette lo illudevano di avere ancora qualche potere sul libero arbitrio di suo fratello.
Ma era, ovviamente, solo un’illusione.
E infatti non vedeva suo fratello da due giorni.
L’aveva sentito entrare e uscire di casa per andare a lavoro e fare la spesa, l’aveva sentito passare innumerevoli volte davanti alla porta della sua camera, ma non aveva mai visto il suo volto fare capolino dall’uscio, né mai aveva sentito la sua voce.
E questo lo faceva sentire male.
E lo faceva sentire solo.
Si sentiva come se gli avessero rubato un’icona sacra, si sentiva, sì, privato della sua divinità, della sua fede. Il suo Dio era morto.
…prima pregava sempre. Pregava perché Al tornasse, e fosse gentile, e rimanesse con lui, e gli accarezzasse dolcemente i capelli, e lo ripulisse con una pezza bagnata di acqua tiepida, o semplicemente cambiasse le lenzuola, o lo aiutasse a indossare un pigiama pulito.
Adesso non riusciva neanche più a pregare.
Era sporco, era sudato, le macchie di sangue rappreso sulle lenzuola gli davano la nausea, i polsi gli dolevano e sentiva le braccia come atrofizzate, e non aveva neanche la forza di pregare per il ritorno di suo fratello.
Non riusciva a fare altro che osservare il tempo passare.
Capendo sempre più, minuto dopo minuto, che quella è l’unica cosa che sa fare. Il tempo non lenisce il dolore, non cura le ferite, non aiuta a dimenticare e non rende agrodolci i ricordi amari.
Il tempo passa.
Troppo in fretta o troppo lentamente, ma passa e basta. Non ha proprietà magiche, non serve a nulla, non serve neanche a invecchiare davvero, o a diventare più saggi, serve solo a ripetere stupidamente e tragicamente sempre gli stessi pensieri, sempre le stesse azioni, sempre gli stessi errori.
Il tempo serve solo ad andare via. E ad essere sempre di meno.
Lui non l’aveva mai capita, prima, questa cosa. Si era sempre detto “Ho tempo, per ridare ad Al il suo corpo”, e quando il corpo era tornato e lui s’era ritrovato catapultato in quella città assurda e devastata che era la Monaco del 1923 s’era detto “Ho tempo, per tornare a casa mia, nel mio vero mondo”, e quando poi era tornato, e aveva rivisto Al, e poi entrambi erano ritornati indietro, e quando per i primi tempi, malgrado fosse tutto un disastro, lui era riuscito a tenere insieme i cocci del suo cervello, s’era detto “Ho tempo, ho tutto il tempo del mondo per far capire ad Al cosa provo per lui, ho tutto il tempo per lasciare che si abitui al pensiero, e Dio, poi avrò tutto il tempo per godere del suo amore, quando avrà imparato a ricambiarmi”.
Ma era rimasto fregato.
Perché “tutto il tempo”, non esiste. Esiste solo il tempo restante.
E da qualunque lato lo guardi, è sempre troppo poco.
*

E poi, dopo qualche giorno, non avrebbe neanche saputo dire quanti, improvvisamente accadde. Il suo corpo fece qualcosa come risvegliarsi da un lungo sonno, e la fame esplose tutta in un momento. Non fu neanche una cosa graduale, non fu come sentire il bisogno di Al ogni giorno un po’ di più fino a non potere resistere oltre, fu come stare bene e tutt’a un tratto sentirsi morire di bisogno e malinconia.
Non poteva sopravvivere a quel sentimento, era troppo forte e luminoso, era così nitido e pesante, gli schiacciava il corpo contro il materasso, si sentiva affossato nella gommapiuma, poteva sentire le punte delle forbici premergli contro la schiena, non poteva resistere, non poteva, non poteva e basta, perciò si mise a urlare.
Non chiamava neanche il suo nome.
Perché quasi non lo ricordava più.
Aveva solo voglia di rivederlo, e perciò pianse e gridò come i bambini piccoli, che non hanno altro modo per comunicare oltre a quello. Pianse, e gridò, e si dibatté come un pesce a corto di ossigeno, sbattendo contro la spalliera, contorcendo le braccia, rischiando di cadere dal letto e distruggersi i legamenti delle spalle. Gridò e gridò e gridò ancora fino a quando non sentì dei passi veloci correre lungo il corridoio, e poi la porta si aprì e la luce si accese, e Al era lì, col fiatone, una mano ancora sulla maniglia e l’altra sull’interruttore della luce, le guance arrossate, i capelli scarmigliati e un semplice pigiama addosso.
- Nii-san! – urlò, correndogli incontro, - Che cos’hai?!
E lui, per prima cosa, pensò “Che ore sono?
Che orario ho scelto, per mettermi ad urlare come un ossesso?”.
Guardò Al, stupito, come si fosse svegliato in quel momento, e non seppe cosa dirgli.
“Sto male” non avrebbe reso l’idea. “Ti voglio” non sarebbe stato tutto. “Niente” sarebbe stato falso.
Eppure stava semplicemente male, e lo voleva, e in fin dei conti non aveva davvero niente, nessun motivo per urlare in quella maniera allucinante, per… per essersi comportato in quel modo fino a quel momento.
- Nii-san… - lo chiamò ancora Al, stringendolo forte, - Nii-san, ti fanno male le braccia? Ti fanno male le spalle? Ti levo le manette! – e così dicendo lo lasciò lì, su quel letto, e corse a recuperare le chiavi in camera sua, per tornare in un lampo, pochi secondi dopo, e liberarlo dalla sua prigionia.
Avere le braccia libere gli dava una strana sensazione, gli faceva uno strano effetto.
Sciolse le spalle e si massaggiò i polsi, ancora silenzioso, ancora incapace di pensare a quello che stava succedendo.
Suo fratello gli sfiorò lievemente il braccio e lui lo guardò in viso.
Dischiuse le labbra, sentì il bisogno di fare qualcosa, di ringraziarlo, forse, ma non ne trovò la forza, non ne trovò il coraggio.
La voce non usciva.
E Al lo guardò a lungo, mordendosi le labbra, in attesa di una risposta, di una rassicurazione, di una carezza, e quando capì che da quell’idiota di suo fratello non sarebbe arrivato niente di tutto questo, lentamente chinò il capo e si mise a piangere, e mentre Ed osservava e ascoltava quel pianto sommesso, d’improvviso capì.
Al era semplicemente un ragazzino. Semplicemente il suo fratellino minore.
E lui ne aveva fatto di tutto, ne aveva fatto un oggetto del desiderio, ne aveva fatto un infermiere, ne aveva fatto un lavoratore, un carnefice, Cristo, perfino un dio!, e lui non era niente di tutto questo.
Al era semplicemente un ragazzino.
E lui avrebbe dovuto prendersene cura.
E invece aveva preteso che Al fosse tutto quando si trattava di dare e poi diventasse niente quando si trattava di ricevere, fosse anche una banale spiegazione.
Senza rispondere mai a una domanda.
Senza dare mai un segno di riconoscenza.
O d’affetto.
Stancamente, sollevò una mano, cercando di accarezzarlo su una guancia.
Ma Al lo scacciò, alzandosi in piedi con uno scatto improvviso e risollevando gli occhi.
Lo guardò fiero, le guance rigate di lacrime e i lineamenti tesi, e strinse i pugni.
- Nii-san, sei uno stupido! – esplose infine, con voce rotta, - E io sono stufo! Sono stufo di preoccuparmi così per te, sono stufo di guardarti mentre continui a farti del male come se la mia presenza non contasse niente, sono stufo di vedere che ti prendi gioco di me come se lo stupido fossi io! Sei tu lo stupido, nii-san, sei tu lo stupido!
Interdetto, rimase a guardarlo.
Al si aspettava che lui dicesse qualcosa, almeno allora, sì, ma cosa? Doveva scusarsi? Doveva alzarsi e toccarlo? Doveva dirgli “sei stato uno splendido fratello, Al, ti sono davvero grato”, doveva fare questo? E quanto ridicolo sarebbe stato? E quanto inutile? E quanto falso?
È che ti amo, Al. Se c’è qualcosa per cui devo ringraziarti, è per avermi permesso di continuare ad amarti senza scacciarmi neanche una volta. Se c’è una cosa per cui devo ringraziarti, è per essere uno sciocchino che non ha ancora capito quanto e come questo tuo fratello ti ama, perché se l’avessi capito, se l’avessi capito io sarei già lontano, io sarei già solo, e probabilmente sarei già morto.
Non è per le cure, e non è per la dolcezza.
È per il sentimento d’amore inutile e incondizionato.
Per la gioia ottusa in cui ho vissuto fino a questo momento. Perché non credere che sia impossibile, Al, uno può rotolarsi per giorni nel suo stesso sangue e staccarsi la pelle a morsi ed essere allo stesso tempo così incredibilmente felice da avere voglia di piangere. Ed io lo ero, Al.
In fondo, davvero…
Io lo sono.

- Nii-san… non mi aspetto che tu mi dica qualcosa. – mormorò Al, quando ebbe ripreso il controllo del suo respiro, - Non adesso, almeno. Mi rendo conto che devi odiare questa vita che fai, che devi odiare me, perché altrimenti-
- Al-
- …altrimenti non faresti tutto quello che fai, perciò credo sia meglio che tu vada, nii-san.
…come?
- Al, aspetta… dove credi che voglia andare, scusa…?
- Non lo so, dove vuoi, dovunque potrai essere felice! Dove non avrai bisogno di farti tutto questo!
- Al, un secondo, adesso non drammatizziamo…
- Drammatizzare?! Drammatizzare, nii-san, ti sembra che io stia drammatizzando? Voglio dire, tu com’è che definisci il tuo comportamento?!
- Ok, lo so, hai ragione, ma io mi rendo conto-
- Non ti rendi conto di niente! Dio, non parlare come se capissi qualcosa, perché ti assicuro, ti assicuro!, non hai capito proprio niente di niente e non sai proprio niente di niente!
- Tesoro, ti assicuro-
- Non chiamarmi tesoro!!!
- Al! Adesso sta’ un po’ zitto e lasciami parlare, Cristo santo!
Suo fratello s’irrigidì tutto, spalancando gli occhi e stringendo le labbra.
- Scusa, Al. – mormorò Ed poco dopo, abbassando lo sguardo, - So che non è abbastanza semplicemente scusarsi, e so che ti meriti dei ringraziamenti, anche, e se non l’ho ancora fatto fino ad adesso devi capire che non è perché ti odiassi o chissà che altro, ma solo perché sono stato un egoista e uno stupido e non ho capito davvero cosa stavo combinando.
Alphonse lo guardò, smarrito, cercando di capire cosa suo fratello stesse cercando di dirgli.
- Cioè… nii-san, non capisco, ti sei pentito o… che altro…?
Al suono della parola “pentito”, Ed fece una smorfia.
- Non sono pentito, Al. Ho fatto tante cose di cui mi pento, nella mia vita, ma non sono pentito di aver dato sfogo così ai miei sentimenti. È stato sempre meglio questo, che perderti.
- …non capisco, nii-san, non capisco!
Edward si massaggiò le tempie, sospirando esausto.
- Senti, non è importante che tu capisca tutto quello che sto cercando di dirti-
- E’ importante, nii-san, è questa la cosa sulla quale ti sbagli! Ti sei sempre sbagliato, su questa cosa! Ci sono milioni di fatti… milioni di pensieri che tu non ritieni importanti, e ti ostini a non dirmi niente perché… non capisco più se è perché vuoi proteggermi o perché sei solo un idiota, ma in ogni caso non importa! La sostanza è che io non posso più vivere così, va bene? Non ce la faccio più! Chiamami egoista, chiamami vigliacco, quello che vuoi, ma va’ fuori da questa casa e lasciami in pace!
Lasciarti in pace…?
Tu vuoi che ti lasci in pace mentre il mio più grande desiderio sarebbe prendere queste manette e legarmi a te per sempre…?

Per molti minuti, Ed osservò suo fratello affaccendarsi affannato in giro per la stanza, con le lacrime agli occhi, mentre trascinava per il pavimento una valigia aperta che andava riempiendo con tutti i suoi vestiti e la sua biancheria.
E tutto quel movimento convulso e frenetico era sbagliato.
Era sbagliato più di tutto il resto.
Tra le milioni di cose che andavano al rovescio, nella sua vita e nella sua dannata testa, quella era la peggiore.
Dischiuse le labbra. Sospirò profondamente. Si armò di coraggio come dovesse affrontare un combattimento mortale.
- Ti amo. – disse in un sospiro, fissando gli occhi sul corpo improvvisamente immobile di suo fratello.
Al sollevò il capo da un cassetto, un paio di calzini ancora in mano, e lo guardò stupito.
- Cos’hai detto…?
- E’ questo, quello che non ti ho detto. Quello che non ritenevo importante tu capissi. Tutto qua.
Il ragazzo si rimise dritto in piedi, rimanendo fermo dov’era, come avesse paura che fare un solo passo potesse cambiare la realtà per com’era in quel momento.
- Tu… cosa intendi, con queste parole?
- …in che senso…?
- Perché… ho immaginato mille volte… - si interruppe, stringendo i pugni e abbassando lo sguardo, - Ho immaginato mille volte di dire io a te le stesse identiche parole… e sempre, ogni volta tu rispondevi “Anche io ti amo, Al, in fondo sei mio fratello”. E non è così… non è così che ho bisogno di te, nii-san.
…il mondo… se il dannato mondo aveva deciso di regalargli un ultimo sogno, prima di distruggere definitivamente ogni briciolo di razionalità e lucidità dentro di lui, e se quello era il sogno che gli era stato destinato in dono, poteva dirsi soddisfatto. Bella mossa. Davvero bella.
- Sei mio fratello, Al. – disse, sospirando pesantemente e abbandonandosi sulla spalliera del letto, - Ma neanche io ho bisogno di te in questo modo.
Al strinse i denti, socchiudendo gli occhi, che da lontano, a Ed, sembrarono brillare.
- Il mio “ti amo” ha lo stesso significato del tuo.
*

L’aveva osservato scoppiare a piangere disperatamente, coprendosi il viso con le mani e le braccia, crollare in ginocchio e poi gattonare verso il suo letto, arrampicarsi sul materasso e stendersi al suo fianco, stringendolo così forte che più volte si era sentito mancare il respiro. E ogni volta, ogni volta aveva pensato “che bella morte, che bella morte!”, con l’anima talmente in festa che gli sembrava di essere a un matrimonio, o a un battesimo, mentre in realtà quel momento non era altro che un funerale.
Il funerale di tutto quello che era stato fino ad allora, il funerale del modo in cui fino ad allora aveva amato Al, il funerale del modo in cui aveva pensato a lui, a sé stesso, alla loro relazione e a tutta la loro vita.
Un funerale gioioso.
Il suo sei aprile.
C’era questo poeta, un poeta italiano, Heide era un appassionato di tutte queste cose… gliel’aveva fatto conoscere lui. Si chiamava Petrarca. Quando era morta la sua donna, quest’uomo si era sentito perso e distrutto, e quella era stata anche la fine della sua vita, era stato un funerale anche per lui, in un certo senso. Ma poi aveva fatto in modo che nel suo canzoniere la data della morte della sua donna corrispondesse perfettamente con la data della nascita del figlio del dio in cui credeva, con la venuta di Cristo sulla terra. Ed era stato come rinascere.
Immaginava che quelle piccolezze potessero essere cose in grado di salvare un essere umano.
Come un’epifania, un’illuminazione, un piccolo miracolo.
…esattamente quello che era successo a lui, in fondo. Certo, non era stato salvato da una donna, né da Dio, ma era stato salvato dal suo fratellino e dall’assoluta devozione che provavano l’uno per l’altro.
Forse tutto questo non aveva lo stesso valore purificante della storia di quel poeta, ma… be’, qualunque valore avesse, era intenzionato a farselo bastare, e stavolta per davvero. Sinceramente. E completamente.
Ridacchiò, un po’ amaramente. Buffo che, pur sentendosi così felice, non avesse ancora trovato il coraggio di mettere un piede per terra.
Ma quando la stanza ripiombò nel silenzio, lui si accorse che vero silenzio non era. Perché qualcuno stava canticchiando. C’era una piccola voce melodiosa che si accompagnava come un campanellino al suono dell’acqua scrosciante sulla porcellana dei piatti.
Al faceva le pulizie. E canticchiava.
Ed fissò a lungo la porta della camera, mentre il cuore gli esplodeva nel petto.
Poi si liberò dalle coperte. Si mosse incerto verso la porta. Si sedette per terra, schiena contro legno, occhi chiusi, il sorriso più beato del mondo sulle labbra.
Ascoltò in silenzio, fino a quando non fu sazio, accompagnando la musica con lenti movimenti del capo, felice di essere lì, in quel momento, di esserci ancora, di esserci arrivato intero, e salvo.
E poi, sereno, si addormentò.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico a suo modo XD
Personaggi: Edward, Alphonse, Roy.
Pairing: Edward/Alphonse, blandissimi Roy/Edward e Alphonse/Winry, non perché apprezzi ma perché funzionali XD
Rating: R
AVVISI: AU, Incest, Shounen-ai.
- E' il giorno del matrimonio di Alphonse, e Edward vorrebbe essere felice per lui. O almeno essere abbastanza furioso da sputare in faccia a suo fratello tutto il risentimento che prova per lui e poi andarsene via da vincente.
Commento dell'autrice: No, non odiatemi, questa non è una RoyEd ç_____ç Roy è lì soltanto perché mi serviva un personaggio come lui proprio lì ç___ç Le RoyEd mi fanno senso, io sono una RoyAi e non tradirò la mia fede ç_ç Ciononostante :O non dubito che potrei riutilizzare l’espediente XD il pensiero di Ed che utilizza il colonnello per consolarsi mi stuzzica :3
Allora, andiamo con ordine XD Prima di tutto, un ringraziamento immenserrimo a Makichan O_O! Perché davvero, se non fosse stato per lei questa storia non sarebbe MAI nata O_O Infatti, qualche giorno fa ha proposto sul forum dell’EFP una serie di temi ispirati dalla tracklist dell’album “Violator”, dei Depeche Mode, 1990. Un album del quale conoscevo solo le due canzoni più famose, “Personal Jesus” e “Enjoy The Silence”. Ciononostante, scorrendo la breve lista (son solo nove pezzi) “Blue Dress” mi ha colpito, se non altro per l’infinita varietà di cose che si poteva mettere su avendo come “restrizione” soltanto questa. Poi me la sono anche procurata e ho cominciato a venerarla, ma questo è un altro paio di maniche :o
Al e Ed sono venuti a galla quasi subito X3 E devo dire che il tema che poi qui nella storia è trattato con lo stesso spazio di tutti gli altri temi malinconici/tristerrimi affrontati, ovvero il fatto che Ed potesse sentirsi in qualche modo “consolato” dall’osservare il suo adorato fratellino sposarsi senza però essere opportunamente vestito XD è stato il primo che mi è venuto in mente. L’immagine lampante dei fratelli che discutono e di Ed che silenziosamente implora Al di vestirsi in quel modo. E Al che accetta. Perché ha capito? Perché è succube? Perché è naturalmente uke? :O Non si sa, non ho voluto affrontarlo e d’altronde la cosa era assolutamente incentrata su Ed.
Ed, che io amo ç____ç Anche se nelle storie che scrivo soffre sempre come un dannato O.o Juccha dice che lo sto portando “al limite dell’umanamente prostrabile” XD Ma non ci posso fare niente, lui è già così emo per natura che invoglia a continuare a battere sulla stessa strada >_< (…che ho detto…?).
AU perché… perché mi viene facile scrivere AU su questi due, e perché scrivere AU mi piace 9_9 Povere adorate bistrattate.
E non odiatemi per il WinryAl, è esattamente come il RoyEd, si chiamano scelte obbligate XD
Comunque, le uniche restrizioni del concorso era che la storia presentasse un riferimento alla musica in generale (la marcia nuziale X3) e un altro alla canzone in sé da cui si prendeva ispirazione (e qui sono ben due :3 La citazione all’inizio che dà impronta alla storia e poi quando Ed dice che adesso sa come funziona il mondo XD e che riprende i versi “Because when you learn / you’ll know what makes the world turn” è_é) e mi sembra di non avere fallito almeno in questo XD
…ora, prima di diventare davvero prolissa (e non lo sono già O.o) concludo ringraziandovi di aver letto fino a qui XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
BLUE DRESS
(or The Wedding Dress)
Violator#8. Blue dress


“Put it on
And don't say a word
[...]
Put it on
And stand before my eyes
Put it on
Please don't question why”
“Blue Dress” – Depeche Mode


