rp: gustav schafer

Le nuove storie sono in alto.

Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Eko/Valezka, Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Het.
- "Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore."
Note: Credete pure ai vostri occhi, la nuova shot del GD è qui! E, in un'incredibile concomitanza di buone notizie, non solo è una shot dal POV di Eko, un POV che, sappiamo, attendiamo tutti con impazienza, ma è anche, finalmente, l'ultimo spin-off prima di ricominciare a parlare di cose serie tipo LA TRAMA. Sì, non ce la siamo dimenticati. Anche questa serie ne ha una. No, l'argomento principale della serie non è il matrimonio del Flerkuza, anche se ne parliamo di nuovo anche in questa shot (perché non sarebbe il GD se lo stesso identico avvenimento non venisse riproposto in mille salse da due trilioni di POV differenti). Portate pazienza per questa lunghissima shot (Eko aveva voglia di raccontarci la sua INTERA ESISTENZA, scusate) e vi promettiamo che già nella prossima shot cose nuove ed incredibili cominceranno ad accadere!
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LIVING THE DREAM

In pratica è successo che Fler e Chakuza si sono sposati, e noi lo veniamo a sapere il giorno dopo quando, uscendo tutti dalle nostre camere e scendendo fino al piano terra per fare colazione, troviamo Bill e Bushido che fissano il vuoto aprendo e chiudendo la bocca come pesci rossi nell’acquario mentre Chakuza cerca di darsi un contegno spilluzzicando la colazione e Fler si regge un panno bagnato sulla testa, mentre la sua tazza di caffè nero viene riempita a intervalli regolari da un cameriere che pare messo lì apposta per fare solo questo.
Io, per la verità, neanche volevo scendere a fare colazione. Stavo bene in camera mia. Mi hanno piazzato in una ricostruzione in piccolo della foresta Amazzonica, con le liane che pendono giù dal soffitto e le pozze d’acqua sul pavimento in bagno, che non ho ancora capito se è per mantenersi in tono con l’ambiente o perché s’è rotto lo sciacquone e per tamponare l’esondazione in bagno ci ho dovuto mettere gli asciugamani. Tant’è che poi per fare i bisogni ho dovuto usare il bagno di Kay, che invece è stato infilato in una stanza della reggia di Versailles trasportata qui appositamente da Parigi, e ha le tende di broccato pure nella doccia. Una roba, veramente.
Comunque, io stavo lì tranquillo appeso alla mia liana e dondolavo a testa in giù, quando il telefono squilla urlando come Tarzan. Saltando agilmente da una liana all’altra, mentre il mio pigiama-perizoma svolazza nell’aria umida della foresta pluviale, giungo fino al comodino ed allungo un piede prensile verso la cornetta. La stringo fra le dita e la pianta del piede e, piegandomi con notevole nonchalance, la porto all’orecchio, rispondendo con un verso scimmiesco. Poi mi rendo conto che mi sono lasciato un po’ trasportare e mi riprendo.
- Pronto? – dico, e Kay, dall’altro lato, trattiene il fiato, prima di rispondere.
- Vieni giù, - mi fa, - abbiamo un problema.
Insomma, vado di sotto e poso gli occhi sulla coppia reale in stato catatonico, e ipotizzo che una maledizione sia stata lanciata sul nostro re e sulla nostra principessa. Sicuramente qualcosa che coinvolge il primo cavaliere e il consigliere di corte deve essere accaduta, perché mai Bushido e la principessa sono stati in questo stato, se non per cose che coinvolgessero Chakuza e il suo consorte privo di fissa dimora.
- Insomma, - domando, prendendo posto accanto al principino Tom che, gli occhi ancora chiusi ed evidentemente infastidito dall’essere stato buttato giù dal letto a quest’ora, dorme col naso affondato nella propria tazza, - che è successo?
Bushido continua a fissare il vuoto mentre la nostra reale sovrana prova a rispondermi, non ci riesce e pertanto tira fuori un fazzoletto di pizzo da non so dove e ci scoppia a piangere dentro, tutto scosso dai singhiozzi, mentre Fler si lamenta perché il suono del pianto di Bill lo infastidisce e Chakuza si passa una mano sul viso, spossato.
- Fler e Chakuza si sono sposati. – chiarisce per tutti Kay. Tom affonda di un altro paio di centimetri nella propria tazza, poi gorgoglia e si tira su, il naso impiastricciato di schiuma. Si pulisce con un tovagliolino e poi torna a dormire in piedi.
Io guardo il mondo – Bushido ancora imbambolato, Bill che piange più forte al solo sentire il problema che viene ripetuto ad alta voce da Kay, Fler e Chakuza che indossano degli anelli orrendi e quei due strani amici dei gemelli che, dimostrando molta più intelligenza di tutti noialtri, se ne stanno per fatti loro ignorandoci – e spalanco gli occhi.
- Mi sa che voi due vi siete bevuti il cervello, - dico, rivolgendomi alla coppia di novelli sposi, - e se ve lo dico io che fino a due minuti fa stavo penzolando giù da una liana, potete credermi.
- Stavi facendo cosa? – domanda Kay, fissandomi con un paio d’occhi pallati che sono tutto un programma, ma io lo liquido con un gesto della mano perché mi pare che qui i problemi siano ben altri. Questi due si sono sposati, non so se rendo l’idea. Ora noi torneremo in Germania e tutto il mondo titolerà che Fler e Chakuza sono la prima coppia di rapper tedeschi gay ad essersi unita in matrimonio. No, voglio dire. Chakuza e Fler. Ce li avete presenti?
Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore.
- Senti, non mi sembrano fatti tuoi. – protesta Chakuza, evidentemente di malumore. Dico io, se dovevi essere così uggioso, tanto valeva che non ti sposassi affatto. Ti ho forse obbligato io a farlo? No, sto esprimendo un’opinione su quello che credo sia stato un comportamento assolutamente folle. Puoi tu odiarmi perché do voce alle mie proteste? Ma assolutamente no. Qui mi sa che l’usciere di corte si sta prendendo delle libertà che se il nostro signore e padrone fosse in sé non gli concederebbe assolutamente. Solo che egli non è in sé, quindi mi tocca difendermi da solo.
- Sto solo dicendo – ribatto, fissandolo in cagnesco, - che non mi sembra una gran pensata quella di sposarvi. Non avete riflettuto sulle conseguenze di questo gesto? Il matrimonio è un vincolo sacro.
- Ah, e tu sei il massimo esperto in materia, suppongo! – sbotta Chakuza, battendo un pugno sul tavolo. Fler, al suo fianco, mugola dolorosamente e gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo. No, dico. Lo ripeto. Gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo! Ma delicatamente, come la moglie che è! Non credo di aver mai visto niente di più gay in vita mia, ed io ho accompagnato Bill a fare shopping. No, per dire.
Mentre ancora inorridisco per questa cosa della mano sul braccio – me la sognerò nei secoli a venire, il mio sonno non sarà mai più tranquillo e sereno, io che ho sempre dormito come un bambino, mi viene da piangere – Fler si toglie la pezza bagnata dalla testa e manda giù un po’ di caffè, per poi rivolgersi direttamente a me. Io mi metto a bere il mio latte macchiato perché ho paura che mi contagerà con la sua gaytudine se mi guarda dritto negli occhi. Come Medusa, ma con delle miniature dei Village People per capelli al posto dei serpenti.
- Eko, - mi spiega con pazienza, - eravamo ubriachi, non ci abbiamo riflettuto granché sopra e probabilmente abbiamo agito in maniera avventata, ma non siamo pentiti di averlo fatto e ci rendiamo perfettamente conto della nostra situazione adesso. Siamo molto contenti di come sono andate le cose, e ti pregherei di rispettare almeno questo.
- Sono contenti, loro! – strilla a quel punto Bill, il viso inondato da una marea di lacrime e mascara. La sua voce è talmente alta che Fler fa una smorfia e torna a nascondersi sotto il suo panno bagnato, sofferente. – Siete contenti, eh? E io non ho potuto nemmeno organizzare un rinfresco, o occuparmi dei fiori per decorare la cappella! Scommetto che non c’era nemmeno una rosa bianca sulla navata centrale!
- Io scommetto che non c’era nemmeno la navata. – borbotta Tom, gorgogliando col naso di nuovo tuffato nel caffellatte, e Bill torna a piangere, lanciando il fazzoletto ormai sporco alle sue spalle e centrando in pieno il cesto pieno di altri fazzoletti usati che il cameriere dritto in piedi dietro di lui regge fra le braccia, per poi prenderne un altro dal dispensatore che un altro cameriere, fermo al suo fianco, gli porge con sussiego.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, fissandolo con sconcerto.
- No, dico, - sbotto, - è questo il problema? Cioè, tutta questa tragedia greca, - dico, indicando in un gesto omnicomprensivo i pianti, i fazzoletti, tutta la corte depressa forzata a scendere per la colazione ad orari indecenti eccetera eccetera, - non è perché quei due si sono sposati ma perché la principessa non è stata avvertita in tempo per organizzare le nozze?
Mentre Bill scoppia in lacrime un’altra volta, perché evidentemente le mie parole hanno fatto centro nel cuore del problema, Bushido sospira e sorseggia il proprio caffè con l’aria compunta di uno che soffre molto ma non vuole darlo a vedere per orgoglio personale; una faccia che per la verità ha spesso, perché voi dovete sapere che il nostro signore e padrone, qui, è convinto che tutto il mondo ce l’abbia con lui. C’è la vita vera, e poi c’è la vita che Bushido è convinto di vivere nella propria testa, e in questa deviazione della realtà il cosmo intero complotta contro la sua felicità, ma lui, con la sua forza, il suo eroismo e la sua caparbietà è sempre in grado di ribaltare situazioni senza speranza e risolvere ogni problema, mentre cavalca in sella al proprio stallone bianco panna verso il suo per sempre felici e contenti.
Naturalmente non c’è bisogno che io stia qui a dirvi che è tutta una montatura, che in realtà quest’uomo oltre al fatto che gli va sempre bene in generale ha anche una fortuna sfacciata che, tipo, gli permette di non morire mai, una roba che le persone normali purtroppo non possono neanche sognare, ma lui ci crede molto, e questo gli permette di andare in giro a fare quella faccia lì, la faccia dell’eroe tormentato, e crederci pure tantissimo, e risultare per questo molto convincente mentre beve il suo caffè e si pinza la radice del naso come non riuscisse a capacitarsi di avere tutte queste sfighe, poverino.
- Io, per la verità, di problemi con quello che è successo ne avrei parecchi. – dice, lanciando a Fler un’occhiata tale che mi viene voglia di agitargli una mano davanti alla faccia e dirgli “whoa, ehi, adesso, calmiamoci prima di scatenare un conflitto atomico solo perché il nostro ex amante si è sposato con l’usciere”, - Ma sì, sostanzialmente il problema che ha scatenato la tragedia sotto i tuoi occhi al momento è questo.
- Ci tenevo così tanto, Eko! – squittisce disperata la principessa, riemergendo dal fazzolettino usato e soffiandosi il naso con veemenza.
- Ma se neanche sapevi che avevano intenzione di farlo? – obietto io, inarcando un sopracciglio.
Bill si interrompe e per un paio di secondi cala il silenzio. E poi riprende a piangere con più convinzione.
- Sì, appunto! – dice, come se quello che ho appena detto fosse in qualche modo stato di aiuto alla sua causa, - Non ci tenevo solo perché non sapevo che sarebbe accaduto, ma una volta che è accaduto ho scoperto che ci tenevo tantissimo! Non capisci? Se me l’avessero detto, ci avrei tenuto un sacco!
- Bill, solo tu nel mondo puoi considerare l’interesse per un avvenimento retroattivo. – sospira Tom, facendo le bollicine nel caffellatte.
Nel mentre, però, io sono costretto ad ammettere che, in fondo, il ragionamento ha senso. Intendo, non è che Bill andasse in giro strillando di voler essere il wedding planner di Fler e Chakuza, ma non lo faceva solo perché non aveva idea del fatto che questi due volessero sposarsi. Probabilmente, se l’avesse saputo allora sì, sarebbe andato in giro strillando di voler essere il loro wedding planner e tutto. Ora da un lato sono grato a Chakuza e Fler per averci risparmiato l’imbarazzo, ma dall’altro mi dispiace per la povera principessa, che tiene a poche cose nel mondo – in genere tutte quelle sbagliate – e per giunta nessuno gliele dà mai.
- Okay. – annuisco quindi, e tutti si voltano a guardarmi con una preoccupazione decisamente fuori luogo, - C’è una sola soluzione, per questo.
- Eko, non credo che tu sia nella posizione di proporre soluzioni a problemi inesistenti. – borbotta Chakuza, guardandomi in cagnesco. Ma io vedo che la principessa ha sollevato gli occhi su di me e mi sta fissando speranzosa, e io non posso deluderla proprio adesso.
- Tu e Fler dovreste sposarvi di nuovo. – proseguo quindi, ignorandolo, - Qui, nella sala ricevimenti dell’albergo. Bill potrebbe avere il resto della giornata per organizzare l’evento, stasera potreste dire sì in una cornice meno squallida di una stupida cappella a Las Vegas con qualche finto prete ubriaco che vi benedice, e tutti sarebbero contenti.
- Eko! – si agita tutto Bill, lanciando via il fazzoletto e giungendo le mani sotto il mento, - Ma così, all’improvviso? Organizzare un matrimonio in sole dodici ore? È impossibile!
- Be’, - scrollo le spalle, guardando altrove, - se non pensi di potercela fare, meglio così, passeremo la serata fuori e ci divertiremo lo stesso.
- Stai scherzando?! – strilla a quel punto lui, saltando in piedi ed asciugandosi sommariamente gli occhi, - Mi metto subito al lavoro.
Abbandona la sala subito dopo, riapparendo dopo qualche secondo per afferrare suo fratello e Bushido e trascinarli via con sé, mentre loro gli sbraitano dietro di lasciarli andare immediatamente e lui, naturalmente, non sta affatto a sentirli.
A fare colazione restiamo solo io, Kay, i novelli sposi e i due amici dei gemelli, i quali spariscono a loro volta quando Bill si riaffaccia ed inarca un sopracciglio, segnale apparentemente sufficiente a convincerli a seguirlo con un sospiro.
- Nessuno ha chiesto il nostro parere. – nota a quel punto Chakuza, sconvolto.
Fler emette un lamento disperato, si toglie la pezza umida dalla faccia e si alza in piedi.
- Ho bisogno di dormire. – conclude, abbandonando il tavolo a propria volta.
Restando compostamente seduto, io mi godo il mio caffè ed il mio croissant, consapevole di aver compiuto anche oggi la mia buona azione quotidiana.
*
Con i preparativi, comunque, io non voglio avere niente a che fare. C’è solo un numero limitato di gaiezza che un uomo eterosessuale può sopportare prima di cominciare a dubitare delle proprie posizioni aperte e liberali, e Bill che si improvvisa wedding planner e si mette ad addobbare la sala conferenze dell’albergo riempiendola di nastri di seta, palle traslucide di vetro di boemia, rose rosa, giacinti e gelsomini supera abbondantemente quel numero già di per sé superato dal fatto che il matrimonio è quello di Chakuza e Fler, per cui io decido di lasciare ognuno alla propria occupazione – anche perché Bill il mio aiuto non lo ha chiesto – ed esco felice per le strade di Las Vegas.
Una cosa bella di Las Vegas è che fra il giorno e la notte non esiste la minima distinzione. Cioè, tu ti svegli tranquillo di buon mattino, bevi il tuo caffè, mangi il tuo biscotto, trangugi la tua fetta di pane tostato con burro e marmellata, poi prendi, esci e per strada sono le undici di sera. Cioè, non nel vero senso dell’espressione, intendo, non è che c’è una calotta di vetro sopra Las Vegas che simula il buio e il sorgere della luna eccetera eccetera, no; tu esci per strada a mezzogiorno e non è che è notte, c’è il sole e tutto, però ecco, locali che in qualsiasi altro posto nel mondo a quest’orario qui sarebbero chiusi a doppia mandata, a Las Vegas sono aperti.
Per cui io passeggio allegramente per strada mentre gente già ubriaca corre, urla e si bacia pubblicamente senza il minimo pudore, e poi trovo un localino simpatico che mi ispira, e decido di passare lì il resto della mia giornata.
Poi niente, entro, mi siedo, ordino una birra, guardo il palco e vedo che c’è sopra Valezka che canta, e decido che voglio passarci anche il resto della mia vita.
*
La cosa con Valezka è stata molto complicata. Lo è stata fin da subito, ma non sia mai detto di me che sono un uomo che non gli piacciono le cose complicate, perché io per le cose complicate impazzisco, cioè, mi piacciono proprio un botto, tant’è che vivo con Bushido. Cioè, non assieme, ma quasi, specie considerato il fatto che quando sei nel giro del Bu non c’è scampo, che tu viva a venti o a duecento metri da lui sarà sempre e comunque come se gli vivessi in casa. Bushido è il tipo che si presenta sulla porta di casa tua e ti dice “che stai facendo?”, e se tu tipo gli rispondi “guardavo porno in tv col dolby surround a volume massimo” ti strilla “non finché vivi sotto il mio tetto!”, e tu ti terrorizzi e gli rispondi di sì e spegni subito la televisione anche se dentro di te sei consapevole di non vivere sotto il suo tetto. È tutta una questione di modo di porsi, sapete, Bushido c’ha un po’ quell’atteggiamento che potrebbe vendere ventilatori in Lapponia.
Comunque, il punto non sono le enormi potenzialità di venditore di ventilatori porta a porta di Bushido, il punto è che Bushido è una cosa complessa, e il fatto che io sia un suo sottoposto dimostra che a me le cose complesse piacciono molto.
E infatti Valezka è tipo la cosa che mi è piaciuta di più in tutta la vita.
L’ho conosciuta che aveva ventun anni, ed io ne avevo diciannove. Eravamo due pischelli che non sapevano niente del mondo e volevano soltanto divertirsi, ma il punto non è tanto che fossimo giovani e avessimo voglia di divertirci, ma che non fossimo solo in due. Era infatti il duemiladue, e sapete cosa succedeva nel mondo fra il duemilauno e il duemiladue? Pacey e Joey si mettevano insieme, rovinando la vita di Dawson, e poi rovinandosi la vita a vicenda già che c’erano.
In sostanza, più o meno, è la stessa cosa che è successa a noi. Nel duemiladue, infatti, io lavoravo in un negozio di scarpe – no, lo so che sembra che quello che sto dicendo non abbia nemmeno una minuscola parvenza di logica, ma non è così, seguitemi e giuro che, alla fine, tutto avrà senso – da qualche anno, dopo aver lasciato la scuola, anche se in realtà sarebbe più corretto dire che è stata la scuola a lasciare me, nel senso che alla terza espulsione abbiamo entrambi capito che le nostre differenze erano inconciliabili, ed abbiamo pertanto deciso di prendere strade differenti, per la soddisfazione di entrambi.
Insomma, io lavoravo in questo negozio di scarpe che si chiamava Il Piede del Fauno, che voglio dire, è un nome ridicolo e anche fuorviante, perché i fauni hanno piedi caprini ma noi non vendevamo scarpe caprine, vendevamo scarpe normali. Era un lavoro part-time, stavo lì solo qualche ora ogni mattina, anche perché il proprietario, il vecchio signor Wagner, aveva qualcosa come otto miliardi di anni e riusciva a restare sveglio e presente a se stesso solo nella fascia oraria fra le dieci del mattino e mezzogiorno, però ecco, io mi divertivo abbastanza, la paga non era male, tutto considerato, e di lì passavano un sacco di ragazzi perché principalmente vendevamo scarpe da tennis e in quegli anni la scarpa da tennis era un must per tutti gli adolescenti in tutto il mondo.
Insomma, è stato lì che un giorno ho conosciuto Kool Savas. Ovviamente, ai tempi non era Kool, era solo Savas, però aveva un progetto. È importante avere un progetto, nella vita. Pensate a Bushido, lui un progetto ce l’aveva, ed era diventare il più grande rapper tedesco mai esistito. Oh, è dovuto passare per l’inferno, per riuscirci, ma c’è riuscito, eh. E tutto perché aveva un progetto.
Anche Savas ne aveva uno. Un pelo più modesto – aprire un’etichetta e diventare famoso – ma ce l’aveva. E un giorno entra al Piede, che gli servivano un paio di scarpe nuove, e mi trova lì che sistemo scarpe sugli scaffali cantando Ready to Die, e mi fa “Tu!”. Al che io mi volto e lo guardo, e tenete presente che io appunto ai tempi ero poco più di un pischello, mentre lui praticamente era già un uomo adulto. Per cui mi fa “canti bene”, e io ovviamente reagisco come reagiscono tutti i pischelli quando un uomo adulto fa loro un complimento, cioè da un lato mi sento fighissimo e dall’altro mi pongo due o tre dubbi su cosa il tipo voglia da me.
Lui mi fa “guarda, sto aprendo un’etichetta. Se ti va, vieni in studio e ti facciamo un provino”, e poi mi passa questo bigliettino da visita col suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono.
Sul subito ero un po’ incerto, cioè, ero consapevole che non è che potessi rimanere impiegato al Piede del vecchio signor Wagner per sempre, anche perché lui aveva già passato l’ottantina e mi aveva già detto che, alla sua morte, il Piede sarebbe morto con lui. Per inciso, in questo momento il vecchio signor Wagner ha superato abbondantemente i novanta ma è ancora perfettamente vivo e vegeto, e il Piede assieme a lui. Comunque, niente, non è che io sognassi di diventare un cantante o chissà che, però mi sembrava che la prospettiva di mettermi a lavorare per un ventisettenne mi sorridesse un pelo di più che quella di lavorare per un ottantaduenne, per cui dico arrivederci al vecchio signor Wagner e, il giorno dopo, mi presento agli studi della Optik Records, faccio il mio provino e, fra poderose pacche sulle spalle e poderose dosi di birra alla spina, entro a far parte della grande famiglia di Savas.
Voi dovete capire, Savas, da quel momento in poi, per me è diventato una specie di punto di riferimento. Per dire, i miei erano divorziati, io sostanzialmente ero cresciuto senza un padre perché a quei tempi, capite, non era mica come adesso, quando un uomo se ne andava di casa non è che si prendeva bene coi diritti del padre, i finesettimana insieme, le visite giornaliere e tutto il resto. A quei tempi te ne andavi di casa e basta, e mio padre questo aveva fatto. Quindi niente, quest’uomo che non era assolutamente vecchio al punto da farmi da padre ma che in parte si comportava da tale, quest’uomo che mangiava solo lattuga e beveva solo latte di soia, quest’uomo che suo padre era stato prigioniero di guerra e che aveva vissuto l’infanzia fra la Germania e la Turchia, quest’uomo che a meno di trent’anni era già indipendente e sapeva esattamente cosa voleva dalla vita, per me era una specie di faro nell’oscurità, uno che io lo guardavo e pensavo ecco!, alla sua età io voglio avere le stesse cose che avrà lui, voglio fare le stesse cose che fa lui. Magari mangiando bistecche, anche, ma insomma.
In ogni caso, succede che Savas mi accoglie nella sua vita come una specie di orfano adottato, anche se non sono orfano e lui non mi adotta. Un pomeriggio restiamo alla Optik a lavorare a qualche beat fino a tardi e, ad un certo punto, il mio stomaco esplode in gorgoglii sinistri, e lui si mette a ridere e mi fa “vieni a cena da me, ti faccio conoscere la mia ragazza”.
E qui entra in gioco Dawson’s Creek, appunto. Insomma, Savas mi porta a casa da lui, entriamo e io sento questa voce dolce che viene da una stanza che, dall’ingresso, non riesco a vedere. E Savas fa “Vale? Ho portato ospiti”, e lei si affaccia.
Vedo prima i capelli. I ricci! Questo casco enorme di ricciolini bellissimi che sembra di trovarsi davanti all’improvviso Diana Ross al suo meglio solo un pelo più bionda! Io non so bene come funzionino i colpi di fulmine, non è che mi sia capitato molte volte di prendermi così bene all’improvviso con una ragazza, ma sono abbastanza sicuro che quello per Valezka sia stato un colpo di fulmine. Ma non uno di quelli scemi, che ti prendi una cotta e dopo due mesi, importante per quanto la relazione possa essere stata, è già tutto finito. No, io guardo Valezka, la sua pelle color caramello, quei ricciolini, il sorriso enorme e quegli occhi scintillanti da cerbiatta, e penso “è lei!”, con entusiasmo, proprio, con convinzione, perché era lei davvero.
Unico problema: è la ragazza di Savas, ovviamente. Cazzo!, penso, dico, ma si può essere più sfigati? Vi pare che la donna di cui devo andarmi a innamorare perdutamente può essere una ragazza normale, libera, disponibile? No! Dev’essere la cazzo di tipa del mio datore di lavoro nonché pilastro e faro luminoso attorno al quale la mia nuova vita ruota. Dico.
Insomma, da questa cena io esco completamente traumatizzato, perché da un lato ho incontrato la donna della mia vita e dall’altro è la donna del mio migliore amico. Tragedia. Novello Pacey del rap tedesco, mi aggiro depresso per la città per giorni sapendo di voler baciare questa donna senza poterlo fare. E mi prendo pure male con me stesso perché a me Pacey stava sul culo. Cioè, ti affido la mia donna e ti dico “prenditene cura finché io metto a posto la mia merda” e tu te la limoni alle mie spalle, restauri una barca in suo nome, diventi il beniamino della sua famiglia eccetera eccetera? Ma sei proprio stronzo.
E quindi sono lì che mi sento uno stronzo e non voglio e prego intensamente che qualche altra donna che non sia la fidanzata di Kool Savas mi appaia davanti rubandomi il cuore, quando un giorno che sono solo agli studi ovviamente si presenta Valezka, e io perdo completamente il senno.
Siccome Savas è fuori ma dovrebbe tornare fra poco, mentre lo aspettiamo ci sediamo e parliamo un po’, e viene fuori che abbiamo un sacco di cose in comune, tipo che a nessuno dei due piace la maionese, che entrambi pensiamo che la gente abbia un’opinione esageratamente negativa nonché discriminante sui piccioni e che sia io che lei proviamo sentimenti contrastanti nei confronti del crème caramel. Cioè, più che altro lei ride e mi dice che non aveva mai pensato a nessuna di queste cose nei termini in cui io gliele ho presentate, ma che ora che le ha sentite è perfettamente d’accordo con me e le piace il mio modo di pensare. Una roba in seguito alla quale io sento di avere ogni diritto possibile di immaginare una lunga vita priva di maionese, piena di piccioni e moderatamente dotata di crème caramel al suo fianco, se non che mentre io sono perso in queste mie legittime fantasie noto che lei è nervosa e un po’ triste e continua a guardare l’orologio come una che ha una cosa tremenda da fare e allo stesso tempo vuole farla il prima possibile e non vuole farla mai.
Al che le chiedo se c’è qualche problema, ed è lì che lei mi fa questo sorriso minuscolo e triste così bello che io ovviamente mi innamoro di lei il triplo, e mi spiega che è da qualche settimana che cerca di trovare il coraggio per lasciare Savas. “Oddio,” le faccio io, “Lo sapevo che sarebbe successo. È colpa mia!”, e lei scoppia a ridere e mi fa “Eko, sei un cretino”, e poi mi spiega che no, non è colpa mia. Mi spiega che lei e Savas si sono messi insieme tre anni prima, che lei era solo una ragazzina, quando l’ha conosciuto, e che lui era fighissimo e faceva un sacco di cose appropriatamente fighissime tipo nutrirsi per settimane intere solo di bieta e ravanelli e via così, e che lei s’è innamorata di lui anche perché lui che era così adulto non la trattava come una ragazzina e tutto il resto, una roba che io potevo capire perfettamente perché, insomma, per me era stato uguale. Per cui le dico che la capisco e lei mi fa “ah, ti sei innamorato di lui anche tu?”, e io lancio uno strillo e sollevo entrambe le braccia e dico “no!”, e lei ride e mi dice “ti stavo prendendo in giro”, e io mi innamoro di nuovo e capisco che la mia vita da quel momento in poi sarà un continuo innamorarmi di lei di nuovo e di nuovo, così, senza soluzione di continuità.
Mentre io realizzo questa cosa che un po’ mi spaventa ma che in generale mi piace e basta, lei continua e mi dice che sì, insomma, è rimasta innamorata di lui per un sacco di tempo, ma che ha l’impressione di essere cresciuta, adesso, e non si sente più così attaccata a lui. Gli vuole bene, gli è affezionata, l’idea di spezzargli il cuore la devasta, però insomma, lui sta cominciando a parlare di convivenza e lei ha bisogno di chiudere questa storia prima che diventi troppo grande e ingestibile.
E io la bacio.
Tipo che non me ne frega niente! Okay! Che ancora non l’abbia lasciato, che magari possa cambiare idea e decidere di restare con lui, trasferirsi in casa sua, sposarlo e fare con lui un milione di bambini! Che mi abbia detto che comunque non è certo a causa mia che vuole lasciarlo! Non me ne frega niente. La bacio e basta. E mi batte il cuore tantissimo perché lei mi piace così tanto che il terrore di venire respinto è quasi paralizzante. Ma non a sufficienza, evidentemente, perché alla fine la bacio comunque.
E ovviamente è quello il momento in cui Kool Savas rientra, e ci trova in quel modo lì che ci baciamo impunemente all’interno di un locale per il quale lui e lui solo paga l’affitto.
Insomma, non proprio la cosa migliore che poteva accadere, specie perché Valezka voleva lasciarlo per tutta una serie di motivi validissimi e onesti, e lui invece ci ha beccati a fare l’unica cosa che quei motivi li invalida tutti. A quel punto non conta più che lei volesse lasciarlo già da prima che ci conoscessimo, che sia semplicemente cresciuta e le sia passata la cotta adolescenziale e non si senta pronta a vivere tutto il resto della propria vita al fianco di un uomo di cui non è sicura di essere innamorata, no; l’unico motivo per cui lei vuole lasciarlo, dal punto di vista di Savas, è che io l’ho limonata in casa sua. Una roba falsa e pure un po’ triste, in definitiva, ecco, specie perché invalida tutta la questione del volergli ancora bene ed essere triste all’idea di spezzargli il cuore, una cosa che puoi dire quando lasci il tuo uomo perché ti è passata la cotta, ma che non puoi assolutamente dire quando lo lasci dopo che lui ti ha beccato a limonarti un suo sottoposto sul luogo di lavoro.
Insomma, Savas non la prende bene, ovviamente. Sfido io. Si lancia in tutta questa filippica un po’ imbarazzante, e come avete potuto, e in casa mia, e la mia donna, e io ti ho accolto come un fratello, e io ti ho dato l’opportunità della vita, e come ho potuto essere così cieco, e certo Eko che sei proprio uno stronzo e via così. Ci butta fuori entrambi, intimandoci di non farci più vedere o ci sguinzaglia contro i cani. E, dice, non in senso figurato. Al che io lo prendo in parola, perché non c’ho mezza voglia, proprio, di finire sbranato dai dobermann. Proprio ora, poi, che ho Valezka.
Lei è fantastica, ovviamente. Io mi scuso e lei mi sorride e mi abbraccia. “Non è colpa tua,” mi fa, e io sono già lì che penso che ora mi dirà addio e non vorrà più vedermi, e invece lei resta. Tipo che io mi ero trasferito in un appartamento che Savas mi aveva fatto affittare, si era anche preso cura lui della caparra e tutto il resto, e ovviamente non posso più restare lì, e lei mi fa “vieni a stare da me”. Che lei non è che stia in una reggia, poi, ma a me sembra che lo sia perché è un appartamento così carino e così pulito e così profumato, e tutte le stanze hanno una parete dipinta, ogni stanza di un colore diverso, e i mobili sono in tinta. Che poi sono i mobili dell’IKEA, ma non si nota perché sono così carini e il tutto è assemblato con tanto gusto che io boh.
E quindi niente, io per un po’ cerco qualche altro lavoro, non funziona niente, provo a chiedere al vecchio signor Wagner di riprendermi con sé che così almeno cerco di provvedere per la spesa come un brav’uomo dovrebbe fare per la sua donna, ma lui con quel suo unico dente residuo in bocca mi dice “aria, ragazzo!”, che ha già preso un altro tipo più giovane e scemo di me e può pagarlo la metà per fare il doppio delle cose.
Nel mentre, Savas non può sguinzagliarci contro i cani perché io e Valezka ci teniamo ben lontani dalla sua proprietà, ma nel mentre, per pura soddisfazione, mette in moto la macchina delle diss, e in un paio di settimane tutte le radio underground che passano rap locale risuonano del nome mio e di quello della mia ragazza affiancati ad epiteti non proprio piacevoli tipo troia, vacca, stronzo e derivati. Una roba di una tristezza immensa che va avanti per settimane, ma che dico settimane, mesi!, ma che dico mesi, no, mesi, giusto, non va avanti per più di qualche mese.
Perché? Perché a un certo punto arriva Bushido.
Bushido arriva che io ho da poco trovato lavoro in un bar e preparo caffè per gente triste con lavori seri dalle sei del mattino alle sei di sera. È un lavoro abbastanza schifoso che mi costringe a stare in piedi a fare sempre le stesse cose per dodici ore filate, che dopo mesi che tu sei stato un cantante è una roba un po’ schifa, ma anche che dopo anni passati a vendere scarpe da tennis per un matusalemme con un solo dente e la gengiva più bavosa del west è una cosa un po’ schifa, il che dovrebbe funzionare bene come termine di paragone, perché quanto credete che potesse essere bello lavorare per il vecchio Wagner? Ecco, lavorare al Falce di Luna era pure peggio. Volete sapere perché si chiamava così? Ecco, perché Youssuf, il proprietario, si vantava che il bar apriva quando ancora la luna non era tramontata, e chiudeva che già era sorta di nuovo da un pezzo. No, dico, vi pare un buon motivo per vantarsi? Io dico che se vi vantate per una roba simile siete degli schiavisti impenitenti che sfruttano i lavoratori bisognosi pagandoli dieci centesimi all’ora senza neanche permettere loro di portarsi a casa le mance, ecco.
Comunque, la cosa principale del Falce di Luna, oltra al fatto che è il posto peggio del mondo in cui lavorare, è che è un bar di Tempelhof. E voi a chi pensate se io dico Tempelhof? Eh, infatti.
Bushido mi si para davanti un giorno che sono le sette del mattino e io ho sonno. La cosa che ci accomuna, quella sulla quale troviamo subito terreno di comunicazione, è che ha sonno anche lui. Entra, mi fa “non ho dormito tutta la notte”, e io, che sono una persona sincera, dico “io sì, ma ho sonno uguale”. Al che lui mi guarda, si abbassa gli occhiali da sole palesemente troppo costosi sul naso e sorride divertito. Mi fa “e tu chi sei?”, e io potrei anche rispondergli dandogli tutti i miei dati anagrafici e una breve cronistoria della mia esistenza, ma mi dico, a che pro? E gli dico “sono Eko, il barista. Caffè?”, e lui fa “certo, Eko il Barista, caffè”.
Poco dopo entra Youssuf, che nel mentre era impegnato a scaricare il camioncino con le ciambelle. Entra con la sua bella confezione di ciambelle e vede che io ne voglio palesemente una, ma mica me la dà, lo stronzo. No! Si mette lì a sistemarle nella vetrinetta accanto al bancone, con compiacimento, proprio, che, se potesse, si metterebbe a cantare “ed Eko niente ciambelle, ed Eko niente ciambelle!”.
Ovviamente, Bushido e i suoi occhiali da sole palesemente troppo costosi se ne accorgono. E fanno, “Youssuf, Atze, fammi un favore, allungami una di quelle ciambelle, una di quelle con la crema, grazie”, che io non so neanche come facesse a sapere che volevo proprio quella lì, ma lo sapeva. Io non lo sapevo ancora, cazzo, ma lui sì.
E Youssuf, uno stronzo che io non gli ho mai visto neanche offrire una caramella a un moccioso, prende e gli dà la ciambella. “Certo, Atze,” gli fa. E io lì capisco che ho davanti un tipo importante. O pericoloso. O anche entrambi, perché porre limiti alla Provvidenza?
Comunque, lui aspetta che Youssuf sia sparito di nuovo, e poi, tranquillo come se non stesse succedendo niente, come se non stesse violando delle leggi, tipo, nel farlo, mi offre la ciambella. Lui la ciambella non l’ha nemmeno pagata, eh, gli è stata offerta a sua volta. E lui la offre a me. “Tieni,” mi fa, “Sembri avere fame.”
Dico, c’ho la faccia del bambino africano con la pancia rotonda e la mosca sull’angolo dell’occhio? Ce l’ho? Non mi pare. Ma la ciambella ha un aspetto appetitoso e io ho effettivamente fame, quindi mi faccio passare il rigurgito di orgoglio e la mangio, non prima però di aver fatto all’uomo un cenno di ringraziamento, non si dica che mia madre mi ha cresciuto ineducato.
Poi, mentre sorseggia il suo caffè, mi fa “io comunque ti conosco”, e a quel punto, mentre pulisco il bancone e servo gli altri clienti che man mano entrano ed escono dal bar, ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno, chi sono, chi non sono, che ho fatto, che non ho fatto, dove mi ha già visto?, boh, forse da qualche parte mentre ero in concerto, o forse ha visto qualche video che hanno passato in televisione, e quando glielo dico lui s’illumina, spalanca l’occhione color cioccolato e mi indica. “Eko,” fa, “Eko Fresh!”, e io “presente!”, tristezza. Lui scoppia a ridere e mi fa “senti, sono curioso: cos’è successo davvero fra te e Kool Savas?”, e io, placido, “gli ho rubato la ragazza”. Pausa di silenzio. La pausa si prolunga. Io nel mentre gli ho preparato un altro caffè e lui, prima di parlare ancora, lo beve tutto. “Ma che, davvero?”, mi fa, e io annuisco. E mentre sono lì che penso con serietà alla mia vita, alle mie scelte e al fatto che servo caffè al banco di un bar nel quartiere peggiore di Berlino perché non sono stato in grado di tenere l’uccello nelle mutande, metaforicamente parlando, Bushido sorride. Sul momento è un sorriso che non riconosco, anche perché non lo conosco, come fai a riconoscere una cosa che non conosci? Passaggi logici che si perdono ovunque. Comunque, sul momento non lo riconosco, ma col passare degli anni imparerò a capire cosa vuol dire. Vuol dire soldi, e sembra che io sia appena diventato una gallina dalle uova d’oro.
“Eko il Barista,” mi fa lui, tirando fuori dal portafogli una banconota da cento euro e posandomela lì sul bancone, “Io ho un sogno.”
“Minchia,” penso io, occhieggiando la banconota, “Forse lo sto avendo pure io.”
Insomma, com’è, come non è, due giorni dopo torno a casa da Valezka con un contratto ed un sacco di soldi per produrre un album di coppia, io e lei insieme. È il periodo più bello della mia vita. Io e Valezka non facciamo altro che cantare insieme, limonare ovunque ed improvvisare pic nic sul tappeto peloso rosa del suo salotto. Nel mentre, io comincio a partecipare alle spese di gestione dell’appartamento, e quindi casa di Valezka piano piano diventa casa nostra, ed è una cosa bellissima. All’improvviso non importa più a nessuno dei due che fuori da quelle quattro stanze ci sia un mondo tremendo in cui sia io che lei abbiamo tradito la fiducia di un caro amico, ed ora che quel caro amico, ferito, ci odia, noi ci facciamo sovvenzionare da uno che sta facendo la propria fortuna sulle diss che riesce a produrre su qualsiasi altro rapper di una certa rilevanza della scena tedesca. A Bushido non importa che l’obbiettivo sia Sido, piuttosto che Fler, piuttosto che Kool Savas, gli interessa semplicemente averne uno, perché ogni volta che abbatte qualcuno sale di un gradino sul fianco della piramide sociale, e a lui interessa la cima. Poi, se glielo chiedi, lui ti dice che è un romantico, eh. Ti dice che lo sta facendo per proteggere il tuo amore e quello della tua donna, che la vostra storia l’ha commosso, che l’amore vince sempre e lui modestamente è il cavaliere dei puri di cuore e tutto il resto, ma la verità la sappiamo noi e la sa anche lui, quindi non importa.
Poi succede quello che succede sempre quando le cose vanno così bene che tu quasi non riesci a crederci: tutto finisce. E no, non succede d’improvviso. Non è che da un giorno all’altro cose che fino al giorno prima avevano sempre funzionato benissimo improvvisamente smettono di funzionare lasciandoti a piedi come l’auto nuova comprata due mesi fa e dalla quale non ti saresti mai aspettato un tradimento simile.
Le cose richiedono sempre una buona quantità di tempo prima di accadere. La cosa è che, mentre loro lavorano in background per rovinarsi come l’antivirus mentre navighi su YouPorn lavora in background per bloccare i peggio pop up e i peggio malware, tu non te ne accorgi. Non le noti nemmeno, le piccole cose che capitano. Loro capitano e tu niente, completamente ignaro. Chiaro che, quando poi ti esplodono in faccia come i palloncini quando li gonfi troppo, ti prendono di sorpresa. Ma non è che siano davvero sorprese, lo sono solo per te.
E infatti, quando Valezka dopo un paio d’anni di convivenza è venuta da me e mi ha detto “e allora?” è stata una sorpresa solo per me, che avevo vissuto quei due anni in uno stato di beatitudine perfetta inseguendo il sogno del cantante innamorato sotto protezione dell’eroe romantico del nuovo secolo; non è stato per niente sorprendente per lei, invece, che quei due anni li aveva vissuti aspettandosi qualcosa che non arrivava mai e che probabilmente avrebbe continuato a non arrivare mai se lei avesse continuato ad attenderla silenziosamente.
A quei tempi, tutta la questione mi sembrò surreale. Avevo ventidue anni, ma mi sentivo ancora un ragazzino, e sentirmi dire cose tipo “dobbiamo pensare al nostro futuro”, “ci servirà una casa più grande”, “mi piacerebbe avere un giardino” e “se fosse femmina potremmo chiamarla Cynthia” mi terrorizzò profondamente. Non ci avevo mai pensato, non avevo la minima intenzione di pensarci e mi sembrava assurdo che Valezka lo stesse facendo, per cui ogni volta che lei tirava fuori uno di questi argomenti con quella sua aria sognante e piena di speranza per il futuro la mia reazione era l’unica possibile: tacere.
E infatti sono stati i miei silenzi ad uccidere la nostra relazione. Un giorno lei è venuta da me – e posso solo immaginare quanto le sia costato raccogliere il coraggio e confrontarsi apertamente con me per una cosa che, avessi io avuto un cervello normale, non avrebbe avuto bisogno di nessun confronto – e mi ha chiesto “e allora?”, ed io non ho neanche potuto fare il finto tonto, perché sapevo esattamente a cosa si stava riferendo. E perciò le ho detto l’unica cosa che potevo dirle in una situazione come quella, che poi era la verità. “Non sono pronto, Vale,” le ho detto. E lei, donna con due palle così, che quando a me mi dicono che la donna era meglio nel Medioevo io m’incazzo perché come Valezka non ce n’erano mica, nel Medioevo, l’ha accettato. Non c’è stato odio o risentimento, nel nostro addio, niente stronzate del tipo “ho sprecato i migliori anni della mia vita per starti dietro”. Nessuno aveva sprecato niente, e lo sapevamo. Eravamo stati felici. Non c’era nessun motivo di rovinare il ricordo di ciò che era stato solo perché, da quel momento in poi, non poteva più esistere.
Quella sera, dopo aver preparato una borsa con un po’ di biancheria pulita e lo spazzolino da denti, sono uscito da casa di Valezka per non rimetterci più piede, e sono andato da Bushido. Lui mi ha accolto in casa sua, che ai tempi non era ancora la Villa Gialla, ma ci stavamo arrivando, e mi ha ascoltato pazientemente di fronte ad un’insalatiera piena fino all’orlo di kebab preso dal suo kebabbaro di fiducia. Dopodiché mi ha guardato con quegli occhi che fa sempre quando ti vuole bene ma pensa che tu sia stupido, e mi ha detto “Eko! Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per farvi diventare i nuovi Romeo e Giulietta del giovane rap tedesco,” e poi ci siamo messi a ridere. Al che mi ha chiesto come stavo, ed io ho risposto sinceramente che, tutto considerato, stavo piuttosto bene. Lui ha annuito, mi ha ospitato per la notte e il giorno dopo mi ha trovato un appartamento, che poi è quello in cui vivo ancora oggi, ed un contratto per entrare a far parte dell’Ersguterjunge.
Non è che io sia triste per come le cose sono andate, alla fine. Ho una visione della realtà semplicistica abbastanza da pensare che le cose vanno in un modo perché devono andare in quel modo lì, poi sta a te prenderne il meglio e non lasciarti sommergere dal peggio. Secondo me, se a fine giornata puoi andare a letto pensando “bene! Oggi non mi sono lasciato sommergere dal peggio”, hai già vinto. Ed io, modestamente, non mi sono lasciato sommergere mai. Anche perché sarebbe un problema, non so nuotare.
Ogni tanto, però, tipo adesso, o meglio adesso specialmente, visto che ce l’ho di fronte che canta l’ultimo successo di Alicia Keys, ripenso a Valezka e alla sua casa con le pareti colorate e al suo tappeto di pelo rosa sul quale facevamo lunghi pic nic indoor parlando della danza d’accoppiamento delle api o del ritrovamento di uno scheletro alieno in fondo all’Oceano Pacifico, e mi viene da pensa che sì, forse le cose sono andate esattamente come dovevano andare. Ma forse, se mi ci metto d’impegno, potrebbero tornare com’erano.
*
Mi si avvicina con quel sorriso che io non so come affrontare, seriamente. A parte che sono ridicolo perché la sto fissando come se fosse impossibile per lei trovarsi qui, mentre in realtà lo sapevo pure che s’era trasferita negli Stati Uniti un paio d’anni fa. È che mi fa un’impressione pazzesca trovarmela di fronte dopo tutto questo tempo.
Lei, ovviamente, è ancora bellissima, perché le persone che hai amato e che poi hai perso senza mai davvero smettere di amarle non diventano mai brutte. Anzi, semmai su di loro – ma solo su di loro – il tempo e la distanza hanno più effetto di una ricostruzione facciale completa, tipo, mentre tu hai sempre l’impressione che su di te il tempo sia passato senza pietà, rendendoti più vecchio e più brutto e con gli occhi un po’ più a palla e le guance un po’ più cascanti e la pancia un po’ più tonda e sporgente. E quindi io sono qui che la fisso chiedendomi se sia un fantasma o un’apparizione anche se so che non lo è, e tutto quello che riesco a pensare è “oddio, lei è bellissima e invece io sono diventato un roito!”, e mi prendo malissimo per questa cosa anche se coscientemente so che non è che posso essere diventato così tanto più brutto rispetto a quello che ero qualche anno fa, e poi lei finalmente arriva, si siede sulla poltroncina qui accanto a me, mi abbraccia stretto e mi chiama per nome. Così, con la voce della dolcezza. Ed io mi sciolgo perché questi anni che sono passati in mezzo a noi vengono spazzati via solo da quel nome, dal modo in cui lo pronuncia. Apro gli occhi e la guardo e siamo in quella casa, su quel tappeto peloso rosa. Anche se poi non è vero. Io mi sento come se fossi ancora lì.
E perciò potremmo parlare di un sacco di cose, tipo che lei potrebbe chiedermi come va, se sto con qualcuno, se ho in preparazione un nuovo album o anche qualche informazione sulle palesi pazzie che avvengono nella vita di noi tutti da quando Bushido è tornato dalla morte trasformandoci nell’avamposto tedesco dell’Arcigay, oppure io potrei chiederle cosa sta facendo per ora a parte le cover di Alicia Keys nei locali di Las Vegas, o potrei mettermi in ginocchio ed implorarla di uscire a cena con me anche se mi sa che a stento è mezzogiorno, ma niente di tutto questo accade. Io la guardo e le dico “sai cosa? Mi servirebbe qualcuno per cantare ad un matrimonio, stasera”. E lei mi fissa e la sua faccia dice tipo “cosa?”, e io annuisco. “Si sposano Chakuza e Fler,” dico, “Di nuovo. Ora, non sono sicuro che la principessa abbia previsto la presenza di una cantante, ma sono sicuro che le farà piacere. Vieni con me?”
E sono sicuro al cento percento che, di quello che dico, Valezka non capisca un accidente. Si starà chiedendo chi diamine sono Chakuza e Fler, perché sentano il bisogno di sposarsi un’altra volta, e soprattutto chi sia la principessa, ma non fa nessuna di queste domande, ed io non le do nessuna di queste risposte. Si mette a ridere, però, ed annuisce. Poi si alza e viene con me. È un buon inizio.
*
Quella sera, Valezka indossa un vestito pieno di volant e trine della stessa tonalità di fucsia degli orli e delle pochette che spuntano dai completi neri di Bill, di suo fratello e di Kay One, forzati a fare le damigelle d’onore in mancanza di donne più adatte allo scopo. Bushido, avvolto in un elegante completo grigio scuro, siede in prima fila, imbronciato come se gli fossero morti tutti i cani tutti insieme, una roba vergognosa. Io, infilato in un completo di lino beige, gli batto un paio di pacche sulla spalla.
- Coraggio, Atze, - gli dico, - È un po’ come dar via una figlia, no? – provo a consolarlo, mentre di fronte all’altare Fler e Chakuza si scambiano pigramente i loro anelli dalle forme improponibili per una seconda volta che non dev’essere per niente meno surreale della prima, sul sottofondo musicale di Bill che si perde in singhiozzi e di Valezka che canta No One.
- Ecco, appunto, Eko. – dice lui, ringhiando, - Ti pare che, se avessi una figlia, la darei in sposa ad uno come Chakuza?
E qui non aggiungo niente perché in effetti mi rendo conto che sarebbe crudele. Povero Bushido. Praticamente, se aveva un erede, nel mondo, quell’erede era Fler. Ora è come avere indirettamente regalato tutto il proprio impero a Chakuza. Il nano austriaco. Due volte! Avremo bisogno di molto champagne, più tardi.
La cerimonia finisce che il mal di testa di Fler è, se possibile, ancora peggiorato. Bill chiede a Chakuza di restare per un brindisi, ed è evidente che Chakuza vorrebbe dire sì perché è l’unica reazione che il suo corpo concepisce di fronte a Bill, un sì proprio generalizzato che si espande in tutte le direzioni e su tutti i piani di accettazione dell’uomo, ma prima di dare aria alla bocca si volta a guardare Fler, vede in che condizioni è e, miracolosamente, risponde di no.
- Devo riportarlo in camera o sviene. – aggiunge con una mezza risata. Fler gli tira un cazzotto contro una spalla che non dev’essere stato nemmeno tanto tenero, e lui non si lamenta neanche. Mi volto verso Bushido con l’intenzione di dirgli “guarda! Almeno lo tratta bene, con rispetto”, ma lui mi zittisce prima ancora che io possa provarci. Eh, se vuoi essere geloso della tua progenie, allora. Siilo. Cosa vuoi da me.
Lo lascio andare, che tanto prima di poter pensare razionalmente a questa cosa che Fler s’è sposato con l’uomo che gli ha rubato Bill gli serviranno degli anni, e mi volto verso Valezka.
- È sempre così, da voi? – mi domanda ridendo mentre si sfila dai capelli i fermagli fucsia intonati col vestito.
- In realtà ci hai preso in una giornata quasi normale. – rispondo io. La cosa divertente è che non è nemmeno una battuta, sono serissimo.
È ancora più divertente, però, quando lei mi chiede se ho qualcosa da fare e se non mi piacerebbe andare a cena insieme da qualche parte. Sul momento vado nel panico perché, oddio, cosa le rispondo? Cosa sta succedendo? Farò bene ad accettare? Dovrei ritrasformarmi in Tarzan e colpirla sulla nuca con una mazza per poi trascinarla in camera mia fra le mie liane e le mie pozze acquitrinose?, però alla fine mi calmo, le sorrido, annuisco, la prendo per mano e camminiamo tranquilli verso l’uscita.
Quando domani partiremo per abbandonare il Nuovo Mondo e tornare nel Vecchio, lei sarà seduta al mio fianco, sull’aereo. Ma in quel momento lì io ancora non lo so. Mi godo la serata, il casino per le strade, la voce dolce e melodiosa di Valezka mentre chiacchieriamo del più e del meno di fronte a una buona bistecca ed abbondanti dosi di vino rosso, e penso che l’inizio non è buono, è proprio ottimo. E dalle premesse sembra che possa solo migliorare.
Genere: Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Al venti dicembre duemilaotto, Bill Kaulitz si aspetta un Natale normale. Ed invece gli capita fra le mani il Babbo. E va tutto per il verso sbagliato - ma chissà che invece non sia proprio il verso giusto, alla fine.
Note: C’è qualcosa di meraviglioso nel svegliarsi al mattino e rendersi conto di aver scritto qualcosa come nove pagine di storia (seimila parole, all’incirca) tutte di seguito XD Anche nell’assoluta incertezza della loro qualità effettiva, il pensiero di avercela fatta è esaltante XD Accidenti, comunque, a questa mia assurda mania di plottare storie destinate palesemente allo sviluppo in più capitoli e convincermi a farle partecipare ai contest come oneshot.
Questa storia è stata scritta per il Fidelity X-Mas Party ’08, proposto da Lokex. I punti da cui prendere ispirazione erano tre: bisognava ci fosse un cavallo (e Palla di Neve spero ricopra adeguatamente il ruolo con la sua apertura alare da tre metri e mezzo circa XD), un personaggio della letteratura (ed io ho deciso arbitrariamente che Babbo Natale è tale personaggio) e dovevano essere presenti le parole “fino a Natale”.
Il difetto principale di questa storia è che nella seconda parte si mette a correre in maniera spaventosa, e quindi, poverina, si rovina un sacco. Ma la prima parte mi piace molto e l’idea originale era meravigliosa: giustamente non era mia, ma di Nai. Me l’ha plottata in dieci minuti e poi abbiamo coccolato insieme l’idea finché non siamo state soddisfatte di ogni più minuscolo dettaglio, e solo dopo l’ho scritta XD In un certo senso, quindi, è decisamente una collaborazione. E c’è un pezzo di Nai in questo contest <3
A parte questo, non molto altro da dire: mi dispiace per l’aberrante lunghezza e spero non annoi XD
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A CHRISTMAS CAROL

Quello era indubbiamente Babbo Natale. Bill ne era sicuro. Da qualsiasi lato lo si guardasse, non c’erano dubbi che tenessero: era tondo, era vestito di rosso, aveva le guanciotte lucide e sporgenti, una lunga e morbida barba bianca ed un cappello col pon pon sulla testa. Lo fissava bonario come non avevano mai fatto nemmeno i suoi nonni e la sua pancia si sporgeva in avanti fin quasi a sfiorarlo ogni volta che respirava.
Oltretutto, era uscito dal suo camino.
Non poteva che essere Babbo Natale.
La cosa poneva Bill di fronte a tutta una serie di interrogativi che valeva la pena porsi. Del tipo “ma allora esiste davvero?”, molto differente dal più classico “ma allora non è vero che non esiste?”, perché in realtà Bill aveva sempre tenuto moltissimo a quell’intimissima parte di sé che non aveva mai smesso di credere alle fiabe. Perciò sì, sarebbe valsa la pena di prendersi un momento per rifletterci e sbottare in un “ha! Allora avevo ragione!” che poi sarebbe stato il caso di infiocchettare un po’ e passare a Tom come appropriatissimo regalo di Natale – “chi è che aveva ragione, Tomi? Ripeti dopo di me: Bill”.
L’uomo di fronte a lui, comunque, non gli diede tempo di riflettere su niente, perché si espresse in un rotondissimo “ho ho ho” e poi gli diede un paio di pacche sulla spalla, tranquillo, gioviale, serafico, come fosse perfettamente normale avere Babbo Natale in salotto.
Bill si guardò intorno. In casa non c’era nessuno.
Erano lui e il nonnino lappone. Un incredibile testa a testa.
- Caro Bill… - disse il vecchietto, sempre sorridendo, ed a Bill quasi venne da ridere a propria volta nel pensare che lui, da piccolo, ne aveva scritte tante letterine a Babbo Natale, cominciando appunto con “Caro Babbo Natale”, - sicuramente ti starai chiedendo perché sono qui.
Bill inclinò il capo e si grattò una guancia.
- Fra le altre cose, sì. – ammise annuendo.
Babbo Natale rise ancora.
- E ti starai probabilmente chiedendo anche perché io sia qui il venti dicembre, visto che i regali si portano il ventiquattro notte…
Okay, quindi Babbo Natale portava davvero i regali. Questo apriva delle prospettive meravigliose: se era davvero lui che portava i regali, perché tutti – perfino lui! – ricordavano sempre i pomeriggi di shopping festivo prima della fatidica sera? Babbo Natale governava le loro memorie? Dava loro dei ricordi falsi perché si illudessero sulla sua non-esistenza? La cosa cominciava a farsi complessa.
- …anche. – annuì Bill, che in realtà non se l’era chiesto perché era ancora impegnato a cercare un modo abbastanza crudele e sfacciato per dirlo a Tom.
- Ebbene… - Babbo Natale si chinò e recuperò da terra il sacco di iuta che aveva mandato in avanscoperta lungo la canna del camino, e sul quale poi Bill l’aveva visto agilmente cadere qualche secondo dopo, - ho un regalo in anticipo per te! – e, così dicendo, tirò fuori dal sacco un minuscolo cucciolo di unicorno.
Che era indubbiamente un unicorno. Bianco, col musetto tondo e rilassato, dormiva amabilmente e stava tutto raggomitolato su se stesso, la lunga criniera azzurra e lucente a scivolare sul collo, confondendosi con la foltissima coda ripiegata contro una zampetta. Ed un ridicolo abbozzo di corno tondo e dall’aspetto gommoso ad uscire dalla fronte, proprio sopra gli occhietti chiusi. Era talmente piccolo che stava tutto sul palmo della mano di Babbo Natale.
Il primo istinto di Bill fu sollevare una mano ed accarezzarlo. Il secondo, gongolare fra sé ripetendo al fratello immaginario che aveva nella testa “ma allora vedi che esistono anche gli unicorni? Haha!”. Il terzo – che poi fu ciò che fece – fu puntare un dito contro Babbo Natale, inorridire e strillare.
- Ma tu ci sei caduto sopra!!! Avresti potuto ucciderlo!!!
Babbo Natale rise bonario – il solito serafico “ho ho ho” che era davvero un suono tondo – e sistemò sul naso gli occhialini – minuscoli e cerchiati d’oro, Bill sospettava fossero anche abbondantemente inutili, visto che erano perfino più piccoli delle sue pupille. Occhiali decorativi, insomma.
- Bill, il sacco di Babbo Natale è un sacco magico. – spiegò, - Sai quante ernie mi verrebbero, altrimenti? I miei poveri reni ne risentirebbero. – aggiunse annuendo, - Le cose si materializzano solo quando io ne ho bisogno.
Bill inarcò le sopracciglia.
- Ma allora perché usare il sacco? Se le materializzi così…
Babbo Natale s’imbronciò come un bambino.
- Ma così è molto più carino! – motivò infervorandosi, e Bill non poté che dargli ragione. – Comunque sia, mi aspettavo di trovarti molto più ricettivo! – continuò sbuffando.
Bill si sentì tremendamente in colpa. Insomma, era Babbo Natale! Venuto a trovarlo anzitempo con un unicorno in mano, addirittura! Avrebbe dovuto essere più carino, con lui. Decisamente.
- Mi… mi dispiace. – mugolò affranto, stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, - Scusami, Babbo, è che la tua è stata una visita inaspettata, quindi… - si fermò e rifletté. Poi tornò a sollevare gli occhi in quelli puntuti e azzurrissimi del nonnino, e s’illuminò in viso. – Aspetta qui! – disse, allontanandosi a saltelli verso la cucina.
Tornò due minuti dopo con un piattino colmo di biscotti al cioccolato ed un bicchiere pieno di latte fino all’orlo.
- Ho ho ho! – rise felice Babbo Natale, poggiando l’unicorno sul pancione sporgente e battendo le mani, - Questa sì che è una bella accoglienza! – si complimentò, sedendosi al tavolo senza chiedere il permesso e poggiando sul ripiano di legno il cucciolo prima che finisse schiacciato fra il pancione e il bordo.
Bill si sedette accanto a lui e lo osservò ruminare biscotti ed annaffiarli col latte per una quantità di tempo indefinito, prima di poggiare il mento sul palmo della mano e guardarlo con aria inquisitoria.
- Dunque, Babbo… cosa ti porta da queste parti? – chiese, col tono più casuale possibile. Non voleva essere più sgarbato di quanto già non fosse stato.
- Ah, già! – disse il nonnino, tornando subito serio e ripulendosi le labbra col dorso della mano guantata, - Ho un enorme favore da chiederti, Bill.
Il moro lo osservò recuperare l’unicorno ancora dormiente e riposarlo sul palmo della mano, porgendoglielo.
- Come forse saprai, gli unicorni sono animali piuttosto rari. – cominciò ad istruirlo con aria professionale, annuendo fra sé, - Si dice siano estinti, ma non è così. In realtà qualche esemplare c’è ancora, ma sono molto pochi. Tanto pochi che, generalmente, i genitori stanno molto attenti a non perdere i piccoli in giro. – il nonnino inarcò le sopracciglia verso il basso, scontento. – Per qualche motivo, però, i genitori di questo cucciolino sono scomparsi. Ed è veramente molto piccolo, come vedi non gli sono ancora cresciute le ali…
Bill annuì partecipe, piegando le labbra in un broncio triste e giungendo le mani sul petto.
- Ma è terribile… - commentò, - ed i suoi genitori non si possono trovare…?
- Ho già messo una squadra di elfi alla ricerca. – annuì il nonnino, serissimo, - Ma ci vorrà del tempo, capisci?
Bill annuì e sfiorò teneramente il musetto dell’unicorno con due dita. Lui non mostrò neanche di accorgersene e continuò a dormire beato.
- Ora… fossimo in un altro periodo dell’anno, - ricominciò a borbottare Babbo Natale, mentre Bill si perdeva sulle lunghissime ciglia del cucciolo, - non ti chiederei mai un favore simile. Ma siamo proprio sotto le feste e sia io che Mamma Natale che gli elfi siamo molto impegnati coi preparativi, e con una squadra in missione in giro per il mondo non è tanto semplice conciliare il tutto, e i cuccioli di unicorno hanno bisogno di molte attenzioni, e…
Bill sollevò gli occhi sul nonnetto.
- …aspetta un attimo, Babbo. – cominciò allarmato, - Di che favore stiamo parlando?
“…ma soprattutto, vogliamo parlare di Mamma Natale?”, gli venne quasi naturale aggiungere. S’interruppe giusto in tempo, riportando alla memoria un’antica lezione impartitagli da David durante gli anni della loro gavetta e splendidamente riassumibile in “i filtri, Dio, Bill!, i filtri, quando parli!”.
Babbo Natale, comunque, si strinse imbarazzato nelle spalle.
- Ho bisogno di una persona fidata cui lasciare l’unicorno. – spiegò, - Capisci, qualcuno che possa prendersene cura. Solo per qualche giorno! – si affrettò a rassicurarlo, - Il venticinque sera verrei immancabilmente a riprenderlo, e per allora conto anche di avere ritrovato i suoi genitori!
Bill lo fissò, gli occhi enormi.
- Ed io sarei una persona fidata…? – chiese incerto, indicandosi. Generalmente, solo suo fratello era tanto stupido da pensare di lui una cosa simile senza pensare anche a quanto fosse drammaticamente inesatta, per voler usare un eufemismo.
Babbo Natale annuì compiaciuto.
- Sì, Bill. Tu ti affezioni alle cose e credi nella mia esistenza ed anche in quella degli unicorni, quindi sei la persona più adatta. Ma soprattutto… - aggiunse con aria grave, agitandogli un dito guantato di fronte al naso, - sei ancora vergine. E, com’è noto, solo i vergini possono domare gli unicorni.
Incerto fra la possibilità di sprofondare in un baratro da aprire nel pavimento grazie alla forza del proprio imbarazzo, e quella di scappare via il più lontano possibile più o meno per lo stesso motivo, Bill arrossì.
- Io non… - biascicò, ma si rese presto conto dell’inutilità di mentire di fronte a Babbo Natale. - …sì, capisco. – annuì quindi alla fine, abbassando gli occhi.
Era ingiusto che uno dei motivi più gravi della sua sofferenza interiore fosse anche uno dei motivi che gli avrebbe dato la possibilità di prendersi cura di un cucciolino tanto bello. Oltre che di dimostrare a se stesso e al mondo che aveva sempre avuto ragione lui su tutto, ovviamente.
- Solo una cosa devi sempre tenere a mente. – disse a quel punto Babbo Natale, posando il cucciolo sul tavolo di fronte a lui, - L’unicorno può stare solo con gente che creda nella sua esistenza. Come tutte le creature fatate, se qualcuno nega la sua realtà… - pausa enfatica che Bill non apprezzò, se non altro perché la situazione era già abbastanza complessa senza aggiungerci pathos non necessario, - …morirà.
Bill deglutì. E poi fu il panico.
- Mio fratello… - boccheggiò, - lui non ha mai creduto… - si perse nei propri pensieri, - nessuno che frequenti abitualmente questa casa ha mai creduto negli esseri fantastici, Babbino!!! – strillò confuso, - Come farò?! Forse David nella sua infanzia può aver creduto nelle fiabe, ogni tanto i suoi occhi scintillano ancora della luce della fantasia, ma tutti gli altri… Georg!!! Gustav crede in Dio, però, quindi forse…
- Dio non c’entra niente con la fantasia, Bill, è una favoletta che si racconta ai bambini per farli stare buoni! – lo blandì Babbo Natale con una risata divertita, mentre il cervello di Bill andava in palese overload di irrazionalità. – Sta’ tranquillo. – lo rassicurò alla fine il vecchietto, - So per certo che troverai una soluzione ed andrà tutto bene.
Bill non era tanto sicuro che il nonnino lappone avesse ragione, sotto molti aspetti. Non era tanto sicuro di essere affidabile, tanto per cominciare, non era nemmeno tanto fiducioso da pensare che una soluzione si sarebbe comunque trovata. In poche parole, l’unica certezza che aveva era quella di essere vergine, ed era una certezza che avrebbe volentieri fatto a meno di portarsi dietro, peraltro.
Così era, comunque. Babbo Natale ringraziò per latte e biscotti e si accomiatò con un abbraccio bonario, prima di ricordargli che si trattava comunque di un breve periodo di tempo – “solo fino al venticinque sera, Bill!” – e lasciarlo solo col cucciolo dormiente ancora sul tavolo. E neanche la più pallida idea di come risolvere quel garbuglio.
*
Lui ed Anis s’erano conosciuti – conosciuti davvero, non incrociati e salutati – durante il backstage dei Comet del 2005. Ciò che Bill sapeva di quell’uomo era riconducibile a ciò che Tom gli aveva detto di lui, disperandosi fra un ascolto nostalgico e l’altro di fronte alla rottura fra l’Aggro Berlin ed uno dei suoi rapper preferiti. La cosa lo aveva segnato nel profondo, e Bill poteva ancora ricordare, senza nemmeno sforzarsi troppo, i piagnistei infiniti di suo fratello ed i pomeriggi passati ad ascoltare i sampler dell’Aggro conditi dal racconto di una storia di gangster di strada che un po’ l’aveva sempre affascinato, anche se non capiva esattamente cosa tutto ciò avesse a che fare con la musica. Ma Bill aveva sempre avuto un’idea molto romantica, della musica, perciò non era strano che non capisse cosa c’entrassero una mandria di uomini imbufaliti con la delicatezza perfetta di un ritornello in armonia con le strofe che lo seguono e precedono.
Lui aveva quindici anni e Tom non aveva ancora deciso se fosse più opportuno odiare Bushido e restare fedele all’Aggro o mollare l’Aggro e seguire Bushido nella sua nuova avventura. Di qualsiasi tipo fossero i pensieri che vorticavano nella testa di quel suo assurdo fratello, sembravano essere molto seri, drammatici ed epici: Tom la vedeva come una questione della massima importanza. Tant’è che tutto era cominciato proprio perché a quei Comet lui non aveva la benché minima intenzione di trovarsi davanti al proprio idolo senza sapere cosa dire. Perciò, quando Bushido aveva fatto tanto di avvicinarsi, con addosso il sorriso suadente e tranquillo delle rare occasioni in cui voleva solo congratularsi senza sentire il bisogno spasmodico di aggiungere in cosa al complimento qualche cavolata delle sue, Tom era letteralmente scappato verso i bagni. Le sue ultime parole nei confronti del fratello erano state “Tienilo impegnato mentre io cerco di evadere attraverso le prese d’aria”.
Bill aveva sospirato teatralmente, osservando con occhio vagamente divertito lo sguardo di Bushido seguire suo fratello fino a che non lo perse di vista, e poi aveva aspettato candidamente che fosse l’uomo ad avvicinarsi e cominciare a discutere.
“Ma… tuo fratello?”, aveva chiesto Bushido, usando un tono incredibilmente confidenziale, neanche si conoscessero da sempre.
Bill aveva ridacchiato appena. Si sentiva talmente piccolo, di fronte a lui, da non riuscire proprio ad evitare l’imbarazzo.
“È un tipo emotivo,” aveva risposto dopo un attimo d’incertezza. Bushido aveva riso di gusto e gli si era seduto accanto senza chiedere il permesso.
La chiacchierata era proseguita senza intoppi: lui e Bushido avevano parlato del più e del meno come non avrebbe mai creduto possibile, Bushido era stato schietto e sincero e ad un certo punto s’era perfino lamentato della sua età.
“Sei troppo piccolo, per quest’ambiente,” gli aveva detto, e quando Bill aveva provato a replicare che con lui non poteva parlare di gangsta-rap perché, nonostante il fratello che si ritrovava, lui e quel tipo di musica erano lontani anni luce e bene intenzionati a restarlo, Bushido aveva replicato schernendolo con una mezza risata. “Parlo della musica in generale. È facile consumarsi, quando si è piccoli come te.”
“…e tu ne hai visti tanti? Consumarsi, intendo…” era stata la sua risposta incuriosita, venata appena da una nota più dolce e intimidita provocata probabilmente dalle almeno sei bottiglie di birra che aveva in qualche modo convinto Bushido a recuperargli sottobanco per tutto il tempo della loro conversazione.
“Mi stai dando del vecchio, ragazzino?”, aveva replicato Bushido con una risata divertita. Bill era arrossito istantaneamente e s’era affrettato a negare, agitandogli le braccia di fronte al viso come se le parole fossero state fisiche e lui avesse avuto il potere di cancellarle. Si era calmato solo quando Bushido aveva riso ancora, più dolcemente, e l’aveva rimesso a sedere scompigliandogli i capelli con una grande mano color caramello. “Sì, ne ho visti tanti,” aveva risposto quindi, annuendo appena, “Non è una bella cosa. Ti servirebbe una protezione. Niente di eclatante,” aveva spiegato, gesticolando disinteressato, “giusto qualcuno con cui parlare quando ti sembra di non farcela. A volte aiuta.”
Era stato in quel preciso istante – mentre portava per l’ennesima volta la bottiglia di birra alle labbra per farsi coraggio e scacciare l’imbarazzo con un sorso d’alcool – che Bill aveva deciso di essersi innamorato. Ci aveva fantasticato su un sacco – sul primo amore e tutte quelle cose che credeva di aver già provato per Linda e che invece s’erano spente in un niente quando s’era allontanato da Magdeburgo – ed in effetti gli sembrava un po’ strano ritrovarsi a capire lucidamente di essersi innamorato, quando invece con Tom aveva sempre parlato di cose tutte diverse, brividi inconsci, incertezze, tremori eccetera eccetera. Non c’era niente del genere. Però guardare Bushido lo scaldava più della birra e, quando lui aveva parlato di una persona con cui parlare quando avesse avuto paura di non farcela, nella mente di Bill s’era formato il suo nome. Prima ancora di quello di Tomi o di Andi o di sua madre.
Quindi sì, era stata una decisione perfettamente consapevole: quella di cominciare a ronzargli intorno perché era lui, Bushido, non chiunque altro, che avrebbe dovuto proteggerlo ed impedirgli di consumarsi.
Bushido, però, fondamentalmente, non era mai cresciuto davvero. O meglio: per certi versi era molto maturo e saggio e tutto quanto, ma per altri era un disastro. Tutto, in lui, faceva pensare ad un’infanzia non goduta e quindi rincorsa finché fosse stato possibile. Perfino i suoi modi di divertirsi erano assurdi – a partire dai sabati notte su World of Warcraft per concludere con i modi decisamente opinabili che aveva di prenderlo pubblicamente in giro flirtando in maniera spudorata e perfino pesante. Col tempo, Bill aveva imparato ad abituarsi, ma la cosa sconvolgente del tutto era stata percepire chiaramente che nulla del suo amore s’era mai perso neanche di fronte alle cose peggiori. Non di fronte all’uscita sul sesso orale, non di fronte alla proposta di matrimonio estemporanea, nemmeno di fronte alle centinaia di volte in cui quegli scherzi Bushido li faceva in privato, quando uscivano insieme sotto copertura o quando Bill si presentava a casa sua.
Con Linda il sentimento sfioriva appena litigavano. Era una cosa automatica.
Con Anis persisteva. Non c’era modo di tirarlo via.
Unico guaio, come nella migliore delle tradizioni da sfigato che l’avevano sempre perseguitato – a partire dai bulli del liceo per continuare con le doppie punte e la frustrazione del non riuscire ad abbinare quel fantastico giubbino bianco con le ragnatele con nulla, col risultato di sembrare ogni volta inguainato in una tuta spaziale – non si era mai dichiarato. Erano passati tre dannatissimi anni – ormai quasi quattro – e non solo non aveva mai confessato i propri sentimenti a Bushido, ma nemmeno li aveva mai fatti in qualche modo trapelare. Con nessuno, poi. Neanche uno sfogo. Tomi l’aveva più o meno capito da solo, ma Bill non avrebbe confermato neanche a morire – gli prendeva un batticuore assurdo ogni volta che ci pensava. Si sentiva sempre incredibilmente stupido.
La cosa, fortunatamente, non aveva mai minato i rapporti fra lui ed Anis. Perciò, quando quel venti dicembre Bill si ritrovò con un unicorno – un unicorno! – in mano e l’ordine di Babbo Natale - …Babbo Natale!!! – di prendersene cura fino a Natale, il suo primo pensiero, nonché l’unica soluzione avesse trovato, era stato andare da Bushido.
S’era attaccato al campanello della casa gialla con la furia di un disperato, pregando in un centinaio di lingue – molte delle quali inventate – che Bushido fosse in casa, solo e ben disposto nei suoi confronti e, quando poi aveva sentito la serratura della porta scattare, aveva serrato gli occhi e stretto forte al petto il cucciolo d’unicorno addormentato ed aveva pregato ancora, stavolta perché non scomparisse.
Quando era tornato a guardare il mondo, la prima cosa che l’aveva colpito era stata la presenza caldissima del cucciolo ancora stretto fra le braccia. Il battito del suo cuoricino, lento e calmo, si spandeva all’interno del suo piccolo e morbido corpo e si diffondeva poi anche dentro il suo petto, facendosi sentire fino in gola.
Di fronte all’inevitabile consapevolezza di essere capitato davanti a qualcuno che, evidentemente, negli unicorni credeva eccome – dato che il piccolo era ancora lì – Bill si prese un secondo per realizzare il pensiero, digerirlo e venirci a patti. Poi sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti un Bushido in perfetta tenuta da scazzo casalingo – tuta enorme ed anonima maglietta bianca – i cui occhi giocavano a rimpiattino saltando ansiosi dal suo viso al cucciolo e poi di nuovo al suo viso.
- Bill…? – esalò appena l’uomo, decidendosi finalmente a fissarlo negli occhi, in cerca di una risposta.
- Ciao. – rispose lui, abbozzando un sorriso incerto e sollevando una mano per salutarlo, - Posso entrare?
Bushido annuì meccanicamente.
- Sì, certo che… Bill, cos’è questo? – concluse in un mezzo rantolo, indicando il cucciolo.
Bill deglutì a fatica e lo sollevò un po’, perché Bushido potesse vederlo meglio.
- …esattamente quello che sembra, temo. – rispose annuendo e tornando a nascondere il piccolo fra le braccia.
Bushido si prese qualche secondo per riflettere, prima di tornare ad aprire bocca.
- Non è possibile, Bill. – disse alla fine, gli occhi ancora spalancati, - Ha le ali. Queste cose non… - ma non ebbe tempo di concludere, perché Bill scattò in avanti e pressò il palmo di una mano contro le sue labbra, cercando di spingerlo indietro per quanto gli consentissero quegli abbozzi di muscoli che si ritrovava e che, in confronto alla strenua resistenza del fisico fermo e compatto di Bushido, sembravano ancora più ridicoli.
- Non dirlo! – disse allarmato, agitandosi tutto, - Ti prego, se lo dici morirà!
Bushido smise di resistere e si lasciò spingere in casa, osservando un po’ sconcertato Bill chiudersi la porta alle spalle con un calcio, il cucciolo ancora stretto al petto e la mano libera ancora impegnata a chiudergli la bocca. Lo lasciò solo quando fu certo di aver chiuso bene la porta ed essere solo con lui nell’ampio salotto che accoglieva chiunque mettesse piede nella villa.
- Bill, che diavolo sta succedendo qui? Cos’è questo animale e cosa significa che potrebbe morire?!
Bill non rispose subito. Il palmo della sua mano conservava ancora qualche traccia del calore delle labbra di Bushido, ed il ragazzo trovò difficile ignorare il pensiero per concentrarsi su fatti di maggiore importanza, per molti secondi. Bushido dovette chiamarlo un paio di volte per ottenere un qualche cenno di vita.
- È… - cercò di spiegare Bill, deglutendo agitato, - È una creatura di fantasia, Bu, se dici che non… insomma, scompare!
Bushido continuò a guardarlo e poi si passò una mano sugli occhi, inspirando ed espirando con calma.
- Bill… - lo richiamò con aria stanca, - …quello che hai detto non ha senso, te ne rendi conto? Una creatura di fantasia, dici? È qua, lo sto guardando, è un… un accidenti di cavallo con le ali-
- E il corno. – precisò Bill, indicando la fronte vagamente sporgente del cucciolo, - È un unicorno, infatti. Non si vede perché è ancora piccolo…
- …un unicorno.
Bill annuì e lo osservò cercare a tentoni con la mano un divano alle sue spalle, per poi lasciarcisi ricadere sopra con un tonfo non appena l’ebbe trovato.
- Bu…? – lo chiamò debolmente, andandogli vicino ed esitando un po’ prima di sedersi al suo fianco, cosa che alla fine fece comunque. – Tutto bene?
Bushido non rispose alla domanda, ma lo guardò intensamente.
- Un unicorno, Bill?
Bill annuì di nuovo.
Bushido prese atto, annuendo a propria volta.
- Bill, credo dovrai raccontarmi questa storia dall’inizio.
Il ragazzo fece una mezza smorfia, sistemando il cucciolo su un cuscino ricamato appoggiato al bracciolo.
- Odio quando ripeti così spesso il mio nome. – borbottò scontento, - Sembri mio padre, sempre sul punto di rimproverarmi o chissà che.
Bushido si massaggiò lentamente le tempie, chiudendo gli occhi.
- In effetti ho voglia di rimproverarti, B-… insomma. Ma non saprei per cosa farlo esattamente, quindi aspetterò che tu abbia finito di raccontare. E poi vedremo.
Bill incrociò le braccia sul petto e sbuffò teatralmente.
- Senti, non è colpa mia, è stato Babbo Natale che-
- Babbo Natale, Bill?!
- La pianti di ripetere il mio nome? So come mi chiamo.
Bushido respirò ancora, sempre più profondamente, e tornò ad alzarsi in piedi, cominciando a camminare nervosamente intorno al tavolino basso nel centro del salotto, le mani sui fianchi e la maglietta che si arrotolava in sbuffi attorno alle dita.
- …spiega meglio. – lo invitò, continuando a camminare.
Bill lo guardò, inclinando lievemente il capo.
- Non ti fermi?
- No. – rispose con naturalezza l’uomo, scuotendo il capo, - Scarico. Parla.
Il ragazzo annuì incerto.
- Be’, tutto è cominciato stamattina verso l’una del pomeriggio, quando mi sono svegliato-
- Bill, ti prego, evita le incoerenze, è già tutto abbastanza confuso… - lo implorò l’uomo, massaggiandosi la fronte, - Mattina o pomeriggio?
- Mi confondi! Ti muovi! – si agitò il ragazzo, spiegazzando la fodera del divano sotto le dita, - Era mattina perché io mi ero appena svegliato, ma era pomeriggio perché io mi sveglio di pomeriggio, quando sono in vacanza!
Bushido annuì lentamente, continuando a camminare.
- …d’accordo, ci sono. Quindi eri sveglio e…?
- E c’era Babbo Natale in salotto.
Bushido si fermò. Solo per qualche secondo. Poi riprese la sua marcia.
- Bu?
- Sì, sì. Babbo Natale. Vai pure avanti.
Bill inarcò le sopracciglia, incerto, e si concesse una smorfia impaurita prima di portare il cuscino con sopra il cucciolo di unicorno sulle ginocchia e cominciare ad accarezzarlo delicatamente.
- Be’, lui mi ha consegnato questo… Bu, non mi stai credendo per niente, vero?
- Ho un unicorno sotto agli occhi, Bill. – gli fece notare l’uomo, guardandolo distrattamente, - Non sono nella posizione di non credere. Qualsiasi cosa tu mi dica.
Bill annuì lentamente, insicuro.
- …insomma, - riprese, - mi ha consegnato il cucciolo e mi ha chiesto per favore di prendermene cura fino a Natale, visto che lui e Mamma Natale… - sollevò gli occhi e si ritrovò di fronte Bushido che lo guardava come non l’avesse mai visto prima, fermo nel centro del salotto con gli occhi spalancati e le braccia molli lungo i fianchi. Sospirò. – Scusa, Bu. Vado via subito. – mugolò, recuperando il cucciolotto e rimettendosi in piedi.
- No, ehi, ehi, aspetta. – si affrettò a fermarlo Bushido, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e spingendolo delicatamente a sedere, - Non ti ho chiesto di andartene. – si sedette al suo fianco, continuando a tenere una mano sulla sua spalla e massaggiando un po’ per rassicurarlo, - …Bill, perché sei venuto da me? In poche parole.
- Devo… tenere il cucciolo fino a Natale. – ammise il ragazzo, - L’ho promesso a Babbo Natale, non potevo dire no a Babbo Natale, e lo so che sembra assurdo, ma è così. E non potevo restare a casa, Tomi non ci crede negli unicorni, e nemmeno in Babbo Natale, perciò ho pensato-
- Che io invece ci credessi? – lo interruppe Bushido, vagamente divertito.
Bill sbuffò, sollevandogli addosso un broncio adorabile ed un paio di occhioni ostinati.
- Be’, avevo ragione, no? – e Bushido sorrise. - …però no, non ho pensato quello. In realtà… non ho pensato affatto, ho solo sentito che dovevo venire da te, ecco.
Bushido sorrise ancora, più apertamente, mentre se lo tirava contro e lasciava che si accomodasse contro il suo petto, l’unicorno un po’ schiacciato fra i loro corpi, ma ancora placidamente addormentato.
- Vuoi restare qui fino a Natale? – gli chiese a bassa voce, sussurrandogli all’orecchio, - Non sei spaventato? Sono un uomo poco raccomandabile e ti ho fatto un sacco di avances, negli ultimi anni…
“Ne avessi anche mai concretizzata una…” si ritrovò a pensare tristemente Bill.
- No, sono… tranquillo. – ammise con un mezzo sospiro. – Pensi che potrei restare?
Bushido guardò lui e l’unicorno e poi si espresse in un mezzo sbuffo incerto.
- Non hai portato niente con te… - Bill scattò in piedi senza neanche lasciargli il tempo di concludere la frase.
- Oh, posso tornare a casa, preparare la borsa ed essere di nuovo qui in, facciamo, mezz’ora! – strillò saltellando eccitato da un piede all’altro, - Bu, mi hai salvato la vita! Cioè, a me ed al cucciolo! – rise, gettandogli le braccia al collo.
Bushido sospirò, accarezzandogli distrattamente i capelli mentre recuperava l’unicorno che, nella foga dell’abbraccio, Bill aveva dimenticato di dover stringere.
- Ecco, bravissimo. – annuì il ragazzino quando si fu separato di lui, non appena si accorse di come Bushido tenesse saldamente il cucciolo tutto nel palmo della mano, - Tienilo tu. Io faccio subito!
L’uomo lo osservò uscire come una furia – esattamente com’era entrato – e poi lanciò un’occhiata all’unicorno, sollevandolo fino all’altezza del viso per osservarlo da vicino. Il piccolo dischiuse le palpebre quasi subito, e lo fissò a propria volta con un paio di enormi ed acquosi occhioni azzurri.
- Dio, sei vero… sul serio. – commentò Bushido, avvicinandosi fin quasi a sfiorarlo con la punta del naso. Il cucciolo si sporse in avanti e lo morse, stringendogli saldamente il naso fra le gengive prive di denti. - …e sei anche pericoloso. – borbottò l’uomo, staccandoselo di dosso e ripulendosi con il dorso della mano libera. Sorrise. – Più o meno come quello che ti ha portato qui, mi sa. – concluse, poggiandolo nuovamente sul cuscino. E cominciando a chiedersi di cosa, esattamente, si nutrissero gli unicorni.
La pace durò all’incirca due secondi. Si interruppe precisamente quando il cucciolo si fu ripreso dal suo placido sonno abbastanza da capire esattamente dove fosse, con chi si trovasse e, soprattutto, con chi non si trovasse. Bushido lo osservò curiosamente sollevare il capino, guardarsi intorno e poi, con una naturalezza quasi sfacciata, saltare giù dal divano e trotterellare spedito verso la porta.
Lo seguì con lo sguardo e, quando si rese conto che il cosino non sembrava intenzionato a fermarsi, gli andò dietro anche coi piedi.
- Dov’è che staresti andando? – gli chiese, chinandosi e cercando di riprenderlo in mano.
Vigile e attento, il cucciolo si scostò e, incerto sugli zoccoli, rotolò lateralmente, caprioleggiando per qualche centimetro di moquette prima di rimettersi dritto, scuotere il collo per sistemare la corta criniera argentata e riprendere la propria marcia impettita verso la porta.
Bushido continuò a seguirlo, sempre più attonito, finché il cucciolo non arrivò alla porta e batté un paio di volte con uno zoccolo contro la superficie in legno.
- …devo aprire? – chiese l’uomo, piegandosi sulle ginocchia per guardarlo più da vicino e molleggiando sulle punte dei piedi per mantenere l’equilibrio.
Il cucciolo si limitò a fissarlo con aria supponente, battendo nuovamente lo zoccolo contro il legno.
- Bill mi ucciderà, se ti lascio fare. – gli fece presente, mettendo comunque una mano sulla maniglia.
Il cucciolino nitrì – o meglio, vagì un’idea di nitrito – e Bushido sospirò. Quegli occhi azzurri lo stavano fissando con tanta di quella disapprovazione che si sentiva quasi fuori luogo.
Tutto ciò che poté fare a quel punto il pover’uomo fu rimettersi in piedi ed aprire la porta. E sarebbe stato ciò che doveva essere. Punkt. Lui non credeva nel destino, ma non credeva di credere neanche ad unicorni e Babbi Natali vari ed eventuali, fino al giorno prima, perciò…
Il cucciolo trotterellò felice sulla ghiaia del sentiero davanti casa per qualche metro, e dopodiché Bushido lo vide spiegare le piccole ali ancora immature e spiccare un salto da record, per le dimensioni del suo corpo. Planò disinvoltamente fra le braccia di Bill, che stava lì fermo come in attesa e lo guardava con enormi occhi adoranti.
- Bill? – chiese, uscendo a propria volta di casa e raggiungendolo sul selciato, - Come mai sei ancora qui?
Bill tirò fuori la lingua e sorrise appena, come per scusarsi.
- Ho dimenticato di dirtelo. – biascicò poi, stringendosi nelle spalle, - Il cucciolo non può stare solo in compagnia di persone non vergini, perché solo un vergine può… - si interruppe ed arrossì istantaneamente, - …domarlo.
Bushido aprì la bocca.
Non seppe sinceramente che dire.
- Ah. – si rassegnò alla fine, tornando a cercare di darsi un contegno, - Capisco.
Bill abbassò lo sguardo, imbarazzato a morte.
- Bu, credo che… dovrai andare tu a prendere qualcosa per il mio cambio. – mormorò, consegnandogli direttamente in mano le chiavi di casa.
Bushido chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Non servì a calmarsi.
Sarebbero stati cinque giorni decisamente pesanti.
*
Tom era un ragazzo che Bushido non aveva ancora capito completamente. Era, se possibile, ancora più umorale del fratello, e riusciva a passare da uno stato d’animo all’altro con una velocità spaventosa, a tratti disorientante. Perciò, quando Bushido lo osservò entrare tranquillamente in casa, posare le chiavi sulla consolle e poi voltarsi sorridendo alla ricerca di Bill, incassò la testa nelle spalle e si preparò al peggio.
Certo, avere le mani nel cassetto della biancheria intima di Bill non aiutava i suoi disperati tentativi di darsi un tono. Pregò che Tom capisse, anche se non era sicuro di cosa ci fosse in effetti da capire.
Gli occhi di Tom si spalancarono ed il ragazzo lasciò cadere in terra il giubbotto che ancora stringeva nella mano ed attendeva di essere appeso all’attaccapanni.
- Bushido…? – esalò incerto, mentre lui, per evitare di fargli pensare stesse facendo qualcosa di sconveniente, continuava a rovistare con nonchalance fra le mutande di Bill. Cosa che forse non era la più appropriata da fare, dopotutto. - …cosa stai facendo?
Bushido si decise finalmente ad afferrare quante più paia di boxer poté ed infilarle di gran corsa nello zainetto che teneva per le bretelle con la mano libera.
- Ciao, Tom. – disse con un sorriso, cercando di distrarlo.
Tom deglutì ed annuì.
- Oh… - disse, arrossendo vagamente, - Ciao, sì, scusa, è che… - indicò con un gesto distratto Bushido, il cassetto ancora aperto ed i boxer che sporgevano dall’apertura dello zaino, - …capisci, non è una cosa tanto normale.
Bushido sospirò.
Ciclicamente, Tom ritornava sempre sullo stesso punto.
- Tom, non pensare male, per favore.
- Oh, no, ma Atze, sul serio, lo sai che a me puoi dirlo.
Appunto. L’uomo richiuse il cassetto e cominciò a marciare verso il bagno, ben deciso a non perdere altro tempo recuperando dei vestiti per Bill – gli avrebbe dato qualcosa di suo – prendere solo lo stresso indispensabile – spazzolino, trucchi e lacca, in poche parole, ovvero cose che non poteva fornirgli da sé – e poi fuggire immediatamente da quell’appartamento. Possibilmente senza dare spiegazioni a Tom.
- Non c’è niente da dire, Tom, lo sai. – biascicò mentre armeggiava con la trousse di Bill – sei chili almeno di beauty case – chiedendosi se potesse eliminare qualcosa o dovesse rassegnarsi a portare proprio tutto.
Tom aveva un problema, con lui. O lui aveva un problema con Tom. In ogni caso, c’era un problema nella loro relazione, e questo problema era l’adorazione cieca che il chitarrista nutriva nei suoi confronti. Il classico amore profondo che riservi agli idoli, le cose che non ti passano mai, anche con gli anni, quelle che possono portarti ad arrossire per il sorriso di un uomo anche se non hai alcuna intenzione di andarci a letto insieme – cosa che Tom faceva spesso, con lui. Arrossire, non andarci a letto. Per carità.
Insomma, lo adorava. Tutta quell’adorazione, però, non poteva avere uno sfogo pubblico, perché Tom era un piccolo gangsta-rapper fedele e mai e poi mai avrebbe potuto rinnegare l’Aggro Berlin di fronte ai microfoni ed alle telecamere. Perciò, se tutte le dichiarazioni d’amore pubbliche erano per Sido e compagnia, era nel privato che invece Tom “si faceva perdonare”, ronzandogli intorno come un moscone e sommergendolo di attenzioni. In un modo, peraltro, drammaticamente sbagliato.
- Atze, sul serio, è orribile che né tu né Bill vogliate ancora ammetterlo! Non dico pubblicamente, ma io sono suo fratello e noi siamo amici!
…ovvero decidendo arbitrariamente di diventare suo confidente personale – un po’ come il fratello aveva deciso arbitrariamente di diventare una specie di animale da compagnia ed accoccolarglisi addosso ogni piè sospinto – ed autoconvincendosi per chissà quale motivo che lui e Bill stessero insieme. Certo, immaginava che la quantità enorme di tempo che il Kaulitz minore trascorreva a casa sua potesse essere un indizio in tal senso, ma Bill era tragicamente piccolo, minorenne nell’aspetto ed anche in tutto il resto, per quanto l’anagrafe cercasse di convincere tutti del contrario. Non l’avrebbe mai toccato, non in quel senso e con niente che andasse oltre un flirt un tantinello spinto. E solo per ridere un po’.
- Tom… - borbottò, rassegnandosi a recuperare la trousse per intero e chiudendo lo zaino con uno scatto secco. Bill odiava che lui ripetesse così spesso il suo nome, come volesse rimproverarlo? Ebbene, Bushido detestava che i gemelli gli dessero in effetti quintali di occasioni per riprenderli esalando il loro nome in un rimprovero da padre sconfitto. – Ti ho detto e ripetuto almeno cinquecento volte che tuo fratello non è il mio ragazzo.
Tom annuì ed indicò lo zaino.
- Stai prendendo il suo cambio per la notte? – chiese innocentemente. Bushido annuì. – E quanto si ferma da te? – proseguì il ragazzo. Bushido rimase in silenzio. Tom annuì vittorioso. – Non è il tuo ragazzo, eh?
Bushido provò l’intenso desiderio di dargli un colpo di zaino sulla testa, tramortirlo e fuggire dalla finestra. Ma sarebbe stato ridicolo e sospettava Bill non l’avrebbe mai perdonato, per una cosa simile, perciò si trattenne.
- Non si ferma da me per i motivi che immagini tu. – borbottò in un mezzo ringhio frustrato, caricando lo zaino – incomprensibilmente pesante – in spalla e dirigendosi verso la porta.
- No, naturalmente. – annuì Tom, battendogli una pacca sulla schiena, - E allora perché?
Bushido fu tentato di rovesciargli addosso tutta l’intera storia dell’unicorno e di Babbo Natale. Ma questo sarebbe stato ancora più ridicolo del dargli uno zaino in testa, e probabilmente Bill sarebbe stato altrettanto incapace di perdonarlo, se l’unicorno fosse scomparso perché Tom aveva detto ridendo “ma cose simili non esistono!”, perciò si costrinse al silenzio. Lo salutò a bassa voce e Tom rimase ad agitare festosamente la mano sulla soglia della porta strillando “verrò presto a trovarvi!” per tutto il tempo che lui impiegò a scendere le scale e rimettersi in strada.
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa, ma il pensiero ci fosse Bill solo con l’unicorno – e con la possibilità che uno qualsiasi della sua crew passasse di lì per impossessarsi della Wii come al solito – lo convinse a non fuggire in vacanza a Miami e tornare alla villa.
Già sul selciato, quando ancora non aveva toccato la porta di casa, cominciò ad avere paura: dall’interno dell’abitazione provenivano rumori sospetti.
- Cosa sta succedendo? – disse ad alta voce, introducendosi in casa e lasciando ricadere lo zaino per terra. Di fronte a lui, un dramma aveva luogo. Del cucciolo di unicorno grande una spanna che aveva lasciato prima di uscire, non restava niente. S’era però tramutato in un puledro di dimensioni tutt’altro che trascurabili, con un paio d’ali larghe almeno un metro, perfettamente formate ed anche perfettamente dispiegate. Proprio nel centro del suo salotto.
Si guardò intorno, adocchiando la decina buona di narghilè nei più svariati materiali frangibili che campeggiavano su gran parte dei mobili della sala e tirò un mezzo sospiro di sollievo: non ne mancava nessuno all’appello – ancora. In compenso c’erano due poltrone rovesciate ed il tappeto arrotolato in un angolo.
Anche Bill stava arrotolato. Sul divano. Con le mani nei capelli.
- Bu! – strillò, saltando in piedi non appena lo vide, - Gli ho dato solo un po’ di latte!
Bushido annuì vagamente, osservando l’ampia macchia bianca che copriva per metà la maglietta di Bill. Doveva essere stato davvero poco, visto che la maggior parte del liquido sembrava finito addosso a lui.
- Ti sei sporcato tutto… - gli fece notare, indicandolo e rimpiangendo di non avergli preso dei vestiti per cambiarsi. Nei suoi sarebbe letteralmente annegato.
- Sì, ma non importa! – protestò il ragazzo, agitandosi, - Non riesco a fermarlo!
Bushido sospirò.
- Hai provato a chiederglielo? – propose, sentendosi un idiota fatto e finito e chiedendo silenziosamente ad Allah perché gli stesse facendo una cosa simile. Bill lo fissò per qualche secondo, inclinando il capo. – Sì, be’… - aggiunse quindi lui, imbarazzato, - quando sei andato via… non dico che io ed il cucciolo abbiamo dialogato, ecco, però insomma, sembra capire. – scrollò le spalle. – Magari, se glielo chiedi…
Il ragazzo annuì lentamente e si spostò verso il puledro che, nel mentre, aveva preso a brucare le frange del tappetino sotto al mobile del televisore, con evidente soddisfazione.
- Palla di Neve…? – lo chiamò, mettendo le mani avanti in caso fosse improvvisamente impazzito. Il puledro non diede segno di volerlo fare ma neanche di volergli dar retta, e continuò a ruminare placidamente il persiano. – Palla di Neve, potresti smetterla?
L’unicorno alzò il musetto e sbatté gli occhioni. E, mentre Bushido cercava di non ridere per il nome che Bill gli aveva affibbiato, cercò col naso il musetto di Bill e lo strofinò un po’, in un tacito assenso, prima di salire con gli zoccoli sul divano ed accucciarsi per una sana dormita.
Bill batté le mani, entusiasta.
- Visto? – rise Bushido, recuperando lo zaino da terra e consegnandolo a Bill, - È un animale ragionevole. – Bill annuì. – Ed ora… - continuò l’uomo, sospirando teatralmente, - vieni di là. Dovrò darti qualcosa da mettere, visto che non sono riuscito a prenderti dei vestiti.
- E come mai? – chiese Bill, giustamente curioso, seguendolo verso la camera da letto.
- C’era tuo fratello in casa. Mi ha trovato con le mani nel cassetto delle mutande. Puoi immaginare il dialogo che ne è seguito.
Bushido si aspettò una risata, ma Bill non rise affatto. E lui cercò di non farci caso.
*
La notte avrebbe potuto essere più piacevole, se le operazioni di nanna fossero andate nel verso giusto. Avere a che fare con Bill, però, significava senza dubbio avere a che fare con un bambino molto piccolo e molto capriccioso, e con individui simili – Bushido aveva imparato a capire – c’era poco da stare a contestare. Perciò, quando Bill s’era intrufolato nel suo letto alle nove di sera ed aveva stabilito del tutto arbitrariamente che ci sarebbe pure rimasto causa bagno personale raggiungibile tramite porticina accanto all’armadio, Anis s’era ritrovato con poco altro da fare che non chinare la testa ed andare a rifugiarsi nella camera degli ospiti, pregando intensamente che la donna delle pulizie le avesse dato una rinfrescata generale, l’ultima volta che era venuta.
Bill aveva anche provato a chiedergli se gli andasse di dormire con lui – facendolo peraltro con un candore disarmante, al punto che Bushido s’era un po’ chiesto se non fosse il caso di tenerlo con lui, tipo, per sempre, e proteggerlo dai mali del mondo – ma Anis aveva appena avuto il tempo di rimirare il proprio meraviglioso letto a tre piazze con amore profondo e valutare la proposta – pro e contro… più contro che pro, Bill a letto era un pericolo sotto svariati punti di vista – che l’unicorno aveva deciso di far valere la propria autorità di animale fatato e s’era appollaiato sul letto accanto a lui, testolina sul cuscino ed ali morbidamente ripiegate attorno al corpo.
Non c’era stato modo di rimuoverlo dal suo posto – anche quando Bill gliel’aveva chiesto – perciò Bushido aveva ipotizzato l’animale non lo volesse proprio fra i piedi: e piuttosto che fare arrabbiare il cucciolo di unicorno di Babbo Natale, aveva preferito ritirarsi in camera degli ospiti. Col risultato di ritrovarsi recluso in un letto singolo – non toccava materassi tanto piccoli da quando aveva sedici anni – sul quale non poteva neanche espandersi come sarebbe stato buono, naturale e giusto. E non chiudere occhio per tutta la notte, ovviamente.
Alle otto del mattino, frustrato e stanco morto e con un pensiero fisso che suonava più o meno “dovrò cambiare le lenzuola nel mio letto? Chissà se gli unicorni sporcano come i cavalli normali…”, Bushido si alzò in piedi, spalancò le tende e salutò il nuovo giorno con un’imprecazione furiosa nel ritrovarsi davanti al cancello di casa la solita mandria di giornalisti attaccati con la colla al culo di Bill, e che per questo motivo alle vicissitudini di quel benedetto culo erano anche incredibilmente interessati.
Sospirò.
Spalancò la finestra.
Si affacciò.
- Dorme ancora e no, non me lo sono scopato!
Una risatina timida lo raggiunse alle spalle e Bushido si voltò per ritrovarsi davanti Bill in groppa al puledro. Che era cresciuto ancora.
- Bill…? – lo chiamò incerto, e lui rise ancora, rimettendo i piedi per terra, - Stamattina mi sono svegliato presto e gli ho dato un biscotto mentre facevo colazione. – lo indico, - Questo è il risultato.
L’uomo si passo una mano sugli occhi.
- Scusa, Bill, ma visto che sappiamo che appena mette qualcosa in bocca cresce a dismisura, non potremmo smettere?
- Non vorrai mica che lo lasci morire di fame? – rispose seccamente Bill, guardandolo con disapprovazione neanche stesse davvero progettando di far morire di stenti il povero unicorno. Poi indicò la finestra, - C’è gente?
Bushido scrollò le spalle.
- La solita. – rispose con falsa noncuranza.
Bill annuì e si affacciò a propria volta, salutando la folla con ampi gesti del braccio e trascinando per un polso Bushido perché lo raggiungesse.
- No, di nuovo no, Bill… - provò a mugolare stancamente lui, ancora provato dalla mancanza di sonno ed ancora privo di un caffè per renderla meno fastidiosa.
- Ma non capisci, Bu? – disse il ragazzo, continuando a tirarlo finché ebbe raggiunto il proprio scopo, - Se ci comportiamo in maniera losca otteniamo l’effetto contrario a quello desiderato… sorridi, foto.
Bushido sorrise ed agitò un braccio in segno di saluto verso il fotografo di Yam!.
- E se ci comportiamo da novelli fidanzati, invece, che effetto otteniamo? – chiese tra i denti mentre si lasciava immortalare da almeno un’altra decina di paparazzi.
- Ah, non ne ho idea. – scrollò le spalle Bill, sorridendo amabilmente, - Vedremo con l’uscita della settimana prossima.
Era appena cominciato il ventuno dicembre, al ventiquattro notte mancavano quattro giorni pieni e Bushido non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto per vedere l’alba del giorno dopo. Sospirando pesantemente, richiuse la finestra e richiuse le tende, muovendosi con aria afflitta verso l’uscita della stanza. L’unicorno, ancora appollaiato sulla soglia, gli diede una musata sulla testa, come a dirgli “non ce l’ho con te, è la situazione complicata”. Bushido lo fissò malissimo e scese le scale in direzione della cucina. Si fermò con un principio d’infarto quando, adocchiando il salone – del quale si aveva una visione quasi completa, dal pianerottolo del piano di sopra – lo vide già infestato dalla crew al gran completo.
Allargò istintivamente le braccia, spingendo Bill e l’unicorno indietro perché nessuno potesse vederli.
- Ragazzi! – sbraitò con aria falsamente cordiale, - Che sorpresa! Qual buon vento?
Kay One sollevò una mano e la agitò gioiosamente.
- Ciao Bu! Speriamo non ti dispiaccia, c’era la finale di pattinaggio artistico maschile e-
- Pattinaggio artistico maschile…? – chiese allucinato, e i ragazzi scoppiarono a ridere.
Chakuza sollevò un DVD.
- Volevano vedere questo. – spiegò pacatamente. Fra le sue mani campeggiava il porno che gli avevano regalato l’anno scorso per il compleanno, per puro spirito di scherzo. E che invece sembrava aver riscosso un successo di gran lunga maggiore rispetto alle aspettative – un po’ come la riedizione di King Of Kingz senza Fler.
- ...non so nemmeno cosa dirvi prima. – biascicò Bushido in preda ai principi di una crisi di nervi, - L’avrete già visto ottomila volte. I film porno non si guardano in gruppo. Sono le otto del mattino. Questa è casa mia. – agitò una mano con aria disinteressata, - Scegliete il rimprovero che vi piace di più e poi fate quello che vi pare. Io mi preparo un caffè.
Chakuza annuì mentre premeva play sul telecomando e la familiare eco dei gemiti di una donna si diffondeva per la casa, assieme alle urla da stadio di tutta la crew. Viveva a stretto contatto con un branco di animali. Questa cosa era assolutamente disdicevole, per uno della sua risma.
- Ohi, ragazzi, - annunciò Saad sollevandosi in piedi dopo essersi faticosamente districato dal groviglio di arti umani che infestava il divano, - io vado in bagno.
E Bushido si fermò a due passi dalla moka.
I bagni erano al piano superiore.
Al piano superiore c’era Bill.
E il dannato unicorno di Babbo Natale.
- No! – si voltò di scatto, afferrando Saad per le spalle un attimo prima che cominciasse a salire le scale e sperando che Bill, nel mentre, avesse avuto almeno il buonsenso di nascondersi.
Bill. Buonsenso. Doveva immediatamente buttare tutti fuori da quella casa.
- Atze, che ti piglia? – chiese giustamente Saad, fissandolo con gli occhioni verdi spalancati, - Devo farmi una pisciata!
- I bagni sono fuori uso. – disse lui, secchissimo, senza mollare la presa.
- Qualcosa in casa tua non funziona? – si intromise Chakuza, inarcando supponente le sopracciglia, - Credibile come un duetto con Sido, Atze. – poi sorrise crudele, - Hai qualcuno di sopra, mh?
Il problema con Bill era fossero tutti abituati alla sua presenza, sì. Ma di giorno. Bill non si fermava mai a dormire da lui – per ovvi e ragionevoli motivi – e Bushido non poteva presentarlo in quel momento e in quel modo, non con un unicorno alle spalle, soprattutto, e comunque non ci sarebbe stato niente da presentare, che diavolo andava pensando?!, il suo raziocinio stava prendendo degli svarioni non indifferenti, quella mattina.
- Di sopra non c’è nessuno e fate conto che non ci sono neanche i cessi. – rispose lui a muso duro, - Ora alzate il culo e, se proprio volete darvi ad una sessione di porno comunitario, fatelo sul selciato di fronte casa, almeno quegli stronzi dei giornalisti avranno qualcosa di serio di cui parlare.
- Atze, io non intendo tornarmene a casa mia per una-
- Io non intendo tenervi qui un secondo di più, perciò-
- Bu? Ho un problema con l’unicorno, non vuole… oh.
E l’aria, nella grande casa gialla, si fece immobile.
Bill stava affacciato dal pianerottolo, i capelli ancora scomposti dal sonno e gli occhi grandi e curiosi. L’unicorno s’era affacciato accanto a lui, entrambi guardavano Bushido con aria cucciolosa e sembravano incerti su quale fosse la loro posizione nel mondo. Saad, le spalle ancora strette fra le mani di Bushido, si irrigidì all’istante, seguito a ruota dal resto della crew.
L’unicorno non morì né scomparve nei lunghi minuti di silenzio che seguirono il suo arrivo. Il che avrebbe dovuto preoccupare Bushido più di tutto il resto, probabilmente. Poteva anche andare bene che l’unicorno non fosse scomparso di fronte a lui – non andava bene per niente, in realtà, ma poteva con enorme sforzo accettarlo, ecco – ma l’idea di avere un’intera crew composta da ragazzini che ancora credevano negli unicorni lo sgomentava abbondantemente. E quella avrebbe dovuta essere la sua banda, il non plus ultra del virilissimo german-rap, insomma, i bad boys di Berlino. Probabilmente Fler aveva ragione, i veri deutscha bad boys stavano all’Aggro.
Saad sollevò una mano puntando il dito verso l’unicorno. Bocca e occhi spalancati, lo fissò a lungo, fino a quando l’unicorno non nitrì il proprio disappunto e Bill non fu costretto a specificare “credo gli dispiaccia essere indicato. È molto maleducato, Saad”. Al che, il braccio del libanese cadde come morto lungo il suo fianco e l’uomo annuì pesantemente, senza staccare gli occhi dall’animale.
Le sue prime parole, qualche istante dopo, furono “credo che andrò a pisciare a casa mia”. Guadagnando un cenno di approvazione da parte di tutta l’intera crew, che si mise in piedi abbandonando il divano – e il porno ancora acceso – con sincronia perfetta, neanche si fosse trattato di un unico corpo.
Bushido si passò stancamente una mano sugli occhi.
- Mi pare scontato che non voglio che questa cosa esca da questa casa. – disse con aria burbera, prima che i ragazzi uscissero dall’appartamento. Chakuza si fermò sulla soglia della porta e lo fissò, allucinato.
- Ti pare che siamo così idioti da andare pure a parlarne in giro, Atze?
La domanda, in effetti, si rispondeva da sola. Perciò Bushido non aggiunse altro.
*
Adattarsi a convivere con l’unicorno non fu particolarmente difficile: Bushido capì già all’alba del ventidue dicembre – quando se lo ritrovò steso addosso, naturalmente dalla parte meno piacevole, non appena aprì gli occhi – che quel cavallo aveva con lui un enorme problema indecifrabile di cui non riusciva a parlargli – strano, perché sapeva essere molto eloquente, quando voleva. E poi Bill traduceva per lui. Come Bill potesse comprenderlo era una domanda che non voleva porsi, ma rimaneva il fatto che, quando qualcuno della crew passava per la casa, ad esempio, Palla di Neve ci tenesse a dire la propria sulla presenza di estranei in casa, e Bill traduceva meticolosamente ogni educato invito a togliersi dalle palle. Per qualche motivo, però, quando l’unicorno indirizzava un nitrito di disappunto a Bushido, non c’era verso di costringere Bill a spiegargli perché ce l’avesse con lui. Il che poteva essere frustrante, visto che l’animale si stava facendo enorme e Bushido cominciava a temere per la propria vita – soprattutto quando si vedeva sbattuto contro una parete a causa di un colpo di coda.
In ogni caso, stabilito che lui e Palla di Neve erano l’uno l’antitesi dell’altro e che, per questo motivo, sarebbe stato molto meglio tenerli lontani, la convivenza era stata perfino piacevole. L’unicorno era educato, si scostava per farlo passare, non intralciava la via verso il bagno ed a parte soffocarlo di dispetti come lo scherzetto del sedere sulla faccia non faceva niente di particolarmente molesto.
Il problema era Bill, che Allah l’aiutasse.
Bill era pieno di fissazioni assurde. Erano così tante che non erano nemmeno calcolabili. Bushido le approssimò ad un numero tendente all’infinito e, quando lo fece, gli venne da pensare di essere stato perfino troppo generoso nel sottrarne qualcuna di poco conto. Bill non mangiava mele. A Bill piaceva la cioccolata ma solo a determinate condizioni. Bill non mangiava quasi niente non contenesse più conservanti che ingredienti naturali. Bill aveva bisogno di piastrare giornalmente i capelli perché odiava i boccoli. Bill odiava gli insetti e non usciva mai in giardino per paura delle punture. Bill era di una pigrizia sconcertante ed era capacissimo di richiamare te – che stavi in camera da letto dall’altro lato della casa a farti un’abbondante quantità di cavoli tuoi – per farsi portare dalla cucina – vicino al salotto – un bicchiere d’acqua – in salotto dove stava lui, appunto.
Bushido sospirò, posando il dannato bicchiere d’acqua sul tavolino basso accanto al divano dove Bill stava svaccato, sfogliando una rivista mentre con la mano libera accarezzava Palla di Neve, morbidamente accucciato sull’altro cuscino, ai suoi piedi. Inarcò le sopracciglia.
- Palla, potresti anche lasciami un po’ di spazio per sedermi… - si lamentò, piantando le mani sui fianchi ed osservando l’unicorno, ormai grande quanto un normalissimo cavallo e con un’apertura alare da albatros, mentre sonnecchiava sul divano.
L’unicorno sollevò appena una palpebra e sbuffò un nitrito disinteressato.
- Dice che c’è l’altro divano. – tradusse distrattamente Bill, senza sollevare gli occhi dalla rivista.
Bushido aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, deluso.
- Insomma, ho smesso di essere padrone di casa mia nel momento in cui siete entrati da quella porta. – si lamentò, accucciandosi sull’altro divano e cercando a tentoni il telecomando fra i cuscini, - E a Natale mancano ancora tre giorni!
Bill gli sollevò addosso un paio di occhi incredibilmente brillanti, allungandosi a recuperare il suo bicchiere d’acqua dal tavolino.
- Mi dispiace di darti tanto disturbo…
Bushido grugnì con disappunto.
- Non ti dispiace affatto. – borbottò, - Ti piace da morire farti servire e riverire, eh?
Bill lasciò andare una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Assolutamente sì. – ammise annuendo. E poi esitò solo un secondo, abbassando appena lo sguardo, - …fosse per me, rimarrei qui per sempre.
Bushido inarcò le sopracciglia. Fece per rispondere qualcosa – una cosa qualunque, la prima battuta che gli fosse capitata sulla punta della lingua – ma dovette interrompersi causa campanello martellante direttamente nelle orecchie. Sospirò e si mise in piedi.
- Vedi di far sparire quell’animale, mentre vedo chi è.
Bill annuì e saltò in piedi.
- Palla di Neve? Fuss! – ordinò con ingenua gioia.
Bushido sospirò: era assurdo che Bill si fosse convinto di essere stato in grado di addestrare l’unicorno in due giorni. Quell’animale palesemente lo idolatrava e lo seguiva ovunque, non c’era bisogno di trattarlo come un pastore tedesco, per portarlo in giro per casa.
Il campanello strillò ancora, offeso dal suo disinteresse.
- Ho capito, ho capito… - biascicò Bushido, sporgendosi per spiare l’identità dell’ospite al di là dello spioncino. Quando capì di chi si trattava, gli venne voglia di prendere a cazzotti Babbo Natale, e si ripromise che, qualora l’avesse visto, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. – Merda… mormorò scontento, - Bill, c’è tuo fratello! – urlò poi, in direzione delle scale che portavano al piano di sopra.
Bill si affacciò e lo fissò, attonito.
- E che ci fa qui? – chiese incerto.
Bushido scrollò le spalle.
- È il tuo gemello, siete voi quelli della telepatia gemellare-
- Non usare quel termine, a Tomi non piace, lui non crede nella telepatia.
- No, ma dice di sapere sempre cosa ti passa nella testa, per quanto io creda impossibile anche solo intuire cosa ci sia là dentro. – precisò lui, indicandolo con un dito, - Comunque sia, io non intendo averci a che fare.
Bill continuò a guardarlo con la stessa aria stupita.
- Io devo stare con Palla di Neve, Bu. – gli fece notare.
- Palla può stare da solo, per un po’! – cercò di convincerlo lui, per quanto sapesse perfettamente che no, Palla non poteva stare da solo. Palla sclerava appena Bill si chiudeva in bagno, figurarsi. – Tuo fratello mi stressa, Bill!
Bill scrollò le spalle.
- Vuoi che Palla di Neve fugga dalla finestra? – gli chiese, - È già successo, lo sai!
Bushido ringhiò.
- Tu e le tue dannate due ore di ricostruzione ogni volta che ti strucchi. – borbottò disperato, - Sparisci. – disse poi con un gesto vago, - Cerco di rimandarlo a casa.
Bill rise e scomparve oltre le scale, mentre Bushido sospirava profondamente e si preparava ad affrontare il dramma.
Tom apparve sulla soglia fissandolo con l’aria navigata dell’uomo che della vita ha capito tutto, e Bushido si chiese distrattamente come avrebbe reagito se fosse salito su, avesse recuperato Palla di Neve e gliel’avesse graziosamente posato di fronte.
Sospirò.
Probabilmente Tom avrebbe riso e gli avrebbe detto qualcosa tipo “non è più assurdo di te che cerchi di farmi credere che in realtà tu e Bill non state insieme”.
- Ciao, Tom. – lo salutò atono, - Qual buon vento?
Lui avanzò all’interno dell’appartamento senza chiedere il permesso, guardandosi intorno con aria sospettosa. Bushido temette si mettesse ad annusare l’aria, in cerca chissà di che cosa, poi.
- Allora… - chiese invece il ragazzo, voltandosi a guardarlo con malizia, - mio fratello?
Bushido sospirò.
- È uscito.
- Aha… - disse Tom, palesemente senza credergli, - quindi se vado di sopra e lo cerco in camera da letto non lo trovo, eh?
L’uomo deglutì.
Bill aveva preso possesso della camera da letto al punto che Tom non avrebbe faticato a pensare tutto e il contrario di tutto anche solo a metterci piede dentro: vestiti ovunque, trucchi sparsi in giro sulla toletta, un quintale di scarpe affiancate in un’ordinatissima fila contro la parete…
- Non ti farò entrare in camera mia, Tom, non siamo ancora abbastanza intimi. – scherzò, cercando di porre freno al dramma in atto. Tom non ne fu granché impressionato.
- Guarda che i flirt con me non funzionano. – ghignò invece, piantando una mano sul fianco e sporgendo appena un’anca, come il fratello faceva anche troppo spesso. – Allora, che mi racconti?
“Che tuo fratello mi fa ammattire, il suo unicorno mi odia ed ho un Bravo in cui io e Bill salutiamo i giornalisti dalla finestra della camera degli ospiti, come la fottuta famiglia reale inglese, in uscita entro la fine di questo mese. Ho una vita molto piena, sì.”
- Niente, Tom. – biascicò, andandosi ad abbattere contro il divano poco distante, - Tuo fratello mangia sempre chili di dolciumi, non muove mai un dito in casa ed è generalmente il solito ragazzino lamentoso coccola-dipendente. Ti basta così?
Tom aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Sei un mostro. – lo accusò infine, fissandolo con estremo disappunto, - Non dovresti parlarne così!
Bushido mugolò sconfitto e si passò una mano sugli occhi.
- Lo sai che voglio bene a tuo fratello, Tom-
- È il tuo ragazzo! – sbottò lui, - Dovresti volergliene di più!
- Ma non è il mio ragazzo!
Tom si spiaccicò una manata esasperata sulla fronte e sospirò teatralmente, andando a sedersi accanto a lui sul divano.
- Ascoltami bene. – gli disse poi, fissandolo intensamente negli occhi e piantandogli un dito proprio nel mezzo della fronte, - Io ho capito che piaci a mio fratello nel momento stesso in cui sono tornato in albergo con lui dopo i Comet, millemila secoli fa, e lui mi ha detto con occhio sbrilluccicoso “Bushido è una persona fantastica!”. – disse, cercando con poco successo di imitare la voce di Bill, vagamente più acuta della sua. – Io. – precisò, indicandosi, - Io sono un tonto. – annuì, - Io le cose non le capisco a meno che non siano palesi.
- Oppure – protestò Bushido, sbuffando annoiato e scuotendo il capo per cercare di liberarsi dall’indice puntato contro la fronte, - capisci fischi per fiaschi. Visto che io e tuo fratello non stiamo insieme e lui non mi ha mai detto-
- Non te l’ha mai detto perché guardati!, - riprese Tom, roteando gli occhi, - ti basta che io faccia tanto di insinuarlo e scleri! Chiaro, me l’hai terrorizzato, povero piccino, non ti dirà mai niente!
Bushido spalancò gli occhi, fissandolo sgomento.
- Tom. – sospirò alla fine, passandosi una mano sulla fronte, - cos’è che stai cercando di dirmi?
Tom sospirò a propria volta, con l’aria di uno che decisamente deve dare fondo a tutte le proprie riserve di pazienza, per star dietro ai tonti coi quali si ritrova ad avere a che fare.
- Sto cercando di dirti che tu non ascolti abbastanza. – rispose quindi, liberandogli la fronte dal peso di quell’indice puntato ed incrociando le braccia sul petto, - Non ascolti abbastanza Bill, o te ne saresti accorto da te. Già da un sacco di tempo, peraltro. – sospirò ancora, - E non ascolti me. Che, non a caso, non ho mai usato le parole “state insieme”.
Bushido ringhiò.
- Tom, non ho più neanche idea di quante volte mi hai ripetuto che tuo fratello è il mio ragazzo!
- Appunto. – sorrise trionfante Tom, inclinando furbo il capo, - E su questo, Atze, non puoi proprio darmi torto: magari non state insieme, ma lui di sicuro è tuo da anni. E quanto al suo essere un ragazzo, se vuoi posso confermartelo per iscritto. Ma credo che sarebbe meglio se controllassi tu di persona.
E così se ne andò: trascinandosi dietro tutto il proprio carico di inopportuna quanto fastidiosa sincerità. Bushido rimase lì, sulla porta, a fissare il vuoto. Per un sacco di tempo, poi. Fin quasi a sentirsi ridicolo da solo, perfino: il che, per uno che in genere non si sentiva ridicolo neanche quando rincorreva i propri compagni di crew con un carrello, era davvero inquietante.
Tornò presente a se stesso ed al mondo che lo circondava soltanto quando Bill tossicchiò appena da qualche parte alla sua sinistra. Mentre lui rimaneva in ascetica contemplazione del nulla, il ragazzo aveva avuto tutto il tempo di uscire dalla stanza in cui si augurava si fosse nascosto, scendere le scale e piantarglisi là di fianco con l’espressione tipica di uno pronto a chiedere scusa anche solo per essere venuto al mondo.
Bushido lo guardò. Piccolo e spaurito, Bill non riusciva nemmeno a guardarlo. Era talmente rosso in viso che c’era da chiedersi se per caso non avesse la febbre – e, in caso di risposta affermativa, preoccuparsi: Jost non aveva fatto che chiamarlo una volta ogni tre ore per assicurarsi che stesse bene e minacciarlo di violente e tremende ripercussioni legali in caso succedesse qualcosa al suo bambino. Bushido comprendeva quell’uomo e provava anche della sincera pietà, nei suoi confronti, ma sapeva che poteva essere un discreto rompimento di palle, se solo ci si metteva, perciò no, non aveva nessuna intenzione di rovinargli il cucciolo. Soprattutto perché, oltre Jost, se fosse successo qualcosa al leader dei Tokio Hotel, gli avrebbero voluto male davvero in tanti.
L’uomo si schiarì la voce, sporgendosi verso di lui ed allungando un braccio quasi a volerlo consolare per chissà cosa, ma Bill lo stupì nel modo più impensabile e normale di tutti: aprendo bocca e parlando. Il punto di Bill era proprio quello: parlava continuamente, ma tirargli fuori di bocca le cose veramente importanti era difficile quanto raggiungere la luna saltando.
- Mi dispiace che tu l’abbia dovuto sapere così. – disse invece Bill, dando probabilmente fondo a tutte le proprie riserve di sincerità, - Tomi tende ad avere la bocca troppo larga. – sospirò, - Spero solo tu non ti sia arrabbiato.
Bushido deglutì faticosamente.
- Bill… - cominciò, ma si fermò subito, incerto su come continuare. Era sempre stato una persona piuttosto fisica, e questo valeva anche per i tentativi di consolazione. Ma come diavolo faceva a consolare quel ragazzino? Se toccarlo sembrava fuori discussione proprio a causa del motivo della sua tristezza…
Palla di Neve, neanche stesse intuendo i suoi pensieri più nascosti, si parò fra lui e Bill, scrutandolo con occhi disapprovanti. Bushido resse il suo sguardo ed aggrottò le sopracciglia, resistendo appena al desiderio di ricoprire quel dannato cavallo d’improperi e tirargli pure una botta sul muso. Cercò di calmarsi ripetendosi che si trattava del dannato unicorno di Babbo Natale, non avrebbe dovuto volere far del male al dannato unicorno di Babbo Natale, ma per qualche strano motivo pensieri simili gli facevano venire voglia solo di ricoprire d’improperi e dare una botta sul muso anche al dannato vecchio, perciò lasciò perdere.
Fece per eludere il cavallo e raggiungere Bill alle sue spalle. Anche solo per accarezzargli un po’ la testa. Giusto per non fargli capire che non era arrabbiato, non era disgustato e non era niente di negativo in generale, ma Palla di Neve nitrì di scazzato disappunto e non gli permise nemmeno di fare un passo.
- Palla… - lo chiamò rabbioso, ma si fermò appena il pigolio incerto della voce di Bill lo raggiunse da dietro il corpo possente dell’animale.
- Palla di Neve… - lo chiamò il ragazzino, e subito quello si voltò a guardarlo, - Sitz.
Ed obbedì all’istante.
Tutto ciò che Bushido riuscì a pensare, osservando Bill risalire mestamente le scale, diretto probabilmente in camera da letto, fu “dannazione. Mi sa che l’unicorno l’ha addestrato davvero”. E, mordendosi un labbro mentre decideva di passare la notte al piano di sotto – visto che la sola idea di dormire ad un paio di metri da Bill lo turbava in maniera non descrivibile – gli venne quasi da pensare che l’addestramento dell’unicorno di Babbo Natale non fosse l’unico danno combinato da Bill prima da quando era arrivato in quella casa. Probabilmente non era nemmeno il più grave.
*
Il ventitre dicembre scivolò lentamente sotto le loro dita senza che neanche si guardassero, quasi. La mattina fu pigra e silenziosa – Bill non aveva chiuso occhio e si aggirava per casa come uno zombie, fissando il vuoto con occhi spenti ed evitando il suo sguardo a tutti i costi. A Bushido non era poi andata tanto meglio – il bracciolo del divano non s’era rivelato un cuscino piacevole, e per la verità neanche il suo turbamento s’era rivelato granché simpatico, come compagno di sonno, ragion per cui, praticamente, non aveva dormito affatto.
Fra una telefonata ridacchiante di Tom, una minacciosa di Jost e gli spettri invisibili della crew che spuntavano all’improvviso per rubare un po’ di Wii – per poi naturalmente dileguarsi alla prima comparsa di Bill o di Palla di Neve – Bushido non aveva posato quasi per nulla gli occhi sul proprio ospite; a parte un breve momento d’imbarazzo verso mezzogiorno – cioè quando Bill aveva deciso di scendere al piano di sotto per la colazione – occasione in cui Bill s’era ritrovato senza zucchero e Bushido s’era ritrovato abbastanza soprappensiero da biascicare un distratto “è qui sopra”, prima di sollevarsi a recuperare il barattolo sul ripiano della credenza senza curarsi del corpicino del ragazzo che finiva schiacciato fra il suo e la superficie rigida e legnosa del mobile.
Il respiro di Bill gli aveva sfiorato la pelle del collo ed il suo calore era giunto chiarissimo attraverso i vestiti, colpendolo nel centro del petto ed annullando qualsiasi traccia di pensiero razionale dentro di lui, per moltissimi secondi. Non riusciva a capire se quello fosse solo imbarazzo, se si sentisse a disagio perché Bill l’aveva conosciuto che era uno scricciolo ed il pensiero di doverlo guardare da adulto per la prima volta lo mandava in confusione… o le radici di quel turbamento fossero differenti.
Se per caso non avesse ragione Tom, ad esempio. Se i suoi continui tentativi di mantenere quella relazione fra il vago e l’incerto non fossero in realtà i trucchi furbi di un trentenne che sa esattamente come rigirarsi i ragazzini fra le mani. Di un trentenne magari perfino spaventato dalla possibilità che il ragazzino che ha coccolato fino a poco tempo prima possa ritrovarsi cresciuto e senza più alcun bisogno di lui.
Bill era parte della sua vita da un sacco di tempo, ormai.
Era difficile identificare adesso dove finisse lo scherzo e cominciasse il desiderio.
Il ventiquattro dicembre, la consapevolezza che quel gioco del silenzio non sarebbe potuto durare in eterno lo raggiunse come un pugno in pieno viso nel momento in cui, verso le quattro del pomeriggio, Bill si presentò al suo cospetto in salotto, accompagnato come al solito da Palla di Neve. Con la piccola aggiunta dello zainetto che Bushido aveva portato per lui da casa sua.
- …che? – chiese l’uomo, indicando lo zaino con un cenno del capo.
Bill ne torturò le bretelle fra le dita, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- È praticamente Natale… - disse dopo un po’, sguardo basso ed aria afflitta, - e penso che tu abbia di meglio da fare che non badare ad uno come me. – sospirò, - Anche perché non riesco a parlarti. Né a guardarti. Né a fare nient’altro.
- …Bill, ascoltami-
- No. – scosse il capo lui, riuscendo solo per un secondo a sostenere i suoi occhi, prima di tornare a puntare i propri sui ghirigori del tappeto, - Questa cosa… mi è caduta addosso come un macigno. – spiegò a fatica, - Io non avevo alcun problema con… con il fatto che mi piacessi. Ma ora che lo sai è tutto diverso. E siccome è evidente che non… - tornò a guardarlo fugacemente e poi si disperse ancora sul pavimento, - insomma, penso che andrò a casa e parlerò con Tomi. Se riesco a parlare con lui prima che veda Palla di Neve, allora magari-
- Ma Bill… - cercò di riportarlo in sé lui, massaggiandosi la fronte e mettendosi in piedi, - cerca di ragionare. Palla è diventato enorme. Non puoi uscire da qui con quell’animale appresso!
Bill si morse ancora il labbro, a disagio.
- …ti sta rovinando tutto il parquet, al piano di sopra. – lo informò, - Sono gli zoccoli, credo. Ti sto distruggendo casa e ti sto distruggendo la vita e-
- E magari invece non mi stai proprio distruggendo niente. – lo interruppe l’uomo, andandogli incontro e posandogli le braccia sulle spalle. Non lo toccava da un sacco di tempo e, quando i loro corpi vennero in contatto, si ritrovò letteralmente ricoperto di brividi. – Adesso ti calmi. – lanciò un’occhiata a Palla di Neve che, nel mentre, allarmato da tanta vicinanza, stava per mettersi di mezzo, - E tu ti levi di torno. Raus. – borbottò infastidito nei suoi confronti. Palla di Neve rispose con uno sbuffo risentito, accucciandosi lì di fianco senza spostarsi di un millimetro. – Bill, - sospirò Bushido, roteando gli occhi prima di tornare a guardarlo, - qui nessuno ha problemi con nessun altro, d’accordo? Non c’è niente che non vada. Non sono offeso e comunque ti ho chiesto io di restare fino a Natale. E non sarà Natale prima di stanotte a mezzanotte. – Bill lo guardò con aria smarrita, perdendosi un po’ nei suoi occhi, e Bushido si ritrovò a sospirare ancora, esplicitando ulteriormente, - Quindi adesso ci mettiamo in cucina e prepariamo qualcosa di buono, ok? Un bel cenone. E ci godremo la serata. E del resto parleremo poi.
Bill aveva sorriso ed aveva fatto quello sguardo lì, quello allegro e brillante che in genere precedeva i momenti in cui mandava a quel paese il buonsenso e ti saltava al collo riempiendoti di baci a caso – senza badarci se per caso uno dei baci finiva sulle labbra. Senza badarci o badandoci eccome, c’era quasi da chiederselo.
Non fu tanto piacevole osservarlo spegnere di prepotenza quella luce e trattenersi dall’abbracciarlo. Comunque, le due ore successive passarono piacevolmente, mentre entrambi stavano immersi in cucina fra chili di pentole e pentolini alla ricerca di qualcosa di commestibile fra credenza e frigorifero.
Palla di Neve seguì con cipiglio critico tutte le operazioni di cottura, senza mai intralciarle ma nemmeno favorirle; quando, alla fine, Bill si mise in testa di fare i biscotti di pan di zenzero – “perché stanno tanto bene attaccati all’albero, Bu, non hai idea quanto!” – pretese anche che lui uscisse dalla cucina, e di buttarlo fuori s’incaricò proprio l’unicorno, spingendolo a musate fuori dalla stanza senza la minima delicatezza.
Bushido si augurò che Babbo Natale lo buttasse fuori di casa al secondo giorno, visto il brutto carattere, ma non protestò e si svaccò sul divano mentre attendeva che Bill riemergesse da quell’incredibile frenesia da casalinga festosa.
Cosa che successe puntualmente un paio d’ore dopo: Bushido lo vide venir fuori dalla cucina completamente ricoperto di farina e zucchero, ma con un sorriso talmente smagliante sul volto da non riuscire neanche a prenderlo in giro.
- Non voglio nemmeno immaginare il delirio che ci sarà in cucina… - sbuffò divertito, senza nemmeno alzarsi in piedi. Bill gli regalò una linguaccia ed una mezza risata.
- La cucina è ok… sono io da ristrutturare!
Bushido lanciò un’occhiata all’orologio a muro e rise a propria volta.
- Be’, sono quasi le sette e mezza. Se vai a farti in bagno adesso, c’è una qualche possibilità tu sia già ristrutturato per l’ora di cena?
Bill aveva tirato di nuovo fuori la lingua, mostrando il piercing e lanciando un’occhiatina all’albero di Natale illuminato che i ragazzi della crew erano venuti a sistemare poco a poco come scusa per essersi defilati ed averlo mollato da solo con Bill Kaulitz ed un unicorno, ma aver continuato a gravitare di nascosto per la casa solo in virtù delle consolle per i videogiochi.
In realtà non c’era proprio da stupirsi che tutti quanti credessero negli unicorni, se poi in effetti si comportavano da bambini di dieci anni. Fler doveva indubitabilmente avere ragione.
- È un po’ triste che sotto non ci siano regali. – commentò appena, spolverandosi un po’ la maglietta.
- Ti sbagli. – rise Bushido, indicando con un cenno del capo Palla di Neve placidamente accoccolato sotto le fronte dell’abete, sul tappeto parzialmente ricoperto di aghi, - C’è lui.
Bill ridacchiò.
- E quello lo chiami regalo? – chiese ironico.
Bushido scrollò le spalle.
- Quello proprio no. La tua compagnia, però, può essere.
Lo osservò arrossire e borbottare qualcosa di confuso, prima di cominciare a correre a rotta di collo verso il piano superiore senza nemmeno guardarsi indietro, e si ritrovò a riflettere su quanto in realtà fosse davvero poco netto il confine fra i suoi sentimenti. In realtà, nella sua vita, erano sempre stati chiari solo gli odi. Per tutto il resto – ed anche per qualcuno di quegli odi stessi – vagava in un limbo d’incertezza in cui un sentimento avrebbe tranquillamente potuto essere qualsiasi altro.
In sostanza, gli piaceva avere Bill intorno.
In sostanza, probabilmente, se non l’aveva mai visto come un probabile compagno, era stato perché si era ostinato a non volercelo vedere. Oltre che perché lui era Bushido e quell’altro Bill Kaulitz, naturalmente. Sono cose, queste, che già da sole frenano i rapporti, in genere.
Bill ridiscese nel tempo record di un’ora e mezza, quando già Palla di Neve aveva ripreso conoscenza dal pisolino pomeridiano e si apprestava a piantare grane – tipo mangiando i babbi di stoffa appesi ai rami dell’albero – perché al suo risveglio non aveva trovato Bill a fargli le coccole.
Bushido sollevò lo sguardo e se lo ritrovò immerso in un accappatoio bianco dalle cui maniche spuntavano appena le mani. Attorno alla sua vita, la cintura faceva almeno due giri ed era ancora molle al punto che, quando si muoveva, i lembi dell’accappatoio si separavano e si poteva scorgere al di sotto qualche spicchio di pelle bianchissima ed ancora umida di doccia. Da sotto il cappuccio e le pesanti ciocche di capelli neri ancora bagnati, Bill lo fissava con estremo imbarazzo, stringendosi nelle spalle.
- …ho dimenticato di chiederti qualcosa per cambiarmi, quando sono andato in bagno. – biascicò incerto, abbassando lo sguardo.
Bushido sospirò pesantemente e si alzò in piedi, raggiungendolo di fronte alle scale con un sorriso bonario ad increspare le labbra.
- Tu sei un danno. – gli fece presente, sollevando le mani per frizionargli i capelli col cappuccio, mentre pesanti gocce trasparenti scendevano la china di quella cascata d’ebano per infrangersi contro il pallore delle sue scapole. – Guardati qui. Siamo a dicembre inoltrato e non ti sei nemmeno asciugato per bene.
Bill sorrise appena, e sotto le ciglia ancora bagnate i suoi occhi brillarono di una luce incredibilmente intensa. Intensa al punto che Bushido ebbe quasi difficoltà a sostenerla.
Gli venne in aiuto la sfiga, perché la luce saltò in quel preciso istante.
- Merda… - imprecò, stringendo la presa su Bill neanche avesse paura di sentirselo svanire sotto le mani col favore del buio. Il ragazzo, per contro, gli si strinse addosso, agitandosi appena. – Deve essere saltata la luce. Con tutte le decorazioni che ci sono accese per ora nelle strade… - ringhiò, - Aspetta, dai. Vado a controllare il quadro elettrico.
Fece per allontanarsi, ma Bill scattò immediatamente a stringerlo per un braccio. Nel buio e nel silenzio, le sue dita ossute serrate attorno al polso erano quasi inquietanti. Ma erano umide e calde, e Bushido non faticò a cedere alla loro richiesta di fermarsi, tornando a cercare di scorgere il suo profilo nel buio profondissimo che annegava la casa.
- Bu… - lo chiamò Bill, la voce tremante, - sai cos’è che dice sempre Palla di Neve quando mi vieni così vicino?
Bushido scosse appena il capo, e si rassegnò a tirar fuori un “no” umanamente comprensibile soltanto quando capì che, con quel buio, Bill non avrebbe mai potuto vederlo.
- Dice sempre che sei pericoloso. – continuò Bill in un sussurro. Era così vicino che Bushido poteva sentire il suo respiro sul viso. Sapeva di zucchero e cose dolci. Era un buon odore. – E dice anche che dovresti starmi lontano.
- Forse – sussurrò a propria volta, molto più incerto di quanto avrebbe voluto, - dovrei dargli retta.
Bill rise piano, un trillo appena percettibile, e gli posò entrambe le mani sul petto.
- Palla di Neve non può vederci, adesso.
E Bushido l’aveva schiacciato contro il muro il secondo successivo. L’aveva baciato subito dopo. L’aveva condotto su per le scale quasi di seguito. E s’era chiuso alle spalle la porta della propria camera da letto non più di due minuti più tardi.
Quando la luce tornò in casa – da sola, senza che nessuno ce la riportasse – il salotto venne illuminato solo dal bagliore delle lucine intermittenti che adornavano l’albero di Natale. Di Palla di Neve non c’era più traccia. A meno di non voler considerare una traccia una finestra spalancata.
*
Bill era scoppiato a piangere nel momento stesso in cui s’era reso conto del danno che avevano combinato. In un primo momento, ancora perso nell’assonnato sfinimento che aveva seguito il loro incontrarsi e scontrarsi pelle contro pelle fra le lenzuola fresche di bucato, era rimasto immobile contro il suo petto e non aveva detto nulla, ma quando finalmente avevano ripreso a parlare e Bushido gli aveva fatto notare quanto le premesse di quella relazione fossero sbagliate e disastrose – l’età! Due mondi diversi! Il tuo manager mi ucciderà, Bill – il ragazzo l’aveva zittito con un bacio veloce pregandolo di non sparare cavolate a raffica quando non poteva insultarlo come giusto e poi, d’improvviso, aveva spalancato gli occhi, mormorato un “Palla” afflitto ed era scoppiato in lacrime. Singhiozzando talmente forte, poi, da dare a Bushido l’impressione potesse spaccarsi. Un’impressione che, per la prima volta, lo terrorizzava – e non solo per le possibili ripercussioni legali.
Quando erano scesi di sotto, era bastata una breve perlustrazione della casa – fra un “Babbo Natale mi ucciderà” e l’altro – per rendersi conto che sì, le previsioni di Bill si erano avverate: non era più vergine; l’unicorno era scappato. Volando via dalla finestra ed immettendosi nel traffico notturno del ventiquattro dicembre a Berlino, peraltro. Fossero almeno stati in campana… ma no, proprio nella capitale tedesca.
Bushido sospirò pesantemente e si strofinò gli occhi con una certa forza, cercando di recuperare lucidità mentale. Quando ci riuscì, l’unica cosa che pensò fu che quello era proprio il momento di mettere in campo la crew: una manciata di uomini forti, asserviti, indipendenti e fondamentalmente stupidi. Una manciata di uomini, soprattutto, che quell’unicorno lo vedeva senza dubbio. Perciò, perfettamente sfruttabili.
- Tu non ci stai con la testa, Atze. – fu il commento di D-Bo quando, di fronte a tutto il resto della crew, gli venne spiegata la situazione.
- Cioè, tu e Bill – precisò Eko, spalancando smisuratamente gli occhi, - avete scopato. E già questo basterebbe a sconvolgermi. Ma oltretutto tu mi vieni a dire che quell’allucinante creatura stava qui solo perché il ragazzino qua era vergine e che ora che non lo è più è fuggita chissà dove…
- …ed a noi tocca cercarla?! – rincarò la dose Chakuza, agitandosi nervosamente attorno al divano, - Noi siamo rapper! È già allucinante ci fosse un unicorno in casa tua, io non intendo prestarmi a-
- Tu ti presterai a qualsiasi cosa io ti chiederò. – fu il secco commento di Bushido, spedendoli tutti fuori casa e tirandosi appresso Bill mentre si immetteva a propria volta per le strade della città, - Altrimenti io ti licenzierò e farò in modo da non farti più mettere piede in qualsiasi etichetta della città.
Mentre Chakuza borbottava inascoltato un “vorrà dire che andrò da Sido e Fler, sia mai loro siano meno cazzoni di te!”, Bushido si affiancò a Bill e gli strinse protettivo una spalla.
- Guarda che lo ritroviamo. – cercò di rassicurarlo, preoccupato dai suoi lineamenti tesi. Bill era sempre sull’orlo del crollo. Pensare di doverlo rimettere in piedi dopo una caduta era spaventoso: se non altro perché lui era così fragile da minacciare di rompersi in una quantità infinita di minuscoli pezzi, in caso fosse caduto davvero.
- Bu, non capisci… - mugolò il ragazzo, asciugandosi le guance, - io avevo fatto una promessa a Babbo Natale… - continuò mentre Saad borbottava un “bah!” sconvolto alle sue spalle, - ed invece Palla di Neve è scappato per colpa mia e… - Bushido lo osservò sollevare lo sguardo e poi spalancare gli occhioni, prima di puntare il dito verso un punto imprecisato di fronte a lui e prendere fiato neanche dovesse apprestarsi a cantare per i successivi dieci minuti di seguito senza avere la possibilità di respirare. E poi esplose: - Palla!!!
L’unicorno stava in effetti immobile a qualche metro di distanza da loro. I passanti sembravano non vederlo e continuavano a vivere la loro gioiosa festività senza curarsi del delirio in cui invece loro stavano immersi.
Bill cercò di andargli incontro, ma Palla di Neve nitrì adirato e s’impennò.
- Palla, non… non fare così, ti prego… - provò il ragazzo, ma l’unicorno non lo ascoltò. Nitrì ancora, sempre più indignato, e poi partì al galoppo quasi stesse inseguendo una preda.
Bushido non attese che un paio di secondi prima di afferrare Bill per il polso e trascinarselo dietro alle calcagna dell’animale impazzito, mentre tutto il resto della crew ammetteva che rimanere comunque lì al freddo e al gelo senza combinare niente era perfino più assurdo che seguire il proprio capo in quell’impresa allucinante: e decideva pertanto di mettersi a correre a propria volta.
Tutto ciò che Bill riuscì a commentare, fra uno sbuffo di fiato e l’altro, mentre Palla di Neve si fermava di fronte ad un palazzo e spiegava le ali per volare fino al decimo piano, fu “io questo posto lo conosco”. E poi più niente, perché quel palazzo era casa sua: e perché Palla di Neve ci fosse tornato era un mistero che si sarebbe dipanato solo quando l’avrebbero seguito.
*
All’interno dell’appartamento, Tom stava disperatamente cercando di non morire dalle risate mentre Gustav passava a Georg il proprio regalo di Natale commentando distrattamente “c’è anche la piastra per il frisé” prima ancora che il bassista riuscisse a scartarlo.
- E che cazzo, Gusti, sarà il quarto anno consecutivo che mi regali una piastra per capelli, a Natale! – borbottò il ragazzo mentre Tom rotolava sul divano andando ad impattare contro un povero manager esausto che tutto avrebbe voluto tranne ritrovarsi la notte della vigilia a babysitterare tre adolescenti palesemente mononeuronici.
- Ma ti dico che questa ha la piastra per il frisé! – insisté Gustav, oltraggiato da tanta ingratitudine, - Quella dell’anno scorso non ce l’aveva!
- Io non la uso, la dannata piastra per il frisé! – sbraitò Georg, agitando in tondo il proprio regalo ancora mezzo impacchettato, - Ti pare che io sia tipo da frisè?!
Gustav scrollò le spalle.
- Uno non può mai sapere, magari ti viene voglia di cambiare.
E su quell’ultima battuta la finestra s’era infranta ed un’enorme cavallo alato aveva fatto irruzione in salotto. Un cavallo alato con un enorme corno bianco e lucidissimo nel mezzo della fronte. Un cavallo alato e cornuto con un paio d’occhi talmente azzurri e acquosi da sembrare finti, peraltro.
Insomma, un unicorno.
Tom guardò Georg. Che guardò Gustav. Che non se la sentì di tirare nuovamente in ballo il frisé per motivare l’assurdità dell’accaduto. Alla fine, tutti e tre guardarono David come si aspettassero da lui una soluzione definitiva.
Il manager fissò l’unicorno, la bocca spalancata e le braccia molli lungo i fianchi.
- Ragazzi… lo vedo solo io?
La scrollata di capo simultanea che seguì la sua domanda non lo rassicurò per niente. Invece di dirsi “ah! Allora non sono pazzo!”, lo portò a commentare “ah! Allora siamo pazzi in quattro!”.
- Palla! – strillò qualcuno aprendo la porta di scatto. E quel qualcuno era Bill. Seguito da Bushido. E dall’Ersguterjunge al completo. Compreso Eko, che magari non era più sotto contratto all’etichetta ma, quando c’era da seguire il capo, sembrava sempre pronto ad obbedire.
David deglutì a fatica.
- Loro li vedo solo io, però, giusto?
Tom, Gustav e Georg scrollarono nuovamente il capo in sincrono.
Ed a quel punto ci sarebbe davvero stato da chiedersi cosa diavolo stesse succedendo, ma l’unicorno li batté tutti sul tempo guardandoli uno per uno con sincero scazzo… prima di posare i propri enormi occhioni acquamarina su Tom e dirigersi con aria innamorata verso di lui.
- Ehi! – sbottò Tom, sulla difensiva, - Stai lontano, eh?!
- No, Palla! – strillò ancora Bill, tendendo una mano verso l’animale, - Morirai!
Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Aspetta. – suggerì, fissando curiosamente la scena, - Sembra che sappia quello che fa.
Ed in effetti Palla di Neve lo sapeva davvero. Ne ebbero tutti la conferma nel momento in cui lo videro accucciarsi placidamente ai piedi del chitarrista e lì restare, sprofondando immediatamente in un tranquillo sonno ristoratore. Il volo doveva averlo sfiancato.
- Ho ho ho! – disse a quel punto Babbo Natale, carambolando giù dal camino e rotolando felice fin nel centro del salotto, - Ouch. Dovrei ricominciare ad usare gli abiti imbottiti. Erano incredibilmente d’aiuto, in queste situazioni.
Una bolla di silenzio si espanse per tutta l’estensione della stanza.
Ed esplose solo quando Bill si mise a piagnucolare.
- Babbino! – disse con tono lamentoso, - Mi hai preso in giro!
Babbo Natale sistemò gli occhialini tondi sul naso, prima di rimettersi in piedi e guardare Bill con aria critica.
- Io ti ho preso in giro, Bill? Mi pare che qui quello che non ha onorato la sua promessa sia stato tu…
- Ma tu mi avevi detto che l’unicorno poteva stare solo con i vergini! – continuò a borbottare Bill, del tutto sordo ai rimproveri, come in effetti tutti si aspettavano, - E invece guardalo, sta lì e fa le fusa a mio fratello!
Il nonnino si voltò a guardare Tom, squadrandolo compitamente da capo a piedi.
- Infatti, non c’è nessun errore. L’unicorno ha individuato il vergine più vicino e-
- I-Io non sono vergine! – protestò Tom, agitandosi convulsamente ed arrossendo imbarazzato, - Io non sono vergine proprio per niente! Che diavolo di storia è questa?!
Babbo Natale gli si avvicinò, lanciandogli un’occhiataccia critica.
- A-ah, Tom! – lo rimproverò, agitandogli un dito guantato davanti agli occhi, - Niente bugie! O quest’anno, per te, niente regali!
Il silenzio piombò nuovamente nella stanza, e le attenzioni di tutti furono concentrate su Babbo Natale che, dopo aver controllato che l’unicorno stesse bene, si sedeva compostamente sul divano, intrecciando le dita sul ventre sporgente e guardando il suo attonito pubblico con aria placida e pacifica.
- State tranquilli, ragazzi miei, ho un regalo per tutti voi, tranne che per quelli che l’hanno già ricevuto. – li rassicurò bonario, lanciando un’occhiata di paterna soddisfazione a Bill e Bushido, - Ora, se avrete la pazienza di starmi a sentire, vi racconterò la storia di un cucciolo di unicorno, di un ragazzo innamorato e di un uomo parecchio distratto. E poi vi darò i vostri regali. – si interruppe un attimo, guardandosi intorno con aria curiosa. – Ma prima, non ci sarebbe mica un bel bicchiere di latte e qualche biscotto?
Titolo originale: id.
Autrice: Cynical_Terror.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Lemon, Slash, Traduzione.
- E' partito tutto con uno scherzo. Ma non sta ridendo più nessuno.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
INVITATION
Capitolo 1