“Congratulazioni, immagino.
E- Dio, ti sei vestito davvero così?”
Sono le prime cose che mi vengono in mente, quando ti guardo e mi chiedo “cos’è che vorrei dirti nel giorno del tuo matrimonio?”.
Congratulazioni perché, be’, sei grande, davvero. Guardati, come sei cresciuto. Guarda come sei alto. Voglio dire, sei un ragazzo così bello e intelligente, e allegro, anche. E poi nessuno in famiglia o fra i nostri amici avrebbe mai scommesso un centesimo su te e Winry. Cioè, era chiaro che veniva dietro a me. Chi avrebbe mai potuto immaginare che con una confessione, un mazzo di rose e un bacio appassionato tu potessi sconvolgerla tanto da… da convincerla a sposarti, in definitiva. Per questo, congratulazioni davvero.
Mi guardo intorno, la chiesa è già quasi piena, e mi viene da ridere, ma in realtà più ci penso più mi sento impazzire.
Farò finta che sia tutto a posto solo fino alla fine della funzione, giusto il tempo di sorriderti e dirti che sono felice per te – Dio sa se vorrei fosse vero – e poi osservarti uscire da questa stupida chiesetta campagnola e salire in macchina verso il ristorante; dopodiché probabilmente dirò a nostro padre di trovarsi un passaggio alternativo, prenderò la macchina anch’io e tornerò a casa, mi butterò sul tuo letto e piangerò tanto da sputare i polmoni; e poi magari mi sciacquerò il viso e verrò al tuo dannato pranzo di nozze.
Però ti avverto, potrei prenderti a pugni.
Sputare fuori i polmoni potrebbe mettermi di malumore.
- Elric, sei venuto alla fine?
Mi volto, e la presenza del Colonnello Mustang mi sconvolge – più di quanto non dovrebbe e decisamente più di quanto meriterebbe, comunque.
Cerco di sorridere e vorrei spaccargli il muso. La presenza di quest’uomo mi irrita, lo sai, perché diavolo l’hai invitato?
- Non potevo mancare al matrimonio di mio fratello.
Non sei obbligato a portargli rispetto, fuori dalla caserma, sai?
- Sì che potevi. Soprattutto visto che al posto della sposa vorresti esserci tu.
E neanche io lo sono.
Fanculo.
- Sta’ zitto, stronzo! – bisbiglio agitato, guardandomi intorno.
Dio, sono terrorizzato.
E lui sorride, oh, così tranquillo che mi da’ sui nervi.
È così orgoglioso di avermi messo in imbarazzo. L’ho detto e lo ripeto, stronzo.
- Dovresti usare un linguaggio più educato, Elric. Sei in chiesa, lo sai?
Gli lancio un’occhiata di sbieco e cerco di ignorarlo, incrociando le braccia sul petto.
- Colonnello! Ce l’ha fatta, alla fine!
Ti avvicini allegro, sorridendo apertamente. Le braccia spalancate, il passo ampio e svelto, sei così sciolto, sei così adorabile, sembri voler stringerti contro il mondo intero.
Come fai ad avere uno sguardo tanto limpido? Come fai ad avere un cuore tanto grande?
Io… io non riesco nemmeno a guardarti, Cristo.
Mustang sorride, stringendoti una mano e congratulandosi con te.
- Il tenente Hawkeye? – chiedi, guardando oltre la spalla del colonnello, cercando la figura della donna – sei davvero così abituato a vederla dietro di lui? Quanto mi fa ridere questo pensiero… quando io incontro Mustang, lui è sempre solo.
- Arriverà. – dice lui, tranquillo, salutandoti e raggiungendo il suo posto fra gli invitati dello sposo.
Per un secondo, rimani a guardarmi come se volessi chiedermi qualcosa
Per un secondo, m’illudo tu sappia davvero cosa dovresti chiedermi.
Dopodiché sorridi con quel tuo solito sorriso piccolo ed educato, ti volti e torni nei pressi dell’altare, dove il prete ti aspetta per continuare a parlare.
Io vorrei uccidermi, ma seguo Mustang come un cagnolino, e mi siedo al suo fianco.
Alla fine, per quanto la cosa mi faccia incazzare, non posso negare di aver bisogno della sua presenza.
- Be’? – chiede lui, sorridendomi cattivo, - Non posso mica consolarti qui, Elric, rischieremmo la dannazione eterna.
È inutile che ironizzi.
Tanto, io la dannazione eterna me la aspetto certa e doppia, ormai.
- Non dire str- stupidaggini, Mustang. È il matrimonio di mio fratello, cerca di comportarti bene.
- Da quando sei tu a darmi ordini? Non mi sembra sia mai successo.
- Oggi sei nel mio territorio.
Lui ridacchia, stringendosi nelle spalle.
- Vuol dire che ti ricorderò la lezione quando tornerai nel mio, di territorio.
Aaah, quanto voglio morire, Dio.
Perché non posso sprofondare adesso, perché?
- Spiegami solo una cosa, Elric.
- Mh.
- Perché diavolo tuo fratello s’è vestito di blu…?
Un incomprensibile moto d’agitazione mi prende, mentre non posso fare a meno di sbottare in un risolino agitato.
*

- Nii-san, ma tu sei sicuro che vada bene…?
- Ma certo, Al.
- Ma… è che io ho sempre creduto che lo sposo dovesse indossare uno smoking nero… capisci…?
- Ma va’, Al. Quelle che hanno le limitazioni nel vestire sono le spose. Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio e così via.
- Sì, ma…
- Oh, insomma! Se non ti va puoi semplicemente toglierlo e prenderne un altro! Per quello che mi interessa, poi…
- …no, va bene. Prendo questo.

*

- Ho la vaga sensazione che sia tua la colpa.
- Mia? – chiedo, simulando indignazione, - Non l’ho mica aiutato a scegliersi il vestito!
Lui mi guarda diffidente per qualche secondo, prima di sorridere.
- So che non dovrei, d’altronde non dici mai la verità, ma ti credo. Immagino che neanche tu saresti abbastanza forte da sopportare di aiutare la persona che ami a organizzare il suo matrimonio con un’altra.
Immagini male, Mustang.
Mai sottovalutare la potenza di un fratello innamorato.
Mai sottovalutare la potenza di Edward Elric, in ogni caso.
- Vuoi smetterla di parlare di questa storia? – mi lamento, agitato, - Il fatto… il fatto che mi sia confidato… - bisbiglio, sentendomi talmente misero che vorrei flagellarmi, - non ti autorizza a utilizzarlo contro di me.
Mustang sbuffa e torna a guardarsi intorno, lasciandomi libero di sprofondare di nuovo nei miei pensieri.
In realtà vorrei avere la fortuna di potermi dire realmente agitato o nervoso o irritato, per tutto questo. Vorrei potere alzarmi da questo posto, guardarti con disgusto e urlarti contro tutto il mio disprezzo, perché mi hai tradito, perché mi hai illuso, perché non mi hai mai amato – e non so quale di queste tre cose sia vera, anche se probabilmente sono tutte stupide invenzioni della mia mente – e poi voltarti le spalle e semplicemente andarmene via.
Solo, ecco, vorrei uscire dalla tua vita come vittorioso. Vorrei essere la figura elegante che esce dalla porta principale, spalle dritte e petto in fuori, passo deciso e occhi brillanti di determinazione.
Ed eccomi qua, invece, sconfitto, sconfitto e annoiato. Annoiato, sì.
Mi dà noia, questa cosa. Mi dà noia il fatto di averti amato totalmente e disperatamente per qualcosa come tutta la mia vita e mi dà noia il fatto tu non te ne sia mai accorto, e mi dà noia il fatto di non essere mai riuscito a dirtelo e mi dà noia la consapevolezza che in fondo è stato meglio così.
Ormai ho vent’anni, Al. Ormai lo so, come va il mondo. Ormai lo so che due fratelli non possono stare insieme, che un rapporto come questo non vedrebbe la luce neanche se tu provassi lo stesso per me, e che comunque, in ogni dannatissimo caso, non posso pilotare i tuoi sentimenti, e i tuoi sentimenti sono per Winry, e a questa cosa mi devo soltanto rassegnare, sperando di abituarmici presto.
Lo so adesso, Al.
Ma nessuno mi ha avvertito prima.
Nessuno mi ha avvertito quando avevo dodici anni e ti guardavo dormire e pensavo che eri carino e avrei voluto abbracciarti, nessuno allora mi ha detto “stai attento, ti farai male”, come faceva mamma quando eravamo piccoli e facevamo qualche sciocchezza. E quando poi a sedici anni ho provato il desiderio spasmodico e irrefrenabile di toccarti dove non avrei mai dovuto, era già troppo tardi. Ero già troppo oltre. E tu eri già troppo dentro.
Sollevo di scatto il capo quando sento il pianoforte intonare le note della marcia nuziale.
Non so neanche perché sono così ansioso, adesso.
Mustang mi guarda e, accorgendosi della mia tensione, mi dà un’amichevole pacca sulla spalla, probabilmente nel tentativo di rassicurarmi.
Non capisco cosa gli faccia pensare di poterlo fare.
Sinceramente, non capisco cosa gli faccia pensare di essere in grado di potermi fare stare meglio.
Solo perché scopiamo.
Come se una scopata fosse un atto intimo.
Non è più intimo di uno qualsiasi dei nostri saluti al mattino, Al. Non è più intimo di una qualsiasi occhiata prima di andare a letto. Non è più intimo di niente che ci sia stato fra te e me.
…non capirò mai il cervello degli uomini.
Dovrei cominciare a frequentare l’altro sesso, immagino.
Winry appare dal fondo della sala. È proprio bella. Di sicuro avrete dei figli splendidi.
Nostro padre la conduce a braccetto lungo la navata, verso l’altare, e non mi ha mai colpito tanto come adesso il fatto che conosco questa ragazza da tutta una vita, che vive con noi da quando i suoi non ci sono più, che per me è come una sorella, e che mi sembra allucinante sia proprio lei a portarmi via te.
Della funzione non riesco a seguire molto. So che le mie mani tremano e sudano come non hanno mai fatto, so che mi sto mordendo le labbra da qualcosa come mezzora e mi fanno male, so che ho fastidio agli occhi a causa della frangetta e so che Mustang mi sta fissando perché sento il suo sguardo appiccicoso e irritante correre in brividi su tutta la superficie del mio corpo.
Dev’essere uno spettacolo rivoltante.
Quest’uomo che si sforza di non piangere.
Ridicolo.
*

- Nii-san… tu… sei proprio sicuro che andrà bene lo stesso, se mi vestirò così, vero…?
- Certo che ne sono sicuro, Al.
- …
- …che diavolo c’è ancora?!
- Niente! Voglio dire… Nii-san, è un giorno molto importante per me, e io-
- Al.
- …
- Al, mettiti questo vestito e basta.

*

Al, ma tu non ti sei chiesto niente? Tu non ti sei chiesto come mai il tuo stupido fratello ci tenesse così tanto, a farti indossare proprio quel vestito blu? Non ti sei mai chiesto perché, dal momento che gli sposi, dannazione, gli sposi si vestono di nero…?
È perché così non sembri uno che si sta sposando, Al, tesoro.
Così sembri un ragazzo che è capitato lì per caso, che non aveva alcuna intenzione di ancorare il suo futuro a quello di un’altra persona, un ragazzo che si è trovato fra capo e collo l’obbligo di soddisfare un accordo, non sembri uno sposo, sembri un costretto di malavoglia.
Questo mi alleggerisce, Al. Non so se puoi capire quanto.
- Chi è a conoscenza di qualche impedimento per il quale quest’uomo e questa donna non dovrebbero unirsi in matrimonio, parli ora o taccia per sempre.
Dio.
Quand’è che siamo arrivati a questo punto?
Come al solito, non comprendo bene quello che sta succedendo. È miracolosa, questa mia capacità di rendermi l’essere più ottuso del mondo, quando non mi fa piacere capire che sto facendo una cazzata.
So solo che adesso sono in piedi.
Che tutta la chiesa mi sta guardando.
Che tu mi stai guardando, e sembri implorarmi con gli occhi di tacere, e questa è la cosa che mi fa più male, anche se probabilmente nel tuo sguardo c’è riflessa solo inquietudine e un pizzico di curiosità.
E io questa mia bocca non la vorrei semplicemente aprire, la vorrei spalancare, vorrei gridare, vorrei abbracciarti e portarti via, e mi odieresti, lo so, e m’importerebbe solo per cinque minuti e forse meno, lo giuro, e Mustang solleva un braccio, discreto, e mi tira per la giacca come un bambino piccolo, e quando lo guardo negli occhi sento la sua voce, nella mia testa, che dice “lascialo andare, lascia stare, è meglio, fidati”, ed è straziante, è straziante perché è vero, è straziante perché è giusto e perché io e le cose giuste a quanto pare non andiamo d’accordo, e allora mi fermo. E ti guardo. E sorrido. E sono sicuro di stare piangendo.
- Congratulazioni. – balbetto, cercando di essere chiaro perché non avrei la forza di ripeterlo.
E anche tu mi sorridi.
E io per la prima volta capisco davvero che non c’è altro da dire.
*

Immobile sulla soglia della chiesa, saluto gli invitati e ho un sorriso per tutti, e credo che la voglia di piangere sia ormai passata, o che quantomeno si sia nascosta bene in un posto dove io non posso vederla; la pace assoluta che regna sovrana nella mia testa e che distende i miei nervi, mi aiuta ad assicurarmi che tutti sappiano dove devono andare, che nessuno rimanga a piedi e che nessuna borsetta venga abbandonata sulle panchine della chiesa.
Mustang rimane al mio fianco, è rimasto lì per tutto il tempo come un guardiano, e penso che più tardi lo ringrazierò. Perché penso se lo meriti.
Vedi, Al, Mustang per me non è un tradimento. Non è amore, non è neanche intimità, non condividiamo niente, quasi neanche ci parliamo, se non quando non sono abbastanza forte da tenermi tutto dentro e andare avanti comunque. In generale, a Mustang io non penso. In generale, Mustang neanche esiste.
Ma tu, Al… per te è diverso. Winry non è un modo per consolarti, Winry non è una cosa che c’è ma per quello che t’importa potrebbe anche non esserci, Winry è la persona di cui sei innamorato, Winry è la tua persona speciale, la persona con cui hai scelto di passare tutta la vita, e poco importa se magari in futuro litigherete e vi lascerete, perché tu, poco fa, hai scelto, hai deciso, hai detto sì, e questo vuol dire che hai pensato “sì, io con questa donna voglio stare per sempre”, e non importa quanto fugace o poco convinto possa essere stato questo pensiero nella tua testa, c’è stato, è abbastanza.
Io non ho mai pensato qualcosa del genere per qualcuno che non fossi tu. Mai mai mai. Davvero.
E anche se adesso, osservandoti andare via, mi rendo conto che sono un uomo fortunato, perché avrei potuto combinare un disastro ma in qualche modo sono riuscito a evitarlo, questo non mi impedisce di stare male.
Non mi impedirà mai di stare male.
E questo mi fa sentire un condannato, Al, mi fa sentire senza scampo.
E siccome non è bello, tesoro, penso anche che ti odierò per un po’.
Ma non importa. Anche se non sai niente, so che tu capirai. So che tu perdonerai.
Mi basta che lo faccia tu per tutti e due.
Mustang mi dà una pacca sulla schiena e mi risveglia dalla trance.
- Sono andati via tutti. – mi informa atono, guardandosi intorno.
Io annuisco al nulla e fisso la tua macchina che si allontana, sparendo in fretta fra le altre macchine in tangenziale.
- Torniamo in città?
Annuisco ancora.
Non so perché non riesco a parlare.
- Vuoi andare al ristorante?
Stringo le labbra e nego risolutamente.
Certo, parlo bene, parlo da grand’uomo, ma resto un vigliacco.
Mustang si guarda intorno con aria circospetta, e dopo essersi assicurato di non vedere nessuno mi prende per mano, in un gesto discreto ed educato che quasi mi commuove.
Mi sforzo di sorridergli, mentre ci muoviamo insieme verso la sua macchina.
Genere: Introspettivo, Dark, Drammatico.
Personaggi: Edward, Alphonse, Heiderich, Winry, Hohenheim, Dante.
Pairing: Edward/Alphonse
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Angst, Incest.
- "Il suo rapporto con suo fratello aveva smesso di essere puro subito dopo la morte di sua madre."
Commento dell'autrice: Prima che mi chiediate da dove ho tirato fuori questa storia XD sappiate che è tutto frutto del mio cervellino morboso e fangirlante (chi mi conosce SA che ne sono capace :D) ispirato da due oekaki comics che ho trovato su un sito giapponese (un oekaki è uno schizzo fatto al computer, abbastanza stilizzato e generalmente povero di colori, ma che ha un suo fascino particolare. Un oekaki comic è, ovviamente, un fumetto realizzato mettendo una serie di oekaki uno di seguito all’altro :’D). Questi oekaki comic voi NON li volete leggere, primo perché non sono neanche tutto questo granché, se ricordo bene, secondo perché uno dei due era perfino RoyEd (brr), terzo perché poi in effetti con questa storia non c’entrano una cippa e fatichereste a trovare il collegamento contorto che ha prodotto la mia mente bacata e quarto e ultimo perché ho perso il link °_°
Per le atmosfere pesanti e cupe, invece, sono responsabili doujinshi stupendi angstissimi e darkissimi quali “Nightengale”, “Scarlet on the tile” e “Living will” (soprattutto il primo e soprattutto nell’ultima parte della shot): con la storia che ho messo su io non c’entrano niente, ma hanno contribuito a impantanarmi nel mood che mi ha permesso di realizzarla :’D Questi li ho, e vale la pena leggerli, per cui, se volete, non avete che da contattarmi, così vi mando le scanlation in inglese :* Tranne di “Living will”, di quello posso darvi solo il link – se lo ritrovo – ma comunque è un HeiEd :\
Dunque, “Your door” è stata una piccola impresa ^^ Prima di tutto perché è stata la mia prima vera e propria Elricest – se si esclude il piccolo drabble che ho scritto tempo fa per vedere come mi trovavo a narrare col POV di Alphonse, per poi decidere che scrivere col suo POV è stupendo ma è troppo difficile ed è meglio Ed :D. Non sono esattamente nuova al tema incesto, e più o meno tutti i lettori di fanfiction italiani – e buona parte di quelli inglesi, spagnoli, portoghesi e americani – sanno quanto questo argomento mi stia a cuore, quindi non è stato particolarmente difficile “immergermi” nell’atmosfera adatta. Inoltre, a mio vantaggio veniva il modo in cui ne avrei dovuto parlare: niente conflitti con la società, niente problemi di “venire allo scoperto”, perché la cosa si svolge tutta all’interno nei personaggi e fra Edward e Alphonse, e basta, e oltretutto perché entrambi realizzano fin da subito molto chiaramente cosa provano l’uno per l’altro, quindi non c’erano problemi di momenti generalmente “imbarazzanti” per il ficwriter medio – quali appunto drammatiche prese di coscienza o restie dichiarazioni ad alta voce.
Semmai il problema è stato esprimermi. Mi spiego meglio. Sia Alphonse che Edward sono stati fin da piccoli convintissimi che il loro rapporto non fosse di tipo fraterno. È stata una cosa sulla quale non si sono neanche mai fermati a riflettere, tanto era palese. E questa è una cosa assolutamente innaturale, è vero. Ma è naturale nelle loro teste. Nei loro cervellini, profondamente traviati dalle vicende della loro infanzia e dalla loro naturale predisposizione al dramma – peggiorata dalle varie calamità che li hanno scossi XD – quello che c’è fra loro non è che una normalissima conseguenza. Ed era importante che questo venisse fuori dai loro pensieri – va be’, dai pensieri di Ed, visto che, nonostante la terza persona, il POV è suo – e dalle loro azioni – quantomeno nella sfera privata, dal momento che non erano comunque due personaggi talmente fuori di testa da fare sozzerie in pubblico et similia.
Era fondamentale che questo venisse fuori perché altrimenti il lettore si sarebbe sentito spaesato di fronte all’assoluta assenza di complessi da parte dei due fratelli. Sia Ed che Al, fin dall’inizio, sono fortissimamente attratti l’uno dall’altro, e vivono i loro sentimenti con assoluta sincerità, senza ipocrisie o negazioni di alcun tipo. E allora qual è l’unico motivo per cui non lo fanno? Qual è l’unico motivo per cui non concludono subito e si trascinano stancamente per tutta questa storia per ben tot pagine? Non perché hanno paura della società e manfrine simili, ma perché Edward è terrorizzato da suo fratello. Questa è l’unica cosa che lo frena.
Alphonse da piccolo è tremendamente confuso. Edward è terrorizzato da questa confusione. Se ne sente il motivo, si sente colpevole, e questo, assieme alla mancanza della figura di riferimento paterna e di quella di consolazione materna, lo convince di essere la causa della sofferenza di suo fratello. Poi Alphonse va via. Quando torna la prima volta è un ragazzino distrutto. Ed Edward ne ha una paura folle, soprattutto quando scopre che si prostituisce, perché sente chiaramente di avere perso totalmente il controllo – inteso più come “capacità di protezione” che non come controllo dispotico vero e proprio – della sua persona. Per non parlare di quando poi Alphonse torna, dopo altri cinque anni, ed è completamente bruciato. Non lo trattiene più niente, è estremamente spontaneo, sa quello che vuole e vuole ottenerlo. Sfido chiunque a non sentirsi terrorizzato da questo XD
Il fatto che poi arrivi la scossa tale da far capitolare Ed, facendogli dimenticare tutte le sue paure, almeno per una volta, è tutto puro fangirling XD Perché volevo soddisfazione e volevo darla a voi :D* Ma la cosa principale qui era riflettere su quanto spaventoso, gigantesco e sporco potesse diventare un sentimento di per sé anche piccolo e tenero, e non per colpa di chi lo prova, ma semplicemente per colpa delle avversità che la vita pone davanti alle persone in maniera assolutamente casuale.
Perché può succedere.
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YOUR DOOR

“Amor può troppo più che né voi né io possiamo.”
“Decameron” – Boccaccio


OGGI.

Il suo rapporto con suo fratello aveva smesso di essere puro subito dopo la morte di sua madre.
Zia Pinako li aveva pregati a lungo di andare a vivere con lei e Winry, dopo il funerale, abbandonando subito quella casa piena di ricordi nostalgici, ma per quanto lui, ogni volta che lei gli faceva pressioni in questo senso, potesse salvarsi in extremis rispondendo che ci avrebbero riflettuto su, né lui né Al avevano mai pensato per un secondo di potersi trasferire davvero. Un po’ perché avevano sempre vissuto in quella casa, e impressi negli oggetti c’erano ricordi troppo dolci e consolatori per separarsene; un po’ perché quando stai così male non ti serve altro che il tuo dolore, che riempie fin troppo bene i giorni e le notti per poter pensare anche ad altro, come ad esempio vivere la tua vita; e poi perché logorarti nell’abbraccio umido e salato della sofferenza è l’unica cosa che pensi di saper fare bene, perché piangere e lamentarsi è così dannatamente naturale da farti credere di essere nato apposta.
Ed ripensava a quei giorni sempre come se non li avesse mai vissuti veramente; gli sembravano troppo strani, troppo evanescenti per essere proprio ricordi, e non sogni o fantasie.
Ok, le cose non andavano benissimo neanche prima che mamma morisse. Prima che mamma morisse lui era un diciottenne irrequieto e arrabbiato col padre che non vedeva da quando aveva dieci anni, e Al era un sedicenne confuso – molto confuso – e assolutamente incapace di esprimere chiaramente ciò che provava, ma dopo, dopo era stato il disastro, e lui era diventato un diciottenne ancora più arrabbiato e mortalmente solo, mentre Al si trasformava in un sedicenne troppo, troppo confuso, che di notte s’infilava nel suo letto.
Al dormiva con lui, sì. E gli si stringeva contro con movimenti e intenti sempre meno fraterni, notte dopo notte. Diceva di sentire freddo. Diceva che nii-san era l’unico in grado di scaldarlo.
E lui si sentiva in imbarazzo tremendo.
Non avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto piuttosto essere tranquillo, sicuro di sé e dell’innocenza del loro rapporto. Così Al prima o poi si sarebbe calmato e sarebbe tornato tutto a posto.
E invece non aveva fatto altro che mandargli segnali contrastanti, con tutti quei rossori, quegli abbracci impacciati e quelle inaspettate… reazioni corporee.
Un po’ lo aiutava il fatto che quella situazione non fosse ufficiale, che non ne avessero mai parlato, che rimanesse circoscritta al suo letto. Se non altro, così poteva prendere solo il meglio di quell’inconveniente, sfiorando lentamente la pelle di suo fratello addormentato di notte e facendo finta di nulla il giorno.
E Al sapeva. Al capiva tutto. E nessuno dei sorrisi che gli rivolgeva era privo di malizia.
Al…
Al era estremamente piccolo, per quanto fosse già più alto di lui, ed estremamente infantile, estremamente immaturo, estremamente spaventato. Era anche pericolosamente affezionato. E dipendente. E lui, nei suoi confronti, era assurdamente arrendevole. Bastava una sua occhiata triste, un sopracciglio inarcato verso il basso, un tremito delle labbra, ed Ed era ai suoi piedi, pronto a fare di tutto perché quei sintomi di sofferenza svanissero.
Ma nulla di ciò che faceva sembrava essere abbastanza dolce, o sensuale, o innamorato per consolare Al, quando alla notte gli si strusciava addosso.
Al era triste. Al voleva di più.
E sì, in quel letto, nascosti dalle coperte e dal manto scuro della notte, avevano attraversato spesso il confine, ma mai, mai Al era stato pienamente accontentato. A quel tipo di richiesta Ed non aveva mai ceduto. Poteva andarne fiero, per quello che valeva.
E Al continuava a essere triste. Continuava a desiderare.
Parlava poco, mangiava meno e non dormiva affatto. Dimagriva. Si sciupava. Non voleva vedere nessuno. Solo il suo nii-san. E il suo nii-san non lo abbandonava mai.
Per tre mesi non uscirono mai di casa. Winry portava loro da mangiare, prendeva i panni sporchi e li riportava puliti, si preoccupava da morire e riceveva in cambio solo ringraziamenti vaghi e distratti e sguardi schivi. Mai una parola gentile. E soffriva. Ma lui non poteva accorgersene, impegnato com’era nel cercare di fare stare meglio Al senza per questo dovere arrendersi alle sue mute richieste.
Chiudersi in casa e non vedere nessun altro non era stato difficile. Per loro due era stata una reazione naturale alla scomparsa della mamma. Perdere lei era stato come perdere un braccio o una gamba. E quando perdi un pezzo del tuo corpo, e senti quanto fa male sentirselo strappare via di dosso, stai bene attento a fare di tutto per non perderne altri. Chiudere la porta era come chiudersi in un guscio minuscolo, all’interno del quale non avrebbero mai potuto perdersi.
Ed era durata. Per tutto il tempo in cui gli occhi di Al avevano continuato a implorare in silenzio, e quelli di Ed, con lo stesso identico silenzio, avevano continuato a negare, era durata.
E poi la richiesta di Al aveva smesso di essere silenziosa, e lì l’aveva capito anche Ed che non c’era più alcuna possibilità che di loro due potesse salvarsi qualcosa.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^


OTTO ANNI PRIMA.

- Nii-san…
Suo fratello tirò la coperta, avvicinandosi al letto, chiedendo il permesso per entrare. Ormai abituato a quel rituale notturno, e ancora assonnato, Ed si limitò a grugnire un assenso e scostare le lenzuola, aspettando che lui si sistemasse al suo fianco.
Quando sentì il suo odore farsi più vicino, il sonno gli svanì completamente dagli occhi.
Al si strinse a lui, costringendolo ad abbracciarlo. Bè, non che lui protestasse, comunque.
- Nii-san, ho freddo…
Sospirò, abbracciandolo più stretto e sistemandogli le coperte sulle spalle.
- Va meglio? – chiese, più dolcemente possibile, perdendosi nel profumo dei suoi capelli.
- Mh… - mormorò lui, chiudendo gli occhi.
Quel momento di pace durò solo pochi secondi. Al riprese subito ad agitarsi e sospirare, inquieto.
- Al, che cavolo hai?
- Nii-san, - disse lui con voce rotta, - vieni più vicino!
Ed sospirò ancora, e si avvicinò a lui fino a fare combaciare perfettamente ogni centimetro dei loro corpi. Al lo abbracciò stretto in vita.
E fu in quel momento che la sentì. La sua inequivocabile erezione.
Il corpo di Al stava gridando, anche se lui rimaneva in silenzio.
Si spaventò. Cercò di divincolarsi, ma lui glielo impedì.
- Nii-san, non te ne andare! – gridò all’improvviso, afferrandolo per la maglietta; lui si spaventò ancora di più, ma cazzo, non poteva allontanarsi e lasciarlo in quel modo.
- No. Non vado. – lo rassicurò, forzandosi a tornare ad abbracciarlo.
Al sospirò e si accomodò nuovamente fra le sue braccia, nascondendo il viso sulla sua spalla.
- Nii-san… - bisbigliò poco dopo, labbra contro pelle, - ti prego…
E non disse altro. Ma quella preghiera soffiata fuori a fatica, con le labbra umide e gli occhi chiusi, quella preghiera caldissima sulla sua pelle bollente umida di sudore, quella preghiera desiderata, repressa e infine espressa, mandata in avanscoperta alla ricerca di un briciolo di soddisfazione, quella preghiera innamorata diceva tutto, e non aveva bisogno di sottotitoli, così come il corpo di Ed non aveva bisogno del permesso del suo padrone per reagire di conseguenza.
Riprendendo possesso di sé, lo spinse lontano repentinamente, prima che potesse sentire la sua eccitazione attraverso il cotone sottile dei boxer e, siccome Al non sembrava intenzionato a mollare la presa sulla sua maglietta, gli diede un calcio e lo buttò giù dal letto. Ascoltò il tonfo del suo corpo contro il pavimento, e il suo breve lamento di stupore e dolore, e poi si sedette, reggendosi sulle braccia e guardandolo dall’alto, gelido.
- Vattene.
Al lo fissò, gli occhi pieni di lacrime, scosso da singhiozzi profondi e dolorosi, anche se non si capiva a chi facessero più male.
- Nii-san…
- Va’ in camera tua, Al.
Dopo un attimo di smarrimento, abbassò lo sguardo, si alzò in piedi e obbedì all’ordine, uscendo dalla stanza, tirando su col naso come un bambino piccolo.
Guardandolo allontanarsi così, di schiena, curvo e raggomitolato su sé stesso, gli sembrò minuscolo, ed ebbe voglia di corrergli dietro.
Si distese e si seppellì sotto le coperte.
Pessima idea.
Il profumo di Al, attaccato al tessuto, lo investì in pieno, al punto che se ne sentì stordito. Il suo calore impregnava le fibre, lo circondava, lo stringeva. Come un abbraccio. Tutto intorno. Di più. La stretta di un amante.
Spalancò gli occhi. D’improvviso, non gli importava più niente di niente. Fino a quando stavano in casa, solo lui e Al, non dovevano dare spiegazioni a nessuno, non dovevano scusarsi di niente, potevano fare quello che volevano. E lui poteva anche concedergliela, al suo fratellino, quella dannata soddisfazione. Poteva anche concedersela.
Si alzò talmente in fretta che rimase impigliato fra le lenzuola, e quando riuscì a liberare la parte superiore del corpo e provò a scendere dal letto un piede rimase in trappola fra le coperte, e se non si spaccò la faccia per terra fu solo perché ebbe la prontezza di riflessi di mettere le mani avanti e atterrare sui palmi – facendosi comunque un male cane. Si tirò su, senza darsi neanche il tempo di riprendersi dal dolore, e corse verso la camera di suo fratello.
Davanti alla quale si congelò.
Oltre la porta, Al piangeva. Soffocava i gemiti nel cuscino, ma i bastardi sfuggivano al controllo, e lo raggiungevano, raggiungevano Ed al di là del legno, al di là del muro, al di là del suo assoluto desiderio di non sentirli, e…
…ad Al sarebbe davvero bastata quella piccola soddisfazione, per smettere di piangere? Gli sarebbe bastato che lui cedesse e gli consentisse dieci o quindici minuti di fuga dall’angoscia? E poi? E lui? Cosa avrebbero significato, dopo, per lui, quei quindici minuti?
Indietreggiò. Un passo alla volta. Fissando con l’immaginazione il corpo di suo fratello aggrovigliato su sé stesso, al di là del muro, affondato del materasso.
I lamenti di Al lo accompagnarono in camera, a letto, negli incubi.
*

Il giorno dopo, suo fratello era sparito. A nulla era valso cercarlo per tutto il paese, per giorni interi, pensando al peggio e pregando di sbagliarsi; a nulla era valso l’aiuto di Winry e di zia Pinako, e soprattutto a nulla era valsa la sua disperazione, e le sue urla imploranti, Al, torna a casa, che scuotevano l’aria giorno e notte, senza sosta.
Al era andato via, portando con sé tutte le sue cose. A casa non era rimasto neanche un oggetto che conservasse il suo profumo.
Allora, allora sì Ed poteva andare via.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^


OGGI.

Non aveva sposato Winry per noia, o per solitudine, o per ripicca nei confronti di Al, che l’aveva abbandonato e col quale, prima che fra loro scoppiasse quell’incendio mai veramente divampato e per questo mai estinto, litigava per decidere chi avrebbe avuto la sua mano alla fine. No. L’aveva sposata perché Winry era un ricordo vivente nel presente, era un monumento di carne e sangue alla memoria della parte bella della sua infanzia.
E perché Winry lo amava e sapeva amarlo bene, sempre discreta, sempre premurosa. Senza sapere niente, intuiva quando lui aveva bisogno di sentire la sua presenza e quando invece preferiva ignorarla. E di notte, di notte Winry era chiunque. Se voleva stringere la sua amante, lei era lì, pronta a concedersi; se voleva illudersi di poter abbracciare ancora sua madre, anche in quel caso lei era lì, e ricopriva il ruolo alla perfezione.
E se poi voleva concedersi una deviazione, se voleva provare a dipanare la matassa della situazione irrisolta nella sua testa, sì, senza troppi giri di parole, se voleva ricordarsi com’era abbracciare Al, se voleva provare come sarebbe stato farlo sul serio, Winry obbediva, si voltava e non fiatava, lasciandogli immaginare i gemiti e gli ansiti di suo fratello fino a farsene rimbombare il cervello.
Winry era preziosa. Era la preziosissima ancora che gli impediva di fluttuare via nella melma dei suoi desideri.

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CINQUE ANNI PRIMA.

Ingoiò l’ultimo boccone di carne e versò un po’ di vino rosso nel bicchiere, prendendosi un attimo di pausa prima di bere, consapevole del fatto che quando avesse finito di mangiare avrebbe dovuto aiutare Winry a sparecchiare – cosa della quale non aveva affatto voglia, era sempre stato pigro nei lavori domestici.
Suonarono alla porta e, seppure un po’ stupita, Winry andò ad aprire sorridendo, come sempre quando riceveva visite.
Molti secondi di silenzio. Poi una voce disse “Speravo che abitaste ancora qui”, e tutti i neuroni di Ed esplosero contemporaneamente, assieme al suo cuore.
Si precipitò all’ingresso.
Al.
Non lo vedeva da tre anni.
Era magrissimo, e molto sciupato, soprattutto in viso. Sembrava debole.
- Nii-san…? – bisbigliò, ancora sulla soglia, - Vivi qui anche tu? – chiese, stupito, prima di poter realizzare. Poi capì. Abbassò lo sguardo e sorrise – un sorriso lontano, un sorriso tristissimo.
Lo aveva chiamato nii-san. Lo chiamava ancora così.
- Certo. Che domande faccio? – domandò, più a sé stesso che a loro.
Winry si riprese dallo stupore e lo attirò a sé, abbracciandolo.
- Al! Stai bene? Oddio, come sei magro!
Fra le braccia di Winry, suo fratello lo guardava, quel sorriso ancora addosso. Lui era troppo contento e agitato per pensare.
Quando Winry sciolse l’abbraccio, Al gli si parò di fronte, imbarazzato e incerto sul da farsi. Ed capì chiaramente che l’unica cosa che avevano bisogno di fare davvero, in quel momento, era annullare le distanze. Per i saluti, per i pianti, per le scuse ci sarebbe stato un altro momento. Allora erano i loro corpi a governare. Perciò spalancò le braccia e non fu stupito di vedere suo fratello gettarglisi addosso e scoppiare a piangere, cercando di affondare nel suo petto.
Lo strinse.
Era scheletrico. E caldissimo.
La sua mente lo riportò al calore degli abbracci di tre anni prima, e il suo cervello registrò l’odore di Al, confermandogli che, nonostante gli anni di lontananza, era rimasto lo stesso. Non era un semplice profumo, era la sua essenza che odorava così. Qualsiasi cosa potesse succedergli, per quanto lontano potesse andare, e per quanto a lungo potesse stare via, non sarebbe mai cambiata.
Avevano milioni di cose da dirsi.
- Al, sei stanco? Vuoi riposarti? – chiese premurosa Winry, posandogli una mano sulla spalla.
- No, grazie… ho dormito in treno. – rispose lui, sorridendo lievemente.
- Come preferisci. – disse lei, dandogli un bacio sulla guancia, - Allora vi lascio, avrete molto da dirvi.
Ed la ringraziò con lo sguardo, stupendosi una volta di più della sua quasi fastidiosa perspicacia – quella che gli faceva sempre pensare che forse, di lui, Winry sapesse molto più di quanto non avrebbe voluto – e condusse suo fratello nello studio.
- Accomodati… - gli disse, indicandogli una poltrona. Lui annuì.
Lo guardò sedersi e chiuse la porta a chiave pensando chiaramente “non si sa mai”. Quel pensiero gli diede i brividi, e si pentì del suo gesto appena gli si fu seduto di fronte, ma non tornò sui suoi passi.
Avrebbe voluto chiedergli immediatamente perché era andato via. Lui, però, fu più veloce a parlare.
- Alla fine l’hai vinta tu. – disse, allegro, sorridendo, - L’hai sposata.
Gli ci volle qualche secondo per capire che si riferiva a Winry.
- Ah… sì… - mormorò, impacciato, - Sì, in effetti… sono cambiate un po’ di cose, da quando… te ne sei andato.
Al annuì.
- E avete figli?
- No! Voglio dire… pensiamo sia ancora troppo presto.
Bugia. Non ne avevano mai parlato.
- Capisco…
Rimasero in silenzio per qualche secondo.
- E tu? – chiese Ed, poco dopo, - Che fai? Come ti va?
Lo sguardo di Al si fece grave e addolorato, malgrado sul suo viso permanesse quell’ombra di sorriso fisso che lo accompagnava sempre, in ogni momento, come un’abitudine.
- Non benissimo… - bisbigliò, stringendosi nelle spalle.
- Come? Che succede? – si allarmò lui sedendosi in punta alla poltrona, pronto ad alzarsi in caso fosse servito un suo intervento immediato – anche se non poteva immaginare per cosa.
- Ho… qualche problema di soldi…
Ed tirò un sospiro di sollievo.
- Oddio, mi hai fatto spaventare… non è un problema, dai, queste cose in qualche modo si risolvono…
- Nii-san…
- Dimmi tutto.
Al lo guardò fisso negli occhi, a lungo. Poi sospirò.
- Non sarei mai dovuto venire qui.
- Semmai, - disse Ed, corrugando le sopracciglia, - non saresti mai dovuto andare via.
- Sì, lo so. Ma dal momento che me ne sono andato, non sarei dovuto tornare.
Ed strinse le labbra. Era quello il momento per chiedergli tutte le spiegazioni che gli doveva. Avrebbe dovuto insistere per ottenerle.
Però lui non voleva davvero sapere.
Se ne rese conto guardando Al, contrito, che si faceva minuscolo su quella poltrona grandissima, così magro, così distante e quasi trasparente.
Ridotto così. Ridotto male.
Non voleva sapere da cosa. Era già abbastanza doloroso vedere che lo fosse.
- Nii-san, so che non ho alcun diritto di chiedertelo, ma se tu potessi prestarmi qualcosa…
- Ti ho già detto che non c’è problema, per questo.
Al annuì e si prese il suo tempo per pensare, stropicciando fra le dita l’orlo del vecchio maglione che indossava.
- Nii-san… anche per me sono cambiate molte cose, sai…?
Cercò di sorridere.
- Be’, tre anni sono lunghi, è normale…
- Quando me ne sono andato, - disse, osservandolo di sottecchi e fingendo di non farlo, - mi sono trovato nei guai. E purtroppo quando non hai un soldi e non sai dove andare non puoi fare tanto lo schizzinoso quando si parla di lavoro. Mi capisci, vero?
Annuì.
- E quindi quando mi hanno proposto di lavorare non ho potuto rifiutare, soprattutto perché assieme al lavoro mi hanno offerto anche un posto dove dormire. Mi capisci?
- Sì, sì, Al, ti capisco! Si può sapere che lavoro fai, alla fine?
- Vado… con gli uomini, nii-san. – disse in un sussurro.
- …cosa? – chiese Ed, incredulo, spalancando gli occhi.
- Vado con gli uomini, nii-san. – ripeté Al, più deciso, fissando il pavimento.
- …stai scherzando, Al?
Il ragazzo si limitò a scuotere il capo.
- Stai scherzando, Al?! – urlò lui, scattando in piedi.
- No! – gridò Al, seguendolo nel movimento, - Non scherzo! Mi prostituisco, hai capito?!
Cosa dire ancora?
Sconvolto, gli voltò le spalle e si diresse verso la porta.
- Nii-san… - provò a chiamarlo debolmente Al, ma Ed non lo sentì, o non lo volle sentire, girò la chiave nella toppa e uscì.
*

La tensione, a cena, era talmente densa che Winry pensò che se avesse tirato un coltello da un lato all’altro della stanza l’avrebbe vista squarciarsi. E forse sarebbe stato un bene. Forse, se avesse veramente tirato un coltello, sarebbe riuscita a scuotere l’assurdo silenzio che regnava indisturbato a quella tavola.
- Allora… come è andato il viaggio, Al? – chiese, cercando di fare un po’ di conversazione.
- Bene… - rispose lui, sbrigativamente, con un mezzo sorriso.
Il suo non era un obiettivo facile da raggiungere. Voleva parlare, sì, ma doveva stare attenta a evitare tutti gli argomenti scottanti – perché fosse andato via, perché fosse tornato proprio ora, perché Ed fosse così arrabbiato.
Il problema era che, tolti quelli, c’era ben poco di cui parlare.
Oh, insomma. Al diavolo.
- Ed. – disse, irritata, posando la forchetta sul tavolo poco delicatamente, - Non capisco perché fai così! Da quando ti sei seduto a tavola non hai spiccicato neanche una parola!
Ed non rispose. La cosa la fece infuriare.
- Non posso crederci! Quanto hai sperato che Al tornasse? E ora che finalmente è qui ti comporti così! Non me lo aspettavo, da te!
Ed scattò in piedi, tirando le posate per terra, facendo un fracasso infernale.
- Le cose non vanno sempre come ti aspetti, Winry! Io, per esempio, di certo non mi aspettavo che mio fratello piombasse in casa mia dopo tre anni e per prima cosa mi dicesse che gli servono soldi perché, evidentemente, prostituirsi non rende abbastanza!
Al e Winry si pietrificarono sulle loro sedie.
- Che hai detto...? – mormorò lei, sconvolta, fissando prima suo marito e poi Al, in cerca di una spiegazione, o meglio, di una smentita.
Ed sorrise sarcastico, incrociando le braccia sul petto.
- Più o meno è la stessa reazione che ho avuto io. La differenza è che con me il signorino si è perfino permesso di ripeterlo ad alta voce, guardandomi negli occhi, come se fosse una cosa di cui vantarsi!
La donna rimase immobile, le labbra dischiuse, alla disperata ricerca di qualcosa da dire per salvare la situazione.
Non trovò nulla.
Al si alzò lentamente in piedi, posando educatamente le posate sul piatto.
- Scusatemi. – bisbigliò, uscendo dal soggiorno.
Quando fu scomparso oltre la porta, Ed si lasciò ricadere sulla sedia, poggiando i gomiti sul tavolo e la testa fra le mani.
- E’… vero…? – chiese Winry, incerta, fissando un punto bianco e vuoto sulla tovaglia.
- Cosa vuoi che ne sappia… - sputò fuori lui, con rabbia, - E’ quello che mi ha detto.
- Potrebbe essere… una bugia, forse?
- Winry, che ragioni potrebbe avere per dire una bugia che ci fa incazzare?! Uno quando dice una bugia la dice per ottenere l’effetto contrario, o no?!
- Scusa, scusa, io non…
- Basta. Non ne voglio parlare.
Lei annuì e si alzò in piedi, per cominciare a sparecchiare. Tolse i piatti, buttò gli avanzi. Tornò da suo marito.
- Dovresti parlargli.
- Per dirgli che?
- Non lo so, Ed… - disse dolcemente, mettendogli una mano sulla spalla, - Qualcosa. Avanti, sai anche tu di doverlo fare.
Lui annuì, rimanendo silenzioso.
- Magari prova a convincerlo a rimanere.
Dio sapeva se avrebbe voluto riuscirci.
*