Bill siede da solo nella propria camera d’albergo, arricciato sul letto con addosso solo il pigiama, e fissa con aria assente il televisore.
- Sono solo, grandioso… - mugugna, raccogliendo l’orlo del pantaloni che usa per dormire. L’hanno lasciato di nuovo lì, o meglio, è stato lui a rifiutare di uscire con loro. Si sente come una pezza usata, lo sa perfettamente, ed è stufo di discoteche, alcool e ragazze che si fanno carine solo per lui.
Avevano programmato di non uscire, quella sera. Avevano bisogno di un po’ di pausa dalla frenesia del tour, avevano semplicemente bisogno di un po’ di calma. Quella sarebbe stata la prima serata, dopo una settimana, in cui non ci si aspettava da loro che dovessero trovarsi da qualche parte. E, davvero, Bill era emozionato fin nel profondo dalla prospettiva di annoiarsi fino alle lacrime.
Avrebbero guardato un film e poi Tom aveva promesso che sarebbe rimasto un po’ con Bill per lavorare a qualche canzone. Bill aveva un sacco di idee, frasi e pezzetti di melodie che volteggiavano nella sua testa, ma non poteva fare niente senza che Tom rimanesse al suo fianco a provare accordi sulla chitarra.
Ma ovviamente, come al solito, niente era andato secondo i piani. Tom aveva incontrato una bionda sorprendentemente carina dopo il concerto. A Bill non era sembrata particolarmente diversa dalle altre, ma Tom aveva insistito col dire non avesse mai visto niente di simile. Lei era diversa, meravigliosa, e cazzo, lui aveva bisogno di una scopata. Ed aveva altre tre splendide amiche nel proprio appartamento, perché non organizzarsi per andare un po’ in giro per club, quella sera?
David aveva acconsentito, se non altro perché meritavano un po’ di libertà.
Bill sospira e fa zapping, fermandosi su una stupida commedia americana doppiata in tedesco. Osserva le loro bocche muoversi in maniera completamente diversa rispetto alle parole che sente.
Fare un giro dei club con un fratello sbronzo ed un gruppo di fangirl eccitate non era affatto l’idea che Bill aveva di una pausa. Preferisce di gran lunga restare seduto da solo nella propria camera, ed è esattamente ciò che sta facendo. E sono solo le dieci. Lo aspetta una lunga notte.
Normalmente, Bill sarebbe uscito con gli altri, avrebbe sorriso e si sarebbe ubriacato abbastanza da divertirsi un po’. Avrebbe fatto finta di ignorare il fatto che a Tom non fregava un cazzo del fatto lui ci fosse o meno. Non è mai stato bravo a fare da spalla, perciò Tom finisce sempre per fare coppia fissa con Georg, nei club, lasciando Bill e Gustav per i fatti loro.
- Mi sono rotto. – dice Bill. Dà un calcio al piccolo beauty case poggiato ai piedi del letto, e percepisce la propria frustrazione infiammarsi mentre la borsetta cade sul pavimento, spargendo intorno a sé il proprio contenuto. Si accovaccia sul materasso ed osserva il disastro. Fra le bottigliette di smalto e gli eyeliner sparpagliati per terra, c’è anche una piccola busta argentata, brillante del riflesso del televisore.
Sospira pesantemente mentre la fissa.
È stasera, giusto?, pensa, raggiungendola e trattenendola fra le dita. È indirizzata a lui, ma lui ha già capito molto più di quanto la busta in sé non dica. È tutto uno scherzo. La apre, per tirarne fuori il piccolo invito di compleanno.
- Ventotto settembre. – mormora, - Stasera.
È la festa per il compleanno di Bushido, e Bill è invitato.
- Naturalmente non mi ha invitato davvero.
L’invito era arrivato nella cassetta della posta più di una settimana prima, e s’erano fatti tutti una bella risata in proposito. Bushido continuava ad infastidire Bill da un sacco di tempo, ma era solo uno scherzo, anche se a Bill non sembrava poi così divertente. Tom aveva aperto la busta di fronte all’intera band, deridendo le poche frasi scritte a mano con le quali si richiedeva la presenza di Bill all’evento.
- Stupido Tom. – borbotta Bill, aggrottando le sopracciglia. Anche se Tom odia Bushido, lo odia davvero, deve essersi divertito un mondo a sbattergli tutta l’intera faccenda sul viso. Bill s’era sentito in imbarazzo già per l’invito, e s’era sentito ancora più a disagio perché, grazie a Tom, adesso tutti sapevano.
“Dovrei andarci solo per farlo arrabbiare”, pensa Bill. Ma ovviamente gli è stato impedito di muoversi. Come se ci avesse davvero pensato su, poi, come se…
- …avessi bisogno di farmi dire cosa posso o non posso fare. – ringhia ad alta voce. È improvvisamente furioso, e si alza in piedi, scavando sul fondo della valigia, incasinando la stanza mentre getta i vestiti qua e là sul pavimento. Riesce finalmente ad afferrare un paio di jeans ed un pullover nero a costine. Vestiti normali.
Li indossa, senza neanche starci a pensare mentre stende un po’ di trucco leggero; poco sugli occhi ed il lucidalabbra. Inforca un enorme paio di occhiali da sole, ridicoli per la notte, ma indispensabili, ed un morbido cappellino fatto a maglia sopra i capelli lisci. Getta un’occhiata a se stesso nello specchio e decide: è fottutamente bello, anche vestito così informalmente.
Senza pensare a ciò che sta facendo né a dove sta andando, chiama una macchina e sgattaiola dietro Saki all’ingresso dell’hotel. Lui non sembra neanche vederlo, è troppo impegnato a flirtare con la receptionist.
Bill accende una sigaretta proprio appena la BMW nera appare di fronte all’albergo. Lascia che l’autista scenda ed apra la portiera per lui, e gli passa il piccolo invito.
- Mi porti qui. – dice, salendo sulla macchina. All’interno, il fumo lo fa tossire, intrappolato sul lussuoso sedile posteriore. Attraverso il vetro oscurato che lo separa dell’autista, può ancora vedere l’invito argentato, tenuto su fra due dita per una breve ispezione. “Non pensare”, si dice mentre la macchina si mette in moto.
*
La macchina si ferma appena fuori dal club. C’è la fila, davanti alla porta d’ingresso, ed è lunga fino alla fine della strada. Bill deglutisce.
“Il programma è entrare, farmi scattare qualche foto, evitare Bushido e comportarmi esattamente come se non mi fossi mai divertito così tanto prima”, pensa. L’autista si gira e lo guarda attraverso il vetro.
- Chiamerò io. – dice Bill, - Qui faccio da solo.
Apre lo sportello e prova a respirare. È uscito da solo e, davvero, non dovrebbe essere così nervoso. Non c’è Tom, non c’è David e non c’è nessun’altro stronzo che possa permettersi di dirgli cosa fare.
E cosa dovrebbe fare adesso? È stato invitato e, che sia uno scherzo o meno, sa di essere in lista. China il capo: è nervoso; qualcuno potrebbe riconoscerlo. Si dirige verso l’inizio della fila.
Il buttafuori lo guarda dall’alto in basso.
- Invito? – chiede bruscamente.
Bill sorride, realizzando di aver lasciato la busta all’autista.
- Bill Kaulitz. – si limita a dire.
L’uomo inarca un sopracciglio e Bill abbassa lievemente gli occhiali. Gli occhi dell’altro si spalancano e la corda di velluto che blocca l’entrata viene spostata per lui.
- Da questa parte, Signore. – dice l’uomo, e Bill entra nel locale scuro, ridacchiando dentro di sé. È stato tutto molto semplice, ed in qualche modo si sente come un bimbo cattivo. Se solo gli altri sapessero dov’è… se solo lo sapesse Tom…
All’interno del club, Bill si sente quasi a casa. È uguale a qualsiasi altro club abbia frequentato di recente, scuro, rumoroso, pieno di corpi danzanti. Non riconosce nessuno nella folla, ed una sorta di eccitazione nervosa lo scuote tutto in un brivido. È davvero per conto proprio.
“È il momento di confondersi nella folla”, pensa. Confondersi nella folla è una parte del suo lavoro, è un professionista in questo. Scivola in mezzo alla calca, appare nelle foto, parla con qualche ragazza. Si sente uno scemo mentre stringe alla vita una ragazza e mentre ride assieme a lei, quando lei realizza chi è che la sta stringendo.
Firma un po’ di autografi, sbocconcella un po’ di stuzzichini e non gli importa affatto quando sempre più persone cominciano a notarlo. I fotografi all’interno del club, assoldati per documentare l’evento, si compiacciono enormemente di spingerlo a mettersi in posa per loro. Lui lo fa, sfila gli occhiali e il cappello e li ripone nella larga borsa che porta sulle spalle.
L’ultima cosa che poteva aspettarsi era di divertirsi, eppure sta succedendo. Prima ha individuato Bushido e la sua crew in un angolo della stanza, e tutto ciò che riesce a pensare è che, finché staranno lontani da lui, lui continuerà a divertirsi.
Dopo l’ennesimo incontro con una fangirl ridacchiante, Bill decide che ha bisogno di un drink. Si avvicina al bar, spintonando la folla ed atterrando finalmente di fronte al barista per ordinare un cosmopolitan. Mentre si appoggia al bancone, in attesa del proprio drink, qualcuno picchietta sulla sua spalla.
Si volta, ed i suoi occhi si allargano un po’. Riconosce quell’uomo immediatamente. È Chakuza, un amico di Bushido, che lo produce, in effetti.
- Cazzo, non posso crederci! – dice Chakuza.
Bill sorride.
- Uhm. Ciao.
Chakuza non sorride di rimando, e Bill si sente vagamente a disagio. È più alto di lui, ma si sente veramente minuscolo mentre Chakuza ghigna nella sua direzione.
- Cosa cazzo stai facendo qui? – chiede l’uomo.
- Io… - Bill arrossisce, - Non sono stato invitato?
- Era un fottuto scherzo! – dice Chakuza. Sta rendendo Bill nervoso, fissandolo direttamente negli occhi mentre gli parla. – Uno scherzo, no? E tu… e tu vieni sul serio?
- Be’, mi avete mandato un invito. – replica Bill.
Chakuza sta per dire qualcos’altro, qualcosa di spiacevole, Bill può quasi sentirlo, ma poi Bushido appare improvvisamente dietro di lui e lo spinge di lato. Bill resta a bocca aperta e lo fissa; si sente in trappola. Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe mai riuscito ad evitare Bushido per tutta la sera. Avrebbe dovuto sapere che gli sarebbe toccato comunque almeno parlargli.
Avrebbe preferito continuare ad avere a che fare con Chakuza.
- Stai indietro, Atze. – dice Bushido a Chakuza, il tono basso e profondo. Guarda Bill e solleva un sopracciglio, chiaramente divertito dalla sua presenza, - Non è passata l’ora di andare a letto?
- Non ho un orario per andare a letto. – scocca Bill, immediatamente infastidito dal tono conciliante dell’uomo.
Lui ghigna in risposta.
- Non mi hai portato un regalo? – Chakuza grugnisce in sottofondo, e Bushido si avvicina di più a Bill, - Mh?
Lui scrolla le spalle, rifiutandosi di indietreggiare mentre Bushido si avvicina ancora.
- Ti offrirò un drink.
- Open bar. – dice Bushido. – Che ne dici di regalarmi la tua compagnia?
Il suggerimento lo fa arrossire, e gli attorciglia lo stomaco in una maniera strana. Bushido odora di sigaro, alcool e muschio. Bill cerca di comportarsi come non si sentisse intimidito – ed invece lo è.
- Um. – è la sua risposta.
Non ha veramente una scelta. Bushido si allunga oltre la sua spalla, afferra il drink di Bill e lo accompagna verso il privè. Bill non può scappare, il braccio di Bushido pesa sopra la sua spalla e Chakuza gli cammina stretto a fianco dall’altro lato, intrappolandolo.
Il primo impulso appena si avvicina al tavolo è di voltarsi e fuggire via, ma Bushido urla agli altri di mettersi in piedi per lasciarlo passare. Bill china il capo e si precipita all’interno, senza riuscire ad ignorare le occhiate degli uomini che lo circondano.
Bushido lo segue, sedendoglisi accanto. Presenta Bill ed il suo drink, e Bill arrossisce follemente, all’improvviso consapevole di quanto femminile sia il proprio cocktail, soprattutto paragonato alle birre di tutti gli altri. Chakuza scivola al suo fianco, dall’altro lato, e Bill smette istantaneamente di pensare al proprio drink. Può sentire il respiro di quell’uomo sul collo, stanno tutti strettissimi attorno al tavolino.
- Signori, - dice Bushido, - Bill ha deciso di graziarci della propria presenza.
Allarga quelle braccia muscolose e ne avvolge una attorno alle spalle di Bill, che si tende mentre l’uomo lo stringe.
- Ovviamente non sa come interpretare gli scherzi. – dice Chakuza, stridulo. Gli altri ridono e Bill può solo stringersi nelle spalle, umiliato, e fissare il tavolo, ricoperto di cicche di sigarette, bicchieri vuoti, cellulari e, Bill nota, anche un po’ di preservativi ancora sigillati. Deglutisce pesantemente; perché ha dovuto fare il cretino e scappare dall’albergo?
- Ti stai divertendo? – chiede Chakuza.
Bill solleva appena il viso.
- Molto. – riesce a rispondere.
- Così circondato da maschi, non mi riesce difficile crederlo. – ribatte l’uomo.
Questo fa ridere l’intera tavolata, e Bill vorrebbe semplicemente arricciarsi in una palla e morire. Bushido grugnisce al suo fianco, palesemente poco compiaciuto da ciò che sta accadendo, e tutti smettono all’istante di ridere.
- Siate gentili col mio ospite. – dice serio.
Bill scuote il capo e cerca di sorridere.
- Sto bene.
- Assolutamente. – dice Bushido, lasciando finalmente la presa sulla sua spalla.
Chakuza batte il proprio bicchiere contro il tavolo, guardando Bill con occhi pieni di disgusto.
- Frocio. – sputa fuori, la sigaretta che si agita un po’ troppo vicina al viso di Bill. Lui semplicemente abbassa il capo.
- Porta il tuo “frocio” fuori di qui. – dice Bushido, strappandogli la sigaretta dalle mani. Chakuza lo fissa da sopra la testa di Bill, e c’è della tensione, Bill può sentirla. Bushido annuisce brevemente e Chakuza cede, corrucciato. Si mette in piedi e spinge chiunque stia sulla sua strada verso l’uscita del privè.
- Qualcun altro ha dei problemi? – chiede Bushido. Nessuno dice niente e Bill manda giù velocemente il proprio drink, solo per trovarsi qualcosa da fare.
- Al ragazzino serve un altro drink. – dice l’uomo che sta seduto adesso accanto a Bill, - Cosa bevi? – si mette subito in piedi, perciò Bill non può dire no.
- Um. Un Cosmo. – mormora.
- Un che?
Per qualche ragione, Bill è più imbarazzato adesso di quanto non sia stato per tutto il resto della serata.
- Prendigli uno shot. – dice Bushido, - Prendine per tutti, e dì al barista di continuare a mandarne.
L’uomo annuisce e Bill si schiarisce la gola.
- Non lo so… - mormora, allontanandosi lievemente da Bushido. Ha paura del calore che si sprigiona dal suo corpo. – Forse dovrei andare…
- Non puoi andartene adesso, non abbiamo ancora tagliato la torta! – dice un altro uomo.
Bushido sogghigna.
- Uno shot.
Bill sente un piccolo sorriso farsi strada sul proprio volto, e sospira.
- Okay, ma solo uno.
*
Un’ora dopo, Bill è completamente andato, del tutto fuori di sé. Lo sono tutti, in realtà, e Bill ha anche smesso di interessarsi di ciò che gli altri potrebbero pensare di lui. E comunque, sono stati tutti dannatamente gentili, da quando Chakuza è andato via.
Bill ride senza nessun motivo e si stende accanto a Bushido, rubando uno shot ad uno dei suoi nuovi amici, e quasi cade in grembo all’uomo mentre manda giù il drink. Non sa nemmeno cosa ha bevuto.
Bushido lo aiuta a tirarsi dritto e Bill scivola indietro contro il divano, ghignando.
- Il ragazzino continua a bere. – dice uno dei nuovi amici. Bill gli solleva contro il medio senza nessuna ragione e tutti ridono.
- Vi sta battendo tutti. – commenta Bushido, fumando il sigaro.
Bill si sente orgoglioso e, con aria presuntuosa, biascica “Voi tutti… mi fate una sega”.
Questa battuta si guadagna la risata più fragorosa della serata, e Bill sente perfino qualcuno battergli una pacca sulla spalla. Li ha fatti ubriacare tutti, li tiene per le palle, questo è certo. Sa di essere carino, sa come battere le ciglia ed anche come sporgere le labbra. Funziona sempre con le piccole fangirl che si presentano ai loro concerti, ed è eccitante sapere che funziona anche con uomini più maturi capaci di intimidirlo.
Si rimette seduto, guarda Bushido.
- Ehi. – dice, allungando una mano. – Dammelo. – vuole il sigaro di Bushido.
L’uomo lo allontana dalla bocca.
- Vuoi succhiare questo, mh?
Bill scopre che gli piacciono i riferimenti sessuali del discorso, lo fanno sentire accaldato, più caldo di quanto non riesca a farlo sentire l’alcool. Annuisce, la mano ancora tesa, ma Bushido la spinge via e mette da sé il sigaro sulle sue labbra.
All’inizio il sigaro si limita a colpire le labbra di Bill.
- Apri. – dice Bushido. Bill ride ed il sigaro s’infiltra nella sua bocca. Aspira profondamente, inspirando il fumo, e l’attimo dopo si ritrova piegato in due a tossire come se dovesse sputare i polmoni.
I ragazzi ridacchiano e Bushido tira indietro il sigaro.
- Non devi mandare giù. – lo rimprovera.
Gli occhi di Bill si riempiono di lacrime e lui si passa una mano sopra le labbra. Guarda in alto, oltre Bushido, e si accorge che Chakuza è tornato e sta in un angolo, accigliato.
- È ora di tagliare la torta. – annuncia. Guarda Bill, ma a Bill non potrebbe interessare di meno. Si appoggia contro la spalla di Bushido.
- Falla portare qui, stiamo comodi. – dice Bushido. Chakuza va via e torna qualche minuto dopo, mentre tutti i partecipanti alla festa si avvicinano e mettono via i propri drink per la torta.
Bill ricorda improvvisamente perché si trova lì. È il compleanno di Bushido. È in un locale con Bushido ed è per i fatti propri.
Sta diventando tutto confuso; vede le candele accese, osserva il fuoco macchiare la sua visuale. Vuole toccarlo. Presto si mettono tutti a cantare. Bill poggia la testa contro la spalla di Bushido e si unisce al coro. Canta più forte di tutti, ride mentre lo fa, e guarda Bushido soffiare sulle candeline e spegnerle tutte insieme.
Bushido soffia anche contro il suo collo, ed una delle sue mani gli stringe una coscia. Qualcosa che assomiglia molto al fuoco brucia la sua pelle dalla coscia allo stomaco.
Bill si china più vicino a Bushido, incapace di frenarsi. Il filtro fra giusto e sbagliato è scomparso, lavato via dall’alcool. Si sono sempre infastiditi a vicenda, c’è sempre stato uno strano modo di provarci, fra loro. È sempre stato lì. L’ha sempre fatto sentire a disagio, gli faceva sudare le mani, ma anche…
Si avvicina ancora e sussurra roco “Buon compleanno” direttamente contro il suo orecchio.
*
È molto tardi. Esausto, Bill guarda appena lo schermo del proprio cellulare, incapace di processare le informazioni che gli sta dando. Tom gli ha inviato più di dieci messaggi di testo e ne ha lasciato uno anche in segreteria. Il telefono continua a cinguettargli di controllare i messaggi.
Bill lo ripone nella borsa.
Scuote il capo, aguzzando la vista. È in una camera d’albergo, in un piccolo salotto. Si lascia andare contro lo schienale del divano; ci sono persone sulla soglia della stanza. Stanno andando via, salutando, abbracciandosi, alcune si baciano. Bill non ricorda com’è arrivato lì, ma non è molto spaventato.
La sua mente è del tutto alla deriva e si sente come stesse dormendo, può sentirsi affondare più in profondità in qualcosa di così pesante ed invitante. Ma poi qualcosa tocca il suo viso e lui apre gli occhi. È Bushido.
- Non ce l’hai una casa?
Bill ride.
- Nessuno mi vuole a casa.
Bushido rimane sospeso sopra di lui e per un secondo Bill pensa che sia pronto per girarsi e andarsene. Ma si siede accanto a lui, troppo vicino.
- Ah, sì? E pensi che qualcuno ti voglia qui? – Bill lascia ricadere il capo contro la sua spalla, - Mh?
Bill ride ancora, stavolta proprio sul suo collo.
- Ti ho portato un regalo. – biascica.
- Stai giocando con me, piccolo? – la voce di Bushido e un po’ divertita, un po’ cupa e inquisitoria.
Bill si arrabbia e lo scosta indietro, improvvisamente pieno d’emozioni ed energia.
- Non sono piccolo! – quasi grida. Bushido sembra troppo sorpreso per muoversi. Bill si sposta verso l’uomo più maturo, poggiandogli le mani sulle spalle. – Non sono piccolo. Vaffanculo. – inspira un po’ del profumo di Bushido e poi non può più fermarsi, pressa il naso contro il suo collo e, semplicemente, inala.
Bushido ringhia e lo rimette seduto.
- Piccolo. – sibila, scandendo bene ogni lettera. Gli si appoggia contro e Bill può sentire quanto lui sia grande. Non solo alto, è tutto il suo corpo ad essere fitto di muscoli, e forte. Il peso di Bushido è quasi insostenibile. Non c’è più nessun flirt, non è uno scherzo. Chi è che l’ha portato così lontano?
Bill trema e dice “no”, soffice come un respiro.
- No? – chiede Bushido. Lo sta deridendo, lo diverte spingerlo in questo modo. – Cos’è che mi hai regalato? – pressa con forza una mano sul suo inguine e stringe piano. Bill è già eccitato. – Questo?
Bill squittisce e chiude gli occhi.
- No.
- Io non sto giocando. – dice Bushido.
Bill si sente male, gli duole lo stomaco, e può ancora respirare il profumo di Bushido, può ancora sentire il suo calore. È eccitato e disgustato in egual misura mentre Bushido si pressa contro di lui, strofinandosi forte contro il suo petto ed il suo ventre. Il suo peso lo domina completamente.
Bushido lo afferra per i fianchi e Bill geme, cercando di spingerlo via. Non ha mai avuto nessuno così addosso, mai.
- Sai solo parlare. – dice Bushido, guardandolo dritto negli occhi. Il suo alito puzza di tequila.
- Tu mi vuoi. – sospira Bill. La stretta dell’uomo sui suoi fianchi si fa più forte, e Bill ansima. Cerca di sfuggire alla presa di Bushido, alla ricerca di un po’ d’aria e di una via di fuga da quel calore. Ma Bushido la pensa diversamente. Lo afferra, afferra i suoi polsi e lo tiene fermo. Bill gli scivola in grembo, aggrappandosi alle sue spalle.
Tutto il suo corpo impazzisce di calore quando sente l’erezione di Bushido contro il sedere. Senza pensare si muove contro il rigonfiamento nei suoi pantaloni, solo un po’, e Bushido lo spinge in avanti, stringendogli i polsi, facendogli male, e poi, finalmente, baciandolo.
Nessuno l’ha baciato in più di due anni, e tutto ciò che Bill può fare e affondare in quel bacio e mugolare. È un bacio duro, bagnato e doloroso. È tutto ciò che Bill non vuole, ma lo costringe a contorcersi in grembo a Bushido, come una puttana.
L’uomo lo allontana da sé e ringhia.
- Voglio scoparti.
Bill scuote il capo e Bushido lo bacia ancora, famelico. Bill ha paura, ma tutto ciò che fa è strusciarsi contro l’erezione di Bushido, sentendosela crescere fra le gambe. Annaspa, e le mani di Bushido scivolano lungo la sua schiena fino alle sue natiche.
- Hai paura? – chiede l’uomo, stringendone una fra le dita.
Bill scuote il capo, le labbra un po’ umide.
Bushido stringe ancora, un dito a scorrere lungo le pieghe, seguendo le cuciture dei pantaloni di Bill.
- Mmh. Stai tremando. L’hai mai preso prima?
Bill scuote nuovamente il capo, ridotto ormai ad un tremolante mucchietto d’ossa nel grembo di Bushido.
Lui ride.
- Sei completamente ubriaco, vero? Sì che lo sei. Dovrei approfittarmi di te, piccolo?
- Fottiti. – balbetta Bill.
Bushido risponde spostandosi su di lui. Bill sospira, improvvisamente colpito da un’idea. Dimenandosi, ritaglia una via di fuga oltre la stretta dell’uomo e rotola sul pavimento. Oscilla e poi si aggrappa alle ginocchia di Bushido, allontanandole l’una dall’altra. Bushido non oppone molta resistenza. Lascia che Bill gli cada fra le gambe. Lui si curva in avanti e posa una guancia contro il suo inguine. Volta il capo e si strofina contro di lui, compiaciuto del calore che se ne sprigiona e dalla sua durezza. Non pensa a cosa sta per fare. È passato direttamente dalla paura alla determinazione. Mostrerà esattamente a Bushido quanto è adulto e quanto capace può essere.
- Cazzo. – sibila Bushido. Bill si aggrappa alla lampo, tutto si sfuma e Bushido gli accarezza una guancia. Non riesce a far scendere la zip e grugnisce.
- Lo vuoi, vero? – chiede Bill, - Hai detto che lo volevi.
Bushido ride, ma la risata viene fuori strozzata. Prende Bill per i capelli e lo tiene fermo.
- Era uno scherzo.
- Non ti credo. – dice Bill. Stringe con più forza la zip, la forza verso il basso e poi pressa il viso contro i suoi boxer. Può sentire l’erezione bollente di Bushido attraverso il tessuto; è dura. Bill le lascia sopra un piccolo morso attraverso gli indumenti. Bushido impreca, la mano stretta con più forza sui suoi capelli, ma Bill è troppo ubriaco per sentire davvero dolore. – Vuoi che lo faccia?
Strofina le mani contro i fianchi dell’uomo e sfiora con le labbra il rigonfiamento al di sotto dei boxer.
- Posso farlo. – dice, - Se vuoi che lo faccia. – si china a succhiare distrattamente la punta della sua eccitazione e mugugna. Non ha neanche mai pensato di fare una cosa simile prima, e questo lo fa tremare. È troppo spaventato per tirare fuori il suo membro e succhiarlo davvero. In qualche modo, spera ancora sia tutto un gioco e che Bushido non scoprirà il suo bluff.
L’uomo lo allontana da sé e lascia andare i suoi capelli. I suoi occhi sono pericolosi; Bill lo osserva infilarsi una mano nei boxer e tirarne fuori il proprio cazzo, direttamente sulla sua faccia. Quella cosa è enorme, e Bill fa una smorfia. Bushido si limita a ridere, tenendo stretto il proprio pene fra le dita e spingendolo verso Bill.
Lui trasale, osservando il prepuzio che si tira indietro per mostrarne la testa già bagnata. Non può farlo. Non può.
- Prendilo in bocca. – ordina Bushido, - Cosa c’è? È troppo grande? Non sei abituato a vederne di queste dimensioni? Non ne hai mai succhiato uno prima, piccolo Bill? Mmh?
Bill chiude gli occhi e si spinge in avanti, le labbra a sfiorare appena la punta.
- No. – ammette, pressando le labbra contro di lui.
Bushido sbuffa e pressa due dita contro la sua fronte. Bill le può sentire lì, è come se cercassero di marchiarlo. Bushido spinge dolcemente e Bill squittisce – completamente fuori di sé a causa dell’alcool – prima di ricadere seduto indietro. Rotola su un fianco, abbracciandosi stretto, e tutto diventa scuro e silenzioso.
Bushido si china accanto a lui e solleva il suo corpo arreso. Bill non si sveglia e Bushido lo rimette disteso sul divano.
- Stupido ragazzino. – mormora prima di lasciare la stanza.

Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Language, Slash.
- L'elaborazione del lutto passa per varie fasi. Durante quarantotto tragiche ore, Tom Kaulitz non solo sarà costretto ad affrontarle tutte, ma costringerà anche i propri innocenti coinquilini a passare attraverso il suo stesso calvario. Il problema? Be', che ovviamente non è morto nessuno :D
Note: La storia di questa fanfiction è interessante XD No, davvero: di solito non lo penso, dei vari iter che descrivo nelle post-fazioni – mi limito a sproloquiare senza senso perché io amo sproloquiare senza senso – ma stavolta è stato come se il mondo intero stesse da un lato cospirando perché io scrivessi questa fanfiction e dall’altro lato perché invece non lo facessi XD
Mi spiego meglio: era il ventisei marzo di quest’anno. Nonostante i concerti del 1000 Hotels Tour fossero stati tutti annullati e rimandati a data da destinarsi, io arrivavo a casa della mia neechan, a Padova, e lei mi mostrava tutti i poster che, nei mesi, aveva accumulato per me. Fra di essi, ce n’era pure uno di Bushido, vi giuro, enorme e bellissimo <3 In realtà, la mia ossessione per Bushido – un’ossessione tutta fangirlante, perché la musica che fa non mi piace affatto – era già cominciata qualche mese prima, sempre a causa della neechan. Potete averne un assaggio nelle note finali di The Point Is, che è stata, in effetti, la prima BushiBill che ho scritto, anche se in realtà è una twincest sotto mentite spoglie.
Comunque sia, è stato in quel momento che ho cominciato a pensare di utilizzare nuovamente Bushido in una storia. Anche se allora non lo dissi a nessuno – e sì che ero circondata di fangirl che magari avrebbero preferito lo facessi: così avrebbero potuto uccidermi lì ed il problema si sarebbe risolto XD
Qualche settimana dopo, da casa di mia zia (era il primo aprile, e la data non è casuale XD) vidi su un fansite sui TH una falsa news che parlava di come Bill, risvegliatosi dopo l’intervento, avesse deciso di dichiarare al mondo il proprio amore per Bushido, e di come i due avessero deciso di lasciare entrambi lo showbiz per trasferirsi alle Maldive e vivere in pace la loro nuova vita da sposini.
La mia reazione poteva essere una sola: prima tormentare tutte le fangirl spacciando il link ovunque per vantarmi di come la “mia coppia” fosse diventata canon XD e dopo scriverci su.
C’è da dire che qui sono pure cominciati i problemi, perché non appena ho cominciato a rivelare in giro il mio piano malefico le fangirl hanno cominciato sistematicamente ad odiarmi (soprattutto la mia neechan, che ha fatto di tutto per, alternativamente, impedirmi di scrivere questa storia o impedirmi di mettere le mani su qualsiasi cosa stessimo scrivendo insieme per evitare potessi far degenerare anche quelle XD).
È così, comunque, che la trama di questa storia comincia a prendere forma.
Per poi degenerare completamente.
Avevo tenuto conto di tutti i fattori: dell’innamoramento di Bill, di un Bushido credibile e lontano dagli eccessi cui il proprio ruolo nel business musicale lo obbliga (non per altro, è solo che ci sono degli elementi, nella storia di vita di Anis, che portano tranquillamente a credere lui sia molto diverso da come appare in video), di una sorta di bonaria collaborazione fra i vari membri della band per preservare la felicità che il frontman sta provando…
Avevo pure provato a tenere conto di Tom (nel senso che sapevo che il suo ruolo in questa storia sarebbe stato quello del fratello geloso), ma davvero, non immaginavo neanche lontanamente che poi la sua gelosia potesse sfociare in questo XD E “questo”, per inciso, non è un affetto di tipo incestuoso – almeno, non nella mia visione del Kaulitzest – ma di sicuro non è qualcosa di molto normale, ecco XD
Maneggiare Tom mi ha divertita tanto, ma in realtà non posso dire di essermi divertita meno con gli altri. Ho messo in atto una situazione totalmente inedita, cercando di rivedere le “solite” caratterizzazioni che di solito impongo a questi personaggi, senza stravolgerle (perché se le uso spesso un motivo ci sarà! XD) ma anche rinnovandole, e concedendomi anche qualche caduta melensa di tanto in tanto – e chi conosce la mia produzione sa che comunque non succede tanto spesso XD
Credo che, al di là del mero fangirling, siano questi i motivi per i quali questa storia mi piace tanto. Questi, ed anche il fatto che è comunque una fanfiction piuttosto comica, già a partire dal titolo: quella dello “spring, spring!” è una formula lollosa che io e la neechan usiamo spesso, parodiando la strafamosa Spring Nicht originale, e so che lei mi odierà per questo, perché aveva giurato che non avrebbe mai letto questa fanfiction, ma questo è esattamente il tipo di titolo che suppongo potrebbe farle cambiare idea XD
Comunque sia, spero che, cadute melense e momenti emoangst gratuiti a parte, questa fic piaccia anche a voi :)
In conclusione (e sarebbe pure ora), questa storia non può che essere dedicata a quattro persone: alla mia neechan, perché non la leggerà mai XD, a Meg, perché il mio Bushido le piace <3, a Yul, perché mi ha offerto appoggio incondizionato ed è una mia fangirl *_* ed a Sara, perché ha cominciato a odiarmi dal primo momento in cui le ho detto che l’avrei scritta, visto che sapeva pure che alla fine le sarebbe toccato leggerla X3
Ovviamente, un ringraziamento speciale va fatto alla splendida Misako, perché se l’è sorbita in anteprima e l’ha pure betata <3 E ci tengo a specificarle che, se questo ringraziamento non era ancora nel documento quando gliel’ho mandato, era perché non ero ancora sicura che le andasse davvero di betare una BushiBill XDDDD :*
Grazie per aver letto fin qui (se davvero l’avete fatto! XD) ed alla prossima <3
PS: La canzone che Bill cita quando dice “questa non è casa mia, è casa loro” è veramente una canzone degli Smiths XD E si intitola There Is A Light That Never Goes Out. Ovviamente è una delle cose più emo che esistano, ma è anche molto bella <3
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BITTE, SPRING, SPRING!

- …e quindi stiamo insieme.
Bill amava dare di sé l’idea di essere un tipo tremendamente egoista. Il classico carro armato che si prende le proprie soddisfazioni a tutti i costi, facendo valere la propria influenza sulle persone su cui ha una certa presa ed asfaltando senza riguardi tutti gli altri, pur di ottenere ciò che vuole.
In realtà, Bill aveva fatto propri con incredibile diligenza tutti gli insegnamenti che Jost gli aveva propinato da quando avevano cominciato a lavorare insieme.
Nello specifico, aveva trovato particolarmente gratificante – ed aveva perciò preso alla lettera ed imparato a memoria – il primo dei suoi personalissimi comandamenti: sei la colonna portante del gruppo. Ciò che farai si rifletterà inevitabilmente sulla reputazione della band. Perciò, qualsiasi cosa tu decida di fare, è alla band che devi renderne conto per prima.
Già. Mentre per Georg e Gustav non esistevano leggi – cosa che sembrava, per certi versi, gratificarli parecchio – e per Tom ne esisteva solo una ma orribile – niente al mondo ti salverà mai da chitarra e solfeggio almeno due volte a settimana – le leggi di Bill sembravano scritte apposta per nutrire il suo già spropositatamente pasciuto ego.
Per questo motivo, Bill non avrebbe mai imbastito una relazione con qualcuno senza prima darne notizia al gruppo.
Il caso di specie non faceva eccezione.
La notizia di quella che a tutti gli effetti era la prima “relazione seria” di Bill dai gloriosissimi tempi in cui era inequivocabilmente eterosessuale e sognava di sposare Linda e riempire la propria madre di nipoti, fu accolta nel loft di Amburgo con sgomento ed incredulità.
Com’era semplicemente ovvio accadesse.
- Bushido…? – articolò confusamente Tom, scrutando il proprio gemello con aria scioccata dal divano in cui era affondato quando lui, entrando in casa, aveva chiesto a tutti di sedersi – e ora gli sembrava di capire profondamente perché – dal momento che aveva da dare loro una grande notizia.
- Anis. – precisò Bill, aggrottando le sopracciglia, - È così che si chiama. Te lo ripeto da settimane.
- Ma è Bushido! – rimarcò Tom, con aria sempre più sconvolta, prendendo a gesticolare animatamente.
Bill sospirò come se avere a che fare con lui fosse la prova più straziante che gli fosse mai capitato di affrontare, e poi scosse lievemente il capo, voltandosi a guardare David, che rimaneva impassibile sul proprio sgabello, il portatile aperto ed acceso sulle ginocchia ed una sigaretta a pendere mollemente dalle labbra.
Il manager si prese il tempo di aspirare ed espirare il fumo un paio di volte, prima di dire qualcosa.
- Potrebbe essere tuo padre. – commentò quindi con un sorriso sarcastico.
- Ha solo trent’anni! – protestò Bill offeso, - Un padre piuttosto precoce, non credi?
Gustav ridacchiò a bassa voce, mentre nella mente di Tom le parole “solo”, “trent’anni” e “padre” assumevano consistenza fisica e si mettevano a palleggiare felici coi suoi neuroni.
- Be’. – riprese il manager, scrollando le spalle, - Sarete sicuramente la coppia più strana si sia vista dai tempi di Beyoncé e Jay-Z…
- Paragone più che azzeccato! – aggiunse Georg divertito, dando finalmente a Gustav la scusa per accasciarsi sul divano e ridere fin quasi a soffocarsi.
- …ma congratulazioni comunque. – concluse Jost, prima di accodarsi allegramente alle risate degli altri due.
Bill li fissò tutti e tre con malcelato disgusto, prima di scuotere teatralmente la setosa massa di capelli che gli scivolavano lungo le spalle e ritirarsi in camera propria.
Accucciato sul divano, con stampata addosso un’espressione di puro smarrimento che mal si intonava al clima ilare che pervadeva l’appartamento, Tom rimase immobile a scrutare il vuoto con aria assente, come fosse in trance ed anche bene intenzionato a restarci il più a lungo possibile.
- Dio mio, Bushido! – riprese David, asciugando una lacrima di divertimento puro dall’angolo di un occhio, - Niente male come prima storia pubblica! Prevedo grossi scossoni in casa!
- Io sono turbato! – ritorse Gustav, deciso a proseguire il gioco fin quando fosse stato possibile, - Conosciamo tutti quanto ambiguo sia il rapporto di Bill con suo fratello… non trovate quantomeno sospetto che sia andato a mettersi proprio con un rapper?!
- Per carità! – rispose David, ormai sul punto di rotolare giù dallo sgabello, stringendo fra le braccia il pc per impedirsi di lasciarlo rovinare a terra, - È il contrario, è Bill che fa presa solo su quel determinato tipo di persona! Bushido non è neanche il peggiore potesse capitargli, in realtà!
Georg si accasciò moribondo sul divano, rotolando contro Gustav e coinvolgendolo in una danza dell’ilarità che aveva dell’inquietante.
Tutto ciò che Tom riuscì a fare fu continuare a fissare il vuoto ed esalare uno sgomento “Ma è Bushido” che, oltre a rimarcare quanto aveva già fatto notare ad un fratello che, di fronte al suo shock, s’era rivelato del tutto insensibile, costrinse i suoi coinquilini a voltarsi verso di lui e prendere coscienza del fatto in quella catatonia risiedesse evidentemente un problema di una certa consistenza.
- Tom… - mugugnò David, riponendo il pc al sicuro sul tavolo, - provaci, almeno, a prenderla bene.
- Ma… è Bushido! – ripeté lui, ricominciando a gesticolare come un bambino di tre anni.
Georg roteò gli occhi.
- Eccolo che comincia…
- È Bushido! – rimarcò nuovamente Tom, - Bu-shi-do!
- Tooom… - riprese il manager, spegnendo il portatile, - Niente paranoie, su! Doveva pur succedere, prima o poi, che tuo fratello si mettesse con qualcuno!
- Ma Bushido non è qualcuno, è Bushido!
Evidentemente non c’era molto altro da dire. O da spiegare. David, Gustav e Georg emisero un sospiro simultaneo che tanto diceva su quanto fossero abituati a scene di simile follia, e poi il batterista commentò che era quasi certo il nome del rapper non fosse mai stato ripetuto tante volte come quel pomeriggio, e che quindi, probabilmente, al fianco di Anis al momento c’era il Kaulitz sbagliato.
Gustav decisamente non poteva capire. Lui non correva il rischio che, tipo, sua sorella andasse a mettersi con Axl Rose! Nessuno di loro poteva capire, perché in effetti nessuno di loro aveva una sorella in pericolo!
Tecnicamente, neanche lui, ma era una questione di insignificanti dettagli.
Si sollevò dal divano, mentre ancora Georg rantolava gli ultimi strascichi della risata che la precedente battuta di Gustav gli aveva indotto, e si diresse cautamente verso la camera di Bill.
- Lascia perdere… - lo ammonì Jost, inarcando le sopracciglia, - Non ne ricaverai niente di utile.
Tom non gli concesse risposta di alcun tipo e sparì lungo il corridoio.
Ristette più di un paio di secondi di fronte alla porta, prima di decidersi finalmente a bussare.
- Bill… - chiamò a bassa voce, scollando le lettere con manifesta difficoltà, - Posso entrare?
I passi di suo fratello si mossero veloci sul parquet, e poco dopo Tom si ritrovò di fronte il suo viso, mestamente sorridente.
- Certo che puoi entrare… - mormorò Bill, scostandosi dall’uscio per farlo passare e richiudendosi la porta alle spalle quando lui fu in camera, - Non ce l’ho con te, mi dà solo fastidio che l’abbiate presa per una barzelletta, perché proprio non lo è.
- Io… - deglutì faticosamente, - non l’ho presa per una barzelletta.
Oh, no. Non avrei proprio potuto prenderla più seriamente di così.
Bill si espresse in un sorriso minuscolo e poi lo invitò a sedersi sul letto, facendolo a propria volta.
- Avanti. – disse infine, strizzando maliziosamente le palpebre, - Chiedimelo.
Tom abbassò lo sguardo e boccheggiò confusamente per qualche secondo.
- …l’avete fatto…? – chiese infine, con aria dubbiosa.
Bill scoppiò a ridere divertito, dondolandosi giocosamente sul materasso.
- Non dovresti porre domande di cui non vuoi veramente sapere la risposta! – gli fece notare, e Tom non poté che annuire di fronte all’incontestabile veridicità di quell’assunto. – Fammi le domande giuste, Tomi. – sorrise suo fratello, sporgendosi lievemente verso di lui, - Quelle importanti.
Tom annuì ancora. Si sentiva incredibilmente stupido: a vagare per la testa, c’erano solo domande idiote. Da quanto tempo? Perché così in fretta? Perché proprio lui?
Perché non potevi restare per sempre il mio adorato fratellino perfetto in eterna attesa del vero amore? Quello che fa battere il cuore e piangere e ridere come mai prima? L’amore perfetto, il più importante di tutti?
In quel modo sarebbe stato più semplice. Uno più importante di me non sarebbe mai arrivato, e…