Fissò la porta con ostilità, come se fosse lei il suo nemico e non la paura che aveva di rivederlo dopo la scenata a tavola.
Era tardi. Molto. Saranno state le tre del mattino. Di sicuro Al dormiva profondamente, protetto dall’odore di bucato fresco delle lenzuola del suo letto degli ospiti, con un suo pigiama addosso, profumato del suo bagnoschiuma dopo aver fatto la doccia nel suo bagno.
Non gli sembrava abbastanza per poter dire che Al era tornato a casa. Neanche se stava lì, a due metri da lui. Al era altrove.
Bussò lievemente, sperando che nessuno rispondesse. E infatti nessuno rispose.
Fu tentato di fare dietro-front e tornarsene a dormire accanto alla rassicurante presenza addormentata di Winry, ma rimase immobile.
Insomma, era il fratello maggiore, infondo. Doveva pur fare qualcosa per quel disastrato di suo fratello minore.
Magari fosse stato semplice come sembrava.
Dischiuse la porta e fece capolino nella stanza, cercando di capire se Al stesse dormendo davvero o facesse solo finta.
Al giaceva disteso, gli occhi spalancati, il respiro regolare. Supino, fissava il soffitto, con le braccia incrociate dietro la nuca. Non mosse un muscolo quando lo sentì entrare.
- Al… - lo chiamò a bassa voce, avvicinandosi al letto.
- Non avresti dovuto dirlo a Winry.
Sospirò.
- E’ vero. Scusa. Ma ero arrabbiato…
- Anche io lo sono, adesso.
Si fermò, a due passi dal letto.
- Vuoi che vada via?
Al prese un respiro profondissimo e poi si mise seduto.
- No. – rispose, sorridendo tristemente, - E non mi risulta di avere mai voluto. – aggiunse, nostalgico.
Ed si sedette al suo fianco, accomodandosi fra le lenzuola.
- Nemmeno io ho mai voluto che andassi via. Tu, però, l’hai fatto lo stesso.
Al scrollò le spalle, come a dire “è passato, ormai, non ci possiamo fare niente”.
- Senti, nii-san, è da quando sono arrivato che me lo chiedo… ma zia Pinako…?
- Sì. – disse Ed, sbrigativamente, sospirando.
- Capisco… - sussurrò Al, - E…?
- Vecchiaia. È stato naturale, penso. Non ha sofferto. Almeno, così ha detto il medico.
Al annuì.
- E senti, nii-san, ma casa nostra…?
- Ah! – disse Ed, a disagio, - Dopo… dopo che sei andato via c’è stato un piccolo incidente, e…
Lui lo fissò sconvolto.
- …che tipo di incidente…?
- Ecco… è scoppiato un piccolo incendio…
Suo fratello lo scrutò, pensieroso. Poi sembrò realizzare.
- … l’hai bruciata…?
- Come?! Cosa ti viene in mente?! – protestò, agitato.
- …l’hai bruciata davvero!
Per qualche secondo, sul suo viso permase quell’espressione di smarrito sconcerto. Poi, si tramutò in una risata leggera. Che una mano pressata sulle labbra non riuscì a sopire.
- Non posso crederci! – singhiozzò, fra una risata e l’altra, piegandosi su sé stesso.
- Non l’ho bruciata, Al! Te l’ho detto, è stato un incidente!
- Sì, sì, certo… - sospirò l’altro, asciugandosi le lacrime dagli occhi, - Nii-san, non l’avresti mai lasciata, quella casa, se non fosse stata distrutta.
Ed si strinse nelle spalle.
- Avrei anche potuto farla abbattere. – obiettò, guardando altrove.
- Oh, non sarebbe stato abbastanza melodrammatico per te! – disse Al, ricominciando a ridere.
- Primo, non sono una persona melodrammatica! Secondo, smettila di ridere, lo sai che ore sono?!
Al si ricompose, tossicchiando lievemente e scuotendo la testa.
- Be’, sono le tre passate.
- Nii-san, dovresti dormire, adesso…
- Anche tu!
Al sorrise.
- Non ho molto sonno.
- Allora neanche io.
- Che significa?!
- Volevo parlarti, Al.
Suo fratello rimase in silenzio, appoggiandosi al muro.
- Al, perché non rimani…?
Scoppiò a ridere.
- Sono contento che lo trovi divertente. – si lagnò lui con una smorfia.
- Non lo trovo affatto divertente, nii-san. – disse Al, tornando serio, - Non posso rimanere.
- Perché?! – quasi gridò lui, avvicinandoglisi.
Al lo fissò, sinceramente stupito.
- Come, perché? Per lo stesso motivo per cui sono partito.
- Perché, ce n’è uno?
- ...ovvio che c’è, nii-san…
- Ovvio il cazzo, Al, ho passato gli ultimi tre anni a chiedermi quale fosse!
Suo fratello lo scrutò, incredulo. Gli si avvicinò. Gli sfiorò una guancia con due dita. Lo costrinse a guardarlo negli occhi.
- …davvero non ricordi…?
- …cosa dovrei ricordare…?
Cosa avrebbe dovuto ricordare?
Non certo il viso di Al così vicino, l’approssimarsi della sua bocca, quel tocco lieve, poi un po’ più deciso, la sua lingua bagnata a infiltrarsi fra le sue labbra, la sua mano lenta scivolargli sotto la maglietta e lasciarsi dietro una scia bollente al passaggio sulla sua pelle, non…
Si scansò, terrorizzato.
- Al, cosa… che stai facendo…?
Al sospirò e si rimise seduto.
- Hai dimenticato sul serio…
- No, non… non ho dimenticato questo… speravo solo che ti fosse passata… - mormorò confusamente, accorgendosi di stare tremando.
- Passata? – disse Al, sarcastico. Poi scosse il capo, - Ecco, diciamo che è per questo che non posso restare.

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OGGI.

Gli aveva messo i soldi in mano, il suo vecchio cappotto rosso sulle spalle e l’aveva lasciato andare via. Perché era quello che Al voleva. E perché era quello che lui stesso voleva, dal momento che l’aveva trovato spaventoso al punto di preferire continuare a preoccuparsi per lui senza vederlo, piuttosto che averlo così vicino e pericoloso, in casa sua, a pochi passi da lui.
Winry non aveva approvato. Lei avrebbe preferito averlo sempre sott’occhio. Gli aveva anche spiegato perché. “Ma non l’hai visto, Ed?”, gli aveva detto, dopo averlo osservato salutare suo fratello sulla soglia di casa, “Al è un bambino. Aveva lo sguardo di un bambino spaventato. Non importa se ha diciannove anni e si prostituisce, sembra non sia cresciuto mai. Come fai a non capirlo?”.
Eh, come faceva. Come faceva lei a non capire che per lui era difficile? Che faticava? Non riusciva neanche a immaginarselo, in quel tipo di situazioni. Al fra le braccia di qualcuno che non era lui? Al a letto con qualcuno che non era lui? A lasciarsi stringere, e toccare, e sfiorare? Le braccia di un altro, le dita di un altro, qualcuno che lo scopriva, lo assaggiava, se lo mangiava tutto, e quel qualcuno non era lui?
No, non poteva capirlo. Non poteva capire perché avesse lasciato la sicurezza della loro casa, non poteva capire perché avesse lasciato lui, per gettarsi a capofitto in una vita insicura e pericolosa, e non poteva capire perché non fosse tornato immediatamente quando le cose avevano cominciato a mettersi male.
Però poteva capire che, per come stavano le cose allora, una convivenza era improponibile.
Perciò l’aveva lasciato andare. Sperando che all’ultimo momento lui cambiasse idea e decidesse di restare, contraddicendolo, imponendogli la sua presenza, dimostrandogli che la convivenza era giusta, no, necessaria.
Ma niente.
All’inizio, aveva sperato che tornasse presto, nel giro di un mese o due. Quando fu passato un anno, sperò che tornasse almeno una volta ogni tre, ciclicamente, come certe perturbazioni atmosferiche. Ma poi i tre anni passarono, un migliaio di giorni, uno dopo l’altro, infiniti e spossanti. E lui aveva cominciato ad arrendersi.
Cinque anni sono milleottocentoventicinque giorni. Ed ne sentiva la pesantezza come se non avesse fatto altro che contarli. Eppure non era così. Eppure era stato felice, con Winry. Niente figli per consolarlo, vero, ma felice lo stesso.
Ma avrebbe dovuto capirlo prima; così come aveva capito che per lui e Al non c’era speranza di essere felici insieme – sì, “felici insieme”, neanche fossero in un dannato Harmony – allo stesso modo avrebbe dovuto capire che non c’era speranza di sopravvivere separati.
Ogni giorno, a causa della normale tendenza a decomporsi del corpo umano, perdeva cellule, capelli, giorni di vita. E a cause dell’assenza di Al perdeva pezzi d’anima, pezzi di sé stesso. Pezzi del bambino e del ragazzo che era stato, pezzi dell’uomo che era o che avrebbe potuto essere.
Non faceva che pregare per il suo ritorno.
*

Odiava stare solo a casa, principalmente perché ricordava bene che, nonostante la tristezza ovattasse i suoni, quando viveva con Al c’era sempre uno scalpiccio di piedi per terra, o il rumore di un lamento, o dell’acqua che scorreva, insomma, un suono qualsiasi che riempisse l’aria, facendolo sentire meno abbandonato anche quando non si vedevano o non parlavano. Invece, nel silenzio della casa vuota che abitava quando Winry era fuori per una commissione o per fare la spesa, i suoi passi rimbombavano, ed erano solo suoi. Ogni eco gli ricordava che non c’era nessuno a tenergli compagnia.
D’altronde, odiava anche di più andare al supermercato con Winry. Lei era sempre così… entusiasta. Cercava di coinvolgerlo nelle scelte, gli chiedeva cosa desiderasse per cena, se preferisse un determinato tipo di pasta rispetto a un altro. Non lo infastidiva sentirla parlare, lo infastidiva trovare poco interessante ciò che diceva e, per questo, rispondere freddamente. Intuiva che la cosa la faceva star male, e gli dispiaceva, ecco tutto.
Ma non riusciva, davvero, a provare interesse per nient’altro che non fosse chiedersi dove Al fosse, come si sentisse, cosa stesse facendo.
Quando stava seduto in poltrona, immobile e silenzioso, e i pensieri di Al gl’invadevano il cervello, almeno smetteva di sentirsi isolato.
Sospirò.
Be’, serviva a poco, infondo.
Bussarono alla porta. Ed gioì. Finalmente Winry era tornata a casa. Quasi non vedeva l’ora di aiutarla con la spesa e ascoltare le storie stupide dei litigi che frequentemente aveva con le vecchiette che la sorpassavano in fila.
Aprì la porta.
Si trovò davanti un gigante biondo, pallido e con gli occhi azzurri.
E non era Winry.
- …sì?
Il ragazzo sembrava confuso. Si guardò alle spalle.
- Al, vieni fuori, dai… - mormorò, rivolto a qualcuno nascosto dietro di lui.
Una risatina.
E poi Al venne fuori.
Sorrideva sereno, anche se era magrissimo e più sciupato che mai. Ancora avvolto nel suo cappotto rosso, ormai ridotto come una pezza vecchia, i capelli raccolti in una lunga coda dietro la testa, teneva le braccia incrociate dietro la schiena e lo guardava con occhi divertiti e lucenti, da bambino che gioca.
- Ciao, nii-san. – disse, facendo un passo in avanti e baciandolo su una guancia.
Basito, lui rimase immobile.
- Al… - mormorò, confuso, facendo vagare lo sguardo da suo fratello al suo misterioso accompagnatore.
Al rise.
- Stupito?
Quell’allegria era terribile. Non era come se fosse appena tornato da una vacanza! Non lo capiva?
- Possiamo entrare? – chiese suo fratello avanzando ancora.
Lui annuì, ancora perplesso, no, ancora sconvolto, ecco, sì, era sconvolto dall’averlo rivisto, e si scostò dalla porta per farli passare. Il ragazzo biondo, entrando, chiese permesso.
- Sei solo? – chiese invece Al, guardandosi intorno.
Lui annuì ancora.
Al sorrise. Un sorriso diverso dai precedenti. Gli saltò al collo.
- Nii-san! Non vedevo l’ora di rivederti!
Era ancora così frastornato che non ricambiò nemmeno l’abbraccio.
- Al, ma…
- Dopo, dopo. Hai qualcosa da mangiare? – gli chiese, scostandosi, - Heide, tu hai fame? – domandò, rivolgendosi all’altro.
- Scusa, Al, ma…
- Hai ragione, almeno le presentazioni devo farle. Heide, lui è mio fratello Edward. Nii-san, questo è Alphonse Heiderich.
Alphonse?
- E’ il mio ragazzo.
Ah.
*

Dal momento che la confusione regnava ancora sovrana nel suo cervello, lasciò che Winry conducesse le danze, obbligandola a uscire in fretta e furia dallo stato di shock in cui era entrata nel vedere un Al matematicamente ventiquattrenne e fisicamente diciottenne sdraiato sul divano fra le braccia di… un altro Al, apparentemente, più alto, più biondo, non proprio uguale, ma somigliante più di suo fratello, che rideva e scherzava come fosse di casa, come fosse un’abitudine.
- Ok. – disse la donna, osservando suo marito abbandonato sulla poltrona e i due ragazzi ancora aggrovigliati sul divano, - Scioglietevi.
Al la guardò per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere e ubbidire.
- Tu sei…?
- Alphonse…
- Anche tu?!
Al sembrava trovare il tutto molto più che divertente.
- Alphonse Heiderich… chiedo scusa…
- Non scusarti del tuo nome, santo cielo… - sospirò Winry, mettendo una mano sul fianco, - Edward, si può sapere cosa diavolo sta succedendo qui?
Lui alzò le braccia al cielo, sconfitto.
- Non chiedermelo. Ci hanno invaso.
Winry annuì.
- Ok. – ripeté, sedendosi a sua volta, - Cominciamo dall’inizio. Al, chi è questo ragazzo?
- E’ il suo ragazzo. – mormorò Ed col tono di chi dice un’ovvietà ma non riesce a capacitarsene.
- Il tuo ragazzo?
Al annuì, sempre sorridendo.
- Ah. Capisco. E… come… dico, come vi siete conosciuti?
- E’ un collega. – rispose il ragazzo con naturalezza.
- Al! – si lamentò Heiderich, - Avevi detto che potevamo parlarne solo con tuo fratello!
- Ma lei sa tutto… - disse Al, scrollando le spalle, - E’ stato mio fratello a dirglielo. L’ultima volta che sono stato qui.
- Va bene, va bene. – si intromise Winry, agitando una mano, - Non perdiamo il filo del discorso. Al cos’è successo?
- Una bella cosa.
Sia Winry che Ed trovarono molto più intelligente tacere e aspettare che fosse lui ad aggiungere qualcosa, piuttosto che domandare ancora, dal momento che Al, con quel sorriso bambino in volto, sembrava divertirsi parecchio a creare suspense intorno alle sue rivelazioni.
- Ho deciso di lasciare il… lavoro di cui vi ho parlato quando sono venuto qui la prima volta. E ho convinto Heide a venire qui con me. – concluse infine il ragazzo, sorridendo trionfante.
Be’, era davvero una bella notizia, infondo.
A parte l’implicazione Heide.
Sapeva quanto stupido fosse, ma non poteva fare a meno di essere geloso. Ancora più di quanto non fosse stato immaginandolo fra braccia sconosciute. Adesso che sapeva a chi erano davvero appartenute quelle braccia, adesso che vedeva in faccia la persona a cui probabilmente suo fratello pensava mentre cercava di non sentire i movimenti e le parole degli sconosciuti che se lo portavano a letto, adesso che sapeva che, mentre lui era rimasto impantanato nella cosa che provava per lui, suo fratello era andato avanti, s’era innamorato e tutto, adesso stava male. E il male dei cinque anni precedenti era semplicemente niente, a confronto.
Winry annuiva, l’espressione del volto combattuta fra l’essere semplicemente felice o ancora un po’ dubbiosa e stupita.
- Ok, quindi immagino vi servirà un posto dove stare, no…?
- Logicamente.
- Mh. Sì, penso… Ed, dì qualcosa, santo cielo!
- Uh? Ah, sì… cioè, c’è la stanza degli ospiti, quella dove hai dormito l’ultima volta… insomma, il letto è singolo, ma – avrebbe voluto prendersi a testate da solo – immagino non avrete problemi.
Al sorrise. Ed trovò quel sorriso crudele. Si alzò in piedi.
- Bene. Se è tutto qui… penso che andrò di là…
Alphonse lo seguì nel movimento, lasciando repentinamente la mano di Heiderich – che fino a quel momento aveva stretto con fastidiosa tenerezza.
- Aspetta, nii-san! Vengo con te!
- N-Non c’è bisogno… - disse lui, stringendosi nelle spalle, - Non sto uscendo, vado nello studio…
- No, davvero, vorrei…
- Al, sono un uomo adulto, sai? Posso anche arrivarci da solo!
Non lo voleva intorno, non voleva, non voleva e non voleva, ecco.
- Nii-san… volevo parlarti…
Oddio.
Perché non poteva semplicemente dirgli “sì, Al, certo che puoi venire con me”?
Scosse le spalle e si allontanò verso lo studio, sforzandosi di non guardare indietro per vedere se suo fratello lo stesse seguendo. Grazie a Dio, lui lo stava seguendo comunque.
*

Al, seduto sul bracciolo della poltrona di fronte alla scrivania, faceva dondolare le gambe, sorridendo come davanti a un regalo di Natale. Lui, pur di non guardare quell’espressione assurda, s’era seppellito fra le pagine del giornale del giorno prima, sperando che suo fratello non si accorgesse che era solo una scusa.
Ma evidentemente Al non aveva bisogno di accorgersene, per sentirsi autorizzato a interromperlo.
- Nii-san, ti sono mancato?
Mancato?
La risposta esatta sarebbe stata gettarsi ai suoi piedi, piangendo disperatamente e gridandogli addosso, “Mancato? Mancato, Al? Credi di essermi mancato?”.
Sollevò appena lo sguardo dalle notizie sportive.
- Certo, Al.
Al annuì, digerendo l’informazione come se avesse appena sentito le previsioni meteorologiche.
- E Heide ti piace?
- Perché lo chiami per cognome? Si chiama Alphonse, no…?
Suo fratello rise.
- “Heide” non è il suo “cognome”. Il suo cognome è Heiderich. Heide è un soprannome.
- Sì, va be’, Al, se io ti chiamassi “El” sarebbe comunque un pezzo del tuo cognome, o no…?
- Scusa, - lo interruppe Al, ancora ridendo, - perché fai storie sul soprannome che ho affibbiato al mio ragazzo?
Già, perché faceva storie bla bla bla?
Santo cielo.
Scrollò le spalle e continuò a leggere cose di cui non gli importava un fico secco, quando l’unica cosa che gli sarebbe interessato vedere era a due metri da lui.
Edward Elric, tu sei un uomo senza palle.
- Non ti dà fastidio se rimaniamo qui per un po’, vero?
Gli avrebbe dato meno fastidio se, una buona volta, lui avesse deciso di rimanere per sempre. Heiderich o non Heiderich.
- Certo che no.
Al fece dondolare i piedi ancora un po’. Poi si alzò e gli andò vicino, strappandogli repentinamente il giornale dalle mani. Senza difese, Ed non poté che guardarlo e deglutire, sperando che tutto andasse per il meglio e che il suo corpo non cedesse a nessuno dei suggerimenti del suo cervello, che andavano dal prenderlo a sberle al saltargli addosso.
- Nii-san, tu mi sei mancato.
Ed annuì.
- Ma non mi sei mancato tipo “Certo, nii-san”. Mi sei mancato tipo “Ho avuto paura di non potere più riuscire a vivere senza di te, nii-san”.
Imbarazzato, distolse lo sguardo.
- Poi sono io quello melodrammatico…
Alphonse rise.
- Be’, lo sei. Ma questo non vuol dire che non possa esserlo anche io. Insomma, guardami! – disse, stringendosi nelle spalle, - Porto ancora questo cappotto nonostante faccia schifo e nonostante Heide mi abbia offerto circa duemila volte di prendere una delle sue giacche.
Sorrise. Dopotutto, c’era ancora qualcosa sulla quale poteva battere Heiderich.
…decise di smettere di pensare, quando si rese conto dell’idiozia che motivava la sua gioia.
Sospirò, guardando per terra, incapace di reggere lo sguardo gioioso di suo fratello per un secondo di più.
Al si chinò davanti a lui, guardandolo dal basso.
- Nii-san… - lo chiamò, sollevando un braccio e sfiorandogli una guancia, - Posso baciarti?
Cristo, fa’ quello che vuoi.
Scattò in piedi, terrorizzato dall’audacia di suo fratello e dall’arrendevolezza dei suoi pensieri.
- Che cazzo dici?!
Al ridacchiò, alzandosi a sua volta.
- Sapevo che avresti risposto così. – mormorò con tono quasi canzonatorio, voltandosi per uscire dallo studio.
- Al… - lo chiamò lui, agitato.
Suo fratello si voltò a guardarlo.
Smettidisorridere, smettidisorridere, smettismettismetti…
- Al, io…
Ti prego, dì qualcosa…
- Voglio dire…
Merda, merda, merda…
- Nii-san.
Sollevò lo sguardo. Alphonse lo guardava, serio, una punta di tristezza negli occhi. Gli si avvicinò, mentre lui sentiva le gambe paralizzate e incollate al terreno.
- Te lo chiederò di nuovo. E stavolta cerca di rispondermi quello che vuoi veramente. O non rispondere affatto.
Il mondo prese a girare troppo velocemente.
Alphonse gli chiese di nuovo se potesse baciarlo.
Lui non disse una parola.
*

Quando mai la notte gli era sembrata così lunga e pesante da sopportare?
Winry giaceva esausta al suo fianco, cercando di riportare il respiro a un ritmo normale. La sua pelle bianca splendeva d’azzurro nella luce della luna, lucida di sudore e ancora calda d’amore. Sorrideva soddisfatta, i capelli sparsi ovunque sul cuscino, le lenzuola perse da qualche parte ai piedi del letto.
Sì, Winry, era tanto che non lo facevamo così.
Così tanto che sicuramente a lei era dovuto sembrare come qualcosa di completamente nuovo. Più o meno quanto a lui sembrasse nuovo e inedito fare del sesso non per particolare voglia, non per dare corpo a una fantasia, ma solo per passare il tempo. Perché aveva sonno e non riusciva a dormire, e quella nottata in qualche modo doveva passare, doveva scivolare via, perché lui non potesse più sentirne gravare la massa ingombrante sulle spalle.
S’era lasciato baciare da suo fratello.
Aveva baciato Al.
Perché continuava a sembrargli così spaventoso ma non riusciva a trovarci niente di assurdo?
Si sollevò lentamente a sedere. Winry mugugnò qualcosa, ancora distesa, il volto già mezzo nascosto dai cuscini.
- Vado a bere. – disse lui, a bassa voce, - Tu dormi, non preoccuparti.
- Mh… - fece lei, sistemandosi meglio fra le lenzuola che aveva recuperato e affondando del tutto fra le braccia di Morfeo.
Quando uscì dalla sua stanza, con solo un paio di calzoncini addosso, si accorse con sgomento che non sapeva per quale diavolo di motivo si trovasse lì. Non aveva sete, non aveva neanche voglia di muoversi, era stanco e non voleva intrattenersi con niente, avrebbe solo voluto dormire. Perché, perché s’era alzato?
Si diresse lentamente verso lo studio, affacciandosi al balcone che, dalla stanza, dava sulla strada deserta.
Lì si stava bene.
- Ah… scusa… cercavo il bagno e invece sono finito qui, e quando ho visto il balcone aperto…
Si voltò.
Heiderich, maglietta e pantaloncini di Al – gli stavano stretti – lo guardava, con un sorriso di scuse aperto sul viso.
- Non volevo disturbarti.
Era infastidito dalla sua presenza, ma non poteva dire di provare odio nei suoi confronti.
Sorrise lievemente.
- Non mi disturbi.
La cosa sembrò incoraggiarlo. Heiderich si mise al suo fianco, appoggiando le mani sulla ringhiera, ma al contrario di lui, invece di guardare per strada, aveva subito alzato gli occhi al cielo, in cerca delle stelle.
Ok, doveva essere un animo romantico.
Era quello che aveva attratto tanto suo fratello?
- Sai, io e Al non stiamo insieme.
E se gli avesse lanciato una bomba dritta sulla testa l’avrebbe tramortito di meno.
- Voglio dire, è lui che mi ha detto di reggergli il gioco. Però senti, lui mi ha raccontato tanto… anche se non mi ha detto proprio tutto… e io ho capito perché mi ha detto di farlo.
…quanto diavolo sapeva quel ragazzo di loro due? Quanto diavolo gli aveva detto Al, di quanti segreti era stato custode, in tutti quegli anni? Quante confessioni, quante nostalgie, di quante e quali voglie Al l’aveva reso partecipe?
D’improvviso, Ed capì che se era così arrabbiato, se si sentiva così tradito, non era solo perché suo fratello era stato di qualcun altro invece che solo suo, ma soprattutto perché aveva permesso a un completo estraneo di frapporsi fra loro due, di sapere tutto, di guardarli e pensare “io so cosa c’è dietro”. Quando avrebbe dovuto essere un segreto. Quando avrebbe dovuto essere solo loro. Quando avrebbe dovuto essere l’unica cosa che li tenesse uniti per sempre, fino alla fine, nonostante gli anni e le distanze.
- Comunque tuo fratello non è un tipo facile con cui trattare.
- Già… - mugugnò, ancora frastornato dal flusso dei suoi pensieri.
- Anche se capisco perché sei così attaccato a lui. – mh? Perché, si nota? - È semplicemente impossibile non provare il desiderio di prendersene cura.
Io non voglio prendermene cura. Non ho mai desiderato cose che, direttamente o indirettamente, non finissero per fargli male.
Questo non è prendersi cura delle persone, ingenuo di un Heiderich. Se sai un terzo di quello che succede fra noi, dovresti capirlo.

- Lui dice che gli somiglio, ma in realtà siamo molto differenti l’uno dall’altro. Per esempio, - disse, con una lieve risata, - lui è alto, ma io lo sono molto di più!
Ed sollevò lo sguardo.
In realtà si somigliavano. Davvero. E davvero tanto.
Sì, c’erano quei piccoli particolari che avrebbero reso impossibile confonderli, ma il quadro generale era quasi spaventosamente somigliante.
Gli fece impressione che potesse esistere un essere umano così simile a suo fratello – senza essere lui.
Sospirò profondamente.
- Scusa. Ti infastidisco?
- Eh?
- Hai sbuffato…
- Ah… no, stavo pensando a cose mie…
- Mmmh, capisco…
Santo cielo, lo odiava.
- Adesso sarà meglio che torni a dormire. – disse, cercando di frenare l’astio e l’impazienza nella voce.
Heiderich sorrise.
- Io invece penso che rimarrò un altro poco qui.
- …non faresti meglio a tornare da Al?
Lui scosse decisamente il capo.
- Al di notte fa paura. Sembra un indemoniato. – si giustificò, arrossendo violentemente.
Come diavolo fa ad arrossire così, uno che fino a ieri si prostituiva?
Scrollò le spalle.
- Come vuoi. Buonanotte.
Heiderich sorrise, salutandolo con una mano mentre rientrava in casa e fuggiva al sicuro fra le coperte.
*

In realtà non sapeva proprio cosa pensare. Era successo tutto troppo in fretta. Il giorno prima si struggeva perché non vedeva suo fratello da cinque anni, il giorno dopo eccolo lì, a colazione, a malsopportare il chiacchiericcio confuso e assonnato del primo mattino fra piatti e posate che si agitavano e tintinnavano fra loro.
Tutti sembravano felici e contenti.
Al non aveva mai abbandonato il sorriso giocoso con cui l’aveva visto arrivare il giorno prima, Heiderich continuava a seminare in giro quei sorrisi imbarazzati e colmi di scuse che gli ricordavano tanto suo fratello quando era venuto a trovare lui e Winry per la prima volta.
Ma la più felice di tutti era Winry. Winry era pervasa dall’entusiasmo. Si affaccendava, discreta e leggera come una farfalla, fra frittelle, pane tostato e marmellate varie, sistemando tovaglioli, tazze colme di latte e vassoi di biscotti come fosse nata esclusivamente per servire la colazione.
Si vedeva che la presenza di Al la mandava su di giri. Si vedeva che saperlo felicemente legato a qualcuno la rassicurava. Si vedeva che, quando guardava quell’accozzaglia di casi umani impegnati a imburrare il pane, il miraggio della famiglia perfetta che aveva sempre desiderato prendeva corpo, riempiendola di forza e speranza.
Winry stonava fra loro. Era troppo positiva per non sembrare fuori posto.
Anche Heiderich stonava, a suo modo. Solo che lui aveva quel tipo di personalità multiforme e sfuggente che lo faceva sembrare perfettamente a suo agio in ogni situazione, perfino nelle più imbarazzanti, perfino quando il tuo migliore amico dal cervello un po’ fuso ti costringe a fuggire in piena notte dal tuo scomodo giaciglio, rischiando di essere acciuffato e condannato immediatamente se non a morte comunque a qualcosa di molto doloroso, per il solo fatto di aver provato a scappare.
Subito dopo colazione, Alphonse insistette per raccontare a Ed e Winry cosa gli fosse successo in quegli ultimi cinque anni.
Dopo essere ripartito, era tornato dal suo capo, il signor Archer, per riportargli i soldi che gli doveva; dopodichè, aveva ripreso a lavorare normalmente. Qualche giorno dopo, era arrivato Heiderich – occhiata tenera, Al, puoi smetterla, so tutto – ed erano subito diventati molto amici, soprattutto perché Al aveva trovato incredibilmente divertente la loro somiglianza.
Avevano preso a lavorare più che altro insieme, facevano buoni guadagni, il signor Archer era addirittura entusiasta dell’idea.
Al aveva cominciato a risparmiare qualche soldo. Mangiava meno per conservare parte del suo compenso quotidiano. Quando Heide, spaventato dal suo continuo dimagrire, gli aveva chiesto cosa diavolo stesse facendo, lui aveva spiegato che si stava preparando a scappare. Che i soldi erano per il biglietto del treno. Che sapeva già dove andare per trovare aiuto. E gli aveva chiesto se per caso non desiderasse farsi coinvolgere in quel piccolo progetto.
Perché diavolo hai accettato, Heiderich? Perché non hai capito in tempo che quel ragazzino sorridente era solo un mucchio di guai travestito da fratellino innamorato?
Heiderich aveva accettato semplicemente perché aveva realizzato che Al, con o senza di lui, sarebbe scappato comunque. E non gli piaceva l’idea di saperlo da solo a viaggiare per l’Europa in cerca del suo buon fratello lontano.
Il racconto spossò Edward più del narratore che, entusiasta, continuava a divorare frittelle come se la colazione non si fosse già conclusa per tutti gli altri da più di mezz’ora.
No, non era bello riaverlo in casa. Non era bello per niente.
Era stressante, era doloroso, e lui era un dannatissimo diavolo tentatore, e quanto se ne sentisse attratto non riusciva a capirlo più neanche lui, e passava le ore, i giorni a guardarlo senza volerlo guardare, sperando che se ne andasse, e che restasse, e tutto insieme.
Alphonse passava le giornate a seguire suo fratello. Era la sua ombra, era un pezzo del suo corpo. Dovunque fosse Ed si sentiva il chiacchiericcio incessante del suo fratellino che narrava pezzi della sua vita lontana, facendolo impazzire di rabbia e frustrazione senza neanche accorgersene, o chissà, magari accorgendosene e infischiandosene bellamente, o ancora, addirittura, assaporando ogni segnale di quella furia con golosità e piacere.
Heiderich, a sua volta, imbarazzato e a disagio nelle vesti di parassita e intruso in casa Elric, seguiva Al come un cagnolino fedele, sperando che la sua vicinanza lo facesse sentire meno fuori posto di quanto fosse.
E fu così che, poco a poco, Ed cominciò ad abituarsi alla loro presenza.
E ai gesti teneri, e ai sorrisi consapevoli e vittoriosi, di chi dice vedi? Ce l’abbiamo fatta!, di chi non ha mai creduto che una torta a dieci strati ricoperta di cioccolato e panna potesse esistere, e ora ce l’ha proprio davanti agli occhi, e gli sembra tanto bella che ha quasi paura di allungare una mano e strapparne un pezzo per mangiarla, finalmente, dopo tanto penare.
E poi, ancora più lentamente, quella realtà cominciò a farsi anche un po’ sua. Partecipava dei sorrisi, partecipava degli sguardi trionfanti. Era la conferma di tutto quel gioire. La sua vicinanza rappresentava tutti i chilometri che li separavano da Archer, e dall’appartamento disastrato, e dalle cuccette puzzolenti, e dall’odore di uomo eccitato e smanioso, e dalle macchie giallastre sulle lenzuola, e da tutte quelle altre cose odiose e terribili che avevano fatto loro compagnia in tutti quegli anni.
Edward era il loro premio. Era il loro traguardo. Era il fulcro della loro esistenza, la ragione della loro vita.
E a Edward piaceva da morire.
*

Heiderich non era bellissimo.
Non era bello neanche la metà di Al, comunque.
Al, con tutta la sua esasperante magrezza, e i suoi lunghi capelli lisci e lucenti. Al, con gli occhi ambrati e il sorriso vispo perennemente sulle labbra. Al, con tutti i suoi modi da lolita giocosa, e gli sguardi accattivanti, e le labbra che chiedevano un assaggio ogni volta che si schiudevano.
Al, con tutta la sua sinfonia di "posso, nii-san?" e di bacetti segreti e intimissime tenerezze, quando erano soli, schiacciati contro il muro, terrorizzati a morte che qualcuno potesse vederli, che Winry potesse sospettare qualcosa, che il fantasma di zia Pinako o della loro mamma potesse guardarli a qualche metro da loro, o che le loro anime potessero spiarli dal Paradiso e disapprovarli con disgusto, o che Heiderich si lasciasse sfuggire qualcosa, magari in una battuta che credeva divertente e innocua, o che il danno potessero farlo loro stessi, abbandonandosi senza troppi pensieri davanti a chi non avrebbe mai dovuto vederli.
Al, sempre bravo a sfiorarlo, sempre bravo a stringerlo, sempre bravo ad aderire, sempre così a suo agio, sempre così dannatamente irresistibile, e piccolo, e spaventoso, e fragile, e fortissimo nel trascinarselo in mezzo al cespuglio di rovi che era diventata la loro relazione, mai disperata come allora, eppure mai così semplice.
E lineare.
E sicura.
Protettiva.
Per quanto pericolosa.
Mai, mai, mai come allora così sentita.

E allora com’è che hai cominciato a fuggire dal tuo amato fratello, Edward? Com’è che ti senti tanto attratto da Heiderich, così all'improvviso?
Non si somigliano, lui e Al. Neanche un po’. Non davvero.
E lo sai.
E hai cercato di convincerti in ogni dannatissimo modo che fossero identici, cerchi di convincertene ogni volta che lo vedi, ogni volta che immagini, ma dì, Ed, quanto ti attraggono quelle minuscole differenze? Quanto ti eccita il suo biondo troppo chiaro, e il suo azzurro troppo limpido? E quanto, esattamente, ti fa diventare matto il biancore abbagliante della sua pelle di nordico? Quanto invidi, e ammiri, e desideri quelle spalle larghe, quel torace ampio, quelle grandi mani? Quella mascella squadrata ed elegante, quella durezza dei lineamenti, quell’altezza spaventosa?
Quando hai preso a sentirne il bisogno, e perché?
Quanto ti sembrano importanti quelle piccole prove fisiche che, sommate, ti ricordano con violenza che l’hai trovato, l’uomo perfetto, il tuo perfetto fratello senza legami di sangue, il tuo perfetto fratello senza quella vena di follia e incostanza che pure tanto ti piace in Al, il fratello perfetto da amare, e toccare, e scopare senza rimpianti?


- Ed!
Sollevò lo sguardo.
Sua moglie lo fissava, inorridita.
- Non hai sentito una parola di quello che ti ho detto! – sbottò, infastidita, incrociando le braccia sul petto, - A cosa diavolo stai pensando…?
Si portò una mano alla testa, sbuffando.
- Niente… non mi sento molto bene…
Con la coda dell’occhio, osservò lo sguardo di Winry mutare da furioso a preoccupato.
- Oh, scusa! Non me l’avevi detto, come potevo saperlo? - gli chiese, chinandosi su di lui e poggiandogli una mano sulla spalla, - Cos'hai?
Scrollò le spalle.
- Mal di testa? - suggerì lei, premurosa.
- Mmmhsì... e un po' di nausea...
Winry annuì.
- Forse ti sta venendo un po' d'influenza... - suppose, aiutandolo ad alzarsi, - E' meglio se ti metti un po' a letto. Io prendo il termometro...
- Non mi sento la febbre, Winry...
- Be', fino a poco fa non avresti neanche saputo dire cosa avessi, quindi scusa se non mi fido delle tue capacità di analisi...
Ridacchiò, seguendola nel suo sorriso ironico e annuendo, cominciando a dirigersi verso la camera da letto.
Cristo santo.
Non stava male, accidenti a lui!
Però, forse, dormire gli avrebbe fatto bene comunque.
In quel momento, Al e Heide rientrarono dallo shopping; un nuovo, coloratissimo maglione faceva sfoggio di sé sotto il vecchio cappotto rosso. Edward era ancora nel mezzo del corridoio, che arrancava stancamente verso la sua stanza. Winry apparve dal bagno, agitando il termometro per riportare il mercurio allo zero.
- Oh, siete tornati! Al, che bel maglione! - commentò, entusiasta.
- L'ha scelto Heide per me. - sorrise Al, socchiudendo gli occhi.
- Sì, però la prossima volta lascia che Heide scelga per te anche un nuovo cappotto, santo cielo, posso capire l'affetto fraterno, ma ti prenderai un malanno anche tu se continui a girare così...
- Perché "anche" io?
Winry sbuffò, raggiungendo Ed, ancora immobile in piedi.
- Credo che a Ed stia venendo l'influenza... non si sente bene...
Gli occhi di Al presero a brillare.
- ...posso accudirlo io? - chiese, titubante, tutto proteso in avanti, in preghiera.
- Cosa? - scoppiò a ridere Winry, stringendo il termometro perché non le cadesse per terra.
- E' una cosa che ho sempre sognato di fare... - si giustificò Al, imbarazzato, - Accudire un ammalato, intendo. Sai, pezze bagnate sulla testa e brodini caldi e tutto...
- Al, hai letto troppi manga... - ridacchiò Heiderich al suo fianco, stringendosi nelle spalle.
- Be', per le pezze bagnate magari sì... - commentò Winry, facendosi pensosa, - Ma per i brodini caldi ha ragione. Ed, va bene se Al ti fa un po' di brodo e te lo porta a letto?
- ...perché parlate come se fosse già certo che ho la febbre...?
C'erano anche momenti come quelli, fortunatamente, una volta ogni tanto.
Finì che fu costretto a mettersi a letto e subire le torture di suo fratello che lo imboccava con giganteschi cucchiai di brodo bollente troppo salato e gli inondava la faccia con le goccioline d'acqua ghiacciata che cadevano dalla pezza che aveva dimenticato di strizzare.
Quando ebbe finito di mangiare, Al gli rimboccò le coperte e poi gli si inginocchiò accanto, poggiandogli premurosamente una mano sulla fronte.
- Sai, nii-san? Non credo che tu abbia veramente la febbre...
- E' quello che cerco di dire da almeno due ore. - rispose, scorbutico, sbuffando.
Al sorrise, posando il capo sul cuscino accanto a lui, e guardandolo con devozione.
- Che c'è? - chiese, imbarazzato, voltando lo sguardo altrove.
Suo fratello lo costrinse a guardarlo ancora, catturandogli il viso fra le mani.
- Ti risulta così difficile fissare lo sguardo su di me, una volta ogni tanto? - sbuffò, offeso, avvicinandoglisi.
- Non mi risulta affatto difficile. - rispose lui, sgarbatamente.
- Mmmh... - mormorò Al socchiudendo gli occhi e sollevandosi fino a distendersi al suo fianco, - Sei un bugiardo, nii-san.
E tu sei troppo vicino, Al...
Come leggendogli nel pensiero, suo fratello sorrise maliziosamente e gli si strinse contro.
- Nii-san, posso baciarti?
- Perché non la smetti di chiedermelo?!
Al scosse il capo.
- Non intendo darti nessun altro appiglio per prendertela con me.
Sbuffando, si voltò dall'altro lato, dandogli le spalle.
- Be'? - chiese Al, un po' stupito, cercando di farlo girare nuovamente, ma senza riuscirci, - Sei offeso?
- Sì. Come puoi pensare che potrei prendermela con te per questo, Al?
Il ragazzo scoppiò a ridere.
- Che idea angelicata hai di te stesso, nii-san? Tu te la stai già prendendo con me, da quando sono arrivato.
Si voltò, tornando a guardarlo.
- Io non... non ce l'ho con te. Se è questo che pensi, sbagli.
- Magari invece non sbaglio. Magari è quello che dimostri. Magari è quello che arriva a me.
- ...
- Nii-san, quello che c'è nella tua testa lo sai solo tu. Perché non parli mai con nessuno. Quello che c'è nella mia testa, invece, lo sai. Perché sono anni che te lo ripeto in tutti i modi.
- Non è vero che so quello che c'è nella tua testa, Al... non so com'è cominciata questa cosa dentro di te, non so cosa provi, non capisco cosa senti per Heiderich, non capisco cosa intendi fare di noi, non so...
- Sai che ti amo. Quindi sai l'unica cosa essenziale.
Basito, rimase ad osservarlo.

Sei sicuro, Al? Sei sicuro di volerlo dire ad alta voce?

Un tocco lieve, alla base del collo. Poi più in basso, sul primo bottone della camicia del pigiama. Una pressione veloce, e il bottone non c'è più, e al suo posto compaiono le labbra di Al, avide, gentili, morbide.


- Al... no...