Scosse il capo, mentre Bill ridacchiava debolmente.
- Non essere vigliacco, Tomi. Prometto che la risposta non ti ucciderà.
Io al posto tuo non ne sarei così sicuro.
Sospirò profondamente e socchiuse gli occhi.
C’era solo da buttarsi.
Spring, spring, Tomi.
- Lo ami? – chiese tutto d’un fiato, anche se non era proprio sicuro di voler sapere la risposta.
Sul volto di Bill si aprì finalmente il primo sorriso davvero felice della giornata.
- Sì. – rispose tranquillamente, arrossendo pure un po’.
Tom digerì l’informazione ed annuì.
Superata questa…
Posso sopravvivere davvero a tutto.
- E lui ti ama? – continuò quindi.
- Dice di sì. – cinguettò Bill, stringendosi nelle spalle.
- E lo dimostra, anche?
Bill non rispose. E non ce ne fu neppure bisogno, perché il suo sorriso era già, da solo, abbastanza eloquente.
- Io proprio non capisco. – esalò infine Tom, scuotendo il capo e grattandosi la fronte, - Come cavolo fa a piacerti un tipo che ha detto in diretta nazionale che gli sarebbe piaciuto farsi fare un pompino da te?!
Bill ridacchiò a bassa voce.
- Anis è un tipo un po’ rude… - giustificò con aria sognante, - Non mi fa passare nessun capriccio, sai? Mi contesta apertamente quando crede che sbagli e non mi tratta come un moccioso cretino incapace di prendersi le proprie responsabilità. E poi non si fa scrupoli a prendermi in giro. A volte prende e mi chiama “bella figa”, per dire. Ammazzerei chiunque altro ci provasse, ma lui…
- Ti piace che ti maltratti, riassumendo? – cercò di chiarire Tom, interrompendolo con una smorfia schifata.
- Mi piace che si sia schietti e sinceri con me, Tom. – precisò Bill, guardandolo dritto negli occhi. Sorrideva ancora. – E questo dovresti saperlo anche tu.
Il biondo sospirò, abbassando lievemente le palpebre.
- Ok. – annuì alla fine, - La domanda è cretina ma devo fartela lo stesso: c’è qualcosa che io possa fare per cambiare questa situazione?
Bill rise divertito, gettando indietro il capo.
- Tomi… - lo richiamò appena, trascinando la risata.
- Sì, sì, ok. – lo fermò lui, agitando una mano, - Almeno non mi sfottere. È difficile, per me…
- Tom, avanti! – mugolò lui, abbattendosi contro una sua spalla e strusciandoglisi addosso come un gattino impaziente, - Non c’è proprio motivo di essere geloso! Eri e rimani mio fratello. – lo rassicurò, - Eri e rimani la persona più importante per me. – Tom sorrise ed annuì lievemente, lasciandogli un buffetto sulla guancia in risposta del quale Bill rise piano. – Ti vedo un po’ troppo scosso, però. – continuò il moro, dubbioso, - Forse è meglio se vai a farti una tisana, no? Vuoi che te la prepari io?
Tom scosse mestamente il capo, cercando di sorridere con più sicurezza.
- Magari vado a bere qualcosa con Georg. – rispose, - A te va di uscire?
Bill inclinò lateralmente il capo, con una smorfia pensosa.
- Penso che passerò la nottata al telefono. – confessò infine, lasciandosi andare disteso sul letto mentre Tom si alzava.
Il rasta ridacchiò a bassa voce, poggiando due dita sulla maniglia della porta.
- Povero Andreas! – ironizzò, lasciando la camera fra le risatine di Bill.
In corridoio, appoggiato in posa plastica alla porta della propria camera, antistante a quella di Bill, Georg – le braccia incrociate sul petto ed una coreografica cascata di liscissimi capelli castani a ricadere sul viso – sembrava stesse aspettando proprio lui e non avesse fatto altro da che era venuto al mondo.
- Georg! – lo richiamò Tom, simulando spavento con un saltello indietro, - Che, siamo finiti in un vecchio western? Ti mancano solo stivali e stellina da sceriffo…
Il bassista lo omaggiò con un ghigno di puro scherno e si separò dalla parete, andandogli incontro.
- Evita di fare il grand’uomo con me, signor “ma-è-Bushido”, che fino a poco fa stavo ridendo di te mentre davi di matto. – lo prese in giro, afferrandolo poi con un braccio attorno al collo e trascinandolo impietosamente verso un posto più sicuro in cui parlare.
La cucina, scelta appositamente in quanto uno dei pochissimi luoghi protetti da quattro mura in quella casa completamente priva di spazi chiusi, era effettivamente deserta. Due bottiglie di birra attendevano ansiose sul tavolo che loro le afferrassero, le stappassero e ci dessero dentro con le confessioni da Veri Uomini.
Anche se, in quel caso, le confessioni dei Veri Uomini sembravano più le lamentele di un fidanzatino tredicenne tradito.
Tom era sempre stato consapevole del fatto il suo rapporto con Bill in quel senso non fosse normale. Erano sempre stati troppo attaccati, troppo gelosi, troppo possessivi, sì, perfino troppo morbosi per potere anche solo pensare di vivere quanto li legava – che in fondo non era che un affetto puro al punto da fare paura – in modo sereno e rilassato.
Non s’erano neppure mai veramente innamorati di qualcuno, però.
Ed ecco che sorgeva il problema.
- Allora? Com’è andata?
A Georg non piaceva prestarsi a quel gioco di insistenze e domande infantili. Più che altro, era della parrocchia “esponi il problema e datti da fare per trovare una soluzione”. Indugiare sul dramma fine a se stesso lo infastidiva. Ma si piegava: in fondo, è questo quello che fai quando vuoi bene a una persona, no? Ti pieghi alle sue regole. Giochi per farla felice.
Avrebbe dovuto farlo anche lui con Bill. E farlo sul serio. Non dire “d’accordo” e poi rifugiarsi in una bottiglia di birra per esprimere tutto il proprio disappunto.
- Dice di amarlo. – borbottò guardando malinconicamente la superficie in fòrmica del tavolo.
Georg sghignazzò.
- Sarà vero. Lo conosci tuo fratello.
Tom annuì distrattamente, appoggiando il mento sul palmo della mano e lasciandosi poi andare con uno sbuffo contro il tavolo.
- Non so che fare. – ammise in un sospiro, socchiudendo gli occhi.
- Perché dovresti fare qualcosa? Non mi pare ci sia nessuna donzella in difficoltà… ed anche quando, tu in genere sei quello che le mette in pericolo, le donzelle, non quello che le salva.
Tom si concesse uno sbuffo ed una risatina divertita, e Georg si sollevò dalla sedia sorridendo vittorioso come faceva sempre quando aveva l’impressione di avere arginato un disastro che altrimenti si sarebbe dimostrato ingestibile. Circumnavigò il tavolo e in due passi gli fu accanto, schiacciandogli con forza una mano sulla spalla.
- Avanti. La mia parcella è una birra. Andiamo?
*
Passando attraverso il salotto e dirigendosi a passo spedito verso la porta, tintinnando neanche fosse stato un campanellino sotto vento a causa dell’incredibile quantità di orridi accessori argentati che indossava, Bill si premurò di informare il mondo – ovvero suo fratello, il suo manager ed i suoi due compagni di band – che stava uscendo con Anis.
Seguendo il proprio fratello con lo sguardo, tutto ciò che Tom riuscì a fare fu scattare in piedi e, sfoggiando un’aria talmente innocente da risultare perfino fastidiosa, chiedere se poteva uscire con loro.
Mentre Georg e Gustav scoppiavano prevedibilmente a ridere, David e Bill si voltarono a guardarlo, sollevando un sopracciglio e sfoggiando peraltro incredibile simultaneità.
Fu il manager a parlare per primo, incrociando le braccia sul petto e sbuffando pesantemente.
- Cos’è, Tom? – si informò acido, - Stai passando al contrattacco?
Tom lo investì con un’altra occhiata carica di studiatissima innocenza, e scrollò le spalle.
- Conoscendo il tipo, mi pare il minimo preoccuparmi per Bill. – rispose con noncuranza.
- Bill starà benissimo. – lo apostrofò duramente suo fratello, arricciando le labbra in una smorfia infastidita, - E starà ancora meglio quando Tomi la smetterà di preoccuparsi.
- Non cominciate a parlare in terza persona, è straniante. – li fermò David, frapponendo simbolicamente le mani lungo l’immaginaria scia di elettricità purissima che collegava i loro occhi, - Tom, lascia andare tuo fratello. E, per inciso, Bill: il fatto io non stia osteggiando la relazione fra te e Bushido-
- Si chiama Anis. – lo interruppe acido il moro, - Ed io ho diciott’anni! Non potresti comunque osteggiare un bel niente!
- Oh! Punti di vista. – scoccò Jost con un sorrisino spaventoso, - Dicevo, il fatto io ti permetta di uscire con Bushido – rincarò, - non deve farti pensare di poter andare impunemente in giro come non fossi tu. Cercate di essere discreti.
Bill scrollò le spalle e, con un ultimo sbuffo da diva insoddisfatta, si trascinò all’esterno dell’appartamento, premurandosi anche di sbattere ogni sfortunata porta incontrasse lungo il proprio cammino.
- Non eravamo d’accordo che non avresti fatto niente per salvare la damigella in pericolo? – scollò laconico Georg, grattandosi la pancia dal divano sul quale era sprofondato, senza staccare gli occhi dal video di LaFee che passava su Viva.
- Non eravamo d’accordo affatto. – grugnì Tom, dirigendosi speditamente verso la propria camera, - È una delle situazioni più del cazzo che abbia mai vissuto.
David lanciò un’occhiata eloquente a Georg, che rispose con un terrorizzato “Ah, no! Io ho già dato ieri!”. La stessa cosa fece con Gustav, il quale neanche lo degnò di una risposta verbale: si limitò a sollevare un sopracciglio in seguito al quale David non poté che sollevare entrambe le mani e mugolare “Ok, ok, ho capito!”, riponendo le armi.
- Pare che dovremo semplicemente aspettare che gli passi. – rifletté a bassa voce. – Perché ho come la vaga impressione che non sarà così semplice?
Georg e Gustav si lanciarono uno sguardo complice ed ugualmente rassegnato, di fronte al quale David eruppe in un sospiro di resa che sarebbe suonato deprimente pure se la situazione non fosse stata tragica come in effetti era.
Tom uscì dalla propria camera, vestito di tutto punto, non più di due minuti dopo.
- Io esco. – annunciò bellicoso, e non aggiunse altro.
Quando fu andato via, David impiegò più di un paio di minuti della propria esistenza semplicemente a rimirare il vuoto, come se questo riponesse nelle pieghe del proprio silenzio il segreto per risolvere tutti i guai che Bill aveva portato con sé riscoprendosi capace d’amare qualcos’altro oltre alla propria messa in piega per la prima volta dopo eoni.
- Contare sul vostro appoggio sarebbe ridicolo, vero? – mugolò infine alla volta del proprio batterista e del proprio bassista, i quali, nel frattempo, avevano approfittato del suo momento di silenzio per darsi ad un’entusiasmante partita di Mario Kart.
I due scoccarono un laconico no simultaneo e tornarono a perdersi nelle sbuffanti nuvolette bianche che uscivano dagli improponibili veicoli dei protagonisti del videogioco, senza più calcolarlo. David sospirò ancora, si alzò in piedi, afferrò una giacca a caso e si preparò a salvare la reputazione di Tom da un disastro pubblico.
*
Più che altro, gli sembrava strano non essere ancora stato riconosciuto.
Insomma: quel posto era ben frequentato. C’erano perfino un paio di ragazze, giovani “promesse” della Universal, con le quali avrebbe potuto giurare d’essere stato a letto – più o meno: in genere non è che ricordasse proprio i lineamenti, già dopo qualche minuto, ecco.
Tutta l’attenzione del locale, comunque, sembrava essersi focalizzata sul piccolo e relativamente appartato tavolinetto al quale avevano preso posto suo fratello e Bushido non appena erano arrivati – dopo di lui. Nonostante fossero partiti prima. Ignorare l’irrazionale rabbia gelosa che da questa consapevolezza derivava sembrava a dir poco impossibile.
D’altronde, non è che potesse proprio lamentarsi del fatto nessuno lo calcolasse: anche la sua, di attenzione, era puntata su quel tavolinetto. Anche se non per la stessa curiosità morbosa che pervadeva gli altri avventori del locale.
…be’, forse un po’ sì.
Ma era preoccupato! Ecco. Era solo preoccupato!
Una cameriera bionda gli si avvicinò e gli chiese con fare amichevole se fosse pronto per ordinare, domanda alla quale lui rispose con sincerità, se non altro perché la sua testa era talmente impegnata a registrare ogni singola azione di Bill e Bushido che non aveva proprio altri neuroni liberi da utilizzare nell’ideazione di una menzogna. E perciò: no, non sono pronto. E in realtà non voglio niente, sono qui solo perché ero preoccupato per mio fratello.
La ragazza lo squadrò come fosse stato un alieno. Lui non vide i suoi occhi, ma se li sentì scorrere addosso, così stupiti e perplessi com’erano. La cosa lo infastidì, ma be’, supponeva potesse essere una reazione normale.
- Ci porti due birre, per favore. – ordinò quindi la lamentosa voce di Jost, che Tom non stentò a riconoscere malgrado non riuscisse a staccare gli occhi dall’idillico quadretto amoroso del tavolino nell’angolo.
- Sì, signor Jost. – rispose la ragazza, con aria sommessa, dileguandosi in un secondo.
David si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte alla sua e si passò una mano sugli occhi.
- Portarlo nel locale che frequentiamo di solito, che mossa geniale! – scollò con palese fastidio, - Non sono ancora riuscito a capire se tuo fratello stia cercando di scaraventarci di peso sull’Olimpo del gossip o se stia semplicemente provando a gettarci tutti in una fossa dalla quale sarebbe troppa fatica anche solo provare ad uscire.
- Mh. – borbottò lui.
- Ovviamente, non hai sentito una parola. – notificò piatto David, inarcando le sopracciglia.
- Mh. – ripeté lui atono.
La cameriera tornò indietro, posando due boccali di birra nel centro del tavolo, e poi scomparve così com’era riapparsa, lasciandoli nuovamente da soli.
- Tom… - lo chiamò David, vagamente infastidito. – Tom, Cristo santo! – sbottò quindi, visto che lui continuava ad ignorarlo, afferrandolo per una spalla e costringendolo fisicamente a notarlo, - Non stanno facendo un cazzo! – lo informò sbigottito, - Vuoi piantarla di guardarli e starmi a sentire? Ti sei almeno accorto che sono arrivato?!
- Ma sì… - mugugnò Tom, attaccandosi alla propria bottiglia con aria offesa, - Certo che me ne sono accorto… solo che Bushido stava-
- Cosa? – chiese acido David, - Stava porgendo a tuo fratello la ciotola dei salatini? No, perché questa è l’unica cosa che gli ho visto fare da quando sono qui, e decisamente non è qualcosa che possa mettere Bill in pericolo di vita. A meno che tuo fratello non sia così idiota da strozzarsi con un’arachide, cosa della quale in effetti mi preoccuperei anche io, se solo non fossi così dannatamente infastidito da-… Tom, hai di nuovo smesso di ascoltarmi?!
Il rasta si limitò a roteare gli occhi, staccandoli nuovamente da Bill e Bushido e decidendo di voltarsi radicalmente dall’altro lato, dando la schiena ai due e tornando a concentrarsi solo sulla birra.
- Parli troppo. – fece quindi notare al proprio manager, - Non ho bisogno che tu mi dica tutte queste cose. Lo so perfettamente anche io che quello che sto facendo è assurdo.
- Ed allora, Dio mio, vuoi spiegarmi per quale accidenti di motivo lo stai facendo?! – si lamentò David, esasperato, - Passi pure il fatto che lo pedini quando esce di casa, ma dire alla cameriera quelle cose… che poi, col cazzo: in realtà, il fatto che pedini tuo fratello non passa affatto. – rifletté, aggrottando le sopracciglia, - Perché diavolo lo pedini?!
- Ma che vuoi che ne sappia… - borbottò Tom annoiato, scuotendo il capo.
- Oh, no. – lo fermò David, deciso, - Con me non funziona quest’atteggiamento. Non sei più un dodicenne.
- E questo significa che non posso più fare cose irrazionali? No, perché se stai dicendo questo, ti assicuro che il mio cervello non è d’accordo. – rimbrottò acido il ragazzo.
- Infatti non stavo dicendo questo. – sospirò rassegnato David, - Puoi pure comportarti in maniera irrazionale quanto vuoi, caro mio, ma a diciott’anni nessuno può salvarti dalla responsabilità delle tue azioni. Tutto qua.
Tom rispose con uno sbuffo infantile, poggiando il mento sul palmo della mano.
- Che vuoi che ti dica? – sbottò, - Posso dirti una qualunque cosa ti faccia stare tranquillo, tanto non cambia la realtà dei fatti. – lo sferzò con un’occhiataccia impietosa, mordendosi un labbro. – Vuoi che ti dica che non sono geloso? Che approvo questa relazione? Che non m’interessa ciò che Bill fa e può andare con chi vuole? Scegli tu. Io ripeto.
David lo fissò sbigottito, restando per qualche secondo con le labbra dischiuse, senza sapere che dire. Tom occupò quei momenti continuando a sorseggiare la birra, forzandosi violentemente a non voltarsi e tornare a guardare suo fratello che flirtava col suo uomo come se la cosa non dovesse avere conseguenze enormi sulla propria sanità mentale.
- Tom, parliamone seriamente. – cominciò David, conciliante, intrecciando le dita sul tavolo con aria professionale, - Quanto ti ha turbato questa cosa?
- Un casino, mi sembra ovvio! – strepitò Tom, posando un po’ troppo rumorosamente la bottiglia, - Altrimenti non starei qui a spiarli, ti pare?
- Perché ti rifiuti ostinatamente di capire ciò che ti dico? – mugolò disperatamente David, - Sto cercando di capire se davvero non ti aspettavi che succedesse.
Il ragazzo lo guardò dall’alto in basso, dubbioso.
- Non ne avevo idea, altro che “non aspettarselo”.
David raddrizzò le spalle, lasciandosi ricadere le mani, ancora intrecciate, in grembo.
- Secondo te com’è che Georg e Gustav l’hanno presa con tanta ironia? – chiese, adesso sinceramente stupito, - E com’è che io non ho afferrato tuo fratello per le spalle per inchiodarlo al muro e punirlo corporalmente per il guaio in cui si stava cacciando?
- Che ne so?! – quasi strillò Tom, improvvisamente più agitato di quanto già non fosse, - Perché siete di mentalità molto aperta?!
- …perché, Tom… - spiegò il manager, visibilmente confuso, - Bill e Bushido si frequentano da mesi, e tuo fratello non ha fatto che parlarne con aria adorante da quando lo conosce…
- Appunto! E questo mi ha dato già abbastanza fastidio da permettermi di… David? Perché mi guardi così?
- Tu sei ridicolo. – asserì l’uomo, incrociando le braccia sul petto, - Non so a che gioco stai giocando, ma non me la fai. Oh, no. Stai cercando di dirmi che tutto il preavviso che tuo fratello ti ha dato non è stato comunque sufficiente per elaborare questo lutto?!
- Bill non mi ha dato nessun preavviso! – corresse lui, stringendo convulsamente fra le dita il collo della bottiglia, - Preavvisarmi sarebbe stato dirmi quando l’ha conosciuto che pensava fra di loro potesse succedere qualcosa! Così io avrei preso le dovute precauzioni e-
- E cosa? L’avresti chiuso in casa? L’avresti costretto a farsi suora? O avresti cominciato a pedinarlo fin dal primo giorno?
- Non lo so, cazzo! – grugnì Tom fra i denti, battendo un pugno sul tavolo, - Non lo so.
- Probabilmente sì, mi avresti seguito fin dal primo giorno. Apposta per mettermi in imbarazzo, suppongo.
Tom sollevò lo sguardo. Bill si stagliava, in tutta la sua altezza, contro le luci al neon azzurrognole che venavano le pareti del locale. La scenografia gli dava un’aria spaventosa, quasi da fantasma vendicatore. I suoi occhi brillanti di rabbia e le gote arrossate di vergogna non lenivano in alcun modo quell’aspetto terrificante.
- Bill, ascolta… - cercò di rabbonirlo David, sollevandosi in piedi ed andandogli incontro, mentre Bushido, dal tavolino poco distante, osservava il tutto con una mano sulla fronte ed un’espressione incredibilmente preoccupata a deformare i tratti del viso.
- Portatelo via, David. – sibilò il moro, irritato, - Forse dovresti crocifiggere lui al muro. – scoccò seccamente, lanciandogli un’occhiata che avrebbe fatto sentire colpevole pure un santo.
- S… - balbettò il manager, - Ehi, adesso calmati…
Bill, però, già non lo ascoltava più. Gli aveva dato le spalle e si stava dirigendo verso il proprio tavolo con noncuranza.
- Cazzo. – mugugnò David, afferrando Tom per un braccio dopo aver frettolosamente lasciato una banconota da dieci sul tavolo, - Avanti, muoviti! – lo incitò brutalmente, trascinandolo verso l’uscita, - Non posso neanche dargli torto, stavolta! Bel casino hai combinato! Sarà un miracolo se su Bravo finiranno loro col loro idillio e non noi con le nostre cazzate!
Tom si lasciò trascinare senza opporre neanche un minimo di resistenza.
- Non volevo… - borbottò a mezza voce, fissando la strada buia mentre il vento gelido dell’Amburgo invernale gli sferzava il viso, ghiacciandolo, - Davvero…
- Certo, certo. – sbottò David con una smorfia, - Raccontalo ad uno che non ti ha sentito vaneggiare per le ultime due… che dico, ventiquattro ore, Tom!
Il rasta non aggiunse neanche una parola. Se non altro perché, in effetti, quelle scuse improvvisate così, propinate a David perché non avrebbe mai davvero avuto il coraggio di rivolgerle a Bill, sembravano false pure a lui che le aveva partorite – e che, diavolo, le pensava davvero, in un certo senso.
Continuò a farsi trascinare. Fino in macchina, fino in casa, fino in camera.
Alle tre del mattino, rinunciando del tutto al proposito di dormire, con Bill ancora disperso da qualche parte con Bushido e quell’orrendo miscuglio di gelosia, preoccupazione e senso di colpa a gravargli sul petto, fu lui stesso a trascinarsi fino al divano del soggiorno, sul quale si lasciò cadere di colpo, pesantemente, e dal quale prese a fissare la parete vuota di fronte a sé, quasi senza neanche battere ciglio.
*
Il campanello squillò alle quattro.
Tom lo benedisse.
E poi scattò in piedi, perché se avesse aspettato che squillasse ancora, probabilmente, avrebbe pure lasciato che si svegliassero tutti. E sentirsi addosso pure gli sguardi colmi di disapprovazione di Georg, Gustav e David, oltre quello che sicuramente avrebbe imbrattato gli occhi di suo fratello, non era affatto una prospettiva piacevole da affrontare.
Quando aprì la porta, però, si accorse che suo fratello non lo stava disapprovando affatto.
In effetti, totalmente ubriaco com’era, suo fratello doveva essersi a malapena accorto di lui.
- Bill… - bisbigliò incerto, mentre lo osservava rotolare mugugnante addosso a Bushido, che lo tratteneva sicuro con un braccio sotto le spalle e l’altro attorno alla vita.
Già. Perché suo fratello non era neanche solo.
- Ehi. – ridacchiò divertito Bushido, - Te lo sei perso per strada.
No, è lui che ha perso me.
O forse hai ragione tu ed io sono solo un enorme cretino.

- …grazie per averlo riportato… - esalò, rendendosi conto da solo di quanto suonasse ridicolo da dire, e ringraziando anche interiormente per la sbronza di suo fratello, che, almeno, gli avrebbe impedito di ricordare che stavano parlando di lui come fosse stato un cucciolo smarrito.
- Nnhooo… - borbottò Bill, nascondendo il viso sul collo dell’uomo che lo reggeva, - Ti ho detto che volevo andare a casa tua… questa non è casa mia, è casa loro
Bushido roteò gli occhi, cercando di rimetterlo in piedi, visto che, mentre parlava, aveva pure preso a scivolare inesorabilmente verso il pavimento.
- Scusalo. – disse a Tom, - Non è stato attento a quello che mandava giù. È veramente una fogna, quando ci si mette. – borbottò, - E, ovviamente, - aggiunse, con una nota di esasperazione nella voce che a Tom suonò incredibilmente familiare, - in macchina ha preteso di ascoltare gli Smiths. Senza offesa, eh, ma tuo fratello ha dei gusti musicali veramente di merda.
- …già… - deglutì lui con difficoltà, - glielo… glielo dico sempre anch’io…
Bushido rise apertamente e poi gli consegnò suo fratello fra le braccia.
Prevedibilmente, Bill già dormiva.
- Grazie… - ripeté Tom, abbassando lo sguardo su di lui. Aveva i capelli arruffati, russava e gli stava rotolando un rivolino di saliva giù per il mento.
- Piantala di ringraziare. – scrollò le spalle Bushido, - Non potevo mica portarmelo a casa in queste condizioni, dai. Lo affido a te, so che è in buone mani. Salutamelo, quando si sveglia. – concluse con un sorriso conciliante, prima di sollevare una mano in segno di saluto e ripartire alla volta delle scale quasi di corsa.
*
- Tomi…
Quando Bill mugugnò il suo nome, alle prime luci dell’alba del giorno successivo, Tom aveva appena cominciato a prendere sonno. Non gli ci volle molto per riscuotersi e sollevare il capo dal cuscino sul quale l’aveva posato, piantando un gomito nel materasso e poggiando il mento sulla mano, per osservare suo fratello dall’alto.
- Mio Dio, sto una merda… - si lamentò il moro, disincastrando con difficoltà un braccio dalle lenzuola e portandoselo sulla fronte, dove lo lasciò ricadere a coprire gli occhi, miagolando sofferenza, - Ma che diavolo è successo…?
- Ti sei ubriacato, ieri… - lo informò lui, deglutendo a fatica, - Perché…
- Sì. – lo fermò Bill, annuendo lentamente senza poter fermare una smorfia di dolore a increspargli le labbra, - Ok, ho ricordato. Cristo, ho un mal di testa atroce…
- Vuoi che vada a prenderti un bicchiere d’acqua?
Bill sollevò la mano dagli occhi, lanciandogli uno sguardo dubbioso.
- Lascia perdere… - borbottò alla fine, voltandosi su un fianco ed arrotolandoglisi addosso, - Tomi, perché ti sei comportato in quel modo, ieri?
Tom si mordicchiò un labbro, scivolando lentamente con un dito lungo il profilo pallido ed ossuto del viso e del collo di suo fratello.
- Sei un po’ caldo… - sussurrò, guardando altrove.
- Non cambiare argomento… - lo rimproverò Bill, afferrandogli un fianco fra le dita e minacciando di pizzicarlo a morte. – Rispondi. Non capisco proprio come tu possa essere così vigliacco, avendo un fratello coraggioso come me.
- Che vuoi che ti dica? – rimuginò Tom, scrollando le spalle, - Devi esserti preso tu tutti i geni buoni.
- Il coraggio non è genetico, cretino. – ritorse lui, pizzicandolo davvero, anche se molto più leggermente di quanto la sua minaccia non avesse lasciato intendere, - Vuoi rispondere o no?
Tom si lasciò andare ad un sospiro rassegnato, sbuffando un mezzo sorriso.
- Ero preoccupato per te. – concesse brevemente.
- Ah-ha. Guarda che qui ci sono solo io, eh. Puoi parlare liberamente. – lo rassicurò Bill, ridacchiando piano.
- Forse è proprio a te che non voglio dirlo. Non ci hai pensato? – scoccò, stringendo la presa sulla sua guancia ed evitando il suo sguardo.
Bill si separò lievemente da lui, inarcando le sopracciglia.
- Mi stai facendo un male cane, Tom.
- Oh. – si riscosse lui, lasciandogli il viso, - Scusa.
- Non quello. – rispose suo fratello, afferrandogli la mano con la propria e riportandosela sulla guancia, - Parlami.
Parlargli. Come se quello che aveva da dire fosse così semplice da sputare fuori. Come se quello che aveva da dire fosse giusto, tanto per cominciare. Come se avesse davvero qualche diritto di sentirsi così…
…preoccupato triste solo ansioso e tutto il resto…
- Ho paura che mi mancherai. – sussurrò, abbandonandosi contro di lui, nascondendo il viso sul suo collo, - Anzi, in realtà ho solo paura di perderti del tutto. Perché, per mancarmi, mi manchi già.
Bill sbuffò una risatina intenerita, stringendolo forte per le spalle.
- Guarda che io sono qui e non intendo muovermi.
- Certo, per ora. – sibilò lui, affondando il capo più in profondità, spingendosi contro la sua pelle, - Ma pensa se questa storia con Bushido dovesse andare avanti. Magari fra qualche mese davvero sentirai casa sua come se fosse più casa tua di questa, e vorrai andartene. – sospirò, scuotendo lentamente il capo come a farsi più spazio fra la sua spalla e il suo mento. – Che poi il problema non è neanche davvero Bushido. Probabilmente non sarà lui, ma prima o poi andrai via davvero. Con lui o con qualcun altro.
- Tomi…
- Io no. – lo interruppe ansioso, tornando a sollevare lo sguardo su di lui, - Io non andrò mai via con nessuno. Tu lo sai questo. È come se avessi addosso… uno di quei dannati collari con il guinzaglio che si allunga. Mi allontano, mi allontano, faccio pure il giro del quartiere, se voglio, ma è qui che torno. Sempre. Perché sei tu che lo reggi, quel guinzaglio. – si fermò un secondo, cercando di decifrare una risposta nei suoi occhi confusi e ancora lievemente velati di sonno. – Capisci cosa sto cercando di dirti?
- …a grandi linee. – rispose Bill, passandogli dolcemente una mano fra i capelli. – Però, sinceramente, al momento quello ubriaco sembri tu.
Tom sospirò profondamente, lasciandosi andare di nuovo contro di lui.
- Lo sapevo. Non hai capito.
- Ehi… - sussurrò suo fratello, sollevandogli lievemente il mento con due dita, - Guarda che ho capito. Davvero.
- Sì, certo… - si limitò a biascicare lui, scuotendo piano il capo e sospirando ancora. – Sono stanco. Ti spiace se dormo un po’?
Bill tornò a distendersi sul materasso, facendogli posto, e Tom gli si arricciò addosso esattamente come aveva fatto lui stesso pochi minuti prima.
- Tomi… - lo richiamò poco dopo, accarezzandogli lentamente una spalla, - Sai che io mi sento così ogni volta?
Lui sollevò lo sguardo, incontrando quello vagamente triste di suo fratello.
- Come?
- Ogni sera che incontri qualcuno, prendi e te ne vai… - spiegò Bill, stringendosi imbarazzato nelle spalle, - Io penso che potrebbe essere quel momento. Che “lei” potrebbe essere la ragazza giusta, che tu possa innamorarti e andartene. Davvero, lo penso ogni volta.
- Ma che stai dicendo…? – ritorse Tom, con una smorfia, - Sai che questo è impossibile, io non mi innamoro mai.
- Tu… - sbuffò lui, contrariato, - ti ostini a parlare sempre come se potessi prevedere il futuro, quando in realtà non puoi farlo! Guarda me: avevo tutto un programma, la ragazza dei sogni, quella che mi avrebbe amato per com’ero e non per ciò che mostravo in pubblico, una ragazza dolce e carina con la quale potessi condividere tutto, con cui potessi giocare a Monopoli fino allo sfinimento ogni notte, e mi sono ritrovato con… con Bushido! A lui il Monopoli neanche piace! – borbottò, gesticolando convulsamente, mentre Tom ridacchiava divertito. – Del piano originale è rimasto solo l’amore. – aggiunse poi, teneramente. – Tu non hai neanche idea delle migliaia di forme sotto le quali l’amore ti si può presentare. Una mattina ti sveglierai e ce l’avrai accanto. E magari non sarà neanche una di quelle bombe supersexy che ti ostini ad immaginare tu. – lo redarguì, con un cipiglio serio piuttosto comico, - Magari sarà Georg, chessò! – sbottò, ridacchiando a propria volta, - O comunque l’ultima persona che ti saresti aspettato, ecco.
Tom rise più apertamente, arruffandogli dolcemente i capelli.
- Con questo vuoi dire che…?
- Che non sei il solo ad avere paura. – rispose Bill, sorridendo lievemente, - Tom, noi siamo nati insieme, abbiamo sempre vissuto insieme, e quando penso alla nostra morte, lo sai, penso che anche in quel momento saremo insieme, come sempre. Tu sei in assoluto la persona più importante, per me. Senza di te, io non avrei senso.
Il rasta sorrise, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.
- Questo non cambierà mai. – continuò Bill, stringendoglisi addosso, - Perciò, io potrò pure vivere in un’altra casa, amare altre persone ed avere dei figli o chessò io, ma noi non ci lasceremo mai.
Nel sospiro stremato che Tom gli rilasciò sulla pelle, accompagnato da un sorriso sereno e disteso che era il primo degli ultimi due giorni, sembrò svanire tutta la tensione e l’angoscia delle ultime ore. Svanire davvero: come non fosse mai esistita.
- Certo che è buffo. – borbottò il biondo, accomodandosi meglio sul materasso ed accogliendo Bill sul proprio petto.
- Cosa? – rise l’altro, sistemandoglisi addosso, - Che sia bastato così poco per tranquillizzarti?
- No. – ritorse lui, ridacchiando ironico, - Che tu abbia parlato di figli. Sto cercando di immaginare alternativamente te e Bushido incinti, ma è uno spettacolo disgustoso! – rispose, ridendo sguaiatamente.
Bill lo fissò, orripilato.
- Ma tu fai veramente schifo! – strillò, salendogli a cavalcioni e cercando di soffocarlo con un cuscino.
- Probabilmente, comunque… - sospirò Tom fra le risate, liberandosi del cuscino e trattenendo Bill per i polsi, - sarebbe un buon padre. – concluse, sorridendo serenamente.
Bill sorrise di rimando, scendendogli di dosso ed adagiandosi nuovamente fra le coperte.
- Tomi? – lo chiamò poco dopo, incerto.
- Sì? – lo incitò a continuare lui, recuperando il lenzuolo e coprendo entrambi.
- Questo significa che domani posso invitarlo a cena? – chiese a mezza voce, dubbioso.
Tom si prese un secondo per riflettere.
- Adesso non esageriamo. – borbottò alla fine, scuotendo il capo con decisione. – Buonanotte.
- Ma sono le-
- Buonanotte, Bill.
- Uffa. Sei sempre il solito codardo guastafeste. – sbuffò il moro, incrociando le braccia sul petto prima di scalciare come un puledro imbizzarrito e voltarsi su un fianco, rubandogli tutta la coperta.
Genere: Commedia, Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bill/David, Tom/David, Bill/Georg, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Underage.
- Bill ha fatto a pugni con un paio di bulli a scuola e Tom è rimasto fuori fino a tardi con Andreas: e seguito di tutto ciò, i gemelli finiscono in punizione e si ritrovano a dover passare una notte in casa da soli quando Simone e Gordon vengono invitati a cena fuori. Quando litigano, però, tutto precipita. E precipita anche Bill: in una realtà completamente diversa dalla propria, governata da un misterioso sovrano che manipola i luoghi e i tempi e che, soprattutto, tiene prigioniero suo fratello. Riuscirà Bill a salvarlo, o rimarrà imprigionato nel labirinto senza riuscire a trovarne l'uscita prima delle tredici ore al termine delle quali Tom verrà trasformato in un goblin?
Note: Punto primo: mi scuso enormemente perché, se non avete visto Labyrinth, questa storia probabilmente vi sembrerà una menata pure noiosa con un qualche significato nascosto (c’è è_é lo giuro! è_é) ma assolutamente dimenticabilissima. Lo è *annuisce* Ma io la amo perché, se invece avete visto Labyrinth, ci troverete dentro tante di quelle citazioni che vi verrà da ridere continuamente. Questa non è veramente una fanfiction, è un ridicolo tributo! XD
Ciò detto, il Tost ed il Biorg sono molto forti in questa storia o_ò Per quanto riguarda il Tost, sapevo che ci sarei caduta. Il Biorg invece mi ha preso in contropiede ma l’ho amato parecchio o_ò Il Bu si limita ad essere ridicolo, però insomma, almeno becca i baci =P
E sì, l’omino baffuto è Eko Fresh. Sono spiacente, ma lui era perfetto, punto XD
Poi, be’, insomma, non ho molto altro da dire. Scritta per il terzo contest della Jost Fiction, alla fine avrebbe voluto essere molto più erotica però non ce l’ho fatta XD Era decisamente decisamente underage ed un po’, lo ammetto, mi fa senso, a questi livelli. Quattordici anni sono davvero troppo troppo pochini per farsi mettere le mani addosso da un re dei goblin trentenne ;_;” Chiedo perdono a Tomi che si struscia, povero cuore. Comunque la scena era puccina! XD Mi sa che sono andata un po’ fuori tema, ma Yulin e Tabata mi perdoneranno. Al limite, mi creano un premio apposta. So che lo vogliono anche loro. Questa storia è FOLLE XD
Comunque tendenzialmente sarebbe una Bost. <- wtf. *muore*
Ora basta, sono le cinque del mattino e scrivo ininterrottamente da quasi sei ore. Credo che andrò a morire nel mio letto, per ciò che resta di questa notte assurda. Grazie della lettura e spero non vi siate annoiati troppo <3
PS. Quando ho scoperto che labirinto, in tedesco, si dice allo stesso modo che in inglese, volevo morire. Perché ho già una Labyrinth, fra le mie storie.
Fortunatamente, il tedesco ha degli articoli che con gli articoli inglesi non c’entrano un beneamato. Grazie WordReference -.-“
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DAS LABYRINTH
“Will I hold you again?” (The Space Between – Dave Matthews Band)