I bottoni scompaiono, uno dietro l'altro, e le labbra di Al si schiudono, fanno spazio alla lingua, la lingua che scorre, la lingua che scende, centimetri di pelle bagnata.
Una mano corre già ai pantaloni, fulminea. Una mano che tocca, prima timida, poi sempre più sicura, attraversa i vestiti, si ferma sulla pelle, scivola in basso, poi verso l'alto, e giù, e su, e ancora, è Al che gioca, è Al che geme, strusciandotisi contro, è Al che fa il suo mestiere...
...e lì lo fermi.
Perché lo vuoi disperatamente, e disperatamente non vuoi concedertelo, e t'infastidisce, anzi, averlo lasciato fare fino a quel momento.
Tuo fratello ti guarda, rosso in viso. Tuo fratello non ti dice niente, ma ti sta odiando. Ti sta odiando, e potrebbe elencarti mille motivi diversi, ma tu lo sai, e lo sa anche lui che il motivo è uno solo. E cioè che è stufo di essere fermato, Edward. E' stufo di stare al tuo gioco. Vorrebbe giocare anche con le sue regole, almeno un po', almeno per una volta.
Anche tu lo guardi e scuoti il capo, dall'alto della tua saggezza da fratello maggiore; perché ti vanno bene i baci rubati quando nessuno vi vede, e ti va bene pensare di amarlo e sapere che è vero, e ti va bene che lo pensi anche lui, ti va bene tutto finché non diventa troppo concreto. Perché le cose che tocchi ti spaventano, le cose che tocchi sono piene di spigoli. Al stesso è pieno di spigoli, così ossuto e difficile. Non puoi più toccare neanche lui.
Tu lo guardi e scuoti il capo, Edward, ma la voglia ti pulsa fra le gambe. E riesci ancora a guardarlo negli occhi, bastardo, anche mentre pensi che sai già dove andrai ad estinguerla.

*

Sarebbe stato sincero con Heiderich, non perché si sentisse in debito dal momento che lui lo era stato, e neanche per correttezza nei suoi confronti, ma solo perché sapeva perfettamente che se non fosse stato completamente sincero non avrebbe ottenuto niente.
- Ti pagherò. - disse, a conclusione del ragionamento contorto e confuso col quale gli aveva spiegato che sì, aveva capito bene, che lui, che Al, che il desiderio se lo stava mangiando vivo, che aveva bisogno di una valvola di sfogo, che lui era perfetto.
Lui rimase a guardarlo per molti secondi, gli occhi spalancati, le braccia abbandonate in grembo, come se si trovasse davanti un pazzo in pieno delirio.
Si alzò dalla sedia, sorridendo lievemente, andandogli incontro, chinandosi su di lui, quant'è alto, accidenti, posandogli una mano sulla spalla.
- Questo non posso farlo. - sussurrò, scusandosi.
Gli si spezzò il cuore.
- Ti prego! Non puoi lasciarmi in queste condizioni!
Heiderich lo guardò di nuovo, stupito.
- Non... non ti lascio in nessuna condizione, Edward... sto dicendo solo che non posso farti pagare. - concluse con un sorriso condiscendente.
- No. Questo no. Non sarebbe giusto. - mormorò lui, torcendosi le dita, incapace di reggere il suo sguardo.
Heiderich lo costrinse a risollevare gli occhi.
- Decido io cosa è giusto e cosa non lo è per il mio lavoro. - disse, deciso.
Ed cedette.
Heiderich lo lasciò accomodare sulla poltrona.
- Vuoi che resti vestito?
Ed scosse il capo.
- Vuoi che mi volti?
A fatica, Ed annuì.
Heiderich si sfilò la camicia.
*

Gli occhi di suo fratello lo stavano implorando per una spiegazione, ma come poteva lui formularne una qualsiasi in quelle condizioni?
Heiderich sussultò sotto di lui e se lo scrollò di dosso, afferrando il lenzuolo stropicciato per coprirsi alla meno peggio.
- Al, aspetta... - articolò confusamente, ma Al non aveva bisogno che qualcuno gli dicesse di aspettare. Non si muoveva, non aveva alcuna intenzione di farlo e anche se avesse voluto non ci sarebbe riuscito.
Fece per alzarsi, ma Heiderich lo fermò.
- Al. - disse seriamente il ragazzo, dopo essersi schiarito la voce, - E' esattamente quello che sembra. E sai perché è successo. Quindi non fare scenate e vediamo di...
Al scoppiò a ridere.
- Certo. - disse, incapace di trattenere un sogghigno crudele, - Certo, so perché è successo. E questo dovrebbe farmi pensare cosa, esattamente, Alphonse? Qualcosa tipo "oh, che tenero, soffre tanto e si consola così"? Questo dovrebbe giustificarvi?
- Non... non sto dicendo questo, e lo sai. - disse Heiderich, sospirando, - Solo che questo è il momento di fare l'indisponente, vero Al?
- Come puoi dirmi una cosa del genere adesso?! - gridò il ragazzo, stringendo i pugni, inorridito.
- ...scusa... hai ragione... quello che intendo dire... insomma, lo sai, dai. Stavo solo dicendo che magari, parlandone...
- Non c'è nulla da dire. - concluse Al abbassando lo sguardo, - Finché quello stronzo non tira fuori le palle...
- Al! - urlò Ed, ancora completamente nudo, come riprendendosi in quel momento dalla catatonia, - Guarda che io sono qui!
- Questo non fa di te uno stronzo meno grosso!
- Ah! Certo! Quindi adesso chiunque non prenda l'incesto come una cosa normale, come fai tu, è uno stronzo! Bene!
- Vaffanculo, ti fa comodo tirare fuori adesso questa scusa, eh?!
- Però non mi hai risposto, mh?
Tremando di rabbia, Al strinse le labbra e si voltò.
Ed capì che doveva averlo fatto per non farsi vedere mentre piangeva.
Ma non riuscì a fermarsi.
- Molto maturo da parte tua, Al.
Suo fratello si voltò con uno scatto, gli occhi pieni di lacrime.
- Non venirmi a parlare di maturità, proprio tu. Sei tu quello che non vuole crescere!
- A me non sembra, Al! La mia vita è andata avanti! Io mi sono sposato, ho cambiato casa, l'ho superato quello... - quello cosa? - quello che c'è stato fra noi! - avanti, puoi fare di meglio... - Tu invece ci sei rimasto in mezzo - santo Dio, Ed, con quante menzogne vuoi ricoprire tuo fratello...? - e ora arrivi qui in casa mia e distruggi la serenità della mia famiglia - sottolinealo, sì, quanto ti piace? - per dire a me che non sono cresciuto?!

E osserva l'opera compiuta, Ed. Osserva il quadretto desolante di tuo fratello devastato dai singhiozzi, del suo volto rigato di lacrime grosse e amare, osserva lo stupore allucinato degli occhi di Heiderich che si chiedono cosa cazzo ti si muova nella testa per costringerti a comportarti così, che si chiedono perché tu dica cose che non dovresti sentire veramente, e invece sai cosa, Heiderich? Sai cosa, Al? Le senti tutte, quelle cose. Lo odi, e odi la paura che ti fa, e odi amarlo perché non conosci un sentimento più spaventoso, e vorresti che tutto l'amore umanamente sensibile fosse uguale a quello che provi per Winry, dolce e caldo e protettivo come immagini il ventre delle mamme, e intanto Al si volta e scappa lontano, e tu non vorresti neanche fermarlo, ebbene sì, vuoi che vada via, vuoi che sparisca, vuoi che muoia, cazzo, saperlo morto e piangerlo fino allo sfinimento ti farebbe stare così bene che quasi hai voglia di ammazzarlo tu stesso, e Al è sparito e Heiderich si lascia andare seduto sul letto, "Edward, cos'è successo...?", ti chiede, guardando nel vuoto, ma sta parlando più con sé stesso che con te, e tu lo sai, quindi non rispondi, e meno male, perché cosa è successo non lo capisci affatto, ma stai bene, non pensi a nulla, sei un concentrato di rabbia e ti piace, quindi lasciati cullare da questo sentimento fino a quando ne avrai bisogno.
*

Smise di sentirne il bisogno quando Winry fu tornata dalla spesa e, guardandola in volto, si chiese come avrebbe fatto a spiegarle l'assenza di Al. Come avrebbe potuto spiegarle, senza che lei sospettasse niente, che avevano litigato per una cosa importante e lui era scappato di casa arraffando poche cose e un po' di soldi - neanche tanti, neanche tutti quelli che aveva - diretto chissà dove e probabilmente intenzionato a non tornare mai più.
- Ho comprato le verdure per il minestrone! - annunciò entusiasta, scrollando le spalle per aggiustare i sacchi della spesa che le pendevano sulla schiena, - Ad Al piaceva, quando era piccolo, vero?
Per la verità, non lo ricordava.
Si perse, cercando di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui Al gli avesse mostrato un particolare interesse per i minestroni.
- Ed? Che hai? Sei strano.
- Eh... Winry, c'è un piccolo problema... - disse, cercando di farle credere che fosse una cosa da niente, - Al non è qui...
- Uscito di nuovo con Heide, vero? Spero comprino un cappotto.
- No, dico... - deglutì a fatica, mentre Heiderich, finalmente rivestito, appariva dietro la sua schiena, - Io e Al abbiamo avuto... abbiamo litigato, ecco. E lui se n'è andato.
Winry poggiò i sacchi per terra e lo guardò attentamente, rimanendo in silenzio, come in attesa del seguito. Visto che il seguito non arrivava, dopo un po' cominciò a indagare personalmente.
- E quindi dov'è?
Ecco la parte difficile.
- E'... è stata una cosa improvvisa, non so dove sia finito... non ne ho idea...
- Ma scusa... - mormorò lei, confusa, - non ho capito, perché avete litigato?
Per un attimo aveva creduto che non gliel'avrebbe chiesto. Povero illuso.
Il punto era che non poteva dire niente. Non poteva inventare niente di tanto grande che potesse essere un motivo convincente, e non aveva pensato a niente, fino a quel momento. La sua testa era un contenitore vuoto, non era operativa. E Heiderich non sembrava intenzionato a parlare.
Abbassò lo sguardo, come un bambino colpevole, e non spiccicò una parola.
- Ed...?
Niente, Winry, non ti risponderà.
- Ed!
Di cosa t'illudi? Che se non ha detto niente fino ad ora, sicuramente lo farà appena alzerai la voce?
No, Winry. Generalmente succede così, con quel testone di tuo marito, generalmente sta rinchiuso nel suo guscio di silenzio denso e contorto, ma pressi un po' e ti dice tutto. Stavolta no. Stavolta è una cosa che a stento riesce a dire a sé stesso, come puoi pretendere possa dirla a te?

- Heide, almeno tu, dì qualcosa!
E cosa cerchi in quell'estraneo, Winry? Cerchi aiuto, nel primo alleato di Ed e Al? Cerchi una via per capire, in chi non te la darebbe neanche se provassi ad ucciderlo?
Insomma, dì la verità, Winry. Dilla almeno a te stessa. E smetti di sorridere e distrarti con le faccende domestiche mentre tutto va a rotoli intorno a te. Dillo, che hai sempre sospettato che ci fosse qualcosa che non andava, che le reazioni di quei due quando stavano insieme ti sono sempre sembrate esagerate e preoccupanti, dillo che quando Ed ti faceva voltare e ti costringeva a nascondere il viso sul cuscino, e a schiacciarti contro il materasso perché non si vedessero i seni, tu pensavi "Ma è giusto così? Non puoi guardarmi in faccia sempre, quando facciamo l'amore?". E dillo che questa cosa ti ha sempre fatto diventare pazza. Che l'unica cosa che hai sempre desiderato era penetrare il mistero insondabile di quei due fratelli, esserne parte, e dillo che fallire ti uccide.
Potresti sfogarti, almeno su Ed. Sai che subirebbe. Potresti esplodere con tutta la tua aggressività, potresti perfino picchiarlo e sai che non reagirebbe. Sai che forse Heiderich cercherebbe di fermarti, ma se avessi un pugno anche per lui si tirerebbe indietro all'istante, ti lascerebbe fare.
Perché non lo fai, Winry? Sei troppo buona anche per questo?
O sei solo troppo stupida?

*

Diverse ore più tardi, in Baviera, a Monaco, un uomo e una donna, conviventi ormai da più di dieci anni, facevano le pulizie di casa, come sempre di domenica, ignari del fatto che a momenti un ragazzo bruno e magro sarebbe spuntato sulla soglia di casa, chiedendo asilo. Hohenheim passava l'aspirapolvere sul tappeto del salotto, mentre Dante spostava con cautela gli antichi libri dell'uomo dalla libreria alla scrivania, per spolverare gli scaffali.
Si erano conosciuti molto tempo prima, a Düsseldorf, in occasione di un viaggio di lavoro. Questo fatto li aveva sempre riempiti di stupore e di una grande fiducia nel destino, perché né lui né lei erano originari di quella città - lei bavarese, lui di Berlino - eppure erano stati in grado di trovarsi anche se non erano accomunati neanche dai motivi che li avevano spinti in quella città. Hohenheim vi era infatti giunto per un convegno, mentre lei era solo una cameriera in un bar qualsiasi del centro, e neanche tanto vicino rispetto all'albergo dove il convegno si sarebbe tenuto.
Il loro amore era stato fulminante, e del tipo di quelli che ti convincono di avere sbagliato tutto fino a quel momento - moglie, casa, figli, perfino luogo di nascita, vita in generale - ma che allo stesso modo ti sussurrano dolcemente in un orecchio che hai ancora una possibilità, che ti è stata offerta, boh, forse per bontà dell'universo, e che puoi ricominciare daccapo, che puoi fare di meglio e ti basta accettare quello che ti è stato donato così, naturalmente.
Anche se hai diciott'anni e l'uomo che ami ne ha venti più di te e non possiedi nient'altro oltre a un visetto carino e tanta voglia di smettere di viaggiare da un capo all'altro della Germania in cerca di lavoro.
Anche se hai quarant'anni e ami una ragazzina, e c'è tua moglie a casa che ti aspetta con due bambini piccoli che chissà come tireranno avanti senza di te.
Sapevano di essersi volontariamente gettati nel vuoto, e non avevano mai pensato a loro stessi come qualcosa in meno di una coppia di bastardi egoisti pronti a tutto per soddisfarsi. Sapevano che era la verità. Avevano imparato a non illudersi credendosi persone superiori perché in grado di rischiare e rinunciare a tutto per amore, avevano imparato a vedersi solo per quello che erano, amanti in fuga perenne ed eterna, se non da qualcuno almeno dai loro sensi di colpa, e avevano imparato a sopportare il guardarsi allo specchio e odiarsi, e anche a consolarsi col pensiero che la persona che amavano si odiava allo stesso modo e con la stessa intensità.
Non erano mai stati sereni.
Ma erano stati felicissimi.
E ora pulivano il salotto, sorrisi lievi e gesti lenti di tiepida abitudine.
Il campanello all'ingresso squillò, Dante sollevò il viso dalle pile di libri e, per un secondo, guardò Hohenheim, interrogativa. Lui scosse le spalle, rispondendo alla sua muta domanda. Lei lo imitò e, sospirando, si diresse verso la porta.
Lo riconobbe subito, anche se l'aveva visto per l'ultima volta sedici anni prima, quando era un bimbo paffutello che cercava di trattenere le lacrime mentre sua madre cercava di spiegargli che papà non avrebbe vissuto più con loro, ma in un'altra città, un po' lontana, ma che se avessero voluto vedersi sarebbe bastato fare una telefonata e sicuramente si sarebbe trovato il modo, e Hohenheim annuiva, cercando di essere convincente e ben consapevole del fatto che i volti dei suoi figli non li avrebbe visti più neanche in fotografia.
Spalancò gli occhi di fronte al suo sorriso disarmante, e si chiese cosa fosse giusto fare in una situazione come quella.
- Sei... il figlio di Hohenheim... - mormorò, ancora sconvolta, senza staccare le mani dalla porta.
- Non posso credere che abitiate ancora qua... - commentò lui, ridacchiando, - Cos'è, tutte le persone che conosco sono restie a lasciare casa e trasferirsi altrove?
Quando si era trasferito con lei a Monaco, in un momento di sconforto Hohenheim aveva scritto una cartolina ai suoi figli, invitandoli ad andarlo a trovare e accludendo l'indirizzo di casa sua.
Ecco come aveva fatto a trovarli.
- Mi fa entrare? - chiese il ragazzo, cortesemente, stringendosi nelle spalle.
Lei annuì, macchinosamente, ancora troppo stupita per pensare razionalmente, e si scostò dall'uscio.
Hohenheim apparve in corridoio, le labbra dischiuse - stava per chiederle chi fosse. La voce gli morì in gola quando lo sguardo si posò sul corpo magro di Al, avvolto in una pezza rossa vagamente somigliante a un cappotto.
Il sorriso apparentemente imperturbabile del ragazzo si spense assieme ai suoi movimenti.
- Papà. - disse seccamente, come stesse cercando di capire cosa si provasse a dire una cosa simile.
- Al...? - chiese Hohenheim, col fiato corto, spalancando gli occhi.
Il sorriso tornò a formarsi sulla labbra del ragazzo, che nuovamente si strinse nelle spalle.
- Scusa per essere piombato qui all'improvviso. Posso restare qualche giorno?
*

Cos'è che aveva Al?
Gli sembrò stupido chiederselo così all'improvviso, quando ormai era inutile e Al era chissà dove, a chilometri di distanza, ma non poté farne a meno. Cos'è che aveva Al?
Cos'è che era esploso, in quegli anni di lontananza, e l'aveva portato a pretendere un passo avanti - da lui! Il re della staticità in persona! - quando fino a qualche tempo prima tutto quello di cui aveva bisogno e che gli bastava era una carezza, un bacio, uno sfregamento?
Cos'è che era cambiato, in Al? Cos'è che aveva capito?
...cosa diavolo gli sfuggiva? Perché non riusciva a raccapezzarsi?
- Ed, sono già le nove...
Winry lo guardava, dalla soglia della stanza. Osservava suo marito sprofondare nella poltrona e nei suoi pensieri ogni giorno, sera dopo sera, con una gamba a pendere disordinata da un bracciolo e il viso appoggiato a una mano, lo sguardo fisso sulle pareti o sul pavimento, totalmente vuoto, totalmente assente, brillante di Al in ogni millimetro dell'iride. Lontano, lontano, lontano. In qualunque posto fosse suo fratello.
- Heiderich non è ancora tornato. - lo avvertì.
Lui ebbe un tremito.
- Non sarebbe meglio che andassi a cercarlo? Sono preoccupata...
Faceva sempre più tardi. Usciva la mattina presto, probabilmente aveva trovato un lavoretto o qualcosa del genere, ma stava fuori anche la sera e tornava quasi a notte fonda.
Non osava neanche pensarlo, ma probabilmente stava facendo qualcosa di poco onesto.
Portava sempre qualche soldo a casa, e dava sempre tutto a Winry. "Per le spese di casa", diceva. Si sentiva mortalmente in imbarazzo, poverino.
Ed si alzò in piedi, annuendo gravemente.
- Sì, vado.
Uscì di casa e subito vide la luna piena enorme e rossastra sulla sua testa. Quella luce strana lo inquietò. Si strinse nel cappotto e si diresse velocemente verso la macchina, trattenendo a stento il tremito dei denti.
Era già dicembre.
Era passato già un mese da quando Al era andato via.
Fra poco sarebbe stato Natale.
L'ottavo Natale senza di lui.
Sospirò, guardando fuori dal finestrino, nella sera agitata di quell'inizio di feste. Miriadi di persone si muovevano tra i negozi dalle vetrine illuminate, indaffarati con gli ultimi regali da comprare; quell'anno Winry non aveva comprato niente, strano, gli altri anni la routine dello shopping natalizio era sempre stata una gioia per lei; si meravigliò nel prendere nota di tutti i sorrisi allegri dei passanti, nonostante il freddo pungente, nonostante la pioggerellina lieve e gelata che già rigava il finestrino, nonostante Al non fosse più con lui, il mondo andava avanti, il mondo gira ancora, Ed, ha smesso di girare solo un attimo, solo quando tuo fratello ti ha baciato la prima volta, è rimasto immobile finché hai continuato a sentire quelle labbra addosso, e poi ha ripreso a vorticare, guarda come vortica, guarda come si muovono svelte le persone, non sembra che ballino?, non sembrano...?
Cominciò a nevicare.
Scosse il capo. Aprì il finestrino. Sperò che il gelo gli sgombrasse la testa.
Sapeva già dove andare a cercare Heiderich.
*

Passando in mezzo a tutti quei ragazzi che facevano bella mostra di sé, da un lato all'altro del viale, si sentì tremendamente disturbato. Gli sembrava di vedere Al in tutti quegli occhi, in tutti quei corpicini emaciati e in tutti quei capelli al vento.
Perché lo fanno?
Non sentono freddo?

Heiderich stava in piedi, di spalle, a qualche metro da lui. Sicuramente l'aveva visto, sicuramente stava cercando di non farsi notare, o di fargli credere di essere qualcun altro.
Mi dispiace, non c'è nulla che tu possa fare per non farti riconoscere da me.
Gli diede due colpetti su una spalla e gli sorrise tristemente, quando si voltò a guardarlo. Ebbe un attimo di vertigine, fissandolo negli occhi - dannazione a lui e alla sua altezza - ma si riprese subito.
Heiderich rispose al sorriso, stringendosi nelle spalle e facendosi minuscolo per la vergogna.
- Torniamo a casa. - gli disse in un fiato.
Si perse ad osservare le nuvolette di aria calda condensata che gli uscivano dalle labbra, mentre Heiderich annuiva e si stringeva nel piumino, preparandosi a seguirlo.
Si rifugiarono nella vettura appena un attimo prima che la neve sciogliesse le sue miriadi di fiocchi morbidi in una violentissima scarica d'acqua. Edward mise in moto e azionò i tergicristalli. Guidare sotto la pioggia lo spaventava, ma di certo non potevano rimanere fermi in mezzo al viale fin quando non avesse smesso, quindi si fece forza e spinse sull'acceleratore.
- Non volevo che vedessi. - disse Heiderich, senza guardarlo.
Lui scrollò le spalle.
- Che lo vedessi o meno era secondario. Tanto già lo sapevo.
Solo allora il ragazzo lo guardò, spalancando gli occhi.
- Davvero...?
Ed annuì, sempre fissando la strada.
- Non che lo sapessi per certo, intendo. Però l'avevo supposto.
- Capisco... - disse lui in un soffio, torturandosi le dita, contrito.
- Guarda che non devi farlo per forza. - continuò, cercando di rassicurarlo, - Non sei un peso, per me e Winry.
- Anche se dici così, mi sento a disagio. Mi sono sempre guadagnato il pane da solo, non ho mai vissuto sulle spalle di nessuno.
- Non vivi sulle nostre spalle, Heide. Vivi con noi. E' diverso.
Heiderich gli lanciò un sorriso a metà fra l'imbarazzo e la gratitudine, e tornò a fissarsi le mani.
- Perché si fa una cosa del genere? - chiese Ed dopo un po', dando finalmente voce alle sue perplessità.
Heiderich scoppiò a ridere.
- Non è uno scherzo. Sto parlando seriamente.
- Sì, lo so, - disse il ragazzo, sorridendo, - solo che l'hai detto con un tono da bambino che chiede alla mamma "perché il cielo è blu?", tenerissimo.
Imbarazzato, guardò altrove, nella sera sempre più buia e piovosa.
- Comunque, Ed, di sicuro non si fa per hobby. Tutti possono dare motivazioni diverse, ma alla fine è per soldi che si fa.
- Ma perché non chiedere aiuto?... io non penso che un padre, o una madre, o un fratello, o un amico, non penso che qualcuno che ti ama potrebbe ignorare una domanda d'aiuto!
Heiderich lo guardò, gelido, per qualche secondo, prima di riempire di nuovo gli occhi e il sorriso di calore.
- Come ti ho già detto, non si fa certo per piacere. E ti dirò di più. E' una cosa schifosa da farsi. Chi lo fa lo sa. Che fa schifo non è una cosa che si vede solo da fuori. E anche se l'abitudine ti ammazza, non è una cosa alla quale col tempo impari a dare meno peso. Non è come essere costretti un noioso lavoro da scrivania quando avevi voglia di stare in prima linea o chessò io, capisci Ed?
Deglutì e annuì lentamente. La voce rassicurante di Heiderich, che cercava di spiegargli il mondo dal quale si era volontariamente astratto, lo cullava come la voce di sua madre quando gli raccontava le favole della buonanotte.
Strinse la presa sul volante. Gli veniva da piangere ma si sarebbe svenato prima di versare una lacrima.
- Il fatto che si finisca a fare una cosa simile vuol dire che non hai potuto chiedere aiuto, o che non te l'hanno potuto dare. Quindi, per favore, non fare più considerazioni stupide.
Si morse il labbro inferiore.
Al, tu mi hai mai chiesto aiuto?
Non riusciva più a ricordarlo.
*

- Hohenheim... sei ancora sveglio?
Dante entrò in camera da letto, avvolta nella vestaglia di lana, i capelli raccolti dietro il capo. Raggiunse l'uomo, già al caldo sotto le coperte, immerso nella lettura di uno dei suoi adorati antichissimi trattati sull'alchimia.
L'uomo sollevò appena gli occhi dal libro, sorridendole lievemente.
- E come mai hai ripreso in mano questo libro...? Non lo rileggevi da tempo...
- Già... da quando Al è qui penso spesso agli hobby che avevo quando stavo ancora a Berlino...
La donna sorrise.
- Ti fa piacere che sia qui, vero?
Il volto di Hohenheim si riempì di tenerezza.
- Be', sì. Anche se in realtà sono terrorizzato dai motivi che potrebbero averlo spinto fino a venire.
- Oltre che dalla sua magrezza...
- Ha mangiato?
- Oh, sì. Con appetito, anche. Insomma, sembra stare bene... anche perché ha recuperato qualche chilo da quando è arrivato, ma... Dio, non posso dimenticare com'era ridotto un mese fa...
- Mh...
- E... senti, non ti ha detto niente neanche oggi...?
Hohenheim scosse il capo.
- Non so più che pesci prendere. - confessò, sconsolato, posando il libro sul comodino e abbandonandosi sulla spalliera del letto, - Alphonse è sempre stato un po' così. Un bambino problematico, intendo.
- ...davvero? Sorride sempre, non si direbbe...
- Sì, appunto. Vedi, quando si trattava di Ed... - un lampo d'incertezza gli balenò fra le palpebre, Dante non poté non notarlo, - Insomma, Edward era un ragazzino molto diretto. Se ce l'aveva con te, non ti calcolava, oppure ti riversava addosso la sua rabbia, in qualche modo. Era anche manesco a volte.
- Santo cielo...
- Sì, però, almeno sapevi cosa gli passava per la testa. Al no. Al è una specie di enigma ambulante. Anche quando ti dice qualcosa non puoi mai essere certo di cosa voglia dirti in realtà, e anche quando è gentile con te non puoi mai sapere se lo fa perché è così che si sente oppure per qualche altro strano motivo...
Dante ridacchiò, un po' amaramente.
- Ora non atteggiarti a padre vissuto, ti ricordo che non vedi i tuoi figli da quasi vent'anni...
Anche Hohenheim sorrise, sulle labbra la stessa sfumatura di amaro rimpianto.
- Però la prima cosa che ho pensato quando ho visto Al è stata "non è cambiato". E da quello che ho visto in questo mese, avevo ragione. E' per questo che riesco a capirlo, più o meno.
Sospirò.
- Sai, in realtà preferirei non capirlo affatto. Significherebbe che è cresciuto, almeno.
E invece tutto lasciava intendere esattamente il contrario. Che Al si fosse messo in pausa, da quando suo padre era andato via, che non fosse più cambiato di una virgola, che si fosse preso una vacanza perenne dalla crescita.
- Hohenheim...
- Mh?
- ...perché quando hai saputo che la loro mamma era morta non li hai presi con te?
Gli occhi dell'uomo si ridussero a due fessure, mentre si toglieva gli occhiali e li poggiava sul comodino.
- Paura, immagino. - rispose in un soffio, spegnendo la luce.
*

Non era un giorno diverso dagli altri, quando ricevette la telefonata di suo padre. Il freddo era lo stesso degli altri giorni, le facce di Winry e Heiderich gli chiedevano sempre la stessa cosa - Ed, com'è che dimagrisci? Perché i tuoi sorrisi sono tutti vuoti e distanti, e sembrano più abitudini che altro? Perché non fai più la treccia? Perché lasci i capelli sciolti, o, sempre più spesso, li raccogli solo in una coda? Insomma, perché somigli tanto ad Al, Ed? - le persone attorno continuavano a comprare regali in attesa del Natale, e il mondo vorticava, vorticava ancora attorno a lui, come sempre.
E poi non c'era nessun motivo per cui avrebbe dovuto supporre che una chiamata da parte di suo padre volesse dire che Al era lì, che l'avevano ritrovato, alla fine.
Ma lui lo fece. Quando sentì la voce di suo padre, l'associazione mentale fu immediata. Al.
Scoppiò in lacrime subito dopo che suo padre l'ebbe salutato. "Ciao, Ed", dopo quasi vent'anni.
- Ed... scusa... so che non è il momento adatto, non vorrei...
- Non... non sto piangendo perché hai chiamato tu... Al... Al è lì, vero...?
- Sì. E' qui.
- Quando è arrivato...?
- Un mese, un mese e mezzo fa. Più o meno.
- E ti sei deciso a chiamarmi solo ora?!
- Credevo... speravo che avrei potuto risolvere la cosa da solo...
- Ti sbagliavi.
- Sì. Adesso lo so. E' per questo che ti ho chiamato.
- Lui lo sa?
- No. Ma intendo dirglielo.
- Perché non gliel'hai detto prima?
- Credo... che me l'avrebbe impedito. Non vuole parlare di te. Quando si parla di te diventa un altro.
Si passò una mano sugli occhi.
Dio, era felice. Se quello era il suo regalo di Natale, poteva ritenersi soddisfatto a vita.
- Come sta? - chiese, con un filo di voce, sentendo le lacrime tornare alla carica e cercando, invano, di ricacciarle nel fondo della gola.
- Bene. Sicuramente meglio rispetto a quando è arrivato. Ha preso qualche chilo, e anche un po' di colore.
Sospirò.
- State ancora a Monaco?
- Sì. Hai l'indirizzo...?
- No. Ho buttato la cartolina che ci mandasti anni fa.
- ...Al deve averla recuperata dalla pattumiera. E' con quella che è arrivato qui.
Sorrise teneramente.
- Avrei dovuto immaginarlo.
- Allora...
- Sarò lì domattina presto. Prendo il primo treno utile che trovo. Dimmi dove stai.
Suo padre ubbidì.
- Senti, Ed... ci sono milioni di cose che ti dovrei chiedere... e delle quali dovrei scusarmi, anche...
- Ne parleremo domani. Non preoccuparti.
Suo padre sospirò, sollevato, lo salutò e terminò la conversazione.
- Ed... - lo chiamò Winry, preoccupata dall'averlo sentito piangere, - Che è successo?
- Al. E' andato a Monaco da mio padre. E' lì che è stato fino ad ora. - annunciò con un sorriso immenso sulle labbra. - Parto subito.
- Eh?
- Vado a prenderlo. Anche mio padre è d'accordo. Al... deve avere qualche problema.
- Te l'ha detto tuo padre?
- Mh? Be', no, ma se mi ha chiamato...
- Magari... - suppose Winry, incapace di guardarlo negli occhi, - Magari voleva solo rassicurarti sul fatto che stava bene.
- ...Winry, cosa stai cercando di dirmi...?
Ahi, Winry. L'ha capito.
Ha capito che non vuoi che parta, ha capito che il pensiero di riavere Al in casa ti terrorizza. Sei stata tremendamente poco attenta.

- Io... niente...
- Credevo che fossi anche tu preoccupata per Al.
- Infatti lo sono!
- E allora che c'è adesso?!
- Niente! Penso solo che se Al è andato via vuol dire che forse non è qui che vuole stare!
Lui la fissò, attonito, come se stesse dicendo cose assolutamente illogiche.
- Ho sentito abbastanza. - concluse poi, dirigendosi svelto verso l'ingresso, - Tornerò con Al. E basta.
Winry si strinse nelle spalle, abbandonandosi contro la parete.
Heiderich fece capolino dal soggiorno, e le andò incontro, preoccupato.
- Win... cosa c'è...?
- Niente. - disse lei immediatamente, rimettendosi in piedi e riavviandosi i capelli dietro le orecchie, - E' tutto a posto. Abbiamo ritrovato Al. Ed è appena uscito per andarlo a prendere.
- Ma... dove...?
- A Monaco.
- Monaco?!
- Insomma, basta! - esplose, stringendo i pugni, - Basta parlare di Al! Cristo, è sano e salvo, non vi basta sapere questo, a te e a quell'altro stronzo?!
Heiderich fece un passetto indietro, stringendosi nelle spalle.
- Scu...
- Niente scuse! - gridò ancora lei, le lacrime agli occhi, - Basta.
Si prese il tempo per un respiro profondo. Capì che uno non bastava a calmarsi. Respirò ancora. E ancora.
- Non ce l'ho con te, Heide. Sei tu che devi scusarmi. - disse, fissando il pavimento, - Non mi sento molto bene.
- Ma...
- Scusa. - ripeté, tornando a guardarlo e forzandosi a sorridere, - Non chiedermi niente.
- ...
- Voglio dire. Ci sono cose che uno si tiene dentro per anni. E non per qualcosa contro di te, ma non sarai certo tu a farmi sfogare.
Non c'era altro da dire. Si trincerò in cucina, sperando che Heiderich capisse e si chiudesse in camera. Guardò i piatti nel lavandino.
Aprì l'acqua calda e aspettò che diventasse bollente. Ficcò le mani sotto il getto, strizzando gli occhi per il dolore. Piano piano, la sensibilità della sua pelle impazzì, e l'acqua le sembrò a tratti gelida. Aprì gli occhi. Le mani erano gonfie e rosse, spaventose.
Prese la spugna e cominciò a lavare.
*

- Come stai, Ed?
Voglio vedere Al.
- Bene.
- Il viaggio ti ha stancato?
Voglio vedere Al.
- No, sto bene.
- Mi fa piacere che tu sia venuto. Ricordi Dante, vero?
Gettò uno sguardo alla donna accanto a suo padre. Sì, la ricordava.
Ma non gli interessava niente di niente, né della gratitudine di suo padre, né dell'imbarazzo di quella donna.
Voglio solo vedere Al.
- Dov'è?
- Ecco...
Suo padre era insicuro.
- Non so se è una buona idea vederlo adesso.
- ...perché?
- E' un po' agitato. Quando gli ho detto che ti avevo chiamato... non ha reagito bene.
Lo aveva immaginato.
- Non ha voluto mangiare niente, ieri sera. S'è chiuso in camera e non ne è ancora uscito.
- Cos'ha detto?
Hohenheim sospirò.
- Niente. Neanche una parola. Ha... ha fatto un disastro, buttando a terra varie cose... ma non ha detto nulla.
- Capisco...
- Edward. Senti. C'è qualcosa che non va. Questo ragazzo ha qualche problema. Me ne sono accorto perfino io che di lui non so niente! Cosa gli è successo?
Magari lo sapessi.
O fossi davvero certo di non saperlo.
Almeno non starei impazzendo.

- Devo vederlo. Dov'è?
Suo padre si alzò in piedi. Lui lo seguì.
Hohenheim lo guidò attraverso la stanza, lungo il corridoio, di fronte alla sua camera. Poi lo lasciò davanti alla porta e andò via.
Fissando il legno scuro e levigato, realizzò d'improvviso quanto fosse stata fondamentale l'importanza delle porte chiuse nella sua relazione con suo fratello. Le porte chiuse che lo salvavano continuamente, ricordandogli che ci sono confini che non possono essere superati, ci sono soglie che non vanno oltrepassate, ci sono ostacoli che vanno lasciati lì dove sono, ci sono barriere che non vanno assolutamente rimosse.
Era stata una porta a salvarlo dall'incesto, quello vero, quello realizzato, non quella specie di gioco che avevano portato avanti l'ultima volta che era andato a stare da lui, era stata la sua porta a salvarlo, otto anni prima.
Puoi farti salvare ancora, Ed. Puoi lasciare chiusa questa porta e andare via. Magari ha ragione Winry. Magari il motivo per cui Al è così furioso è che non vuole più vederti, che preferisce stare qui, con suo padre, e rifarsi una vita. Magari dovresti concedergli questo, Ed. Magari non era sesso, né baci, che avresti dovuto concedere a lui e a te stesso. Magari hai sbagliato tutto fin dall'inizio. Magari puoi risolvere le cose, adesso, se vai via.
Chiuse gli occhi. Poggiò due dita sulla maniglia. Prese un respiro talmente profondo che gli fecero male i polmoni.
Aprì la porta.
*

"Find the one who'll guide you
to the limit of your choice"
Enigma - "Gravity of Love"

"Tu sei, tu sei, lo so, la mia rovina..."
Mango - "Amore per te"


Raggomitolato fra le lenzuola, raccolto su sé stesso come un cane pronto ad attaccare, Al lo fissava con odio, i lineamenti del volto tesi e gli occhi lucidi.
S'era preparato tutto un discorso importantissimo, col quale intendeva rimproverarlo aspramente, fargli presente quanto stupida fosse stata la sua fuga, dirgli come in realtà si sentisse, cosa provasse realmente per lui e, infine, implorarlo di tornare. Nel vederlo lì, su quel letto, bianco come un cencio, i capelli sciolti e disordinati sulle spalle e quella rabbia furiosa brillante nelle pupille, la sua testa si fece di nebbia, e di tutto il discorso rimase soltanto la voglia di gettarsi ai suoi piedi e implorarlo.
Non solo perché tornasse. Per tutto in generale. Anche per cose che erano in aperto contrasto fra loro. Avrebbe voluto implorarlo per riaverlo accanto, e perché se ne andasse via il più lontano possibile, più lontano di Monaco, fuori dalla Germania, fuori dall'Europa, perché non sparisci dal mondo, Al?, e poi avrebbe voluto implorarlo perché lo lasciasse in pace, perché frenasse i suoi sentimenti, e anche, Dio, soprattutto perché continuasse ad amarlo in eterno.
Al non si mosse. Rimase fermo, seduto sul letto, a fissarlo. Gli si avvicinò, e lui si ritrasse.
- Al... - lo chiamò, sperando che dicesse qualcosa. Ma niente.
Allora si sedette sul letto, proprio accanto a lui, e attese. Rimase semplicemente in silenzio, aspettando un segno qualsiasi da suo fratello.
Suo fratello, che continuò a guardarlo allo stesso modo per una serie interminabile di minuti pesanti e soffocanti e infiniti, e che alla fine si frantumò in un singhiozzo, e si coprì gli occhi con le mani, e si accasciò su sé stesso, e lamentandosi come se stesse provando dolore fisico gli chiese "Perché sei venuto?".
Lui allungò una mano. Gli sfiorò una guancia, aspettandosi di essere respinto. Ma Al lo lasciò fare. E anzi, gli si abbandonò contro, come fosse stato un cuscino.
- Sono venuto a riprenderti. - disse a bassa voce, spaventato che qualcuno, forse le pareti, potessero sentire quella che, nella sua testa, era la dichiarazione d'amore più esplicita che avesse fatto.
- Non te l'ho chiesto. - rispose Al, deglutendo a fatica, - Vai via.
Quando Al cercò di scostarsi, lui lo trattenne, ancorandoselo addosso, stringendolo per le spalle.
- Lasciami andare. Lasciamo perdere. Basta. - continuò a lamentarsi lui, singhiozzando sempre più violentemente.
- No. Non voglio lasciare perdere. Ti rivoglio in casa, con me. Ti rivoglio assolutamente.
- Non può essere. Non può essere.
- Perché?
- Perché non può essere. Tu... non sei pronto.
- Sono pronto. Non sarei venuto fino a qui, se non lo fossi stato.
- ...vuol dire che hai ricordato...?
- ...ricordato cosa?
Suo fratello sollevò lo sguardo sul suo viso, fissandolo a lungo. Poi scosse il capo, sorridendo amaramente.
- Visto? Non sei pronto.
Cercò di nuovo di divincolarsi dalla stretta, pressandogli le mani sul petto. Ma lui lo fermò ancora, stringendoselo contro al punto da fargli male, al punto da farsi male, al punto di sentire il suo mento appuntito pressargli contro il collo, al punto di sentire le dite affondargli nelle braccia ancora magre.
- Ti amo. - gli disse, labbra contro pelle, - Ti amo e ti voglio.
Si scostò da lui quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. Lesse tutto il suo smarrimento, e la sua paura, e la sua incredulità.
Si chinò su di lui e lo baciò. Un bacio vero. Senza chiedere il permesso a nessuno. Un bacio lento e profondo, un bacio tutto per loro, per sentire il sapore, per godere della morbidezza bagnata, per la sensazione dei respiri affannosi a infrangersi con foga sui loro visi, per la consapevolezza che erano lì, in quel momento, e finalmente era tutto chiaro e preciso, finalmente davano un nome a quello che c'era fra loro, finalmente entrambi erano sicuri, finalmente era vero. Reale. E molto meno spigoloso e doloroso di quanto Ed non avesse mai pensato.
- L'hai fatto sul serio...?
- Pare di sì...
Godette della sua risatina leggera e lo baciò di nuovo.
- Questo l'hai fatto sul serio. Ne sono sicuro.
- Sì, stavolta anche io...
Si lasciò andare disteso sul letto, sentendosi come sgonfio. Effettivamente, dentro di lui non c'era più traccia di tutti quei sentimenti che l'avevano tenuto rigido e attivo nell'ultimo... secolo e mezzo circa che gli sembrava la seconda metà della sua vita.
In realtà non aveva mai creduto al potere meraviglioso e spossante della sincerità. Credeva che la sincerità fosse una cosa utile solo a complicare la vita. Azzardati a dire un minimo di quello che pensi in realtà e crolleranno perfino le fondamenta del palazzo in cui vivi. Aveva sempre pensato alla verità come a una bomba, perché per lui era stato sempre devastante ammetterla, e perché prima di vederla doveva sempre subire una guerra all'interno del suo cervello. Sì, le bombe erano la cosa più simile alla verità che conoscesse, per quanto in realtà trovasse le bombe molto meno distruttive. Almeno per la sua esperienza.
E invece si trovava ora a ventisei anni con nient'altro in mano oltre alla verità inequivocabile dei suoi sentimenti, e si sentiva libero davvero. Il pensiero del dopo, del come affrontarlo, del come spiegarlo a Winry, del dove diavolo andarsi a nascondere per vivere quel sentimento senza che nessuno sapesse cosa c'era dietro, era assolutamente irrilevante. Era una parentesi alla quale avrebbero potuto dedicarsi dopo.
Suo fratello gli si arrampicò addosso, guardandolo con curiosità.
- Quindi?
- Non saprei. - rispose lui, scuotendo il capo. - Voglio dire, in qualche modo ce la caveremo.
- Mmmh, mi fa piacere sentirtelo dire, ma non era questo quello che ti stavo chiedendo.
- No?
Scosse il capo.
- No. Mi chiedevo cosa avessi intenzione di fare ora. Cioè adesso. In questo momento. In questo letto.
Guardò altrove.
Era legittimo non averci ancora pensato?
Alphonse lo costrinse a guardarlo e lo baciò di nuovo.
- Mh... aspetta, Al... cos'è... di cosa parlavi poco fa?
Ma Ed, avanti, c'è una mano che ti scorre sul corpo, puoi pensare ad altro...?
- Mh-?
- Poco fa... cos'è che non ricordo...?
Cos'è che non ricordi, Ed?
T'interessa davvero?
Ed, tuo fratello ti sta baciando, lo sai cosa vuole, stai tergiversando?