Simone, bellissima nel proprio vestito in raso nero, aderente e lungo e liscio e splendido – e Bill avrebbe tanto voluto rubarglielo, tagliuzzarlo qua e là e farne una maglietta niente male da indossare sopra la maglia a rete – rimase ferma sulla porta un paio di minuti abbondanti, squadrando entrambi i propri figli con un cipiglio serio e severo.
- E non si esce. – precisò, - Siete in punizione.
Bill mugolò.
- È Tom che è tornato tardi ieri notte, non io… - disse affranto, arrotolandosi in un angolo del divano mentre suo fratello si inorgogliva ripensando alla precedente nottata, passata con Andreas a fingersi diciottenne per rimorchiare a Magdeburgo.
- Tu devi ancora finire di scontare la tua pena per la rissa, Bill. – gli ricordo Gordon, avvolto in un completo da sera che lo faceva sembrare solo più ridicolo del solito, e già in genere lo era parecchio.
- Ma non è stata colpa mia! – ricordò il ragazzino, agitandosi fra i cuscini, - Sono stati quegli stronzi a-
- Un’altra parola, Bill, - minacciò sua madre con un sorriso bellissimo, fiero e mortale, - e ti aggiungo un’altra settimana alla punizione. D’accordo?
Il ragazzo sbuffò ed afferrò la copertina abbandonata in mezzo al divano, avvolgendocisi stretto col preciso intento di non lasciarne neanche un centimetro al fratello.
- Fate i bravi. – commentò un’ultima volta Simone, già in procinto di uscire. – Torneremo prima di mezzanotte. – e così dicendo abbandonò la casa, seguita a ruota dal proprio compagno.
Bill lanciò un’occhiataccia a Tom, per proprio conto ancora perso nei ricordi della sera precedente e ghignante e felice come se tutto fosse perfettamente perfetto attorno a lui.
- Io ti odio. – sibilò maligno, riportando l’attenzione del fratello su di sé. Lui lo guardò stralunato, come lo stesse vedendo in quel momento per la prima volta.
- Billi…? – fece, spalancando gli occhioni castani ed allungando una mano incerta verso di lui.
- Niente Billi! – strillò il ragazzo, richiudendosi a palla nell’angolo, - È tutta colpa tua! Se ieri non avessi deciso di fare il cretino e restar fuori con quell’altro deficiente fino alle dannate tre del mattino, oggi saremmo fuori a divertirci!
- Be’, io sì. – precisò il biondo, sistemando dietro un orecchio una ciocca di quei suoi disordinati capelli dalla forma improponibile, - Tu no, Bill, perché come ti ha detto mamma prima sei ancora in punizione.
- Non capisco perché solo io sono stato messo in punizione per la rissa! – si lamentò ancora il moro, incrociando le braccia sul petto, - Sei stato coinvolto anche tu!
- Be’, sei stato tu a cominciare… - rifletté Tom, inarcando le sopracciglia, - Io sono solo venuto a ripescarti prima che ti spaccassero qualche osso. – annuì con convinzione.
- Non mi avrebbero spaccato nessun osso. – ringhiò Bill, furioso, - Li stavo riducendo tutti in poltiglia. E comunque il punto non è questo, il punto è che sei uno stronzo e ti odio!
Tom sospirò e sollevò gli occhi al soffitto, come in cerca di un qualche aiuto da parte delle divinità dei piani alti – visto che quelle dei piani bassi avevano già interferito notevolmente sulla sua vita dotandolo di un gemello cattivo.
- Bill, fai il bravo. – suggerì pazientemente, - Niente rotture di palle, ho Lancillotto in ostaggio.
Il ragazzo spalancò gli occhi, oltraggiato.
- Tu hai… - annaspò, stringendo le dita come tenaglie attorto alla coperta, - hai preso Lancillotto!!! Sei senza cuore!!! Ridammelo!!!
- È in un luogo sicuro. – lo prese in giro il biondo con un mezzo ghigno, - Ma lo riavrai solo se riuscirai a passare questa serata con me senza farmi impazzire, fratellino.
Bill mugolò scontento e si raggomitolò ancor di più nel proprio angolo, frugando fra i cuscini alla ricerca di qualcosa. Tom lo osservò incuriosito, inclinando lievemente il capo.
- Cosa stai combinando? – chiese dubbioso, sporgendosi verso di lui.
- Cerco Labyrinth. – borbottò in risposta Bill, riuscendo finalmente a mettere le manine artigliate sulla sua personalissima bibbia foderata di rosso ed aprendola ad una pagina a caso sulle ginocchia. Quale pagina fosse non era importante: aveva letto e riletto quel libro tante di quelle volte che ormai lo conosceva a memoria, perciò era perfettamente in grado di riprendere il filo del discorso qualsiasi fosse la pagina su cui posava lo sguardo.
Tom sbuffò e roteò gli occhi.
- Non potresti, per una volta nella tua vita, mettere via quel coso e stare un po’ con me, visto che ultimamente ci vediamo pochissimo? – si lamentò pigolante.
- Questo perché tu e l’altro deficiente siete sempre in giro a rimorchiare. – borbottò Bill senza staccare gli occhi dal libro.
- Be’, tu potresti venire con noi. – ritorse Tom in un borbottio irritato.
- Tomi, non ha senso dire che vorresti uscire con me per andare a rimorchiare, dato che è implicito che quando si rimorchia si sta con altri… - gli ricordò il moro soprappensiero, già perso fra le righe.
Tom ringhiò e si alzò in piedi di scatto, muovendosi con rabbia lontano dal divano.
- E va bene, fai un po’ quel cazzo che vuoi. – lo rimproverò, - Io vado di sopra a chiamare Andi, sperando che anche lui sia stato messo in punizione. – biascicò lamentoso, dirigendosi verso le scale, - E torturerò Lancillotto per ripicca, sappilo!
Bill sospirò ed annuì. Suo fratello sapeva bene che qualsiasi ferita inflitta al corpo di Lancillotto si sarebbe poi miracolosamente trasformata in una ferita molto più grave al suo, di corpo, e dal momento che Bill era ragionevolmente convinto che suo fratello non ci tenesse poi così tanto a ritrovarsi la punta di un anfibio su per il culo, era piuttosto tranquillo riguardo la sorte del suo orsacchiotto favorito.
Continuò semplicemente a leggere, avvolgendosi nella coperta e lasciandosi trascinare dalla fiaba.
Da sopra, arrivava in un’eco indistinta la voce di Tom che, furioso, strillava nella cornetta quanto fosse orribile avere un fratello gemello, quanto ancora più orribile fosse avere Bill come fratello gemello e quanto invece sarebbe stato meraviglioso che lui e Andreas fossero stati fratelli, magari non gemelli, ma comunque imparentati; sarebbero stati sicuramente molto più complici e si sarebbero divertiti molto di più e bla bla bla… Bill si chinò in avanti, recuperando una scarpa da terra e lanciandola con forza in aria, fino a colpire il basso soffitto sopra di sé, provocando un inquietante rumore contro l’intonaco.
- Vuoi stare un po’ zitto?! – borbottò offeso, - Non riesco a concentrarmi!
La risposta di suo fratello alle sue lamentele fu, ovviamente, continuare a parlare più forte.
Bill serrò la mascella e socchiuse le palpebre, scontento. Tom era arrabbiato ed a lui dava fastidio, quando lo era. Primo, perché la sua rabbia se la sentiva nello stomaco – una delle tante controindicazioni della gemellarità, supponeva. Secondo, perché Tom si arrabbiava davvero solo per cose che riguardavano lui, probabilmente perché, in un certo senso, riteneva che solo lui fosse un argomento tanto serio da meritare rabbia. In tutti gli altri ambiti della vita, Tom era sempre o quasi sempre allegro e spensierato, ma quando si parlava di Bill se la prendeva ogni volta come lo stessero ricoprendo di offese mortali.
Bill odiava essere oggetto d’odio. Perché sentiva il bisogno fisico di odiare a propria volta, quando succedeva.
E lui non voleva affatto odiare Tom.
- Re dei Goblin, Re dei Goblin… - sussurrò quasi a prendersi in giro da solo, perfino sorridendo un po’, - ovunque ti trovi adesso, porta via questo ragazzo, lontanissimo da me… -
“È insopportabile, Andi…”, sbraitò Tom dal piano di sopra, “Certe volte penso che sarebbe stato meglio se non fosse mai venuto fuori, lo stronzo”.
Bill abbassò lo sguardo, incassando la testa nelle spalle.
Quello aveva… fatto male.
- Desidero proprio che i goblin ti portino via… - esalò in un sussurro estenuato, - All’istante.
Dal piano superiore non venne più alcun suono. Non il chiacchiericcio furioso di suo fratello e nemmeno il suo muoversi circolarmente avanti e indietro per la stanza, strisciando sul pavimento con le suole di gomma delle scarpe da tennis. Immaginò dovesse aver chiuso la conversazione ed essersi messo a letto. Tom poteva restare sveglio per giorni e giorni, quando era felice, ma quando si arrabbiava o si intristiva si spossava subito ed era capace di dormire per sempre. Almeno finché non fosse sbollita la rabbia.
Bill sospirò e richiuse il libro, lasciandoselo scivolare giù lungo le gambe per poi recuperarlo e posarlo sul cuscino accanto a sé. Si avvolse meglio nella coperta – c’era un freddo incredibile, in casa, e fuori pioveva a dirotto. Sperò che sua madre e Gordon avessero portato con loro un ombrello – e cominciò a salire pigramente le scale.
- Tomi… - chiamò già a metà della rampa, - Senti, facciamo pace prima che tu ti addormenti e mi tenga il broncio fino alla fine dei secoli…?
Dalla stanza continuò a non giungere alcun suono. Anche la luce era spenta, non filtrava niente da sotto la porta.
Bill deglutì, riportando alla memoria le frasi pronunciate mentre stava ancora rannicchiato sul divano.
Non era veramente possibile che…
- Tomi… - chiamò ancora, aprendo la porta e fermandosi sulla soglia, - Tomi, stai bene…?
La stanza era vuota. Vuota, buia e silenziosa. Dal balcone aperto, il temporale invadeva la casa, bagnando il letto e i mobili e il pavimento e infrangendo col frastuono dei tuoni il silenzio irreale dell’ambiente. Bill deglutì e si strinse nella coperta, raggiungendo la finestra e richiudendola col gancio, mentre abbandonava la stanza e si muoveva lungo il corridoio, alla ricerca del fratello.
Naturalmente, Tomi non era da nessuna parte.
Il cuore stretto in una morsa e tutti i muscoli contratti, Bill tornò in camera e si guardò intorno.
- Tomi, non mi sto divertendo… - mugugnò, sperando solo che suo fratello si ricordasse di essere un epocale cretino ed avesse voglia di ricordarlo anche a lui, magari strisciando fuori dal letto con un urlo per spaventarlo. O qualcos’altro di altrettanto stupido, purché – dannazione – fosse ancora lì da qualche parte.
Una voce ridacchiò alle sue spalle, e Bill si voltò di scatto per trovarsi di fronte… niente. Il buio della stanza e nient’altro.
- C’è nessuno…? – chiese con aria incerta, avanzando verso il luogo dal quale la voce era arrivata e guardandosi intorno con aria circospetta.
Una voce diversa, più roca, ma dallo stesso timbro stridulo della prima lo raggiunse nuovamente alle spalle. Bill fece per voltarsi ma non ne ebbe il tempo: a metà della torsione si accorse di un’ombra – qualcosa di piccolo e peloso – che scompariva dietro il letto. Ed altre risate. Risatine inascoltabili, spaventose, cominciarono a fioccare da ogni angolo della camera, e mentre Bill si metteva al centro, avvolto dalla coperta come dovesse schermarlo contro i mali del mondo, qualcosa di pesante sbatté più volte contro il vetro della finestra – thud thud thud – accompagnato da un battito d’ali che gli diede i brividi e gli annodò lo stomaco. Bill girò sui tacchi e vide un’enorme civetta bianca battere con forza contro le imposte, pressando le zampe artigliate sul legno come a volerle spalancare. Una volta, due volte, tre volte, e poi la finestra cedette sotto il peso dei colpi, aprendosi. Bill si coprì istintivamente il capo, piegandosi un po’ su se stesso mentre l’enorme uccello attraversava la stanza fermandosi dal lato opposto.
Quando Bill riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, il battito d’ali era cessato. Si voltò a guardare verso il punto nel quale avrebbe dovuto trovarsi il volatile, ma la civetta non c’era più. Al suo posto, però, c’era un uomo.
Doveva essere alto più o meno quanto lui, ma sembrava incredibilmente più… vecchio probabilmente non era la parola giusta, perché in realtà sembrava anche incredibilmente giovane. La sua era un’età indecifrabile, ma la sicurezza che si sprigionava dalla sua persona e soprattutto da quegli occhi azzurrissimi che gli teneva puntati contro – con una sfacciataggine che lo turbava – parlava di una saggezza acquisita con anni… secoli di vita.
Era una saggezza strana, comunque.
Era spaventosa. Quegli occhi erano spaventosi.
Bill si avvicinò, muovendosi quasi contro la propria volontà.
- Tu sei… il Re dei Goblin… - disse senza fiato, stringendosi la coperta attorno alle spalle.
L’uomo chinò il capo in segno d’assenso, sorridendo lievemente, quasi fosse solo divertito dalle sue esitazioni.
- M-Mio fratello… - disse Bill, deglutendo appena.
- Ciò che è detto è detto. – rispose l’uomo, rimanendo immobile contro la porta, le braccia incrociate sul petto.
È successo davvero, si disse Bill, mordendosi un labbro, per colpa mia…
- Ti prego… - annaspò, le lacrime agli occhi, - dov’è adesso?
L’uomo sollevò appena il mento squadrato, gli occhi celesti a dardeggiare su di lui ed i corti capelli castani scossi appena dal vento furioso che invadeva la stanza.
- Sai molto bene dov’è. – rivelò severo, senza muoversi di un centimetro.
- Ti scongiuro… - continuò Bill, indifeso e smarrito, - riportamelo.
L’uomo si mosse verso di lui, scuotendo lentamente il capo.
- Bill… - suggerì suadente, a bassa voce, - dimentica tuo fratello.
Il moro spalancò gli occhi.
- Non posso! – strillò, stringendo i pugni, - Non voglio! Ridammi mio fratello!
L’altro non mostrò di essere particolarmente colpito dalla sua disperazione, e si limitò a sollevare una mano.
- Io ti ho portato un regalo… - disse semplicemente, mentre una sfera di luce si concentrava sulle punte delle sue dita fino a concretizzarsi in un globo trasparente. – È un cristallo magico. – rispose con un sorriso furbo alla domanda che Bill non ebbe fiato e coraggio di porre, - Se guardi al suo interno, puoi vedere i tuoi sogni. – si avvicinò ancora, sussurrando, - Quelli più profondi, quelli che non hai nemmeno capito di stare sognando. Però – continuò, separandosi sbrigativamente da lui, - non è certo un regalo da dare ad un ragazzino che si preoccupi di cose futili come un fratello lagnoso.
Bill rimase immobile e silenzioso, in attesa del resto.
- Se lo vuoi, dimentica tuo fratello. – disse infatti l’uomo, sorridendo conciliante.
Il ragazzo si morse nuovamente un labbro, incerto.
- Non posso. – disse poi, - Ti prego, per favore, dimmi-
- Bill. – tuonò l’uomo, mentre la sfera di cristallo si trasformava in un serpente – un serpente, Dio! – fra le sue dita. – Non sfidarmi. – concluse, prima di lanciargli il serpente addosso.
Bill urlò, raggomitolandosi su se stesso mentre percepiva distintamente le spire del rettile avvolgersi attorno al suo collo, ma la sua paura si affievolì e scomparve – ed in breve ne rimase solo il battito un po’ accelerato del suo cuore – quando si accorse che il serpente s’era trasformato in uno scialle colorato ed era poi caduto a terra. Fra le risatine dei goblin alle sue spalle, per le quali neanche si voltò – aveva già capito che non ne avrebbe comunque visto nemmeno uno.
Si rimise dritto e deglutì, stringendo i pugni e cercando di farsi forza.
- Dimmi dov’è. – insistette, - Dimmi dov’è mio fratello.
L’uomo sospirò annoiato e stese un braccio verso la finestra, indicando all’esterno.
- È lì. Nel mio castello. – concesse disinteressato.
Bill seguì il dito puntato e guardò fuori. Il mondo non era più quello che ricordava. Dove avrebbero dovuto esserci la notte e un temporale e le vie scure di Loitsche c’era invece un enorme e intricatissimo labirinto di piante e mura, ed oltre un grande castello che s’intravedeva appena nell’aria rossiccia che avvolgeva tutto e che sembrava infuocata.
Bill lasciò ricadere la coperta – non c’era più nemmeno freddo – e si mosse. Quando si voltò indietro, casa sua era scomparsa. C’era solo un terreno arido e vuoto, qualche sterpaglia, e quell’uomo, che lo fissava sarcastico.
- Torna indietro, Bill. – suggerì con un sorriso strafottente, - Torna indietro finché sei in tempo.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- No! – protestò deciso, - Non posso e non voglio, lo capisci questo?! Lui è mio fratello! – sbottò, tornando a guardare il labirinto ed il castello.
- Be’… - sussurrò l’uomo, - puoi sempre provare a riprendertelo. È un peccato – aggiunse con una risatina, - che tu abbia così poco tempo.
- …poco tempo…? – chiese Bill, confuso e teso.
L’uomo rise, gli occhi sottili e freddi, sempre disturbanti.
- Solo tredici ore. Poi, il tuo lagnoso fratello diventerà uno di noi.
- A-Aspetta… - cercò di fermarlo Bill, ma l’uomo lo zittì ancora con un risoluto cenno del capo.
- Solo tredici ore. – ripeté, - Fai del tuo meglio, Bill. – e scomparve.
*
Faceva caldo. Era incredibile pensare di avere appena lasciato l’inverno in Germania ed essersi ritrovati all’improvviso immersi in un’estate così torrida ed in un posto che non sembrava nemmeno esistere davvero.
Girando attorno all’enorme parete che sembrava circondare l’intero labirinto, Bill si chiese se sarebbe mai riuscito a tornare a casa. O a trovare davvero Tomi.
Si morse una guancia.
Il solo pensare che la sua sparizione fosse davvero una sua colpa gli stringeva il cuore così tanto da fargli male. Non voleva davvero che sparisse. Non voleva affatto che sparisse. E non riusciva a trovare la stupida entrata dello stupido dannatissimo labirinto.
Stava quasi per arricciarsi in un angolino e mettersi semplicemente a piangere – non era un piagnone, non lo era affatto, dava a tutti i bulli del filo da torcere, a scuola, ma lì era diverso, non era scuola, non c’era Tomi, era lontano da casa ed era tutta colpa sua – quando un rumore scrosciante lo colpì. Dove c’era movimento doveva per forza esserci qualcosa a produrlo.
Pregò intensamente che non fosse solo una stupida cascatella a caso e si avvicinò alla fonte del rumore.
Quando vide da cosa era provocato, fu seriamente incerto sulla possibilità di mettersi a ridere o essere felice e basta perché aveva trovato qualcuno.
Un ragazzo dai capelli lunghi fino alla base del collo, forse solo un po’ più corti di quelli di Tomi, e gonfi – doveva avere più o meno la sua età – stava fermo a gambe larghe davanti ad una piccola pozza d’acqua e, semplicemente, faceva pipì.
- Scusa… - disse Bill, titubante, cercando di trattenere le risate.
- Oh? – disse il ragazzo, voltandosi a guardarlo, - Ah, sei tu. – borbottò poi, esaurendo il proprio bisogno e richiudendo i pantaloni, prima di saltare giù dal muretto sul quale era issato e recuperare da terra una specie di diffusore a spruzzo come quelli che la mamma metteva in bagno e cambiava ogni due settimane.
Bill non si fermò a riflettere sul fatto che quell’individuo non fosse stupito di vederlo: aveva altre priorità, al momento. Quando il tizio prese a camminare, il moro si limitò ad andargli dietro.
- Io mi chiamo Bill. - disse incoraggiante.
- Sì, lo so. – rispose lui, con aria annoiata, - Io mi chiamo Georg.
Proprio in quel momento, da una fenditura nel muro venne fuori un minuscolo esserino alato, in tutto e per tutto simile ad un insetto, ma ridacchiante e dalla forma vagamente antropomorfa.
- Queste sono…
- Fate. – concluse per lui il ragazzo, - Quarantasette! – esclamò poi, spruzzando qualcosa sulla fatina ed osservandola cadere a terra, stordita.
- …me le aspettavo più carine. – commentò Bill, scrutando la creatura per terra, - Sembrano mosconi. – continuò con una smorfia.
- Che ti aspettavi? – disse il tipo, acido, - Sono solo fate.
Bill annuì vagamente e poi tornò a concentrarsi sul proprio obiettivo.
- Senti, - disse ansioso, - io devo assolutamente trovare mio fratello. Tu puoi aiutarmi?
- Forse sì, forse no… - rispose quello, sibillino. – Quarantotto! – e mandò al tappeto un’altra fatina. – Cos’è che ti serve?
- Io… - borbottò Bill, confuso, - …dov’è l’entrata?
- Ah, chissà. Sei proprio sicuro di volere andare là dentro? Quarantanove! – e giù un’altra fata.
Bill aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Ma vuoi starmi a sentire?! – protestò infastidito, - Allora, puoi aiutarmi o no?!
Il ragazzo si decise finalmente a fermarsi a squadrarlo con aria disapprovante.
- Tu non mi fai le domande giuste. – rivelò seriamente, piantando le mani sui fianchi.
Bill abbassò lo sguardo e sospirò.
- …come faccio ad entrare? – chiese alla fine, già esausto, passandosi una mano sugli occhi.
Georg sorrise subito.
- Ecco, questa è un domanda a cui posso rispondere! – disse gioviale. – Puoi entrare da lì. – rivelò. E nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, nell’enorme muro di cinta che circondava il labirinto si aprì un pesantissimo cancello.
- …ma… - biascicò Bill, fissando il tutto con aria sconvolta, - Quando ti ho chiesto dov’era l’entrata, tu-
- Devi imparare a chiedere le cose giuste, Bill. – commentò semplicemente il ragazzo, annuendo. – Per esempio… - continuò, accompagnandolo all’interno, - adesso dove pensi di andare? A destra o a sinistra?
Bill guardò entrambe le vie, sporgendosi un po’ per cercare di scrutare il più lontano possibile. Fu inutile: le due strade erano completamente identiche.
- Una vale l’altra. – rispose con una scrollatina di spalle.
Georg inorridì, disgustato.
- È questo il problema con i tipi come te, non date il giusto valore alle cose! Ecco perché tuo fratello è prigioniero!
Bill abbassò lo sguardo, colpevole. Il ragazzo aveva perfettamente ragione.
- Sai cosa ti dico? – continuò Georg, sempre più infuriato, - Non ci riuscirai mai, ad uscire da questo labirinto. Se anche dovessi arrivare al centro, non riusciresti mai a venirne fuori!
- Be’, questo è ancora da vedere! – rispose Bill, sollevando il capo ed aggrottando le sopracciglia, offeso.
Il ragazzo scosse una mano come a scacciare le mosche, deluso.
- Datti da fare, ragazzino, o non ce la farai davvero. – borbottò, prima di lasciarlo lì e tornare a varcare il cancello, richiudendoselo alle spalle senza neanche toccarlo.
Bill sospirò e cercò di farsi forza. C’era poco da fare. A parte cominciare a camminare.
*
Tutto quello che Tom riusciva a fare era stringersi nelle spalle. Era veramente l’unico movimento gli fosse consentito, visto che la corda d’oro che lo stringeva attorno alle braccia non gli permetteva neanche di allontanarle dai fianchi.
Seduto sopra un’enorme poltrona in velluto rosso, reso muto da una fascia stretta con forza attorno alla bocca, il biondo si dibatté un po’ e poi mugolò affranto. Non c’era modo di liberarsi.
L’uomo che lo teneva prigioniero stava seduto su una poltrona del tutto identica alla sua, ma al contrario di lui aveva mani e piedi completamente liberi e, volendo, avrebbe potuto alzarsi ed andare via. Ed invece rimaneva lì immobile a guardarlo con aria furba, posandogli addosso quegli incredibili e freddissimi occhi azzurri mentre l’esercito di creaturine deformi che lo circondavano lo torturava nei modi più assurdi – dal solletico ai pizzicotti – fino a farlo impazzire.
- Hmpf- - si lamentò il ragazzo, cercando di saltare giù dalla sedia. Non gli riuscì nemmeno quello, perché la corda d’oro era assicurata allo schienale della poltrona. Si limitò perciò a lanciare occhiatacce all’uomo che stava seduto di fronte a lui, una gamba posata sul bracciolo della propria poltrona ed un piccolo frustino nero a battere contro lo stivale.
- Tu dovresti imparare il valore del silenzio, Tom. – disse appunto l’uomo, tornando a sedersi composto per guardarlo negli occhi. – È per questo che sei finito qui, no?
Tom si agitò e cominciò un lungo discorso che sarebbe suonato più o meno come un “no, io non lo so perché sono qui e non ho capito un accidenti di questa storia degli gnomi o dei folletti o di qualunque altra cavolata si tratti, è roba per quell’idiota di mio fratello e, a proposito, se vengo a scoprire che tutto questo è opera sua, giuro che lo faccio fuori con le mie stesse mani, e comunque non ho capito bene per quale oscuro motivo dovrei chiamarti Re e perché sto legato a questa stupida dannata sedia con tutte queste creaturine bitorzolute che mi fanno il solletico, voglio dire, è palesemente una violazione dei diritti umani, lo sai che mio padre fa il camionista, eh?, lo sai?, potrebbe passarti sopra col suo camion e di te non resterebbe niente, e dove cavolo è mio fratello, comunque?!”. Sarebbe suonato così, ma naturalmente non poté che suonare invece come un unico e prolungato “hmpf”, visto che la fascia attorno alla bocca teneva fermo anche il mento e gli impediva di articolare suoni comprensibili.
- Sei incredibilmente fastidioso. – commentò ancora l’uomo, inarcando le sopracciglia con supponenza, - Tuo fratello ha fatto bene a mandarti qui.
Tom spalancò gli occhi. L’uomo sorrise.
Il momento successivo vide Tom sconfiggere le leggi della fisica – per quanto si potesse parlare di leggi simili in un mondo popolato di goblin – e tirarsi in piedi. La fisica, comunque, tornò immediatamente a riprendere possesso della realtà, ed in breve Tom si ritrovò in ginocchio per terra, schiacciato dal peso della poltrona e con le braccia strette in una posizione che gli provocava un dolore allucinante alle spalle.
Gli esserini intorno a lui ridevano come stessero assistendo allo spettacolo più divertente della loro intera vita. Ed era probabilmente così.
Anche l’uomo rise – Tom sentì distintamente uno sbuffo fra il compassionevole ed il divertito liberarsi nell’aria e solleticargli fastidiosamente le orecchie – prima di avvicinarsi a lui, afferrare la sedia per lo schienale e rimetterla dritta. Con lui ancora seduto sopra.
- Se hai tutta questa voglia di muoverti, lo farai alle mie condizioni. – disse quindi, chinandosi a guardarlo dritto negli occhi e sorridendo mefistofelico.
Tom non capì esattamente come si svolsero i fatti in successione. Si rese conto solo che, a un certo punto, non aveva più mani e piedi legati. A tenerlo prigioniero era rimasta solo la fascia sulla bocca. Per qualche motivo, comunque, assolutamente contro la propria volontà, stava ballando in tondo con quell’uomo misterioso che cantava you made me believe in magic. E i goblin, intorno, ridevano.
Mentre piroettavano intorno alla stanza, l’uomo fissò gli occhi azzurrissimi in quelli ambrati e luminosi e brillanti di confusione di Tom e sorrise, stringendolo alla vita.
- Se tuo fratello non sarà qui entro nove ore e mezzo… - sussurrò direttamente al suo orecchio, chinandosi su di lui, - …tu sarai mio.
Tom pressò le mani contro il suo petto, ma non riuscì ad allontanarsi.
Deglutì.
*
Nel frattempo, metri e metri sotto il livello del suolo – se un livello del suolo c’era, in quel mondo assurdo – Bill concludeva la propria caduta a precipizio lungo un improponibile tunnel lastricato di mani parlanti.
Palesemente non sarebbe mai arrivato a trovare Tomi.
*
Appena la musica aveva smesso di venare l’aria, Tom era stato gentilmente preso per i fianchi e rimesso seduto al proprio posto – corde d’oro comprese.
Aveva provato a lamentarsi, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un buffetto sulla guancia ed un canzonatorio “slap that baby” che l’aveva fatto rabbrividire fin nel profondo, mentre l’uomo – del quale ancora, per inciso, non sapeva il nome – si chinava su di lui e scrutava qualcosa all’interno di una sfera trasparente.
Spalancò gli occhi quando vide cosa in effetti l’uomo stava guardando.
- Mmnh!!! – strillò, agitandosi convulsamente mentre l’uomo lo tratteneva per le spalle.
- Sì, sì, il tuo fratellino. – sorrise l’uomo, - Che poi è il motivo per cui stai qui, Tom. – il suo sorriso si allargò mentre stringeva la presa sulle sue spalle, - Non ti voleva più ed ha chiesto ai goblin di portarti via… a questo punto, sarebbe perfino meglio se restassi con me di tua spontanea iniziativa, no? – lo prese in giro, sfiorando col naso il profilo della sua guancia, - Piuttosto che sentirti indesiderato…
Tom si irrigidì sotto le sue mani e rimase immobile a guardare l’immagine di Bill che si guardava intorno, smarrito, nel buio.
Magari era davvero Bill che l’aveva mandato in quel posto, ma adesso lo stava cercando. Voleva tornare a riprenderselo.
E quindi no, non si sentiva indesiderato. Assolutamente no.
Scosse il capo.
L’uomo ringhiò e lo lasciò andare, tornando a sedersi al proprio posto e portando la sfera con sé.
- Non sarebbe dovuto arrivare alle segrete. – commentò infastidito, accavallando le gambe. – Georg, comunque, lo riporterà indietro… ed a quel punto, vedendo di dover ricominciare tutto da capo, si arrenderà. – commentò con una mezza risatina.
*
Gli occhi di Bill non ebbero nemmeno il tempo di abituarsi al buio, che subito una candela arrivò a rischiarare l’ambiente. Si trovava in una sorta di grotta, o di qualcos’altro di molto simile. Il tetto era roccioso ed umido e c’erano delle inquietanti catene a pendere immobili verso il pavimento. Deglutì, voltando lo sguardo in giro, e quasi saltò in aria dallo spavento quando, seduto su una tavola a qualche metro da lui, trovò Georg, il ragazzo che aveva incontrato fuori dal labirinto.
- Tu! – strillò, puntandolo con un dito, - Cosa diavolo ci fai qui?!
Georg si tirò in piedi con un sorriso furbo sul volto.
- Sapevo che ti avrei ripescato qua sotto. – lo prese allegramente in giro, - Sei finito in una segreta. Il labirinto ne è pieno. – sorrise ancora, in maniera più sottile e insinuante, socchiudendo gli occhi come quelli di un gatto, - Lo sai a cosa servono le segrete, piccolo Bill?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, infastidito e un po’ spaventato.
- …tu sì? – chiese titubante, guardandolo con diffidenza.
Georg sghignazzò.
- A chiuderci dentro le persone che si vogliono dimenticare. – rivelò il ragazzo, tirando dietro un orecchio una ciocca di capelli. – Fortunatamente, - aggiunse poi, il tono più gioviale ma sempre canzonatorio, - sono venuto a riprenderti! Guardacaso, conosco una scorciatoia per uscire dal labirinto proprio partendo da questa stanza!
- Ma io non posso fermarmi! – strillò ancora Bill, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - Tomi mi aspetta, io lo so! È colpa mia e devo salvarlo! Non posso fermarmi proprio adesso!
- Oh, certo. – borbottò Georg, incrociando le braccia sul petto, - Scemo io a preoccuparmi ed a venire fino a qui per tirarti fuori.
Bill gli lanciò un’occhiata curiosa da sotto le lunghe ciglia scure.
- Eri preoccupato…? Per me?
Georg guardò altrove, agitando una mano.
- Un bel ragazzino come te, tutto solo in questo posto oscuro… - motivò con disinteresse, come fosse normale. – Ora, coraggio, seguimi. Ti porto fuori di qui.
- No! – insistette Bill, - Tu… non capisci. – mugolò, abbassando lo sguardo, - Lui è mio fratello, non c’è nessuno che sia tanto importante quanto lui, e… io questo mondo lo conosco, perché tutti i miei sogni vi appartengono, ma lui… - si morse un labbro, - lui non c’entra niente, non è di qui, sarà spaventato ed io… devo portarlo a casa. Davvero. Devo riportarlo con me. – sollevò nuovamente gli occhi in quelli verdissimi dell’altro ragazzo, - Non ti chiedo di portarmi fino al castello… se non vuoi, va bene, ma… portami almeno fin dove puoi! Dopo me la caverò da solo!
Georg roteò gli occhi, poco convinto.
- Peggiorerà soltanto, da ora in poi. – lo avvisò con piglio serio.
Bill scosse il capo.
- Non m’importa.
Rimasero a fissarsi a lungo, entrambi fermi sulle loro posizioni. Il primo a cedere, però, fu Georg.
- E va bene, - concesse alla fine, sbuffando sonoramente, - vieni con me.
Bill non riuscì a trattenere il gridolino di gioia che nacque spontaneo nel fondo della sua gola, e premette tanto per uscire che lui dovette lasciarglielo fare.
- Sì, ma non entusiasmarti adesso, ragazzino, - disse Georg mentre attraversavano un lungo ed oscuro corridoio, - siamo ancora… - ma si fermò all’improvviso quando in mezzo a loro rotolò una sfera di cristallo perfettamente lucida e tonda, trasparente e liscissima. - …oh.
- Cosa…? – chiese Bill, incerto, notando appena la pallina rotolante.
- Be’…? – chiese una voce gracchiante e sgradevole dal buio. Quando Bill alzò lo sguardo sulla figura, notò che la sfera si era fermata ai suoi piedi e poi aveva preso a volteggiare fino a rimbalzarle in mano. – Che cosa sta succedendo qui?
- …come? – chiese Bill per riflesso, ormai quasi abituato alle stranezze del posto.
Georg rimase immobile e silenzioso, tesissimo. E non sembrò molto stupito quando la figura ammantata si liberò della propria copertura e, da sotto il mantello, venne fuori l’uomo misterioso, lo stesso che aveva rapito suo fratello.
Bill fece istintivamente un passo indietro, prontamente imitato da Georg.
- Niente, mio signore! – si affrettò a difendersi il ragazzo, mettendo le mani avanti.
- Niente?! Niente, Georg?! – insistette l’uomo, avvicinandoglisi con fare intimidatorio, - Lo stavi aiutando!
- No, mio signore, mai! – rispose il ragazzo, - Lo stavo portando all’inizio del labirinto!
- Cosa?! – chiese Bill, oltraggiato, - Come hai potuto?!
- Stai mentendo. – disse l’uomo, piegandosi a guardare Georg negli occhi, - È tradimento questo, Georg, lo sai? Dovrei prenderti ed appenderti a testa in giù nella Gora dell’Eterno Fetore, sai?!
Georg abbassò lo sguardo, colpevole.
- Chiedo perdono, mio signore.
Lui non sembrò badare alla richiesta, tant’è che il perdono non lo concesse affatto. Si voltò però a guardare Bill, avvicinandosi a lui, stavolta, e poggiando un braccio sul muro per poi chinarsi a scrutarlo negli occhi con aria pericolosa.
- Allora, Bill… - disse malizioso, sfiorando quasi il profilo del suo viso con le labbra, - ti sta divertendo, il mio labirinto?
Bill aggrottò le sopracciglia. Quello era lo stesso atteggiamento intimidatorio che usavano con lui i bulli del Gymnasium, nella speranza di obbligarlo ad abbassare la testa. E se lui si trovava in punizione, quella sera, era proprio perché, ad atteggiamenti come quello, reagiva sempre nello stesso modo. Opponendosi.
- È un gioco da ragazzi. – disse con un sorrisetto furbo, inclinando il capo.
L’uomo rise a propria volta, estremamente divertito.
- Un gioco da ragazzi, dici. – annuì, separandosi da lui, - Bene, allora che ne dici di alzare un po’ la posta? – chiese, voltandosi all’indietro verso un enorme orologio, apparso dal nulla. Mosse le dita in un movimento circolare e le lancette, guidate dalla magia, si spostarono in avanti. Una, due, tre ore.
- Questo non è giusto! – protestò Bill, stringendo i pugni.
- Non è giusto, dici? – chiese l’uomo, continuando a ridere supponente, - Mi chiedo quale sia l’idea che hai della giustizia. – replicò, allontanandosi di qualche passo. – E visto che trovi il mio labirinto così semplice da affrontare… vediamo come te la cavi col mio piccolo amico qui dietro. – prese la sfera di cristallo che ancora teneva mollemente in mano e la scaraventò con forza nel buio del corridoio. Subito dopo, scomparve.
Georg deglutì e spalancò gli occhi.
- Oh, no… - lo sentì esalare sconsolato Bill. – No, questo no…
- Questo cosa, Georg?! – chiese Bill, impaurito, appendendosi al suo braccio.
- Non lo senti?! – disse il ragazzo, indicando nel buio, - Gli spazzini!
Bill ebbe appena il tempo di cominciare a sentire lo stridio metallico di un centinaio di lame che sfregavano l’una contro l’altra, che già Georg l’aveva afferrato per un braccio e lo tirava lungo il corridoio, verso il lato opposto, strillandogli di darsi una mossa. Bill lo seguì senza fare storie, voltandosi solo di tanto in tanto e cogliendo appena l’immagine di un gigantesco marchingegno che, velocissimo, abbatteva qualsiasi cosa trovasse sul proprio cammino fra rumori agghiaccianti.
- Merda… - commentò Georg quando arrivarono alla fine del corridoio ed andarono a schiantarsi contro un cancello inoppugnabilmente chiuso, - È la fine! Certo che… la Gora dell’Eterno Fetore prima, gli spazzini poi… ti sta trattando proprio con tutti i riguardi!
Bill ringhiò e tirò un calcio di pura frustrazione contro una parete. Il rumore delle lame era forte, ma non riuscì del tutto a coprire il thud un po’ ovattato che fece il suo piede battendo contro la roccia.
- Oltre questa parete… - disse, lasciandovi scorrere sopra una mano, - È vuoto! Georg! Aiutami a spingere!
Ed era vuoto davvero. Riuscirono a rintanarsi in una specie di antro dopo aver frantumato la friabile parete di finta roccia, giusto un attimo prima che la macchina metallica passasse alle loro spalle, abbattendo il cancello e continuando per la propria strada.
- Ma chi me l’ha fatto fare di aiutarti, ragazzino, me lo spieghi?! – borbottò Georg tirandosi in piedi dopo la rovinosa caduta cui era stato costretto per mettersi in salvo.
- Aiutarmi?! – strillò a quel punto Bill, ricordando il discorso di poco prima con l’uomo misterioso, - Ma se hai detto che mi stavi riportando all’ingresso!
- Questo è quello che ho detto a lui, per distrarlo! – motivò il ragazzo, - Vieni, questa scala dovrebbe riportarci in superficie. – aggiunse poi, indicando una scala a pioli poggiata contro il muro lì di fianco.
- Come faccio a fidarmi ancora di te? – chiese Bill, con tono lamentoso, - Se menti-
- Mettiamola così: - lo interruppe Georg, cominciando la scalata, - che alternative hai?
- …nessuna, in effetti. – ammise il moro, abbassando lo sguardo.
- Infatti. – annuì il ragazzo, già a metà scala, - Ti dai una mossa o no? – osservò Bill annuire e mettersi al suo seguito e sospirò, scuotendo il capo, - Devi capire la mia posizione, ragazzino. – cercò di giustificarsi, nemmeno lui sapeva perché, - Io non sono esattamente quello che si dice un coraggioso. E David mi fa paura.
- David… è così che si chiama.
- Già.
- E ti fa tutta questa paura?
- Lo sai perfettamente che è il Re dei Goblin. Se fossi di queste parti, spaventerebbe anche te. Oltretutto, la Gora dell’Eterno Fetore-
- Oh, che mai potrà fare?! Puzzare?!
- Be’, è dannatamente abbastanza per non essere piacevole, no? Oltretutto, come ci metti piede, sei condannato a puzzare per sempre! Non c’è sapone che tenga! Una vera maledizione. – continuò a lamentarsi fino a che non furono finalmente in superficie. Sbucarono da un vaso nel mezzo di una piazzetta dalla quale partivano molti viali delimitati da siepi altissime.
- E adesso dove andiamo…? – chiese Bill, guardandosi intorno con aria smarrita.
- Ah, no! – borbottò Georg, allontanandosi celermente da lui, - Adesso vai per la tua strada! Ho promesso di accompagnarti solo fin dove avrei potuto! Bene, qui mi fermo!
Bill inarcò le sopracciglia verso il basso, stringendosi nelle spalle.
- …pensavo… che avessi capito le mie ragioni… - commentò tristemente.
Georg sospirò, roteando gli occhi e incrociando le braccia sul petto.
- Le ho capite, le tue ragioni, è solo che-
- Pensavo fossimo diventati amici! – aggiunse Bill, gli occhi pieni di lacrime e le mani strette all’altezza del cuore.
Georg spalancò gli occhi.
- …amici? – chiese con aria stupita, - …non ho mai avuto degli amici…
Bill arrossì un po’, stringendosi nelle spalle.
- Be’, in fondo mi hai aiutato… sai, anche io, non è che abbia tutti questi amici, nel mondo da cui provengo… e tu sei stato… be’, abbastanza gentile. – sospirò, - Perciò sì, ti considero un amico.
Georg annuì lentamente e si prese qualche secondo per riflettere.
- Oh, insomma. – concesse alla fine, - D’accordo. Proviamo ad andare di là.
Bill si lasciò andare ad un urletto di gioia, ma la sua felicità durò poco. Esattamente fino al momento in cui Georg si ricordò di essere un vigliacco.
Appena girato l’angolo, i due vennero infatti investiti da un suono spaventoso – l’ululato di sofferenza di un essere probabilmente altrettanto spaventoso – e Georg ci mise un secondo a girare sui tacchi e dirigersi verso un punto a caso purché fosse il più lontano possibile da lì.
- Ma non avevi detto che eravamo amici?! – si lamentò Bill, cercando di artigliarlo prima che sparisse oltre l’angolo.
- No, ragazzino, l’hai detto tu! E comunque, io non sono amico di nessuno: sono amico solo di me stesso, come tutti.
- Ma non è giusto!
- No, non lo è.
- …ma è così.
E quello decisamente era qualcosa di nuovo imparato sulla giustizia.
*
L’essere probabilmente spaventoso che aveva ululato fino a far scappare Georg, in realtà non era affatto un essere spaventoso. Bill se ne accorse non appena raggiunse la fonte dell’urlo e la spiò da dietro una siepe: si trattava di un ragazzo, probabilmente un po’ più piccolo di lui, sicuramente molto più basso ed anche più tarchiatello. Biondo e pallido.
Ma ululava effettivamente come una bestia.
Il problema era la bestia non fosse lui, bensì le creaturine che lo circondavano: goblin, indubbiamente, ed armati – tenevano in mano lunghi bastoni che ospitavano in punta degli esseri se possibile ancora più rivoltanti dei loro proprietari, piccoli, glabri e rosa, e con enormi bocche dotate di spaventosi denti aguzzi. I goblin usavano quelle armi vive per torturare il povero ragazzo, che pendeva dal ramo di un albero a testa in giù e continuava ad urlare il proprio dolore fra un “lasciatemi andare” e l’altro.
Georg poteva essere un codardo, ma Bill decisamente della codardia era l’antitesi.
- Se solo avessi una pietra da lanciare… - si ritrovò a borbottare, mordicchiandosi un labbro e guardandosi già intorno alla ricerca di un sasso.
Quel mondo magico e spaventoso lo stupì una volta di più: i sassi cominciarono in effetti a rotolare verso i suoi piedi, neanche li avesse evocati con un rito voodoo. Sorridendo un po’, si chinò a raccoglierne uno e lo lanciò in mezzo al gruppetto di goblin, centrandone uno sull’elmo. Il caos che da ciò si generò lo divertì parecchio e si concluse, dopo una serie di impacciati movimenti degli esserini confusi e spaventati, con la fuga dei suddetti esserini impazziti. Per dove, non voleva saperlo.
Il ragazzo continuava a sbraitare.
Bill decise che fosse il momento giusto per tirarsi fuori dal proprio nascondiglio.
- Uhm… ciao. – disse salutandolo timidamente con la mano, - Io sono Bill e-
- Sei stato tu a farli scappare? – ringhiò burbero il biondino, sempre a testa in giù.
- Er… sì, ho usato dei sassi che-
- Io mi chiamo Gustav. – lo interruppe ancora il biondo, annuendo, - Ti dispiacerebbe…?
- Oh, sì! – annuì Bill, dirigendosi verso la radice dell’albero, dove aveva già avvistato il nodo che teneva tesa la corda, - Faccio subito! – annunciò impettito, sciogliendo il nodo ed osservando Gustav cadere a terra di testa il secondo successivo, producendosi in un ululato di dolore dei propri. – Oddio! Oddio, scusami! – disse preoccupato, avvicinandosi di corsa al corpo riverso in terra, - Ti sei fatto molto male?
- No, figurati… - rispose quello, ironico, - Be’, comunque sto meglio di prima. – ammise, prima di concedergli un sorriso, - Grazie.
Bill sorrise di rimando, stringendosi un po’ imbarazzato nelle spalle.
- Senti, Gustav, io dovrei arrivare al castello. Ne ho assolutamente bisogno. Non è che tu sapresti indicarmi la strada da prendere?
Gustav lo guardò per qualche secondo con aria genuinamente curiosa, prima di stringersi nelle spalle.
- Non ne ho la più pallida idea. – ammise alla fine, - Quelle, comunque, potrebbero essere un indizio. – disse, indicando con un cenno del capo due porte.
- Queste prima non c’erano… - borbottò Bill, scontento, - Qui tutto continua a cambiare senza un senso!
- Perché non è detto che ciò che vedi sia esattamente come sembra, Bill. – rispose Gustav con un sorriso sornione.
- Sì. – annuì Bill, - Sto cominciando a capirlo. Come credi si possano aprire, queste porte?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, vagamente divertito.
- Be’, ci sono delle maniglie, in fondo. – rispose.
- …e quindi? – chiese di rimando Bill, per nulla illuminato dalla rivelazione.
Gustav sospirò e lasciò scivolare un dito lungo il cerchio metallico della porta a destra.
- Le maniglie esistono per bussare, no?
*
Tom cercò di divincolarsi, ma la presa dell’uomo non si ammorbidì neanche un po’. Oltretutto, il ragazzo sospettava che continuare ad agitarglisi in grembo in quel modo potesse non essere il modo migliore per risolvere la questione: la situazione era equivoca, il sorriso e gli occhi di quell’uomo erano equivoci e, soprattutto, ciò che sentiva premere contro il sedere, oltre la stoffa dei jeans che indossava, era talmente equivoco da rasentare addirittura l’esplicito.
L’uomo gli sorrise, gli occhi stretti come due fessure e brillanti come la luce stessa del giorno.
- Sei un ragazzino davvero vivace… - commentò, sfiorandogli distrattamente una coscia, - Forse, quando sarai mio, dovrò chiamarti David.
*
Al di là della porta c’era qualcosa che somigliava moltissimo ad un bosco ma era molto più scuro, spaventoso e misterioso di tutti i boschi che Bill avesse visto in vita propria.
Non che, in effetti, ne avesse visti tanti: odiava la natura, odiava gli insetti ed odiava tutto ciò che in generale i salutisti adoravano – compreso il frinire dei grilli e l’aria pura di montagna, anzi, il frinire dei grilli gli dava il mal di testa e l’aria pura lo costringeva a giornate intere passate a letto con la febbre a quaranta; comunque, in quella foresta non c’era proprio niente di simile ai boschi che aveva visto. Non c’era luce, non arrivava neanche un po’ di sole filtrato attraverso le foglie, e l’aria era pesante ed umida come quella di una palude.
- Non credo sia stata una buona idea entrare qua dentro… - commentò Gustav alle sue spalle.
- Non avrai mica paura? – chiese Bill, di rimando.
- Paura, io? – rise Gustav, infilando le mani nelle tasche, - Assolutamente no. È solo che-
Silenzio.
- …è solo che? – chiese Bill, continuando ad esplorare l’ambiente circostante e tentando di trattenere le copiose smorfie di disgusto che affioravano alle sue labbra ogni volta che si bagnava toccando qualcosa di umido e marcio. Dalle sue spalle non giunse alcuna risposta. Si voltò a guardare. – Gustav…? – ma dietro di lui non c’era più nessuno.
*
Su uno scenario completamente differente, Georg si stava dibattendo fra le sterpaglie e le rocce nude di un bosco morto e deserto, borbottando fra sé. Quel ragazzino impossibile che non si rassegnava mai non aveva fatto altro che metterlo nei guai in milioni di modi diversi, e quella stupida faccenda dell’amicizia continuava a tormentarlo senza lasciarlo in pace neanche un secondo.
Quando sentì distintamente la voce di Bill invocare il suo aiuto, tutto ciò che riuscì a pensare fu “Arrivo!”. E non fu neanche abbastanza intelligente da tenerselo per sé, anche se desiderò vivamente di averlo fatto quando, voltandosi per ripercorrere la strada al contrario e raggiungere il ragazzo in pericolo, vide che non c’era nessun ragazzo in pericolo, ma solo David, espressione seria e braccia incrociate sul petto, che lo scrutava con aria severa.
- Dov’è che stai andando, Georg…? – chiese l’uomo, irridente.
- …naturalmente a recuperare il ragazzo per riportarlo all’ingresso del labirinto. – mentì, mordendosi un labbro, - Come da programma.
- Ah, davvero? – chiese David, insinuante, - Perché sai, avrei detto che invece tu stessi correndo in suo soccorso.
- Io? – rise lui, cercando di darsi un tono, - Ma che idee. Dopo gli ordini che mi avete dato…
- Già. – annuì il re dei goblin, - Sarebbe veramente molto stupido, da parte tua, disobbedirmi ancora.
- …già. – concordò il ragazzo, abbassando lo sguardo.
David sorrise.
- Cosa c’è, Georg? – lo prese in giro con un sorriso cattivo, - Non mi dirai che provi qualcosa per lui? Che ti sei fatto irretire da quello stupido ragazzino?
- Assolutamente no! – protestò lui, - Io non-
- Perché – precisò l’uomo, piantandogli il frustino nel petto, - non penserai davvero che un ragazzino carino come quello potrebbe interessarsi minimamente ad un rifiuto vigliacco come te, vero?
Georg abbassò lo sguardo e voltò le spalle.
- No, mio signore. – annuì alla fine.
David sorrise ancora.
- Allora…
- Vado a riportarlo all’ingresso del labirinto. – biascicò Georg, dando all’uomo le spalle e cominciando a muoversi in direzione di Bill, - Come da programma.
David annuì. Poi lo fermò, richiamandolo.
- Aspetta. – disse, mentre una sfera di cristallo appariva fra le sue mani, - Portagli questo. – ordinò, lanciando il globo. Quando giunse nelle mani di Georg, s’era già trasformato in un frutto.
- …che cos’è, mio signore? – chiese timidamente, senza sollevare il capo.
- Un presente, naturalmente. – rispose lui, sereno.
- …voi non gli fareste del male, vero? Perché io… non credo che potrei farlo.
David ringhiò e gli si avvicinò con fare minaccioso, puntandolo nuovamente con il frustino.
- Tu gli darai quel frutto, Georg, o io ti spedisco a calci nella Gora dell’Eterno Fetore, senza pensarci su neanche un momento! – lo minacciò bruscamente, - Sono stato chiaro?
- …sì, mio signore. – annuì il ragazzo, riprendendo la strada verso il proprio obiettivo.
- E… Georg? – lo richiamò un’ultima volta David, prima di sparire, - Se mai lui dovesse baciarti… ti trasformerò in un principe.
- …davvero…? – chiese lui, incredulo.
L’uomo rise.
- Oh sì, eccome. – rispose, - Anche alla Gora dell’Eterno Fetore servirà un principe, no?
*
Bill non era mai scappato strillando, da che era venuto al mondo. Be’, forse da piccolo, di fronte a qualche orrendo insetto palesemente nato per attentare al suo sistema nervoso in primo luogo ed alla sua vita in secondo, ma da quando aveva cominciato più o meno a capire cosa significasse diventare grandi, correre dei rischi e prendersi la responsabilità delle proprie azioni, Bill non era mai scappato strillando di fronte a niente.
All’interno di quel bosco, però, aveva trovato delle creature talmente spaventose – non c’era altro modo per definire quegli enormi uccelli canterini che continuavano a staccarsi teste ed arti vari ed eventuali a vicenda con lo scopo di usare le suddette parti del corpo per i più diversi tipi di sport – che fuggire strillando era diventata l’unica alternativa possibile.
Fu così che rincontrò Georg: intrappolato contro una parete rocciosa e circondato dagli uccelli canterini – che dovevano aver preso piuttosto male il suo staccare tutte le loro teste e lanciarle lontano per guadagnare qualche secondo di vantaggio nella fuga – stava già cominciando a chiedersi quanto fosse doloroso morire per mano di uno stormo di pennuti quando una corda discesa dall’alto lo colpì sulla testa. Sollevò lo sguardo e lì c’era Georg.
- Afferrala! – disse spiccio il ragazzo, mostrandogli la corda ben assicurata contro uno sperone.
Bill non se lo fece ripetere due volte e, per quanto le sue doti fisiche fossero decisamente scarse, la paura irrazionale che provava in quel momento – paura di perdere la vita, di non ritrovare Tomi, di non riuscire a tornare a casa – ebbe un effetto più che benefico sulle sue doti di scalatore, perché meno di un minuto dopo si ritrovava in alto, lontano dai pennuti, a stringere le braccia attorno al collo di un Georg mortalmente imbarazzato.
- Sei tornato! Sei venuto ad aiutarmi! – strillò commosso, saltellando sul posto, - Sapevo che non potevi essere del tutto cattivo! – e, così dicendo, in maniera del tutto naturale e inaspettata, sporse le labbra verso la sua guancia.
- No! – cercò invano di trattenerlo Georg, - Cosa fai?! Non baciarmi! – ma fu del tutto inutile: quando le sue labbra sfiorarono la guancia liscia del giovane, sotto di loro si aprì un baratro e scivolarono per metri e metri, rotolando fra le sterpaglie, fino ad una parete rocciosa che dava su una disgustosa palude di melma.
Riuscirono a salvarsi solo perché Georg ebbe la prontezza di spirito di afferrare uno spuntone che fuoriusciva dalla parete, prima di cadere nella palude, e Bill riuscì a frenarsi un attimo prima di franargli addosso.
- …oddio… - si lamentò, cercando di non respirare quando il puzzo incredibile che si sollevava dall’acqua raggiunse le sue narici, - Ma che posto è questo?
Georg deglutì.
- La Gora dell’Eterno Fetore.
- Dio mio, è veramente disgustoso! – commentò Bill, tirando su il ragazzo finché non si fu assicurato allo stretto corridoio di pietre che costeggiava la fiancata dello strapiombo.
- Dobbiamo… uscire immediatamente da questo posto. – lo avvisò il ragazzo, cominciando a spingerlo lungo il sentiero, - Certo che, anche tu, dovevi proprio baciarmi?!
- Aaah, poche storie! – rise Bill, - Tanto lo so che sei tornato indietro per aiutarmi! E perché siamo amici!
- Nella maniera più assoluta, no! – precisò lui, adirato, - Sono tornato indietro solo per darti questa! – borbottò, ficcando una mano in tasca ed armeggiando alla ricerca di qualcosa. Sfortuna volle che il suo armeggiare, però, avesse luogo proprio mentre la pietra sulla quale si trovava si decideva a porre fine alla propria vita, sfaldandosi in mille pezzi. Nel momento in cui Bill se ne accorse ed allungò un braccio per aiutarlo, anche la sua pietra cedette, ed in breve si ritrovarono entrambi a cadere verso il basso, strizzando gli occhi per la paura di finire proprio in quell’acquitrino disgustoso dal quale proveniva l’olezzo pungente che impregnava l’aria.
- Oh… cazzo! – sbottò invece la persona sulla quale caddero.
Bill sollevò lo sguardo, cercando di riprendersi dalla caduta.
- …Gustav! – disse, saltando anche al collo di quest’ultimo ma evitando inappropriati baci, visto che quello che aveva rifilato a Georg sembrava essere il motivo della loro presenza in quel luogo osceno, - Ma allora sei ancora vivo!
- Dannazione, sì che lo sono! – biascicò il biondo mentre si tirava in piedi, - Sono caduto in una dannata trappola, in quella foresta! – poi il suo sguardo dardeggiò su Georg, che si stava a propria volta risollevando a qualche passo da lui. – E quello chi sarebbe?
- Lui è Georg, - lo presentò Bill con un sorriso, - è un amico anche lui!
- La vogliamo piantare con questa storia degli amici?! – si lamentò il ragazzo, spolverandosi i pantaloni. – Piuttosto: là c’è un ponte. – dichiarò, indicando un punto qualche metro più in là, - Probabilmente porta all’uscita.
Bill annuì ed i tre si incamminarono verso l’unica via di salvezza cui potessero pensare, ma una volta giunti di fronte al ponte, appena provarono a metter piede sull’instabile asse di legno che lo componeva, una voce tonante li fermò.
- Altolà. – disse la voce, e da dietro un albero venne fuori un uomo altissimo e dalla pelle scura, ricoperto di tatuaggi, - Non potete passare. – disse, frapponendosi fra i tre disperati e la libertà.
- Oh, balle! – ringhiò Georg, facendosi avanti e dimenticando perfino di essere un vigliacco, in virtù della puzza, - Noi dobbiamo uscire di qui! Non si respira!
- Nessuno passa di qui senza il mio permesso. – precisò l’uomo, - Il mio nome è Bushido e sono il guardiano di questo ponte. E quelli sono gli ordini.
Gustav gli si parò davanti. Doveva essere alto più o meno la metà dell’uomo, e non era largo nemmeno il doppio.
Bill li osservò prendersi a cazzotti per molti minuti. Perfino con un certo divertimento.
*
Un attimo prima di abbandonare la palude – dopo una scenetta delirante quanto deliziosa durante la quale, dopo aver stabilito di essere entrambi ugualmente bravi a fare a botte, Bushido e Gustav s’erano autoproclamati rispettosamente l’uno il fratello di sangue dell’altro – Georg aveva accarezzato l’ipotesi di prendere il frutto e buttarlo nella melma. Questo l’avrebbe probabilmente condannato a qualcosa di perfino più spiacevole della Gora, ma almeno gli avrebbe impedito di fare del male a Bill.
La voce di David, risuonando nella sua testa, gli aveva consigliato di non compiere gesti avventati, però. E così lui non ne aveva compiuti.
Dopodiché, era venuto fuori che Bushido non solo sapeva come uscire dalla Gora, ma, a quanto diceva, anche come giungere al castello. Bill non era stato per nulla in grado di trattenersi: gli era saltato al collo, l’aveva ricoperto di baci un po’ ovunque, aveva raccontato la triste storia del suo fratellino rapito ed il danno era stato fatto. Bushido promise di portarli tutti al castello entro il sorgere del sole e li obbligò ad una marcia serratissima attraverso un bosco molto più fitto ma, per fortuna, anche molto più luminoso di quello in cui Gustav era sparito ore prima.
Dalla propria stanza del trono, David osservava tutto questo continuando a stringere Tom fra le braccia, pressandoselo addosso in un’esplicita tortura.
- Guarda quanta pena si dà per te… - commentò, sfiorandogli una guancia con due dita, - per un fanciullo così piccolo come te… - aggiunse, con un sorriso pericoloso, - Ma presto tutto questo finirà. – annuì compiaciuto, - Non appena Georg gli darà il mio regalo, Bill dimenticherà tutto… anche di te.
Sotto il bavaglio, Tom avrebbe voluto mordersi un labbro; ma non ci riuscì.
*
- Sì, però io sto morendo di fame. – si premurò di far sapere al mondo Gustav mentre incedeva fiero al fianco di Bushido, che gli ricordava quanto fosse in effetti poco virile andare in giro borbottando cose simili.
- Un guerriero soffre in silenzio. – disse l’uomo, seriamente, e Bill si ritrovò a chiedersi quando fosse diventato un guerriero; se per caso le botte a scuola facessero di lui un guerriero; e soprattutto… se davvero valesse tanta pena un fratello che, chiacchierando al telefono col proprio migliore amico, parlava di quanto migliore sarebbe potuta essere la sua vita se lui non fosse esistito affatto.
Il suo stomaco brontolò proprio nel mezzo di questi allegri pensieri, e Bill rilassò le spalle, sconsolato.
- Ho fame anche io… - borbottò incerto, - Ma non possiamo fermarci.
Georg si fece avanti con un paio di colpi di tosse per schiarirsi la voce.
- Bill… io avrei… - sospirò, prima di tirar fuori dalla tasca una bellissima pesca dal profumo squisito, - questa. – sussurrò, porgendogli il frutto.
Bill spalancò gli occhi – le voci di Gustav e Bushido, ancora impegnati a discutere della mascolinità dell’appetito, erano ormai lontane.
- Georg! – disse entusiasta, - Tu sei un salvavita! – e, così dicendo, addentò la pesca.
*
E poi fu come precipitare in un sogno.
Un incredibile senso di spossatezza lo colse, e riuscì appena a cogliere l’immagine di Georg che si allontanava biascicando “cosa ho fatto…?”, prima di lasciarsi ricadere esausto contro un albero e scivolare lungo il tronco fino a terra, mentre miriadi di bolle di sapone – ognuna con dentro un sogno diverso – lo circondavano e gli annebbiavano la vista.
Nella più grande, nella più bella, nella più luminosa di tutte c’era una chiassosa festa danzante, decine e decine di invitati a ridere e divertirsi, e Bill poteva vedere anche un altro se stesso, no, non era un altro se stesso, era proprio lui, là, in mezzo a tutta quella gente, completamente vestito di bianco e luccicante come una stella, farsi strada fra le miriadi di persone mentre da un lato all’altro della stanza rimbalzava l’immagine di quell’uomo, David.
Stretto fra le sue braccia, suo fratello. Sembrava completamente incosciente: i suoi occhi – solitamente così luminosi – erano vuoti e spenti, la sua bocca piena era coperta da un bavaglio e le mani erano assicurate dietro la schiena con una corda d’oro zecchino.
David lo cullava teneramente, danzando con lui e stringendolo alla vita, pressandoselo contro, e suo fratello non reagiva; David lo sfiorava con la punta del naso e con le labbra ma non lo toccava mai sul viso, anche se tutto il resto del suo corpo era così vicino a quello di suo fratello da confonderli quasi l’uno per l’altro.
Bill annaspò: non voleva vedere Tomi in quelle condizioni, non voleva vederlo fra le mani di quell’uomo, non a causa sua, doveva salvarlo, doveva assolutamente salvarlo, e poi David scomparve e Tomi con lui, e quando Bill sentì la presenza di quegli occhi di ghiaccio contro il collo e si voltò a guardare, David era tornato ma Tomi non era con lui.
- Dov’è- - provò a chiedere, spaventato, ma l’uomo gli posò un dito sulle labbra. Non gli ordinò di stare zitto, ma fu come l’avesse fatto: il fiato volò via e ciò che rimase del suo raziocinio lo seguì quando le braccia forti di David si chiusero attorno alla sua vita e lo strinsero violentemente.
E poi fu lui a danzare.
*
Quando si risvegliò era molto confuso. Aveva una pesca marcia fra le mani – la gettò via con disgusto non appena vide venirne fuori un vermicello dall’aspetto orrendo – e si trovava in un luogo mai visto prima – una discarica colma di oggetti, cianfrusaglie di ogni tipo confuse e mescolate fra loro fino a non riuscire a distinguere cosa fosse cosa in precedenza.
- Vuoi scendere dalla mia schiena?! – disse una vocetta nasale proveniente dal mucchio di cianfrusaglie sotto di lui. Bill si lasciò scivolare a terra e, quando si voltò, si ritrovò di fronte un ometto dalla faccia vagamente allungata – gli ricordava un po’ un topolino – con dei ridicoli baffetti sotto il naso. – Be’? – disse l’ometto, - Cos’hai da fissare?
- Io… non lo so… - rispose sinceramente Bill, passandosi una mano sulla fronte, - Io credo… stavo cercando qualcosa…
- Oh, eccome se stavi cercando qualcosa! – annuì l’altro, rovistando in una borsa che portava a tracolla lungo un fianco, - Ecco quello che cercavi! – disse, tirandone fuori il suo orsetto, - È il tuo Lancillotto, giusto? – chiese con un mezzo sorriso.
Bill prese l’orsacchiotto fra le mani e sorrise a propria volta.
- Sì, è lui, è… che assurdità, avevo dimenticato di stare cercando proprio lui… - aggiunse con una risatina.
L’omino annuì.
- Dunque, già che ci sei… - suggerì, scortandolo verso una tenda, - perché non dai un’occhiata qua dentro e vedi se per caso c’è qualcos’altro che ti interessa?
Bill lo seguì e, quando oltrepassò la soglia dell’ambiente, vide finalmente la prima cosa familiare su cui posasse gli occhi da ore: la propria camera. Perfettamente identica a come l’aveva lasciata: i letti, il disegno di Topolino sulla parete, e tutti i giocattoli della sua infanzia al loro posto. Stringendo al petto Lancillotto, in un impeto di commozione, si gettò sul letto e chiuse gli occhi. Poi si rigirò sul materasso e, quando fu di nuovo supino, tornò a guardare il soffitto.
- È stato solo un sogno… - si disse, rimettendosi seduto fra le lenzuola, - Lancillotto, puoi crederci…? È stato tutto solo un sogno… - scese con un saltello giù dal letto e si diresse verso la porta, per controllare se sua madre e Gordon fossero tornati.
Ma quando mise la mano sulla maniglia, non ebbe neanche il tempo di girarla che la porta si spalancò sullo stesso omino baffuto di prima.
- Resta qua dentro, ragazzino, non c’è proprio niente per te, là fuori. – disse l’omino annuendo e chiudendosi la porta alle spalle, - Tutto ciò che ti serve è qua dentro. – continuò, scortandolo verso la sedia di fronte alla scrivania ed aiutandolo a sedersi, - Vedi? Tutti i tuoi giocattoli, tutto ciò che per te abbia avuto un valore, è qui dentro. C’è anche la Barbie Sirena che hai perso, la ricordi? Ecco qui. – aggiunse, consegnandogli la bambola fra le mani, mentre lui squadrava il tutto con aria assente. C’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che non riusciva a capire, che non riusciva a ricordare, eppure sembrava importante, perché era come gli mancasse un pezzo di cuore.
Lasciò scorrere lo sguardo sulla scrivania e gli occhi si posarono su un libro dalla copertina morbida e rossa. Labyrinth. Lo conosceva, era il suo libro preferito, lo sapeva praticamente tutto a memoria. Lo aprì ad una pagina a caso e cominciò a leggere automaticamente, ad alta voce.
- Con rischi indicibili… - disse in un sussurro, - e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin, per riprendere… - s’interruppe e spalancò gli occhi, - …per riprendere il ragazzo che tu hai rapito! Tomi! – saltò in piedi, ricordando, - Mio fratello! Io devo salvare mio fratello!
- Bill! – strillarono due voci conosciute, ed il ragazzo sollevò gli occhi proprio mentre, tutto intorno a lui, le pareti di quella stanza finta cedevano mattone dopo mattone, rivelandosi inconsistenti come farina, sfaldandosi senza nemmeno un tocco.
Bushido e Gustav si affacciarono fra le macerie, tendendogli ognuno una mano.
- Ci chiedevamo dove fossi finito! – disse il biondo, mentre l’uomo più alto lo aiutava a riaffiorare in superficie, - Siamo quasi arrivati al castello!
- Davvero?! – s’illuminò Bill, speranzoso.
Bushido sorrise trionfante.
- Ebbene sì! – disse orgoglioso, indicando poco distante, - Siamo alle porte della città di Goblin.
*
Non fu difficile entrare all’interno della città – la guardia non guardava proprio un bel niente, anzi, dormiva in piedi, e per scostare le porte bastava spingerle; più difficile fu farlo in silenzio, dal momento che, appena giunti di fronte al cancello, Bushido aveva cominciato a strillare oltraggiato chiedendosi dove fosse finita la cavalleria se, dopo aver bussato più e più volte, nessuno veniva ad aprire e bisognava, in sostanza, fare tutto da soli. Ci volle una grande inventiva – e che Bill prendesse una mira un po’ particolare per i propri baci – per riuscire a far tacere il valoroso guerriero abbastanza a lungo da introdursi all’interno della cittadina.
Fu qui che vennero improvvisamente attaccati da un enorme robot gigante, dall’aria antica ma piuttosto funzionale. Sembrava più che altro un’armatura indossata da un essere veramente gigantesco, ma il punto non era tanto cosa fosse quanto più il fatto che possedesse un’ascia e, in quanto possessore di tale arma, andasse temuto.
Bushido gli diede della caffettiera e lo sfidò a duello. Questo lo irritò molto.
Sarebbero probabilmente finiti tutti molto ma molto male, se in quel momento, dalle mura superiori, non fosse arrivato Georg, correndo come un pazzo e gettandosi addosso al robot per poi afferrarne la testa metallica fra le mani e scardinarla con la forza di un vichingo, gettandola a terra.
A manovrare il bestione era in realtà una bestiolina: un goblin dall’aspetto piuttosto ridicolo. Georg prese fra le mani e scardinò con la forza di un vichingo anche lui.
- Ed ora tocca a me! – disse il ragazzo, prendendo possesso dei comandi del robot, - Vediamo come si guida quest’affare.
A guidarlo non riuscì affatto; in compenso, fu tanto bravo da incastrare l’ascia fra due pietre sopra le testa del robot, e continuò a maneggiare convulsamente tutti i pulsanti, le manopole ed i timoni che gli capitarono sottomano, finché l’enorme armatura non si accasciò priva di vita su se stessa, vittima di un banalissimo quanto ridicolo corto circuito.
Georg venne fuori stremato dalle lamiere, e la prima cosa che fece fu lasciarsi cadere a terra.
La seconda, cercare gli occhi di Bill, che si inginocchiò immediatamente al suo fianco.
- Non chiedo il tuo perdono. – disse il ragazzo, abbassando lo sguardo, - Non mi vergogno di averti dato quella pesca. Erano gli ordini di David, ed io ti avevo avvertito di essere un codardo. Oltretutto, non ho nessun interesse nelle amicizie, e-
- Ma io ti perdono. – disse Bill con un sorriso.
Georg tornò a guardarlo, gli occhi liquidi e persi.
- …davvero?
Bill annuì.
- Certe volte, le cose giuste sono giuste davvero.
*
All’interno del palazzo regnava il silenzio più totale. Di David – e di Tom, naturalmente – non c’era nessuna traccia. Entrare era stato perfino troppo facile, un po’ come se David si aspettasse davvero il suo arrivo ed un po’ anche come se avesse la certezza che comunque non sarebbe mai riuscito a trovarlo.
Mancavano ormai pochi minuti allo scoccare della tredicesima ora. L’unica via da seguire era una scala che partiva dalla sala del trono – immersa nel caos come fosse stata abbandonata in fretta e furia – e si perdeva in alto, chissà dove.
Bill si morse un labbro.
- Non possono che essere andati di là. – rifletté ad alta voce.
- Bene, allora. – disse Bushido, già sul piede di guerra, - Che stiamo aspettando?
Bill si voltò a guardare quegli strani compagni di viaggio che, nel bene e nel male, fra bassi ed alti di vario genere, gli erano stati accanto, e sorrise.
- Mi avete permesso di arrivare fino a qui, e per questo vi sarò sempre riconoscente… - disse sereno, - Ma questa è una cosa che devo fare da solo.
Georg si irrigidì.
- Ma… - provò a protestare, ma Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Se è così che devi farlo, - disse serio, annuendo nei confronti di Bill, - allora è giusto che tu lo faccia così. Sei un valoroso. E te la caverai egregiamente.
Bill sorrise ancora.
- …per qualsiasi cosa dovesse servirti… - disse Georg, abbassando timidamente lo sguardo.
Bill annuì.
- Conterò sempre su di voi.
*
La scala si perdeva nel nulla. In una distesa di macerie scomposte che un po’ facevano da pavimento ed un po’ volteggiavano minacciose nell’aria, quasi volessero caderti sulla testa da un momento all’altro.
Quasi proprio volessero ricordarti quello che la vita in fondo è sempre: un pericolo costante, quello di venire schiacciati da qualcosa di troppo grosso rispetto al peso che si può reggere.
Suo fratello, imbavagliato e privo di conoscenza, volteggiava proprio assieme ad una di quelle macerie, a qualche metro da lui. Fra Bill e il suo obiettivo, però, c’era ancora David.
L’uomo lo fissava incattivito, gli occhi sottili come quelli di un gatto e le braccia rigide lungo i fianchi.
- Ridammi mio fratello. – disse fermamente Bill, senza perdersi d’animo.
David ringhiò, facendoglisi più vicino.
- Non sfidarmi, Bill. – sibilò ad un centimetro dal suo volto, - Sono stato molto generoso, fino ad adesso, ma posso essere anche altrettanto crudele, quando voglio.
- Generoso, tu…? – ritorse Bill con un sorriso stremato, - E quand’è che lo saresti stato?
- Sempre! – replicò David girandogli intorno come un predatore, adirato, - Hai voluto che rapissi tuo fratello, l’ho rapito! Mi sono fatto sempre più terrificante vedendo quanto ti facevi piccolo e spaventato ogni volta che mi vedevi, ed ho sovvertito l’ordine del tempo, di un intero mondo!, solo per seguire esattamente i tuoi desideri, Bill. – si fermò di fronte a lui, sollevando una mano e sfiorandogli teneramente una guancia. – Non lo vedi…? Sono sfiancato dal mostrarmi sempre proprio come tu mi desideri, Bill.
Rosso d’imbarazzo, messo a disagio da un tocco che non avrebbe mai immaginato così caldo, Bill deglutì. Quell’uomo gli offriva un sogno, non aveva fatto altro che offrirgli il suo sogno perfetto da quando aveva messo piede nel suo mondo…
…ma suo fratello era lì a causa sua. E Tomi era troppo importante – troppo più importante del resto – per dimenticarlo. O per preferirgli uno stupido sogno. I sogni potevano tenergli compagnia durante la notte, ma per tutto il resto della sua vita sapeva che, se avesse dovuto scegliere qualcuno cui affidarsi completamente, quel qualcuno non sarebbe stato il re dei goblin, ma il proprio fratello.
Socchiuse gli occhi e poi li riaprì con decisione, cercando di ignorare le sensazioni che la mano di quell’uomo provocava in lui scorrendogli lungo la pelle del collo.
- Con rischi indicibili e traversie innumerevoli, - cominciò a recitare, - io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin. – deglutì, - Per riprendere il ragazzo che tu hai rapito. La mia volontà è forte come la tua, ed il mio regno altrettanto…
- Bill, non farlo. – lo interruppe l’uomo, stringendo la presa della mano attorno alla sua spalla, - Lascia solo che io ti domini, e potrai avere tutto quello che desideri. Io ti darò tutto quello che desideri.
Bill chiuse gli occhi ed andò avanti.
- …il mio regno è altrettanto grande.
- Non hai che da temermi! – ringhiò David, stringendo fino a fargli male, - Temermi, amarmi e fare tutto ciò che ti dirò. Ed io diventerò il tuo schiavo.
Bill si concesse un mezzo sorriso, prima di riaprire gli occhi. Ed andare ancora avanti.
- Il mio regno è altrettanto grande. – ripeté. – Tu… - sospirò, - tu non hai nessun potere, su di me.
E poi fu di nuovo come precipitare in un sogno. Però al contrario.
*
Spalancò gli occhi sul buio del proprio salotto, ansimando forte. C’era qualcosa che decisamente non andava nei suoi pantaloni ed era del tutto assurdo sentirsi così eccitati dopo un sogno simile, ma aveva poco da fare se non prenderne atto e rendersi conto di non essersi mai mosso da quel divano. Probabilmente neppure per provare a fare la pace con Tomi, come dimostrava il libro di Labyrinth ancora aperto a metà sulle sue ginocchia.
Posò il libretto sul cuscino accanto a sé, stiracchiando le gambe e soffrendo con le sue povere giunture che, piegate per tutto quel tempo, sembravano essersi completamente raggrinzite, e sembravano anche bene intenzionate a non sgranchirsi in tempi brevi.
Zoppicando un po’, si avvolse meglio nella coperta e si diresse verso le scale, chiamando suo fratello.
Si incontrarono sul pianerottolo, e si guardarono a lungo. Ad entrambi, però, basto un solo secondo per capire che era successo di nuovo.
- Bill, ma che razza di sogno hai fatto…? – commentò suo fratello con un mezzo sorriso incredulo, - A parte il fatto che c’era gente assurda, permettimi di protestare: mi hai fatto rapire dal re dei goblin! – rise, - Peraltro… un pervertito mica da poco.
Risero insieme per molti minuti, seduti sulle scale. Lì, ancora intenti a commentare i dettagli del sogno, li ritrovarono Simone e Gordon quando tornarono, a mezzanotte precisa. In perfetto orario.
*
Quando, in rapida successione, i gemelli conobbero Georg e Gustav, Simone disse che sembrava quasi che il Destino si stesse preparando a fare qualcosa di veramente grande per loro.
Nessuno si stupì quando David Jost, inviato dalla Universal, propose ai ragazzi un contratto per il loro primo disco. Nessuno si stupì perché era davvero un sacco di tempo che quella Simone diceva che i suoi figli erano davvero destinati a qualcosa di enorme.
Era giusto non stupirsi. Ma quello era il motivo sbagliato.
Bill continuava a dire di averlo visto in sogno, tutto quello.
E Tom gli dava man forte dicendo che l’aveva visto anche lui.
Quando, un giorno, dal nulla, Bill sorrise furbo al proprio benefattore e gli disse “tu… non hai nessun potere, su di me”, David Jost non capì. Si offese pure, in realtà. Non che chiedesse di avere chissà che potere sui loro corpi e sulle loro anime, ma non era mica tanto gentile quel frugoletto coi capelli neri come petrolio e sparati in aria come schegge di vetro, che si presentava così dal nulla a dirgli “tu non sei nessuno”.
David non capì e si offese.
Geog e Gustav non capirono e si chiesero se per caso Bill non avesse intenzione di sabotare la band prima ancora che riuscissero a produrre il disco.
Tom, però, scosse rassegnato il capo e gli sorrise, complice. Questo, per Bill, era più che sufficiente.
Genere: Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: OC.
- Durante i concerti dei Tokio Hotel, Bill Kaulitz ha l'abitudine di invitare una ragazza dal pubblico a salire sul palco per cantare con lui una parte di una canzone. Ogni tanto, però, le cose vanno esattamente nel modo più inopportuno possibile.
Note: Questa storia è gloriosamente dedicata principalmente a Gra e Fae, la prima perché ha partorito l’idea e la seconda perché ci ha seguite nel plottaggio folle che ne è poi derivato XD Vi amo, donne <3
Io, palesemente, amo questa storia. Riesce ad essere a mio parere compiuta nonostante la brevità indecente. Cosa ancora migliore: la brevità indecente era condizione necessaria per partecipare alla V Minidisfida del sito Criticoni *_* C’era un limite massimo di 2000 parole e sono riuscita a scrivere tutto senza sforare. Sono molto commossa. E Victor è, tipo, uno dei personaggi originali più carini che abbia mai partorito XD Grazie per la lettura e grazie altrettanto se vorrete lasciare un commento <3
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INSTANT KARMA