Al sorrise.
- Non ha importanza.
E sai che in un certo senso ha ragione. Non t'importa di cosa succederà nelle prossime ventiquattro ore, dovrebbe importarti di cosa è successo milioni di ventiquattro ore fa?
- Al... - soffocò un sospiro, quando la mano di suo fratello s'intrufolò nei suoi pantaloni, - Aspetta...
Dovrebbe, Ed?
- Sssh... lasciami fare...
Bottone dopo bottone, la camicia scomparve dal suo petto e ricomparve sul pavimento accanto al letto.
Dovrebbe, Ed...?
- ...
Dovrebbe, Ed.
Ma Al che ti lecca e ti tocca ovunque, Al che si toglie il pigiama, Al che ti si offre, così, spontaneamente, invitandoti a entrare, guidandoti con incantevole precisione, indirizzando le tue mani e le tue voglie dove preferisce, dove preferisci, dove preferite, è così meraviglioso che no, non t'importa, anche se dovrebbe e dovrebbe davvero.
E ora sei lì, Ed. Ora sei a un passo. Ora, a separarti dal tuo crimine c'è una piccolissima spinta. E non c'è neanche bisogno che sia tu a farla.
E infatti Al si avvicina, e tu lo senti contro di te, e d'improvviso provi qualcosa, qualcosa che è come un'illuminazione, ma meno fulminea, qualcosa che è come una fantasia, ma molto più concreta, qualcosa che somiglia spaventosamente a un ricordo, e tu puoi anche pregare perché non lo sia, ma lo sai che speranze ne hai poche.


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OTTO ANNI PRIMA.

Anche nei tuoi ricordi sei lì a un passo, Ed. Solo che non sei a un passo da Al, sei a un passo dalla porta di camera sua. Ancora porte, mh? Ed è la porta davanti alla quale tutto e cominciato, o meglio, davanti alla quale tutto si è fermato in un momento infinito, si è cristallizzato dentro al tuo cervello e ti ha portato ad essere quello che sei oggi, che diciamocelo, è un disastro d'uomo. Sì, possiamo dircelo, dal momento che siamo solo io e tu, nel tuo cervello, fra i tuoi ricordi.
E non chiederti chi sono, non chiederti cos'è questa voce che ti rimbomba nei pensieri ed è "come se" ti facesse vedere le cose che hai vissuto e che vivi da un'altra prospettiva, come ti fossero estranee. Perché non è "come se". E'. E basta.
E quindi stiamo davanti a questa porta, adesso, io e tu e il legno e la maniglia gelida, e ti ricordi che notte è questa, Ed?
Sì, proprio così. E' la notte in cui hai cacciato tuo fratello dal tuo letto per la prima e l'ultima volta. E' la notte prima della sua fuga, la notte prima della tua ansia, e della tua disperazione, e della scomparsa, e del senso di vuoto, e dell'incendio, e di Winry in lacrime che ti scongiura, "Vieni a vivere con noi", e di te che accetti e ti aggrappi a lei perché ti sembra di non avere nient'altro.
E' esattamente quella notte. Quella in cui sei convinto di aver risparmiato a tuo fratello la falsa consolazione che nasce dal piacere soddisfatto di due corpi che si sfiorano, tremando, nell'abbraccio buio e sudato del sesso.
Sì, sei davanti a quella porta, e stai ascoltando tuo fratello piangere, e ti stai chiedendo se entrare sia la cosa giusta da fare, e se le cose fossero veramente andate come ricordavi fino a un minuto fa adesso dovresti girare sui tacchi e tornartene in camera tua, senza aver combinato niente, è vero?
E' vero.
E allora perché la tua mano indugia tanto su quella maniglia? Perché continua a stringere e mollare la presa, incerta? Perché, alla fine, si decide, e pressa, e spinge, e apre? Perché quella porta cigola, e riesci a vedere Al che ti guarda, stupito e felice, quando dovresti essere già in corridoio, a farti strada verso il tuo letto?
Cos'è successo veramente quella notte di otto anni fa, Edward?
Cos'è che tuo fratello ricorda e tu hai rimosso?
Che hai fatto?
Oddio, che hai fatto?
Ma guardati. Guarda come ti avvicini. Guarda come eviti i suoi occhi, non ti senti orribile?, non ti senti una merda?, guarda come ti siedi sul letto e lo abbracci. Guarda lui come ti si stringe contro. Come si scusa. Guarda la tua mano che gli passa fra i capelli, guardala indugiare sulle sue spalle, e allora?, come ti senti?, non ti senti orribile?, non ti senti una merda?, e guardalo sussultare al tuo tocco, guarda Al che ti prende la mano, ti invita a scendere, e guarda come lo segui, guarda come ubbidisci, guarda, guarda, neanche il pigiama ti ferma, il tessuto non è più niente, non esiste, è già lontano da voi, per terra, forse, forse ancora sul letto, ma che importa?, non ti senti orribile?, guarda la sua pelle sudata, Ed, si sta agitando, senti come si agita, senti l'ansimare?, senti i gemiti?, li senti?, sì che li senti, però senti anche le sue parole, è vero che le senti?, "Aspetta, nii-san...", e che fai, lo ignori?, "A-Aspetta un attimo...", niente, lo senti e non lo senti, sei strano, Ed, sei strano, "Asp- ah! Nii-san! No! Aspetta!", ma non lo senti, adesso no, le parole non le senti più, puoi sentire solo il suo corpo, tutto Al che ti circonda, puoi solo spingere dentro di lui, puoi solo muoverti, non ti senti orribile?, non ti senti una merda?, come ti senti, Ed? BENE, BENE, BENE, CRISTO, BENE!
D'ACCORDO!
Ma ora fermati. Fermati un attimo. Allontanati da tutto questo. Torna al presente.
E' meglio.


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OGGI.

Sedeva sul letto, nudo. Le ginocchia al petto, si copriva gli occhi con una mano, mordendosi l'interno delle labbra per non farsi sfuggire lamenti troppo rumorosi mentre piangeva tanto disperatamente che l'intero suo corpo era scosso da brividi e singhiozzi. Al gli stava raggomitolato al fianco, in ginocchio, e gli appoggiava il capo sulla spalla. Fissava un punto vuoto sulla parete opposta, con espressione triste.
- Hai ricordato, vero?
Ed annuì a fatica, stringendo la presa delle dita sulle tempie, fino a farsi male.
- Non devi piangere per questo...
- Al, ti prego, non...
- Non sto cercando di consolarti. Ehi. Guardami.
Al cercò di scostargli la mano dagli occhi, ma lui oppose resistenza.
- Nii-san. Non sono più forte di te, non riuscirei a smuoverti di un millimetro. Mi puoi guardare, per favore?
Lentamente, allentò la presa. Quando fu libera, la mano perse tutta la sua forza, e il braccio la seguì immediatamente. Caddero entrambi sul materasso con uno stupido tonfo sordo.
Ed aveva gli occhi rossi e le guance rigate di lacrime.
- Non piangere. - ripeté Al, guardandolo fisso.
- Mi dispiace, Al.
- Non dispiacerti.
- Al...
- Non devi, ti dico. Ti sembrerà assurdo, - disse, sorridendo lievemente, - ma è uno dei ricordi più belli che ho.
Come fosse una consolazione.
Dio, di che razza di ricordi doveva essere piena la mente di suo fratello, perché quello fosse uno fra i più belli...?
- Ti ho fatto del male. Ho fatto l'errore più grosso della mia vita. - ribatté lui, incapace di capire se si sentisse peggio per avergli causato sofferenza o per averlo spronato a continuare ad amarlo con quel gesto.
Al gli si avvicinò, continuando a sorridere, sfiorandogli la fronte con la propria.
- Mi hai voluto, in quel momento. Sei stato sincero. Rude, - ammise, ridacchiando, - ma sincero.
- Cazzo, Al...
- E a me è piaciuto avere quel ricordo, in tutti questi anni. Quindi non dispiacerti. E basta.
Lo guardò.
Sembrava essersi rinvigorito dall'ultima volta che l'aveva visto, a casa sua. Sembrava rinato.
"Stare lontani ci uccide o ci salva?", si ritrovò a chiedersi. Ma non c'era risposta, e lo sapeva. E per questo motivo non ebbe bisogno di chiedergli perché fosse andato via, otto anni prima. Non ebbe motivo di indagare ancora.
Inoltre, aveva sentito e scoperto abbastanza, per quel giorno. Adesso doveva riflettere. Non poteva continuare a rimandare quel momento. Doveva pensare a cosa fare, a dove andare, a come spiegare tutto a Winry - santo cielo - e doveva pensare... ai biglietti del treno, prima di tutto.
Sì, lontano da Monaco. Sarebbero tornati a Berlino. Sarebbero tornati a casa. Con Heide e Winry. Magari prima avrebbero potuto andare in qualche paesino vicino, o in qualche località di mare o montagna, fare una vacanza, lui e Al soli, per due o tre giorni.
Ma tornare, decisamente, quello sì.
- Al. Cosa vuoi fare? - gli chiese, alzandosi dal letto.
- Mmmh... colazione. - rispose lui, ridacchiando, - Portami a fare colazione in qualche posto carino. Poi si vedrà.
Sorrise.
Sì, avrebbe visto poi. In quel momento aveva qualcosa di più importante a cui pensare.
Pairing: AlphonsexEdward
Personaggi: Alphonse
Genere: Introspettivo
Rating: PG-13
AVVISI: Drabble, Shounen-ai, Incest.
- "È solo il fatto che non posso più toccarlo che mi fa pensare queste cose.
Devo stare calmo.
"
Al guarda suo fratello dormire e riflette.
Conto Parole: 100
Commento dell'autrice: Ve l’avevo detto che non ne avreste visti altri, di drabble, per un po’ XD Comunque, anche se non ha niente di esplicito, questo drabble è un’Elricest (ovvero una storia EdxAl in maniera… come dire, meno “fraterna” è_é”””). So che non è una coppia granché diffusa, ma io la amo XD Questa è la prima storia che ho scritto su di loro, e dal momento che ora ne sto scrivendo un’altra, decisamente più complessa e lunga, che presto pubblicherò (spero), mi è sembrato giusto mandare questa a fare da spartiacque XD
Hope you like it :*
PS: Immagino si capisca di chi è il POV, comunque a scanso di equivoci è Al che parla XD"
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Vantaggio


È solo il fatto che non posso più toccarlo che mi fa pensare queste cose.
Devo stare calmo.
Tranquillo.
Devo trattenermi.
…sinceramente, non capisco come faccia a dormire così beatamente. Se fossi in lui, percepirei attorno a me qualcosa che non va, sentirei che qualcuno mi sta guardando con bramosia, lo saprei. Gli occhi umani sono così, sono pesanti, quando ti si fissano addosso ne senti la gravità, quando ti scrutano capisci perché lo fanno, e cosa c’è dietro, e sai chiaramente se puoi stare tranquillo o no.
Immagino sia un mio vantaggio, questo. Solo ora posso osservarlo dormire così.
Genere: Tutti °_°
Pairing: EdwardxAlphonse, ma non tutte le drabble contenute nella raccolta hanno un vero e proprio pairing.
Personaggi: Immagino che man mano appariranno un po' tutti, ma principalmente Edward e Alphonse.
Rating: R (dubito che supereranno questo rating)
AVVISI: Angst, Drabble, Fluff, Incest, Raccolta, Shounen-ai, Spoilers, Yaoi, Incompleta.
- Episodi sparsi nella normale e semplice (?!) vita dei fratelli Elric.
Commento dell'autrice: Serie di drabble ispirata al set di temi della community 1Sentence.
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MACEDONIA
Ovvero, la vita semplice (?) dei fratelli Elric


Personaggi: Edward
Avvertimenti: Spoiler dell’episodio 23
Rating: PG
Parole: 51
#1 – Comfort


Lo conforta molto sapere che Al è ancora lì in fondo alla stanza, dopotutto; distrutto, fatto a pezzi, silenzioso, arrabbiato, esausto, probabilmente ricoperto e ripieno d’odio come avesse sempre vissuto conoscendo solo quel tipo di sentimento… ma vivo. Vivo, grazie a Dio. Per lui, è quasi sempre stato più che abbastanza.

*


Personaggi: Edward, Alphonse
Avvertimenti: Incest
Rating: PG-13
Parole: 122
#2 – Kiss


Lentamente, Ed si china su di lui. Lentamente, Al si tira indietro.
- Nii-san…?
Nessuna risposta.
- Nii-san, cosa- - e s’interrompe.
Labbra su metallo. Non può sentirle, e Dio sa se vorrebbe, ma può vederle, e questo lo uccide. Gli pianta una mano sulla spalla e lo scosta con prepotenza, sperando che suo fratello riesca a leggere lo sgomento e il disappunto e tutto il resto nelle fessure luminose dei suoi occhi.
Ed si limita a sorridere.
- Perché l’hai-
- Ero curioso di scoprire di cosa sapevi.
Se avesse ancora una gola, e della saliva ovviamente, deglutirebbe.
- E… di cosa so?
Ed sorride ancora. Lascia la stanza senza una parola di più. E Al non sa se sentirsi strano, sporco, angosciato… o semplicemente in paradiso.

*


Personaggi: Edward
Avvertimenti: Angst
Rating: PG
Parole: 84
#03 – Soft


Guarda l’automail. Grigio, lustro, nuovo, un po’ rigido – non è ancora riuscito ad abituarcisi. Un braccio d’acciaio. Il braccio duro.
Lascia scivolare gli occhi sulla sua superficie brillante, agitandolo lievemente sotto la luce della lampada per carpirne ogni riflesso, impararli a memoria, conoscerli come si fa con ogni centimetro della propria pelle.
Solo che quella non è pelle.
Glielo conferma l’altro braccio, ancora roseo e pulsante di vita, lì, al suo posto, saldamente attaccato alla spalla sinistra. Un braccio di pelle. Il braccio morbido.

*


Personaggi, Alphonse, Edward, Winry, Pinako
Avvertimenti: Angst
Rating: PG-13
Parole: 149
#04 – Pain


Si dà dello sciocco e chiude gli occhi.
Per lui, “chiudere gli occhi” è acquattarsi in un angolino dell’armatura e rifiutarsi categoricamente di considerare il mondo esterno come reale. Non può davvero smettere di vedere qualcosa. Può solo obbligarsi a guardare il fondo del suo loculo d’acciaio, e fare finta che il niente sia quello.
È la prima cosa che ha imparato.
È l’unica cosa che può fare per proteggersi dal dolore.
Non dal suo, no. Da quello di suo fratello.
Suo fratello urla e strepita dall’altro lato della stanza, mentre Winry e Zia Pinako cercano strenuamente di salvargli la vita.
E mentre cerca di ignorare il rosso fastidioso del sangue che macchia il pavimento, finalmente capisce.
Non può davvero smettere neanche di provare dolore, nonostante di lui non sia rimasta che un’anima.
Il dolore più grande, da oggi in poi, sarà non poter sanguinare accanto a suo fratello.

*


Personaggi: Edward, Alphonse
Avvertimenti: Nessuno
Rating: G
Parole: 355
#05 – Potatoes


- Nii-san, che cosa sono queste cose?
Ed lanciò uno sguardo annoiato al fratellino che gli si avvicinava, sollevandosi sulle punte per scrutare la catasta di ortaggi sul tavolo della cucina.
- Patate. – rispose gelido, continuando a pelare quella che aveva fra le mani con un’espressione talmente truce che avrebbe potuto benissimo essere quella di un soldato in guerra.
- E a cosa servono?
- Si mangiano.
Al si prese qualche secondo di tempo, digerendo la nuova informazione.
Poi, mentre Ed si concentrava su un pezzo di buccia particolarmente coriaceo, allungò una manina sul ripiano e afferrò una delle patate più piccine, portandola alla labbra.
La allontanò immediatamente, mentre dalle piccole labbra sfuggiva un “ew” di puro disgusto.
- Nii-san, fanno schifo!
Ed sembrò accorgersi di quello che aveva fatto solo in quel momento.
Si voltò a guardarlo, fissandolo con sufficienza dall’alto dello sgabello sul quale era appollaiato, gettando la patata ormai nuda di lato per prenderne un’altra.
- Al.
- …mh?
- Sei stupido.
Veloci, le sue sopracciglia di inarcarono verso il basso, e gli occhi si riempirono di lacrime grosse e pesanti, che cominciarono indomite a caracollare lungo la superficie liscia e paffuta delle sue guance da bambino.
- Che?! – strillò Ed, allarmato da quella reazione, - Che hai fatto? Ti fa male da qualche parte?
- No! – rispose Al, in uno strillo acuto, stringendo i pugni lungo i fianchi, - E’ colpa tua!
- Eh?!
- Mi hai detto stupido! Al non è stupido!
Ed si prese un secondo di tempo, indietreggiando con le spalle fin quasi al punto di cadere.
Poi si chinò sul fratellino, scostandogli la frangia dalla fronte e asciugandogli gli occhi in un gesto talmente fluido e veloce che sembrò unico.
- E’ perché la buccia delle patate è sporca. Poteva venirti qualche brutta malattia.
Al risollevò lo sguardo, improvvisamente asciutto e chiaro come solo quello dei bimbi può essere. Sorrise, un sorriso piccolo, e poi saltò al collo di Ed, ringraziandolo per la sua gentilezza.
Caddero per terra con un tonfo sordo e doloroso attutito dal suono delle risate e dalla morbidezza adorabile del corpicino di Al.

*


Personaggi: Edward
Avvertimenti: Angst (lieve)
Rating: G
Parole: 33
#06 – Rain


Scorre lentamente lungo il vetro, in rivolini scomposti e disordinati che sembrano ben decisi a dirigersi verso un punto preciso e finiscono sempre per deviare il loro percorso verso un punto completamente diverso.
…la pioggia assomiglia spaventosamente alla sua vita.

*


Personaggi: Edward, Alphonse
Avvertimenti: Fluff, Incest (lievissimo), Spoiler del film
Rating: PG-13
Parole: 177
#07 – Chocolate


Tutte le ragazzine di Monaco si affaccendano sui fornelli, raggianti e rosse in viso come dopo un bagno di sole, eppure ansiose e inquiete come fosse il giorno del loro matrimonio.
Ed non capisce l’utilità della festa di San Valentino.
Anche perché lui non ha nessuna ragazza che sembri intenzionata a regalargli del cioccolato.
E d’altronde non ha alcuna possibilità di riceverlo dall’unica persona dalla quale lo vorrebbe.
Stremato dalla lunga giornata di lavoro e abbattuto da tutto un altro milione di sensazioni, si accascia sulla poltroncina sdrucita in salotto e rilascia il capo sullo schienale.
Alphonse si affaccia in quel momento dalla cucina.
Sorride gioioso, uno sbuffo di crema dall’invitante color nocciola sul naso e un grembiule bianco diligentemente avvolto intorno alla vita.
Ed non può fare altro che spalanca gli occhi e la labbra, cercando di impedire a una risata e a un sospiro di sollievo di sfuggire insieme dalla sua gola.
- Nii-san… buon San Valentino. – mormora il ragazzino, arrossendo, porgendogli un pacchetto rosso avvolto da un morbido nastro blu.
Sarà un bel pomeriggio.

*


Personaggi: Alphonse, Edward
Avvertimenti: …lol? XD
Rating: G
Parole: 84
#08 – Happiness


Il vento su tutta la superficie del corpo. Sente la pelle talmente ghiacciata che ha quasi paura gli si possa staccare di dosso e cadere per terra come una pelliccia smessa.
Non gli importa.
Sente, sente, sente tutto dopo anni, dopo quella che gli sembra una vita intera, e non gi importa davvero di niente, quella è felicità.
- Al! – strilla suo fratello, inorridendo, apparendo alle sue spalle e correndogli incontro con una giacca recuperata chissà dove, - Cosa stai combinando nudo al balcone?!

*


Personaggi: Edward, Alphonse, Winry
Avvertimenti: Incest, Riferimenti sessuali (accennati)
Rating: R
Parole: 109
#09 – Telephone


- Pronto, Ed?
- W-Winry! C-Ciao, come va?
La ragazza sembra notare le sue esitazioni.
Ovviamente.
- Ed… - chiede esitante, - io sto bene, ma sei sicuro di star bene tu?
Suo fratello gli fa scivolare lentamente una mano addosso. Il tocco con l’armatura ghiacciata lo fa rabbrividire, e si riscopre di nuovo eccitato. Sa che, se suo fratello potesse, in questo momento starebbe sorridendo lascivo dall’alto dell’innocenza dei suoi gioiosi quattordici anni.
Santo cielo.
L’adolescenza.

Sorride, rigirandosi il cavo del telefono fra le dita.
- Oh, sì. – risponde con naturalezza, e con un tono che terrorizza la ragazza dall’altro lato della cornetta, - Non potrei stare meglio.

*


Personaggi: Edward, Alphonse
Avvertimenti: Nessuno
Rating: G
Parole: 117
#10 – Ears


- Che stai facendo?!
Incrocia le braccia sul petto e arriccia le labbra in un’espressione imbronciata.
- Non lo voglio!
- Nii-san! Devi bere!
- Non lo voglio!
- Non mi importa!
- Ho detto che non lo voglio e basta!
Al stringe i pugni, e grugnisce inviperito.
Dopodichè, allunga una grandissima mano verso il suo viso e gli afferra un lobo, cominciando a tirare con rabbia verso il basso.
- Ah- Al! AL! Fermati subito!
- Berrai?
- No!
- Berrai?!
- Sì! Sì! Sì! Per carità, sì! Lasciami andare!
Al si scosta con un sospiro soddisfatto, porgendogli la sua dose quotidiana di latte in bottiglia.
Che strazio.
Avrà le orecchie rosse per tutto il giorno.