Dunque, io a Martha voglio bene, eh. D’accordo, okay, magari non la amo, ma voglio dire, ho diciott’anni, amo solo la mia Wii, è l’unica cosa al mondo per la quale sarei disposto a rischiare la vita, perciò non rompetemi le palle se dico che non la amo, anche se lo so che lei mi adora. È che lei ha sedici anni, è normale che veda solo me nel mondo, esattamente come io vedo solo la Wii. Intendo, rientra nell’ordine naturale delle cose, non c’è niente per cui io debba sentirmi in colpa, anche perché, ammettiamolo, con lei sono delizioso. Tipo, quando è venuta a casa mia con suo fratello minore e mi ha chiesto di prestare al mostriciattolo la Wii così da farci lasciare un po’ in pace, io l’ho fatto, anche se, mettendo su due piani limonare con lei ed impedire a quel poppante di distruggermi la consolle, avrei decisamente preferito la seconda opzione. Però sono un ragazzo adorabile e non ho fatto storie.
Stavolta il sacrificio è stato anche emotivamente più pesante, volendo metterla in termini che a Martha piacerebbero moltissimo. Insomma, quando si è presentata al mio cospetto con due dannati biglietti già acquistati e quegli enormi occhioni verdi spalancati, mugolando “Avanti, Victor, è solo un concerto! Ti prego, accompagnami!”, io non me la sono sentita di dirle no. Anche se odio visceralmente i Tokio Hotel – non per altro: ne parlano tutti senza un effettivo perché – il loro cantante mi fa impressione e, per il resto, non potrebbe fregarmene di meno di passare otto ore fra fila e concerto in mezzo a vagonate di preadolescenti in minigonna e top che sperano di farsi vedere dal loro amore sul palco.
Okay, d’accordo, forse la questione delle minigonne e dei top – in mancanza di una Wii con cui giocare mentre aspetto che lo strazio si concluda – ha influito sulla mia decisione, ma posso ragionevolmente dire con una certezza di circa il 90% di aver accettato principalmente perché voglio bene a Martha e sono un bravo ragazzo. Oh.
Al momento siamo schiacciati fra la transenna e il resto del mondo. La maggior parte delle mie ore di dramma umano s’è già consumata, intorno a me le ragazze hanno pianto, si sono strappate i vestiti di dosso, hanno avuto un orgasmo spontaneo quando il chitarrista con dei capelli che Tarzan preferirebbe alla solita liana ha spruzzato loro addosso dell’acqua da una bottiglietta e, soprattutto, hanno lanciato sul palco ogni genere di suppellettile, dai reggiseni alle mutandine ai peluche passando per pacchetti di caramelle, lettere avvolte in buste profumate e confezioni formato famiglia di preservativi – che il suddetto chitarrista ha raccolto con evidente compiacimento e infilato in una delle tasche di quegli enormi sacchi che indossa al posto dei jeans con un sorrisetto che non lasciava presagire proprio niente di buono a livello generale.
L’incubo Burtoniano che regge il microfono nel centro del palco adesso sta parlando. Io sono riuscito, dopo circa un’ora, ad identificare le frequenze della sua voce ed escluderle dalla mia capacità di percezione sonora, quindi non lo sto a sentire. Le ragazze intorno a me strillano e saltellano, Martha mi si attacca al braccio brillando di fanatismo ed io sbadiglio sonoramente, grattandomi pigro la nuca.
E poi accade.
L’incubo Burtoniano comincia a zompettare, coordinato come uno struzzo al pascolo, dal un lato all’altro del palco. Si china ed osserva il suo pubblico con aria critica. Non ho idea di cosa stia facendo. Mi fa pure un po’ impressone, in realtà. Sta palesemente scegliendo una vittima. Al che comincio a chiedermi: ma non è che il mega-pacco di preservativi se lo dividono, i due gemelli mica-tanto-gemelli? No, perché la cosa apre prospettive inquietanti. Nel senso: l’incubo Burtoniano scopa? Cioè, no. non è possibile. E se lo fa, con chi o cosa? Non voglio saperlo.
Insomma. A un certo punto si ferma e comincia a squittire. Non è un suono cui sono preparato, intendo, non è la sua voce, perciò lo intercetto. Squittisce, fa squit, proprio, e si ferma. E lo vedo che comincia a gesticolare. Prima richiama l’attenzione di uno degli addetti alla security e poi gesticola. Nella mia direzione.
Mi rifiuto. Mi guardo intorno. A parte Martha, sono circondato da cessi. Questo mi fa venire in mente una cosa che la stessa Martha mi ha detto, cioè che l’incubo Burtoniano tira sul palco solo esseri dalla forma vagamente antropomorfa ma che non puoi mai spacciare per reali esseri umani. Mostri, in sostanza. Ho accanto un essere che risponde in pieno alla descrizione, è alta un metro e un tappo, ha degli insopportabili capelli rossi e crespi sparati per aria, è pallida come un cencio e ricoperta di efelidi. Dev’essere lei l’obiettivo. È lei. È lei, vero?
Vengo prelevato da due mani maschili grandi quanto due cerchioni d’auto, non più di tre secondi dopo. Non sono esattamente un fuscello – okay, d’accordo, magari non sono neanche tutto questo fulgido esempio di robustezza, però insomma – ma vengo sollevato lo stesso con una facilità impressionante. La cosa successiva di cui mi rendo conto è che sono sul palco. Cioè, sul palco. Plano sulle tavole e gli anfibi fanno un rumore intollerabile, lo sento nonostante la musica, che continua miracolosamente.
L’incubo Burtoniano mi fissa. E così mi fissano pure tutti gli altri: mi fissa il chitarrista – che per questo suo fissarmi perde una serie infinita di note, me ne accorgo anch’io che la canzone non la conosco – mi fissa il bassista – che però di note non ne perde – e mi fissa anche il batterista, e come mi fissano loro mi fissa anche tutto il resto del mondo e buona parte dell’universo, comincio a sospettare. Mi auguro stia guardando anche Dio, e non gli sia sfuggita la pesante imprecazione che gli ho telepaticamente inviato.
L’incubo mi fissa, appunto, e ha smesso di cantare già da un pezzo. Ha uno sguardo allucinato che mi fa una paura bestia. “Bill!” lo chiama la liana vivente a qualche metro da noi, e l’incubo si riscuote all’improvviso e riprende lentamente a cantare. Non sembra granché convinto. Mi fissa con aria inquisitoria e non so cosa stia cercando di dirmi. Io non capisco nemmeno perché sono qui, cazzo, io dovrei trovarmi là sotto, in mezzo al pubblico, cosa sto facendo qua sopra, cosa?!
Mi si avvicina qualcuno, da dietro. Panico. Non mi sento al sicuro, su questo palco. È il bassista che mi sibila “canta”, e lo sibila in tono accusatorio, come fosse ovvio e naturale che ogni persona vivente conoscesse le parole di questa stracazzo di canzone melensa che stanno suonando. Non ho idea di cosa vogliano da me! Cantare? Ma cosa?! Io non lo conosco, questo testo, e soprattutto non voglio cantare col nipote di Burton in vacanza-studio in Germania!
Dolore e sofferenza. Resto qui in piedi nel centro del palco come un citrullo. Intorno a me si sviluppa una realtà alternativa in cui io non esisto: vengo ignorato, l’incubo riprende a muoversi per tutto il palco con la grazia di un elefante sulle punte, fingendo di cantare cose che io non sento perché ho ripreso a fare selezione all’ingresso in fatto di suoni, e, in generale, il mondo – compresa Martha, che non riesco più a vedere – ignora la mia esistenza, riprendendo il proprio normale corso mentre io resto qui, disperato, e non so che fare.
Almeno fino a quando, guardandomi intorno con aria persa, non colgo un uomo sulla trentina che si sbraccia col rischio di slogarsi una o più spalle, cercando di attirare la mia attenzione. Mi muovo con circospezione cercando di raggiungere il backstage senza che nessuno mi noti, riesco ad inciampare ovunque nel tentativo ma mi ignorano tutti lo stesso. Magari sono diventato invisibile e l’unico che riesce a vedermi è il tizio di cui sopra.
Tizio che, peraltro, quando arrivo dietro le quinte comincia a darmi addosso.
- CHI SEI?! – strilla, utilizzando una quantità di decibel palesemente superiore rispetto a quella consentita dalla legge, - PERCHÉ SEI QUI?! COSA VUOI?!
Mi faccio forza per non urlare a mia volta “CAZZO NE SO, ME LO SPIEGHI UN PO’ LEI!”, e mi esibisco in un sorriso gentile e un po’ colpevole che, fossimo in un film, da solo varrebbe un Oscar.
- Io veramente- - comincio, con tutte le buone intenzioni del mondo, ma quello mi zittisce ricominciando a strillare.
- Non mi interessa! – sbraita, agitando le braccia con aria invasata, - Resta qui e sta’ zitto, fatti minuscolo, diventa invisibile!, qualsiasi cosa, non m’interessa, purché tu non rompa le palle!
In questo preciso istante – cioè, mentre lui mi sta ricoprendo d’improperi neanche fossi stato io a salire su quel dannato palco di mia spontanea volontà – lo chiamano.
- Signor Jost! – dicono, - Il concerto è appena finito e… c’è stato un disastro!
Il disastro, vengo a sapere poi, si è compiuto perché, a fine concerto, un gruppo di ragazze ha letteralmente abbattuto le transenne ed invaso la piazzola antistante il palco. Sento urlare parole sconnesse, questo Jost diventa improvvisamente una statua di sale e poi comincia a dare direttive in giro neanche fosse un generale dei marines, e tutto quello che so, dopo, è che mi ritrovo improvvisamente circondato da gente che mi spintona da un lato e dall’altro strillando “in fretta! Più in fretta! Verso il tourbus!”.
Non ho la minima idea di cosa mi stia capitando. Sono perso in un delirio cosmico. Il mio karma si sta ribellando contro di me. Giuro che non volevo affogare il criceto di mia sorella nel cesso, quando ero piccolo. È stato un terribile malinteso.
- Signor Jost! – strillo anch’io quando, nel mezzo del disastro, riesco ad intravederlo, - Io dovrei tornare da-
- Tu vieni con noi! – abbaia, afferrandomi per il cappuccio della felpa e trascinandomi dietro di sé, - Non posso mica passare di fronte all’entrata dello stadio e lasciarti lì!
Non capisco perché non possa, in realtà. E sono lì per dirglielo, anche, quando usciamo nel parcheggio e vedo in che condizioni è effettivamente l’ingresso dello stadio: ci saranno almeno tremila ragazze assiepate l’una sull’altra che strillano e piangono e si contorcono e Dio mio, è uno degli spettacoli più spaventosi ai quali mi sia mai capitato di assistere. Comincio a seguire il signor Jost di mia spontanea iniziativa, giusto per non intralciarlo mentre, palesemente, mi salva la vita.
Quando salgo sul tourbus, mi guardo intorno con aria smarrita. Qui si sta mettendo male, questo è evidente, ma il solo pensiero di tornare in mezzo al marasma mi terrorizza, sono ancora troppo giovane per morire e dubito che l’idea mi stuzzicherebbe anche se avessi una cinquantina d’anni, perciò resto buono e zitto e seguo il consiglio di Jost. Invisibilità. Io non esisto.
Mi seggo in un angolo e lì resto.
Il mondo torna ad accorgersi di me quando siamo già in autostrada. E ci siamo da una ventina di minuti buoni, almeno. L’incubo Burtoniano – uscito adesso dal bagno con un turbante di spugna in testa e una faccia da diva annoiata che ispira violenza come nient’altro al mondo – mi nota. Mi fissa. Mi scruta.
Mi fa una paura boia.
- Tu cosa saresti, esattamente?
Sono le uniche parole che mi dice. Ritengo di avere il diritto di rispondergli “potrei chiederti lo stesso” ma, l’ho già detto, sono un bravo ragazzo. Perciò taccio.
Vengo scaricato dieci minuti dopo ad una stazione di servizio nel bel mezzo del nulla. Jost mi ha consegnato personalmente venti euro e mi ha detto “cerca di arrivare a casa sano e salvo”. Io non ho ancora capito nemmeno chi fosse, quell’uomo.
Mentre sollevo il pollice e vengo caricato in auto da un vecchietto dall’aria viscida e dal sorriso inquietante che mi chiede “dove sei diretto, bel bambino?”, penso solo ad una cosa: non amare Martha è decisamente un motivo valido per mollarla. E mandarla pure a fanculo nel mentre, già che ci sono.
Quanto al resto, penso che non uscirò più di casa. Almeno per, facciamo, i prossimi vent’anni. E fanculo anche al karma.
Genere: Commedia.
Pairing: David/Dave.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- 12 Agosto 2006. Come ogni anno da quando è cominciata la convivenza con David, i Tokio Hotel si ritrovano tutti sfrattati da casa con direzione Kiel in quanto, quando fa il compleanno, David preferisce essere lasciato solo. Stavolta, però, complice un ritardo imprevisto, le cose non andranno come dovevano...
Note: XD Io non sono normale *sospira* Be’, comunque una gioiosa birthday!fic per Herr Jost ci voleva u.u Io amo le birthday!fic, sono cose pucciose u.u L’idea… Uhm, l’idea nasce millemila settimane fa dalla voglia di scrivere di David che gioca con l’ombelico di Dave °_° (sì, l’ho detto che non sono normale XD). Io comunque mi sono innamorata di questo pairing, già a guardarli sono amabili XD David il figo e Dave l’orsacchiotto. Sono così rovesciabili *_*
La colpa è di Yul u.u che ringrazio per avermi obbligato moralmente a scrivere questa vaccata.
Tanti auguri, Herr Jost, ti amiamo tutti tantissimo ç*ç
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SURPRISE!

I ragazzi non avevano mai capito per quale motivo David, il giorno del suo compleanno, pretendesse sempre l’appartamento libero. Era una routine che si ripeteva da sempre, fin dal secondo anno che avevano trascorso tutti insieme ad Amburgo, e che non aveva mai mancato di bussare alle porte della loro quotidianità, distruggendola.
Di buono, sicuramente, c’era il suo compleanno venisse in agosto, e non rappresentasse quindi un momento di dramma – dobbiamo trovare un posto dove stare, finiremo sotto un ponte, nevicherà, a Bill prenderà una polmonite e Tom di conseguenza morirà di crepacuore! – bensì un sano e liberatorio momento di svago – chi arriva ultimo al primo treno per Kiel porta le borse del mare di tutti! – insomma, in definitiva: non un sacrificio particolarmente pesante.
Ciononostante, dal momento che si trattava comunque di ragazzini, non avevano mai mancato di piantare qualche grana a caso; un po’ per una naturale tendenza a rompere le palle che David non aveva mai gradito – Bill aveva mal di gola, Georg era stitico, Tom aveva la tendinite e Gustav si slogava un polso sempre in concomitanza con l’arrivo del suo compleanno – ed un po’ anche perché trovavano piuttosto fastidioso sia doversi ritrovare sbattuti fuori di casa per un motivo inesistente, sia perché anche a loro avrebbe fatto piacere festeggiare con David il suo compleanno, visto che per l’occasione sembrava sempre chiudersi in casa e restare tutto da solo.
Il dodici agosto del 2006, comunque, i quattro esiliati – cinque, se si includeva nell’elenco il povero Saki costretto per lavoro a seguirli ovunque – si ritrovarono per la prima volta fra le mani un pretesto accettabile per tornare a casa: erano arrivati tardissimo alla stazione ed avevano perso il treno.
- Ma che angoscia… - mugolò Tom, abbandonandosi stancamente su una panchina mentre Saki gli passava una bottiglietta d’acqua, - Quand’è il prossimo?
La guardia del corpo tirò fuori dalla tasca il foglietto con gli appunti che Georg gli aveva affidato il giorno prima, dopo un’intensa sessione pomeridiana di ricerca sul sito delle Ferrovie per scoprire gli orari dei treni, e lo scorse velocemente con gli occhi.
- Fra tre ore. – rispose compitamente, - Salvo ritardi.
Gustav lanciò un gemito di dolore.
- Perfetto. – mugugnò Georg, deluso, - Abbiamo perso una giornata. È già quasi l’una, per arrivare a Kiel ci vuole un’ora e un quarto e noi siamo ancora qui. – si lamentò, sedendosi accanto a Tom ed incrociando le braccia sul petto mentre il rasta gli allungava una gamba sulla coscia per poter espandersi il più possibile e stare così più comodo.
- Be’… - biascicò Bill, saltellando nervosamente accanto a Saki e picchiettando un piede per terra, - Possiamo pure tornarcene a casa, volendo.
- No che non possiamo. – corresse Gustav, squadrandolo diffidente, - È il compleanno di David.
- Sì! – gesticolò animatamente il cantante, - E noi non siamo neanche riusciti a fargli gli auguri, oggi!
- Certo… - precisò Georg, - perché lui ci ha buttati fuori di casa appena svegli. Evidentemente, i nostri auguri non gli interessano tanto quanto averci fuori dalle palle, suppongo. – ridacchiò, mentre Tom al suo fianco gli faceva eco in un ghigno divertito.
Bill sospirò teatralmente e si buttò a peso morto sul fratello, allungandosi per metà sulla panchina e per metà sulle sue ginocchia, mentre Gustav osservava disgustato l’intreccio dei corpi dei suoi tre compagni di band.
- Insomma, non può trattarci così. – continuò a lamentarsi il moro, mentre suo fratello sospirava e cercava senza molto successo di scollarselo di dosso, - Forse ce l’ha con noi per qualcosa…
- Be’, sì… - rifletté Tom, puntandosi un dito sul mento, - Vi ricordate il primo anno che abbiamo passato qui? Eravamo ancora troppo piccoli e lui fu costretto a tenerci pure tutta l’estate… quella volta il suo compleanno fu un po’ noioso, vero?
- Be’, noioso. – borbottò Gustav, offeso, - La mia torta era buonissima.
- La tua torta – precisò Georg ridacchiando, - vide la luce solo dopo che distruggemmo la cucina nel tentativo di prepararla.
- Uh, sì! – rise Bill, stringendosi nelle spalle, - Ricordo ancora la battuta di David… “pensavo di doverlo produrre, il Monsone, non di ritrovarmelo in casa”!
Anche Saki ridacchiò, scuotendo il capo e molleggiando sulle gambe in cerca di una qualche idea.
- Uh, sono un genio! – sbottò ad un certo punto Tom, illuminandosi d’immenso e scrollandosi di dosso in un unico movimento sia Bill che Georg per saltare in piedi, - Compriamo una bella torta multistrato, di quelle veramente enormi, poi un bel regalo tipo… - rifletté, - tipo un karaoke! Adora queste cose oscene, ho visto che ne ha uno nascosto in camera, ma è vecchissimo! E poi torniamo a casa e gli facciamo una sorpresa. – concluse, annuendo come a darsi ragione da solo.
Suo fratello lo guardò come fosse stato un dio appena sceso in terra.
- È un’idea fantastica, Tomi! – cinguettò saltando in piedi a propria volta, - Facciamolo!
Gustav borbottò lamentoso che le sue torte sarebbero comunque sempre rimaste più buone di qualsiasi torta di pasticceria – perfino di una multistrato gigante – ma acconsentì, e lo stesso fece Georg, sollevandosi in piedi e cominciando a seguire i gemelli che già correvano a rotta di collo verso l’uscita della stazione.
Saki sospirò ed andò loro dietro: in fondo, che male poteva esserci in una piccola sorpresa ed in un “tanti auguri” così affezionato?
*
David rotolò sul materasso con un mugolio di pura soddisfazione talmente imbarazzante da rendere il silenzio vuoto che avvolgeva l’appartamento ancora più prezioso del previsto.
Dave, al suo fianco, rise di gusto quando, in quel rotolare, il suo corpo impattò contro il proprio e fu quindi costretto a fermarsi.
- Ti vedo felice… - lo prese in giro, inarcando un sopracciglio divertito.
David rotolò ancora un po’, rovesciandosi a pancia in giù e sollevandosi sui gomiti per guardarlo direttamente negli occhi.
- Lo sono. – rispose con un sorriso sincero, - I ragazzi sono al sicuro, fuori a divertirsi ed io finalmente posso godermi un po’ di pace. Come potrei non essere felice? Ho quasi voglia di riappacificarmi con la mia età!
- Adesso non ti trasformare in uno stereotipo gay. – lo rimbrottò l’altro, - Non è che siccome ti stai avvicinando ai trentacinque il mondo stia per finire.
- …ho detto quasi voglia di riappacificarmi con la mia età, Dave, non c’è bisogno di rinfacciarmelo così! – strillò lui, falsamente inorridito, prendendo poi subito a ridere come un bambino.
- Piantala! – lo rimproverò ancora Dave, allacciandolo al collo con le braccia, fingendo di strozzarlo, - Pensa a me, che sono già entrato nella parte sbagliata dei trenta!
- Maddai, tu sarai bellino anche a quarant’anni… - rispose David, sporgendosi a dargli un bacio sulle labbra, - Con la tua aria da orsacchiotto ed il tuo sorriso tenero… - allungò una mano a pizzicargli il ventre, - e la pancetta, ovviamente! – concluse ridacchiando.
- David!!! – strillò Dave, cercando di sottrarsi alla sua stretta, - Sei un bastardo!
- Ma a me piace, la tua pancetta! – rispose l’uomo, divertendosi a giocare con un dito nel suo ombelico.
In momenti come quello, di anni, non se ne sentiva neanche sedici. Era solo per momenti come quello che accettava di mollare il freno sulle responsabilità che comunque sentiva verso i ragazzi, e lo faceva solo perché, in ogni caso, senza momenti come quello, avrebbe trovato troppo difficoltoso andare avanti e dover continuare a fronteggiare tutto l’enorme casino della propria vita senza impazzire.
Sapeva che prima o poi avrebbe semplicemente dovuto confessarlo agli altri. Lui e Dave stavano insieme da tanto di quel tempo che si stupiva perfino nessuno se ne fosse accorto. Forse era la sua buona stella che vigilava su di lui, forse semplicemente era qualcosa che nessuno aveva voluto capire, in ogni caso il segreto s’era mantenuto intatto durante tutti quegli anni, ma ciò non significava che quella routine schizofrenica di fughe notturne e sfratti improvvisi avrebbe potuto continuare in eterno.
Avrebbe dovuto piegarsi alle regole della convivenza e basta.
Prima o poi.
- David… - mugolò Dave contro il suo collo, - Ti va un piccolo cambio di ruolo…? Lo so che è il tuo compleanno, ma non ti sento da settimane…
Non era sua intenzione fare le fusa, ma uscirono fuori lo stesso.
Be’, si sarebbe piegato, prima o poi. Più poi che altro, comunque.
*
Saltellando felice come una ragazzina, Bill ordinò a Saki di sbrigarsi ad aprire la porta, prima che la torta gelato si sciogliesse completamente.
- Be’, se continuerai a saltare così, - lo rimbrottò Tom, aggrottando le sopracciglia, - ti cadrà prima di avere la possibilità di sciogliersi. Perdio, sta’ un po’ fermo!
Bill ubbidì ma protestò con un mugolio offeso, che dimenticò in un lampo quando finalmente la porta fu aperta e lui poté fiondarsi all’interno dell’appartamento strillando “Daviiiiid!!! Sorpresa!!! Tanti auguri!!!”, rischiando di uccidere quel po’ che rimaneva di una povera torta sballottata da un lato all’altro della città da un quartetto di adolescenti pazzi più guardia del corpo annoiata.
Nessuna risposta giunse da alcuna parte della casa, perciò Bill ritenne opportuno posare la torta sul tavolo della cucina e mettersi a zampettare per le stanze alla ricerca di David, immediatamente seguito dal fratello, curioso tanto quanto lui.
Gustav e Georg si guardarono negli occhi e scrollarono le spalle. Dopodiché, mentre Saki richiudeva la porta e si dirigeva verso il frigorifero per tirare fuori qualcosa da bere, apparecchiarono la tavola in un’imitazione di festività che, nella sua spoglia improvvisazione, era perfino molto carina. Coi piattini di plastica blu ed i sottobicchieri dei Puffi.
- Forse non è in casa… - mugolò Bill con aria depressa, dirigendosi verso l’ultimo posto ancora da controllare – la camera da letto del manager.
- In effetti era un po’ assurdo pensare che passasse davvero tutta la giornata in casa… - annuì Tom, - È il suo compleanno, in fondo. Probabilmente – ridacchiò furbo, - è in giro ad abbordare qualche ragazza, o… - Bill spalancò la porta con una risatina, - …o forse no. – concluse Tom, adocchiando il proprio manager nudo fra le braccia di Dave e deglutendo a fatica, - …o sì? Non lo capisco.
David e Dave si congelarono sul posto, voltandosi a guardare il proprio pubblico con una fissità perfetta per uno scatto pornografico.
Poi, Bill strillò.
- Oddio! – disse, coprendosi il viso con le mani, - David, scusa!!! – quasi pianse, scappando immediatamente in cucina.
- Merda… - biascicò Tom seguendolo. Si fermò dopo qualche passo e tornò indietro. Dave e David erano ancora immobili nella stessa identica posizione e con la stessa identica espressione annichilita sul volto. – Scusa, David, non volevamo… Scusa anche tu, Dave. – biascicò imbarazzato, prima di sparire di nuovo in corridoio.
*
Su uno degli sgabelli della cucina, Bill si mordeva le labbra e, le mani strette in grembo, cercava disperatamente di trattenere le lacrime.
- Ossignore… - mormorò Georg avvicinandoglisi e poggiandogli una mano sulla spalla, - Che è successo? – cercò di ridacchiare, - Era nudo?
- Nudo ed in compagnia. – chiarì per tutti Tom, arrivando in quel momento dal corridoio, - Niente drammi esistenziali, Bill, scommetto che lui sta peggio di te.
- No, non credo! – guaì il moro, coprendosi ancora il viso, - Dio, mi sento così in colpa!
- Sì, e lui probabilmente oltre a sentirsi in colpa per non averci detto niente è anche imbarazzato a morte. Come la mettiamo?
Bill fece una smorfia.
- Ti odio quando sei così razionale.
- È l’unico modo per salvarti dalla psicosi, a volte. – sospirò il rasta, mentre Gustav continuava imperterrito a tagliare fette di torta, sorridendo appena.
- Non ci sto capendo un accidenti. – borbottò Georg, grattandosi la testa, - L’avete beccato a letto con una donna, okay. Dunque? Qual è il problema?
- Il problema… - biascicò a quel punto Dave, apparendo in cucina sotto gli sguardi stupiti dei tre quinti dei presenti e quelli imbarazzati dei restanti due, - è che non era una donna. Ma me.
Georg e Gustav spalancarono gli occhi, mentre Saki optava per una saggia ritirata in bagno.
- …Dave? – mormorò penosamente Georg, deglutendo a fatica, - Cioè tu e David…
- Stiamo insieme. – concluse l’uomo annuendo. – Da un bel po’. David, semplicemente, non si sentiva pronto per dirvelo.
- Sì, be’, - borbottò Tom, incrociando le braccia sul petto, - probabilmente, viste le reazioni, - aggiunse, fissando il fratello, - aveva pure ragione.
Dave sorrise lievemente e si avvicinò a Bill, cercando di consolarlo con qualche pacca sulla spalla.
- È tutto a posto. – disse, - Ce lo aspettavamo. Sappiamo che sarà un po’ dura abituarsi all’idea, ma-
Bill scosse il capo, scattando in piedi.
- Non è dura! – rispose col cipiglio ostinato di un bambino. Afferrò uno dei piattini che Gustav aveva già riempito di torta, prese una forchettina di plastica, un bicchiere di coca cola e, cercando di tenere tutto in equilibrio sulle mani senza rovinare per sempre la preziosa moquette che rivestiva tre quarti dell’appartamento, si diresse speditamente verso la camera di David.
L’uomo stava ancora seduto sul letto, le lenzuola tirate fino ai fianchi ed una mano a massaggiare stancamente la radice del naso.
- Bill… - mormorò con aria affranta quando il ragazzo entrò in camera, ma lui lo zittì con uno spiccio cenno del capo.
- Non è dura da accettare. – asserì serio, sedendosi sulla sponda del letto e posando sul materasso piatto e bicchiere, - Buon compleanno, David. – concluse con un mezzo sorriso.
David guardò lui, poi la torta e poi ancora lui.
Indicò il dolce.
- L’avete comprato per me…?
Bill annuì.
- E farai meglio a mangiarlo in fretta. È gelato. Non vorrai mica vanificare tutti i nostri sforzi…!
David rimase in silenzio ed esitò per un lunghissimo istante. Poi, semplicemente, rise.
- Non sia mai… - sussurrò teneramente, - Grazie mille.
Dalla porta, Tom, Gustav, Georg e Dave sorrisero serenamente, portando ognuno un po’ di ciò che serviva per festeggiare: altri piattini, altra torta, una bottiglia di spumante e qualche pacchetto di patatine raccolto qua e là fra i vari stipetti della cucina.
- Be’, niente male come sorpresa. – biascicò il manager, vagamente imbarazzato, mentre Saki riappariva dalla propria fuga portando in braccio il regalo, - L’anno prossimo, comunque, altro che Kiel. Vi mando alle Maldive, per le vacanze. Così risolviamo il problema alla radice.
Tom ridacchiò e mandò giù una consistente cucchiaiata di gelato al cioccolato.
- Be’, potrebbe essere l’inizio di una piacevole tradizione! – commentò.
Negli anni a venire, David avrebbe avuto modo di pentirsi molte volte di quella proposta.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
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PROLOGUE
ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME

If we belong to each other
We belong anyplace, anywhere, anytime

Erano stati il gruppo tedesco più famoso di tutta l’Europa. Di tutti i tempi. Nel bene e nel male, erano stati uno dei gruppi più famosi dell’intero vecchio continente. Ed erano conosciuti perfino negli Stati Uniti. Avevano fan dalla Russia al Messico, dall’Australia alla Norvegia.
Erano i Tokio Hotel.

“Poco prima della conclusione di quella che doveva essere l’ultima data dello Schrei Tour del 2006, la sicurezza è riuscita miracolosamente a sventare un tentativo di rapimento ai danni di Tom Kaulitz, chitarrista dei Tokio Hotel, band pop-rock famosa a livello internazionale. Si è trattato del terzo attentato ai danni del gruppo in due mesi. Ricordiamo i precedenti episodi, a Nizza ai danni di Bill Kaulitz ed a Lione ai danni di Georg Listing, rispettivamente cantante e bassista all’interno della formazione tedesca.
«A questo punto, non possiamo più ignorare l’ipotesi per la quale ci sarebbe un piano specifico ed articolato, mirante alla distruzione fisica dei componenti di questo gruppo.», ha dichiarato oggi David Jost, manager della band, durante la conferenza stampa indetta questa mattina per spiegare quali sarebbero state le misure da prendere per cercare di risolvere la situazione, «Non siamo più in grado di proteggere questi ragazzi come meritano. È per questo motivo che dichiaro ufficialmente i Tokio Hotel sciolti. I componenti si ritireranno a vita privata. Speriamo in tal modo di preservare la loro sicurezza, che naturalmente viene prima di qualsiasi contratto».
Le reazioni non hanno tardato a farsi sentire. La Universal, casa discografica per la quale i Tokio Hotel lavorano, si è dichiarata contraria a quanto stabilito da Jost, ma disposta a trovare un accordo che soddisfi entrambe le parti. La reazione più violenta è stata sicuramente quella delle giovanissime fan della band, che già da qualche ora assediano gli edifici della casa discografica ad Amburgo, piangendo e mostrando il proprio affetto tramite cartelloni che implorano i ragazzi di ripensarci e non mollare.
Curiosamente, ma comprensibilmente, è proprio dai ragazzi che non si è ricevuto alcun commento. Nessuno dei componenti del gruppo ha ancora detto una parola a riguardo della drammatica situazione della quale è protagonista, e il silenzio stampa che David Jost ricorda continuamente ai giornalisti di aver imposto ai propri protetti sembra destinato a non sciogliersi tanto presto.
Continuate a seguirci per nuovi sviluppi della vicenda.”


Ma non era mai venuto fuori nessuno sviluppo. Il silenzio stampa si era protratto tanto a lungo da diventare per sempre. I giornali avevano parlato di loro ancora per un po’ di tempo, quasi un anno, in effetti, ma dagli articoli pieni di domande di giornalisti sempre più increduli di fronte alla verità dei fatti, non veniva fuori nessuna risposta.
La verità dei fatti era molto semplice: ogni membro dei Tokio Hotel sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Gli sforzi che s’erano fatti per ritrovarne qualcuno s’erano dimostrati del tutto vani. Neanche i membri delle loro famiglie ne sapevano niente – e, se sapevano qualcosa, la nascondevano davvero bene.
Nessuna risposta. Perché non era rimasto nessuno.
Alla fine, dopo due anni trascorsi pigri e lenti sulla Germania e sul mondo intero, dei Tokio Hotel non restava che qualche poster su Bravo e un trafiletto su qualche rivista per teenager, di tanto in tanto. Qualcosa di troppo simile ad un memoriale per non terrorizzare a morte.
Ed era per questo che Tom Kaulitz aveva smesso di leggerli.
- Blitz. Sitz.
L’enorme pastore tedesco si accucciò ai piedi del giovane padrone, protendendo il collo per offrire il capo alle sue carezze distratte. Il ragazzo, magro, alto, avvolto in una pesante tuta in pile di un anonimo grigio scuro e scompostamente seduto sulle scale che, dalla cucina, portavano al giardino sul retro della villetta bifamiliare all’estrema periferia di Londra in cui viveva con “suo fratello”, guardava distratto l’orizzonte, cercando di scorgere il sole tramontare fra gli alberi e le colline della campagna poco distante.
- Dovresti smetterla di parlare in tedesco. – disse appunto quel fratello, raggiungendolo alle spalle e sedendosi al suo fianco, mentre Blitz scioglieva la posa plastica alla quale l’ordine di Tom l’aveva costretto, per corrergli incontro e tentare di rubargli a mezz’aria il panino che stava cercando di passargli.
- Georg. – borbottò Tom, afferrando il panino prima che il suo cane riuscisse ad addentarlo, e lasciandolo perciò con un palmo di naso ad aspettare gli avanzi, lingua penzoloni e sguardo vigile, - Non puoi dirmi di smetterla di parlare in tedesco parlando in tedesco.
- Mi chiamo Frank, Timothy. Ormai dovresti saperlo.
- Certamente, Georg. – annuì Tom, lanciando un pezzo d’hamburger al cane, che corse a ripescarlo dal cespuglio nel quale era finito e poi tornò indietro, accucciandosi nuovamente ai piedi del padrone per sbranare in tutta tranquillità la propria cena. – Comunque sia, non stavo parlando in tedesco. Lo sai che Blitz segue solo un certo tipo di ordini.
- Era ovvio che succedesse. L’hai addestrato in tedesco! Oppure vuoi darmi a bere che le sue orecchie fossero naturalmente predisposte per questo tipo di linguaggio?
- Be’, è un pastore tedesco, in fondo, non un pechinese.
- E se lo fosse stato lo avresti addestrato in cinese, Tom?
Il biondo sorrise, ingurgitando l’ultimo morso del panino e regalando al cane il resto della carne.
Si alzò in piedi, sistemando la tuta perché non cadesse lungo le gambe, ampia com’era, e stringendo il laccio elastico alla vita.
- Tim, Georg, non ti confondere. Stasera siamo a cena dai vicini.
Georg roteò gli occhi, allargando le braccia ai lati del corpo in un gesto rassegnato.
- Sei del tutto impossibile. – commentò infine, alzandosi in piedi a propria volta, - Sono passati due anni, Tom. Abbiamo cambiato cognome. Stato di famiglia. Nazionalità. Lingua. Vita. Non credi che sia arrivato il momento di passare avanti e cercare di dare un valore ai sacrifici che tutti abbiamo fatto, cominciando a vivere sul serio?
Tom sorrise appena, lasciando una carezza affettuosa sulla testa del cane, che subito scattò sulle quattro zampe al suo fianco.
- Dopo tutto questo tempo, Frank, mi rifiuto di credere tu non abbia ancora capito.
Georg sospirò infastidito. Tanto infastidito che il suo sospiro ricordò a Tom più un grugnito che altro.
- Cosa c’è da capire, Kaulitz?
- Blitz. – chiamò il ragazzo, battendo una mano sulla coscia ed osservando soddisfatto il cane avvicinarsi, in perfetta posa di condotta, - Fuss. – ordinò dunque, ed insieme all’animale prese a fare il giro del giardino, senza più degnare Georg di uno sguardo.
- Sai cosa, fratellino? – sibilò quindi lui, a corto di pazienza, - Vai a cagare. – concluse, voltandosi verso la casa e risalendo lentamente i gradini per tornare in cucina.
- Io non ho rinunciato, Georg.
La voce di Tom riecheggiò nel silenzio del tardo pomeriggio primaverile, e quando Georg si voltò a guardarlo lo vide di nuovo immobile a fissare l’orizzonte, il cane seduto sull’erba al suo fianco.
- Ho compiuto diciott’anni senza mio fratello. Senza la mia famiglia. E, di tutte le persone che consideravo amiche, mi sei rimasto solo tu. – si lasciò ricadere a terra, incrociando le gambe per lasciare che il cane potesse accucciarsi fra le sue cosce per una sana dose di coccole. – Ma io non ho affatto rinunciato a riavere tutto. La mia famiglia, il mio lavoro, la mia vita. Perché era quella, la mia vita, Georg. Non questa. – sollevò lo sguardo su di lui, e Georg vi lesse con rammarico la solita deprimente e fastidiosa dose di ostinazione e fiducia in se stesso. – Io non mi fermerò fino a quando non avrò ottenuto quello che voglio. L’unico modo che possa concepire, per non rendere vani i sacrifici che abbiamo fatto fino ad ora, è utilizzare questa opportunità di anonimato per trovare un modo per uscire da quest’incubo. E quando ci sarò riuscito, Georg, i Tokio Hotel torneranno. E stavolta saranno imbattibili.
Georg si passò una mano sugli occhi, sospirando pesantemente.
- Va bene, Tom. – concesse infine, risalendo di un altro gradino verso la protezione offerta dalla propria casa, - La cosa spaventosa è che ti credo sul serio. – Tom si lasciò andare ad una risatina che Georg si forzò ad ignorare, mentre Blitz gli si agitava fra le gambe alla ricerca di un altro po’ di cibo. – Ora, saresti così gentile da tornare al tuo alter-ego inglese e risparmiarmi l’ennesimo rimprovero della vecchia Marge per essere arrivati in ritardo a cena per la milionesima volta, Timmy?
Tom rise ancora, alzandosi in piedi con uno scatto che costrinse Blitz a saltare via ad un paio di metri da lui.
- D’accordo, d’accordo. – annuì, - Dammi il tempo di mettere addosso qualcosa che non puzzi di cane bagnato, e poi ci consegniamo alla sposa di Satana.
- Piantala di parlare così di Marge! – lo rimproverò lui, inorridendo ed osservandolo caracollare allegramente verso la porta dopo aver intimato al cane di restare seduto sul prato senza azzardarsi ad entrare in casa, - È sempre stata buona, con noi! E comunque dovresti smetterla di lasciare questa povera bestia al freddo e al gelo.
- Se permettessi a Blitz di entrare in casa, ci ritroveremmo in due ore in un posto molto simile all’inferno.
- Il che dimostra che sei un pessimo addestratore, Timmy. Pessimo davvero.
- Blitz! Beißt!

Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest.
- Anno 2012. Esce Der Letzte Träum, il terzo album in tedesco dei Tokio Hotel. La title-track, sul finale, recita "Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti". Le sue parole si rivelano premonitrici. Nell'anno 2025, i gemelli Kaulitz hanno trentacinque anni ed hanno passato gli ultimi dieci l'uno lontano dall'altro, senza nemmeno vedersi. Il matrimonio di Georg darà loro occasione non solo di rincontrarsi, ma anche di ricordare i motivi per i quali avevano deciso di non rivedersi più.
Note: Sono tornata al twincest T___T!!! Omg T___T!!! Sono commossa T___T!!! In realtà non è che l’avessi proprio abbandonato (è palese che io i fandom non li abbandono proprio mai, possono passare pure anni e magari non ci scrivo più su, ma l’amore resta identico <3), solo che proprio m’era venuta voglia di scrivere di altri tipi di rapporti e dinamiche, perciò, pur non lasciando nel dimenticatoio i gemellini, avevo un po’ trascurato questa parte di fandom.
E in realtà la spinta definitiva per scrivere questa storia me l’ha data Yul, che ad un certo punto in chat mi fa “ma non ti starai un po’ stancando del twincest?”. La mia risposta mentale è stata “omg, no!!!”, e questo è il risultato XDDD
Il desiderio di usare Forbidden Colours (di Ryuichi Sakamoto – piano – e David Sylvian – voce) era nato già tempo prima, solo che, per quanto il testo fosse così disgustosamente e palesemente twincest, non avevo una trama da intrecciarci su. Sapevo solo che mi faceva venire voglia di scrivere dei gemelli che s’erano messi insieme, poi s’erano lasciati ed alla fine si incontravano di nuovo e decidevano di riprovarci. Voglio dire, questa non era una trama, non potevo usarla T_T Così alla fine mi sono messa a ricamarci su ed è venuto fuori questo emostruggimento di palle (cit. Sara <3) del quale non so nemmeno che pensare a parte il fatto che è lungo! XD
A proposito di spropositi: l’idea di una “nuova canzone” (in questo caso Der Letzte Traum – grazie a Meg per la traduzione del titolo ed a Sara per la traduzione dei tre versi che uso nella storia) da intrecciare con le vicende della fanfiction, non è mia. Gli illustri precedenti (le solite note: Sara e Meg, le quali, è ormai evidente, occupano posti speciali nel mio cuore <3 XD) dimostrano pienamente, con le loro storie bellissime, la mia incapacità di usare lo stesso espediente in modo appena decente, ma ho voluto usarlo anche io perché continuavo a ripetermi che sarebbe stato inusuale per dei musicisti rimanere all’asciutto di musica nuova durante tutti quegli anni. Chiedo umilmente perdono ç_ç”
E già che ci sono vi ringrazio tutti, mandando un bacio particolare alla mia Misako di fiducia (i cui betaggi dotati di commento finale sono il bene <3) ed alla Nai (che mi ha aiutato a risistemare a monte delle parti poco chiare <3).
Un ringraziamento speciale (condito da dedica innamorata) a Meg: perché è stata Mezzanotte, la sua storia-paura, a darmi “la forza” (nonché ad obbligarmi moralmente!) per scrivere Forbidden Colours. Grazie <3
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FORBIDDEN COLOURS

You remind me
A lifetime away from you
The blood of Christ
Or the beat of my heart
My love wears forbidden colours
My life believes in you once again

Quando ho detto a Georg che non credevo fosse il caso di presenziare al suo matrimonio, ho seriamente avuto paura che impazzisse. Che cominciasse a strillare, salisse in macchina e venisse a prendermi fino a casa, per poi trascinarmi alla cerimonia per i capelli, come tutti i bravi uomini delle caverne.
L’unica libertà da uomo delle caverne che si è preso, in realtà, è stato un grugnito profondo ed infuriato, di quelli che spaventano sempre l’interlocutore, perché somigliano a ruggiti repressi. Quando la bestia reprime un ruggito è perché non vuole farsi sentire dalla preda.
Dopo il ruggito, comunque, è immediatamente tornato al mondo della civiltà. L’ho sentito sospirare profondamente e l’ho immaginato socchiudere gli occhi e passarsi una mano fra i capelli con fare sconsolato. Era il suo gesto caratteristico di fronte ad ogni cattiva notizia, quando ancora vivevamo tutti insieme e potevamo dirci davvero felici.
Con quel telefono in mano, sorridevo impercettibilmente e lo ascoltavo inspirare ed espirare. Lo immaginavo muoversi esattamente come lo ricordavo, ed allo stesso tempo prendevo laconicamente atto di non avere neanche la più pallida idea di come apparisse Georg oggi, dopo tutto quel tempo.
Erano passati dieci anni da quando avevo lasciato Amburgo. E sei dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Poteva non avere più neanche un capello.
Le sue braccia potevano aver perso tono.
Poteva aver completamente cambiato abitudini, modi di fare, espressioni…
- Bill. – mi disse, con aria angosciata, - Non puoi farmi questo.
Era vero, non potevo farglielo. Così come non avevo veramente potuto abbandonare lui e Gustav, durante tutti quegli anni. Come non avevo potuto rinunciare alle telefonate, alle visite inaspettate che pure erano praticamente sparite durante gli ultimi anni – sempre loro da me, mai io da loro. Non potevo rischiare: la posta in gioco era la mia vita. Troppo alta per qualunque giocatore d’azzardo. – così come non avevo potuto rinunciare alle lettere, o anche solo a pensare a loro.
L’unico che ero stato veramente capace di abbandonare era stato Tom.
E, d’altronde, era esattamente in quel modo che doveva andare.
- Lui ci sarà, vero? – chiesi sottovoce.
- Sì. – rispose Georg, senza attendere neanche un secondo, né mostrare la minima incertezza. – Non voglio che riprendiate a parlare, anche se sai come la penso al riguardo. Non voglio neanche che vi notiate a vicenda. – sospirò ancora. – È troppo pretendere da voi che riusciate a coesistere nello stesso ambiente per una giornata?
Risi debolmente.
- Non lo so. – risposi sincero, - Non abbiamo più provato.
L’ennesimo sospiro di Georg raggiunse le mie orecchie risuonando come un’ultima disperata richiesta.
E davvero non potevo rifiutare.
- D’accordo. – annuii, - Se lui può, posso anch’io. Ci sarò.
*
Sarebbe sciocco negare che sono agitato. È un’agitazione inspiegabile, comunque. Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. L’ho saputo fin dal momento in cui Georg ha cominciato a frequentare Karen. Sapevo che sarebbe successo, perché Gustav ha cominciato immediatamente a scherzare sul fatto che, a guardarli insieme, si sarebbe giurato di vederli già sposati.
Gustav non ironizza mai su cose prive di fondamento.
Gustav, per scherzare, ha sempre bisogno di basi solide.
È per questo che non aveva mai scherzato sul twincest, prima di…
Be’. Prima di quello.
E dopo, ecco, non è che ci fosse poi molto su cui scherzare.
Comunque, anche se l’ho effettivamente saputo solo da quando ho cominciato a subodorare aria di fidanzamento, in realtà ho sempre sentito che questo momento sarebbe arrivato, indipendentemente da qualsiasi motivazione esterna. Esterna a me e Bill, dico.
Ecco perché ho sempre saputo che prima o poi ci saremmo rivisti: Bill e Tom sono sempre bastati, come motivo per rivedersi.
Almeno, prima che il nostro mondo si rovesciasse non una, non due, ma ben tre volte. Annaspando, siamo riusciti a sopravvivere alla prima. Siamo usciti malconci dalla seconda. Ma alla terza nessuno sarebbe sopravvissuto. Nessun legame è tanto forte. Neanche il nostro, no. Perché quando recidi volontariamente un’arteria non c’è nulla che tu possa fare, poi, per legarla nuovamente insieme. Anche se fai un bel nodo, cosa risolvi? Il sangue ha smesso comunque di scorrere.
- Sei teso come una corda di violino.
Mi sforzo di sorridere a Gustav, che mi porge un’enorme tazza di caffé annacquato.
- Cos’è questa brodaglia, Juschtel?! – fingo di indignarmi, stringendo la tazza bollente fra le mani. Ad Amburgo fa sempre dannatamente freddo, in inverno.
In effetti, ci sono cose che non cambiano mai.
- Non voglio che resti sveglio tutta la notte. – mi risponde il mio batterista – ex. Ex, Tomi. Ficcatelo in testa, una buona volta.
Sorrido debolmente, spalmandomi sul divano del suo salotto. È stato carino ad ospitarmi, finché Bill non si farà vedere.
- Quando hai detto che arriva? – chiedo distrattamente, sorseggiando il caffé.
Gustav sospira.
- Domani pomeriggio. Credo di avertelo detto circa un centinaio di volte. Il tuo cervello si rifiuta di immagazzinare l’informazione o godi nel farmelo ripetere fino allo sfinimento? – ribatte con un ghigno.
- Niente del genere… - confesso io con un mezzo sorriso che deve sembrare pure parecchio stupido, - Voglio solo essere sicuro.
- Ti scrivo un post-it. – ironizza lui, inarcando le sopracciglia.
Io rido piano. Non voglio svegliare Marlene né la piccola, si meritano un bel po’ di sonno. Ce la stanno mettendo tutta, per organizzare bene il matrimonio di Georg.
Be’, Marlene ce la sta mettendo tutta. Organizzare matrimoni è il suo lavoro, ma ha preso quello di Georg come una missione di vita, c’è proprio da dirlo. Gira come una trottola impazzita da quando sono qui – vale a dire già quattro giorni. La piccola Franziska, invece, ce la sta mettendo tutta solo nella complicata operazione di sfiancarsi, giorno dopo giorno. Anche lei gira come una trottola impazzita: vede ovunque esclusivamente occasioni di gioco sfrenato. Ed è anche giusto, visto che ha solo cinque anni. Comunque anche lei, a proprio modo, si sta preparando: portare le fedi all’altare non è un compito da prendere sottogamba. Nemmeno se hai solo cinque anni, sei carina da morire e il mondo intero sarebbe pronto a perdonarti anche se facessi cose molto peggiori che non capitombolare lungo la navata principale della chiesa perché sei inciampata nel tuo adorabile vestitino da meringa rosa in miniatura.
- Be’, io vado a letto. – annuncia piano Gustav, allontanandosi verso la porta. Io lo saluto con un sorriso e un breve cenno della mano, accucciandomi sotto al piumone.
Gustav s’è sposato otto anni fa.
Né io né Bill eravamo presenti.
Penso che lui non riuscirà mai a perdonarci, per questo. A suo merito va l’essere riuscito a soprassedere ed avere comunque continuato a sopportarci e volerci perfino bene, ma la cosa lo ha rattristato enormemente. Ed il sapere che, invece, per il matrimonio di Georg saremo qui, non deve rendere di certo più facile la cosa.
Ma allora erano passati solo due anni. Era troppo presto. Non potevamo proprio rischiare.
Adesso ne sono passati dieci. Possiamo fare un tentativo.
*
Odio l’aereo. Dio, Dio, Dio, lo odio a morte. Perché sono andato a vivere in Italia? È troppo distante da casa. Mi obbliga proprio a salire su questi inaffidabili pezzi di ferraglia volanti. E d’accordo che il Lago di Como offre un’invidiabile lenzuolo di discrezione sotto il quale nascondersi, ma l’anonimato non vale proprio questo terrore folle.
E dire che dovrei esserci abituato, ormai. Ho preso aerei per più di metà della mia vita, così spesso che suona quasi assurdo io ne sia ancora così irrazionalmente turbato.
Però c’è anche da dire che prima, quando prendevo l’aereo, con me c’era sempre Tom.
Adesso, invece, non c’è nessuno.
Improvvisamente, ricordo che, se sono andato a vivere così lontano dalla Germania, è stato proprio perché contavo di non ritornarci mai più. Il pensiero mi fa un po’ male, perciò cerco di estirparlo dalla mia mente ficcando più a fondo gli auricolari nelle orecchie ed aspettando che la romantica e sottilissima voce di Chris Martin ne scacci ogni traccia.
L’ultimo album dei Coldplay, comunque, fa veramente schifo. Avrebbero dovuto ritirarsi anni fa. Sapevo che collaborare con Kanye West sarebbe stato deleterio. Sono sempre stato contrario alle commistioni stilistiche, se uno fa pop o rock non ha proprio alcun bisogno di mischiarlo all’hip-hop.
Mio fratello lo sapeva bene. Mio fratello conosceva a memoria i miei gusti, intuiva le mie idee e concretizzava la mia ispirazione senza che io neanche dovessi spiegargli cos’avevo in testa.
Era per questo che i Tokio Hotel funzionavano così bene. Perché ci legava una chimica perfetta.
Io inventavo, Tom rendeva plausibile, Georg realizzava e Gustav coordinava il tutto.
Non c’è che dire: un meccanismo inestimabile.
A ripensarci, era semplicemente ovvio andasse tutto a puttane, dopo quanto è successo. I legami così perfetti sono anche fragilissimi. Incrinali anche solo un po’ e si sfaldano. Quattro persone in equilibrio su una bilancia possono crollare al più piccolo scossone. Abbiamo fatto tutti i funamboli per un sacco di tempo, prima di capire che non c’era proprio più nulla da salvare, perché tutto ciò che stavamo cercando di preservare era crollato alla prima incertezza, tantissimo tempo addietro, e noi non ce n’eravamo nemmeno accorti.
Chissà se al matrimonio sarà presente anche David…
…che sciocchezza. È ovvio che ci sarà. Ci saranno tutti, i fantasmi del mio passato.
Dovrò affrontarli. Poco da fare.
Dio, odio gli aerei.
*
- Tomi, mi sta bene il vestito?
Ogni volta che Franziska mi chiama così mi si riempie il cuore. Non saprei dire esattamente di cosa: potrebbe essere gioia, ma è un sentimento di una malinconia tale che proprio non mi riesce di identificarlo con precisione. Fa male solo guardarlo. Solo accorgersi che c’è.
Eppure, avevo un tremendo bisogno di sentirmi chiamare ancora così. Sono stato io a pretendere lo facesse.
Gustav sorride brevemente, solo per un attimo, prima di prendere la piccola in braccio e rimproverarla.
- Non puoi approfittare dell’assenza di tua madre per disobbedirle. – dice serio, - Cosa ti ha detto prima di uscire, stamattina?
Franny abbassa lo sguardo ed arriccia le labbra in una smorfia contrita.
- Di non mettere il vestito del matrimonio…
- E perché?
- Perché si può sporcare…
Gustav annuisce compiaciuto, rimettendola a terra.
- E quindi cosa fai adesso?
- Vado a toglierlo…
- …e lo posi ordinato sul letto. Ok?
Franziska annuisce e si avvia mogia mogia verso il corridoio, le braccia ciondoloni e le spalle incurvate.
- Ti sta benissimo. – sorrido io, facendole l’occhiolino, - Sei proprio bella.
Sono stato un po’ lento con la risposta, ma a giudicare da come si illumina il suo viso non deve essere arrivata troppo tardi.
- La vizi. – constata Gustav, lanciandomi un’occhiataccia mentre si siede sul divano al mio fianco.
- L’ho sempre fatto. – ridacchio io, - Cosa ti fa pensare che, solo perché sta crescendo, io debba smetterla?
- Sei peggio di un vecchio nonno. – sospira lui, alzando gli occhi al cielo. Poi torna serio. E torna anche a guardarmi. – Io devo andare a prendere Bill all’aeroporto, Tom. – annuncia quindi, grave.
Sento la saliva bloccarmisi in gola.
È una sensazione spaventosa: il solo sentire pronunciare il suo nome mi attorciglia le viscere.
È mai possibile amare una persona a questo punto? Il suo ricordo, la sua immagine, la sua semplice idea?
Dopo tutto questo tempo, non è possibile che io lo senta ancora così tanto. Non così profondamente. Non dopo tutto quello che è successo.
Dieci anni, cazzo.
Dieci anni di vita. Be’, più o meno. Non ho vissuto davvero, ma il tempo m’è passato addosso lo stesso. M’è passato dentro. È passato sulla mia pelle, sui miei occhi, sulle mie gambe. È passato sulle piccole rughe d’espressione che ho agli angoli della bocca, è passato sui miei capelli, che ormai sono corti e leggeri come l’aria, è passato sui miei vestiti, che si sono ristretti, accorciati, sgonfiati e sono poi sfociati nell’anonimato più totale.
Ho trentacinque anni, cazzo.
Non posso ancora sentire Bill come se ne avessi venti.
L’amore, a quest’età, non dovrebbe essere ancora lo stesso. Dovrei avere imparato a viverlo diversamente. Dovrei avere imparato, per il mio stesso bene.
Non mi sono mai amato granché, evidentemente.
Non lo faccio neanche adesso.
In realtà, colui che ho sempre amato era un me stesso ugualissimo e diversissimo da me.
Vista in questa prospettiva, la cosa prende decisamente senso. Anche se non dovrebbe.
- Vuoi accompagnarmi? – prosegue Gustav, prendendo il mio silenzio come un invito in tal senso.
- Non credo. – deglutisco con difficoltà.
- …sì o no? – insiste lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
Scrollo le spalle.
- Aspetterò qui. – concludo, cercando a tentoni sul divano il telecomando, - Così puoi lasciare la bambina.
Gustav sospira e si alza in piedi, scuotendo il capo.
- Meno male che vai a stare da David. – borbotta, - Non riesco nemmeno ad immaginare di avervi nella stessa casa. Scommetto che fareste i turni per uscire ed entrare dalle stanze.
Sorrido mestamente. Il ritorno di David dall’Inghilterra mi ha dato una scappatoia non indifferente. Il fatto che fra lui e Bill le cose non siano andate più tanto bene impedisce loro di condividere casa, ma fortunatamente per me le cose sono state diverse.
Suppongo sia stato solo perché io sono rimasto in Germania e Bill, invece, è fuggito in Italia. David non glielo perdonerà mai, credo.
- È probabile. – sospiro alla fine, accendendo il televisore.
- Già. – annuisce lui, - Ma la cosa sconvolgente non è questa: è che non avreste nemmeno bisogno di organizzarvi, per sincronizzare gli orologi biologici. – commenta con un sorriso triste.
Non rispondo, perché non c’è niente da dire.
Franziska trotterella in salotto e si getta sul divano, arrampicandosi immediatamente sulle mie gambe.
- Voglio guardare i cartoni animati di Barbie! – pretende, cercando di scalare le mie spalle per raggiungere la libreria sulla quale sono stipati i DVD, dietro al divano. Io la lascio fare, reggendola per i fianchi ed aspettando che scelga. Gustav mi lancia un’occhiataccia.
- La vizi proprio. – commenta rassegnato. Poi mi saluta ed esce.
*
Appena entro in casa di Gustav, vengo investito dalla certezza fisica della presenza di Tom. C’è il suo odore, lo sento ovunque. Ha saturato l’aria. Non solo è qui, ma sta qui da un bel po’ di giorni.
Mi guardo intorno con aria spaesata, ma i miei occhi sono in febbrile ricerca. Mi spavento da solo, quando succedono cose del genere. Quando comincio ad esaminare l’ambiente perché ho paura che Tom possa spuntare fuori da un angolo senza preavviso, sono veramente… tremendo.
- È andato via. – mi rassicura Gustav, intuendo i miei pensieri, - L’ho ospitato finché non è tornato David. Ora sta da lui. – mi informa, avvicinandosi alla consolle dell’ingresso e sfiorando con lo sguardo il bigliettino che Tom gli ha lasciato prima di andare via: “Sono uscito. Franny è con me. Ti aspetto da David”.
La scrittura di Tom non è cambiata. Ed io comincio a sudare freddo.
- Scappato appena ha sentito l’odore? – scocco sarcastico, indicando il foglietto con un cenno del capo.
Non so perché dico questa cattiveria gratuita. Non so perché sorrido in modo così crudele. Forse ho semplicemente bisogno di farmi un po’ di coraggio, perché proprio non ne ho.
Tremendo. Tremendo. È tremendo. Sono tremendo.
Gustav mi risponde con l’occhiataccia sconvolta e disgustata che merito.
- Bill! – mi riprende con un tono, in effetti, molto paterno, - Che razza di discorsi fai?!
- Sì, lo so, lo so… - mugolo, roteando gli occhi e trascinandomi dietro la valigia.
- No, non lo sai affatto! – continua lui, inviperito, - Ringrazia solo che tuo fratello non sia ancora qui, perché se ti avesse sentito, come minimo, ti sarebbe saltato al collo.
- No. – correggo, sedendomi sul divano e sfiorandone la fodera con una mano. È ancora tiepida. – No, Tom non l’avrebbe fatto.
- Be’, se fossi stato al suo posto, io sì. – commenta acido, scrollando le spalle.
- Gustav… - sospiro io, socchiudendo gli occhi, - noi l’abbiamo deciso insieme, di non rivederci più. Nessuno ha imposto niente a nessun altro. E nessuno ha qualcosa da rimproverare all’altro.
Lui imita il mio sospiro e si massaggia la radice del naso.
- Mi auguro che tu non lo pensi davvero. – sbotta, rassegnato. – Vado a recuperare la bambina. Tu sistemati pure. Il bagno è in fondo al corridoio, le tovaglie nel mobile dietro la porta e… - si interrompe un attimo, incrociando le braccia sul petto.
- Cosa? – lo incito io, inarcando le sopracciglia.
Lui scuote il capo.
- Credo che mi toccherà rifare il letto nella camera degli ospiti. – borbotta, - Ci ha dormito Tom, fino ad oggi.
*
Il sorriso che si apre sul volto di David appena appaio sulla porta mi consola e riesce in qualche modo a debellare ogni singola ombra dei miei pensieri, riempiendomi d’allegria.
- Tom! – chiama eccitato, abbracciandomi, - Che piacere vederti!
Mi fa sempre più impressione rivederlo, comunque. Si sta facendo vecchio. Piano piano, ma sta succedendo. I capelli brizzolati lo rendono affascinante, in qualche modo, gli danno un’aria più affidabile e meno svagata, ma…
…Dio. Quanto mi fa impressione.
- E tu? – chiede poi, ironico, chinandosi verso Franziska, - Ti sei fatta rapire? – ridacchia, prendendo la piccola in braccio.
Lei ride e gli schiocca un bacio rumoroso sulla guancia.
- Tomi non poteva lasciarmi a casa! – spiega professionale, - Ero tutta sola!
- Certo, certo! – annuisce lui, fin troppo entusiasticamente per non essere comico in maniera quasi irresistibile. Tant’è che ridacchio pure io. – Vediamo se in questa vecchia casa è rimasto qualcosa da farti mangiare per merenda. – riflette serioso, introducendoci all’interno del loft.
Io mi muovo lentamente, sistemando il borsone sulle spalle.
Questa casa mi uccide, ogni volta.
È sempre uguale. È sempre lei.
C’è così tanto di noi che fa paura.
…a ben pensarci, è l’unica cosa sia veramente rimasta di noi.
- Allora, come va? – mi chiede David, mentre rimpinza Franny di caramelle alla fragola, - Stai ancora a Loitsche?
- Già. – sorrido, - Gordon non mi lascia andare. – Lui inarca un sopracciglio, fissandomi scettico. – Ok, ok. – correggo, - Sono io che non voglio andare via. – ammetto, sorridendo mestamente.
Lui ride e mi omaggia di una pacca sulla spalla che solo nella sua mente sovraeccitata può sembrare amichevole. Perché in realtà mi fa un male cane.
Solo fisicamente, però. L’entusiasmo di David ogni volta che mi vede è sempre un balsamo.
Di Bill neanche mi chiede.
Un po’ perché sa perfettamente che non ci sentiamo più. Un po’ perché dubito che, anche se fossimo ancora in contatto, vorrebbe sapere qualcosa di lui.
Sono le controindicazioni degli abbandoni.
C’è sempre qualcuno che la prende peggio di altri.
Gustav e Georg sapevano tutto, di noi, e per loro è stato molto più facile comprendere la nostra scelta. Il povero David, invece, è sempre rimasto all’oscuro di ogni cosa. Non lo biasimo, per essere rimasto così deluso. Credo non lo biasimi neanche Bill, in fondo.
È che ogni azione ha le proprie conseguenze.
Ogni tanto, sono così incredibilmente presuntuoso da credere anche che io e Bill lo sappiamo meglio di tutti gli altri.
*
Nostra madre è morta quando noi avevamo ventidue anni. Stavamo vivendo un periodo talmente glorioso che, se ci ripenso, mi sembra perfino irreale. Der Letzte Traum, il nostro terzo album in tedesco, era stato un tale successo in Europa che la Universal inizialmente non aveva nemmeno sentito il bisogno di realizzarne una versione in inglese per il mercato internazionale.
Ciò che non avevano immaginato era che il successo, stavolta, si sarebbe fatto sentire pure in America. D’altronde, comunque, dopo tutti quegli anni di gavetta, era il minimo potessimo aspettarci dalla vita.
Insomma: l’album in inglese l’abbiamo comunque fatto, alla fine. Le vendite di The Last Dream non sono certo state astronomiche, ma di sicuro non sono state indifferenti.
E perciò tutti noi stavamo vivendo un periodo davvero incredibilmente felice. Io e Tomi avevamo perfino comprato un appartamento a Magdeburg. In parte per stare più vicini a mamma e Gordon ma mantenere comunque un po’ di privacy anche durante le vacanze, ed in parte anche per far pesare di più certe rivincite che sentivamo di meritarci in pieno.
L’infarto di mamma è arrivato del tutto inaspettato. Ha svelato una serie di crepe nella sua salute che noi non immaginavamo nemmeno. Che nemmeno Gordon immaginava. Che neanche nostra madre, probabilmente, doveva aver realmente percepito.
Ci spaventò. No. Ci terrorizzò.
Ci pietrificò.
Cercammo comunque di stringerci attorno a lei, ci prendemmo una pausa dal lavoro, ricominciammo a fare la spola da Loitsche a Magdeburg – e non fu piacevole, non fu piacevole affatto, non fosse altro per il fatto che fummo costretti a fare a ritroso la stessa dannata strada di un tempo che avremmo preferito dimenticare. E la situazione contingente non aiutava, proprio no. – fummo dei bravi figli, davvero. Devoti. Responsabili.
Lei è morta comunque.
Il suo cuore era irrimediabilmente provato. Almeno, così ci disse il medico.
Era stata talmente forte, per tutta la sua vita, che a sentirla, come motivazione, pareva del tutto campata in aria. Provata, nostra madre? Era impossibile. La Simone che conoscevamo noi non sapeva neanche dove stesse di casa la fatica. Era instancabile. Frenetica. Sempre vigile. Attiva. Rumorosa e furbissima e incasinata e brillante e splendida. Tutta splendida.
Tom ed io realizzammo che era esattamente per questo che era morta. E fu orribile.
Fu orribile.
Non saprei descriverlo altrimenti.
Non ci ho neanche mai speso su particolari quantità di parole: era morta mia madre. Bastava, per esprimere lo strazio.
A ripensarci adesso, la title-track del nostro ultimo album suona un po’ come l’estrema presa in giro autoironica di una breve quanto fulminante carriera di successo. Der Letzte Traum è una canzone molto positiva – in realtà credo di non aver mai scritto canzoni veramente e pienamente negative, ecco, ma questa lo è particolarmente. Dice che, una volta che hai esaudito tutti i tuoi sogni, e da sognare non ti resta più niente, puoi cominciare a riposarti. Stare tranquillo. Pensare a te stesso e vivere in pace.
Der Letzte Traum, però, si chiude malissimo. Ripete il concetto, ma lo amplia anche.
Forse avrei fatto meglio ad evitarlo. Almeno, non sarebbe suonato così dannatamente premonitore.

Wenn du deine Träumen erfüllt hast
und Nichts bleibt ungeträumt,
ist der letze Traum trauriger (als alle anderen)

Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti.

*
Dopo la morte di mamma, io e Bill diventammo praticamente una cosa unica. Ogni singola persona del nostro entourage, perfino chi era più abituato a vederci agire in perfetta simbiosi, si stupì e, credo, venne perfino turbato dal nostro comportamento.
Avevamo un album che spopolava più o meno in ogni parte del mondo. Quella dannata canzone si sentiva su ogni stazione radio e pure in una o due pubblicità, se non sbaglio. Il video era ovunque. Avevamo un DVD in uscita. Un best of, dannazione. Coi video e le interviste e tutto.
Nostra madre era morta. E noi non riuscivamo a reggere il peso.
Fondamentalmente, ci alternavamo. C’erano momenti nerissimi in cui io o Bill non riuscivamo proprio a mantenere la lucidità. Erano momenti che tutti aspettavano con timore: sapevano sarebbero arrivati, li giustificavano perfino, ma ne erano spaventati a morte, perché spesso e volentieri coincidevano in scoppi d’ira o di pianto piuttosto violenti, ecco. Quindi, per dire, io cominciavo a lamentarmi e spaccare vetri chiuso in camera mia, e Bill manteneva la calma. Interagiva coi giornalisti, si occupava della promozione, ed a guardarlo non avresti notato, neanche cercando in fondo ai suoi occhi, nemmeno la più piccola traccia di disagio.
Poi Bill crollava inesorabilmente, e allora ero io a prendere in mano le redini della situazione, mentre lui si sfogava a modo proprio.
Reggevamo uno per volta i ritmi che già faticavamo a reggere insieme.
Cose simili non sono mai salutari.
Quindi sì, diventammo una cosa sola. Diventammo perfino troppo uniti. Troppo davvero.
Non ci separavamo quasi mai, se non, appunto, per lavoro. Cominciammo a dividere la stanza. Dormivamo, mangiavamo, ci lavavamo ed andavamo perfino al cesso insieme. Come dannati gemelli siamesi, neanche fossimo stati attaccati per i fianchi.
Io, sinceramente, non so chi pretese il primo bacio. Non so neanche perché, in effetti, cominciammo a baciarci. Sì, suppongo potesse avere a che fare con lo stare male, con l’aver bisogno di tornare vicinissimi come quando Simone ci proteggeva dall’universo intero stringendoci nell’abbraccio caldissimo del suo ventre, però insomma, anche a guardarla da questo punto di vista, non mi sembra una ragione sufficiente per rovinarsi la vita.
Eppure è bastata. Non è spaventoso?
Inizialmente, erano baci innocenti a fior di labbra. Semplici rassicurazioni. O consolazioni.
Poi hanno cominciato a farsi più lunghi. Sempre asciuttissimi, ma potevano durare anche delle ore. Ore intere, sì, potevamo stare ore intere nascosti in un cantuccio buio, solo a sfiorarci le labbra. Senza dire una parola.
Davvero: non ricordo chi fu il primo a pretendere di più. So che fu una pretesa, perché ne ho un ricordo estremamente impetuoso – io, Bill, il muro e nient’altro – ma, in fondo, chi sia stato il primo non importa: era comunque solo questione di tempo; non l’avesse fatto lui, l’avrei fatto io, e viceversa.
Fu un errore. Fu l’ostinazione infantile di credere che se fingi di non vedere qualcosa di brutto quella cosa scomparirà davvero.
Una volta Bill me lo disse chiaramente. Mi disse che gli piaceva baciarmi con la luce spenta, perché così poteva sentirmi ma non doveva necessariamente vedermi.
Mi fece male in maniera indescrivibile. Accesi la luce, lo guardai dritto negli occhi e risposi che a me, invece, piaceva baciarlo con la luce accesa, perché io volevo vederlo.
Parlavo e piangevo. Non perché ci credessi davvero. Non volevo davvero vederlo. Ma avevo la netta sensazione stessimo sbagliando proprio tutto, ogni singola tappa di quello che avrebbe dovuto essere un percorso di ripresa ed invece si stava dimostrando una lunga discesa verso la fossa dei leoni.
E, nonostante tutto, mi sembrava che Bill non mi capisse. Mi sembrava di essere solo col mio dolore. Con la mia nostalgia. Con questi desideri assurdi che provavo, che mi tenevano al caldo e mi avvolgevano di tenerezza, ma mi disturbavano così profondamente che non riuscivo neanche a pensarci senza sentirmi male.
Sapevo che Bill stava provando le stesse cose, non dico di no. Dico solo che era troppo preso da quelle per occuparsi anche delle mie.
D’altronde, per me era lo stesso.
Ci consolammo a vicenda per quanto potemmo, fino a quando le carezze e i baci bastarono.
Poi, però, si fecero insufficienti.
Eravamo di fronte ad un bivio: facciamo il passo avanti definitivo e ci distruggiamo irrimediabilmente la vita o proviamo a ricominciare da zero e vedere se cambia qualcosa?
Io non ho deciso. Non volevo farlo. Non avrei saputo come fare.
Io non ho deciso niente.
Bill ha certamente dimostrato molta più lungimiranza di me.
*
Georg e Gustav lo sapevano. Né io né Tom abbiamo mai detto loro nulla, ed in effetti neanche loro hanno mai confermato niente del genere, ma lo sapevano.
Noi lo capimmo quando cominciarono a coprirci. Anche fisicamente. Ricordo un momento preciso che ce ne diede la certezza matematica. Io e Tom, be’, non è che ci stessimo proprio con la testa, in quel periodo. Perfino nei momenti migliori, ragionare lucidamente sembrava un’impresa impossibile. David, in quel frangente, fu efficientissimo: continuava a propinarci vacanze ogni settimana, era sempre riluttante quando si trattava di farci tornare al lavoro e, quando la cosa si rivelava indispensabile, programmava le giornate fin nei più piccoli e insignificanti dettagli, per assicurarsi che non saremmo mai rimasti privi di un supporto che ci aiutasse a sostenere il ritmo. Finché c’era da eseguire ordini, non avevamo che da seguire la tabella di marcia. Era semplice. Scorrevamo l’elenco, segnavamo gli orari, provavamo le risposte e andavamo.
C’erano comunque ancora delle attività in cui potevamo ritrovarci piuttosto liberi di agire in preda all’ispirazione del momento.
E, quando non stai bene, non è mai una cosa buona.
Quel giorno avevamo sostenuto una delle solite interviste preconfezionate con Bravo, ed era andata discretamente. Monotona e tranquilla e rassicurante, come al solito.
Poi, però, ci dissero che c’era da fare un piccolo servizio fotografico per accompagnare l’articolo.
David montò su tutte le furie. Gli avevano promesso che avrebbero usato qualcuna delle foto mai utilizzate che avevano ancora in archivio. Gli risposero che la direzione aveva preteso qualcosa di nuovo, e Sascha annuì con aria professionale, dicendo che comunque si stupiva della sua riluttanza: far vedere alle fan che i gemelli ormai stavano bene era una mossa auspicabile. La mossa giusta.
Lo era davvero, a livello di marketing.
A livello umano, però, era una colossale menzogna, perché noi non stavamo bene affatto. David lo sapeva: per questo quel servizio fotografico lo irritava, sapeva che era quello – il nostro disagio – che sarebbe venuto fuori quasi trasudando fisicamente dalle pagine patinate della rivista. Niente di particolarmente rassicurante.
Ciononostante, fummo costretti a chinare il capo e fingere una propensione alla professionalità che, in quel momento, non sentivamo affatto.
Il titolo di quell’articolo fu qualcosa di estremamente lungo, adolescenziale, melenso e sciocco. Qualcosa del tipo “Alla fine dei sogni, i Tokio Hotel si preparano a ricominciare a sognare davvero”. Insomma: la classica reprise dei versi di una canzone che tutti quanti avremmo preferito relegare nel dimenticatoio e che invece sembrava destinata a perseguitarci ancora a lungo.
Ciononostante, c’era qualcosa di vero.
Io e Tomi, il nostro nuovo sogno, lo stavamo vivendo davvero.
Quella settimana ero io, quello lucido. Tom non stava affatto bene. Doveva aver mangiato – solo perché costretto – forse appena un panino negli ultimi tre giorni. Era debole. Affaticato. Stanco. Crollava di sonno perché la notte non riusciva a riposare correttamente, e veniva dritto dritto da un attacco isterico che l’aveva colto quella stessa mattina e che si era manifestato nel cominciare a chiedere insistentemente di tornare a Loitsche perché aveva qualcosa da dire a Simone. Continuava a ripetere “Lo so che è morta, non sono impazzito, è alla sua tomba che voglio parlare!”, mentre io provavo a calmarlo accarezzandogli le spalle e David cercava ovunque un tranquillante.
Non era una buona giornata. Decisamente.
All’improvviso, mentre posavamo per il fotografo, mollemente adagiati su un pavimento bianco e immacolato, sentii la mano di Tom posarsi sulla mia e stringersi convulsamente attorno alle dita.
Non potei scansarla. Non potevo farlo a Tom. Sarebbe stato buono e giusto, ma non potei.
Ricordo che pensai “oddio, no”. Nessuno avrebbe dovuto vedere una cosa simile. E invece ecco che si preparava ad andare in stampa. Impressa su pellicola per l’eternità.
Sudai freddo e girai intorno a me uno sguardo disperato, solo per notare che Georg e Gustav, che originariamente stavano seduti rispettivamente alla mia destra ed alla sinistra di Tom, s’erano spostati fino a sedersi davanti a noi, schiena contro schiena, in modo da coprire perfettamente l’intreccio delle nostre dita.
Il fotografo, alla fine, scelse quella foto lì ed un paio di mezzibusti per ciascuno da piazzare in trasparenza come sfondi alle colonnine dell’articolo. In sostanza, ne venne fuori un servizio fotografico molto meno disastroso di quello che avevamo pensato inizialmente. Soprattutto, però, niente di troppo pericoloso era uscito dalla nostra intimità. Eravamo salvi, e non solo: eravamo stati salvati. I nostri salvatori erano stati Georg e Gustav.
Quell’episodio valse a farci capire quanto profondamente ci conoscessero e con quanta attenzione e quanta cura ci avessero tenuto d’occhio fino a quel momento. Allo stesso tempo, però, ci fece comunque capire anche quanto grave e pericolosa fosse la situazione in cui c’eravamo andati a cacciare.
Era un incesto.
Tutto ciò che stavamo provando si risolveva in una parola secchissima e dal suono orrendo – per non parlare delle sue implicazioni.
Suonava perfino sbagliato da definire in quel modo, perché non c’era proprio nulla di orrendo, tra me e Tomi. Solo tanta dolcezza, forse troppa, e tanto dolore, sicuramente troppo – ma era la realtà dei fatti. Le definizioni sono comunque sempre troppo concise, troppo dirette e troppo dolorose. Troppo esatte, in fondo. È per questo che fanno tanto male.
In quel periodo ero io, quello lucido. I nostri periodi non avevano mai una durata fissa. Non erano ciclici, non erano regolari, non erano ordinati e non erano affidabili.
Non potevo aspettare che Tomi rinsavisse, perché a quel punto sarei andato in black out io, e…
…se avessi aspettato, saremmo ancora impantanati in quella situazione. Non potevo proprio ritrarmi, dovevo prendere una decisione. Dovevo fare qualcosa.
The Last Dream aveva appena concluso di scalare faticosamente la classifica dei singoli più venduti in Canada, giungendo ad un primo posto che risuonò come una sinfonia alle orecchie di David, quando annunciai che avrei lasciato i Tokio Hotel e la musica.
L’ultimo sogno era finito.
*
Non posso colpevolizzare Bill. Non posso farlo, perché lui mi parlò a lungo, prima di mollare. Cercò di farmi capire, di prepararmi all’impatto, di motivarmi. “Non posso restare qui, Tomi”, diceva dolcemente, abbracciandomi, “Non posso continuare a girarti intorno. Altrimenti, come farai a dimenticarmi?”.
La verità è che non avrei potuto comunque, ed infatti non l’ho fatto. Continuavo a lamentarmi e piangere, ma non prendevo atto di nulla. Ascoltavo le parole di Bill, mi ferivano in profondità, ma non le immagazzinavo. Preferivo concentrarmi sulla sua stretta, sul battito del suo cuore, sulla gentile carezza del suo respiro sul mio collo.
Purtroppo, dal momento che proprio non riuscivo a ragionare correttamente, ricordo poco dei nostri ultimi giorni insieme. Tutti i pochi ricordi che posseggo sono molto dolci ed anche molto tristi, intrisi di una nostalgia potentissima che ha cominciato a farsi strada nel mio cuore già prima che Bill partisse. Non ricordo niente di come la presero gli altri, di come reagirono. So che ci sono stati dei litigi furiosi, dei tentativi di cambiare ciò che era già stato stabilito, so che fu in quei giorni che il rapporto fra David e Bill si incrinò e poi si spezzò irrimediabilmente nel momento in cui il nostro manager fu costretto a sciogliere il contratto ed accompagnare per l’ultima volta all’aeroporto il figlio che non aveva mai avuto ma che, dannazione, aveva voluto con tutte le proprie forze, e che alla fine gli era sembrato perfino di essersi guadagnato.
Rinsavii nel momento stesso in cui Bill si allontanò da me.
Non riuscii a dire o fare niente. Ricordai tutti i discorsi che mi aveva fatto, con una lucidità ed una chiarezza perfino dolorose, e mi resi conto di non poter fermare l’ingranaggio che era stato messo in movimento.
Non ci saremmo mai più rivisti.
*
Cerco di tenere lo sguardo basso. So che Tom è da qualche parte qua vicino, riesco a sentirlo con estrema precisione, ma non so se sono già pronto a fissarlo negli occhi e chiedergli scusa. So che è questo che dovrei fare, ma è sempre stato lui la mia forza, e da quando lui non è più con me sono diventato irrimediabilmente debole. Non sono sicuro che ritrovarmelo davanti possa ridarmi il coraggio che ho perso. Vorrei fosse così semplice, ma non lo è mai.
- Vorrei farti conoscere una persona… - mormora Gustav, richiamando la mia attenzione su di sé.
Sollevo lo sguardo, forzando un sorriso condiscendente, e mi ritrovo davanti una bambina stupenda.
- Oddio… - mormoro emozionato, - Tu devi essere Franziska…
Non ho ancora avuto modo di conoscerla di persona. Ovviamente, l’ho vista in foto, ma Gustav non l’ha mai portata in viaggio, e d’altronde è così piccina che la cosa proprio non mi stupisce. Ieri, tra l’altro, quando loro sono tornati a casa, io già dormivo come un ghiro – anche perché, in realtà, non avevo alcuna voglia di lasciare che Gustav cambiasse davvero le lenzuola di quel letto. E stamattina mi sono svegliato così tardi che…
…be’. Che sono tremendo l’ho già detto.
- Ma sei uno splendore! – sorrido, protendendo le braccia verso di lei. Franziska si ritrae, stringendosi al petto di suo padre, e mi guarda un po’ incuriosita.
- Papà… perché Tomi non mi riconosce? – bisbiglia incerta.
Ci metto un po’ a capire cosa vuole dire. Rimango a fissarla attonito, mentre Gustav la libera dalla stretta, consentendole di scivolare lungo il suo corpo e scappare via in cerca di qualcosa di meglio da fare. Poi mi sorride tristemente, come volesse scusarsi.
- Perdonala. – mormora imbarazzato, - Tu e Tom vi somigliate così tanto che deve essersi confusa.
Io cerco di abbozzare un sorriso, ma mi riscopro molto più turbato di quanto non vorrei.
- Lo conosce bene, lui? – chiedo a mezza voce, abbassando nuovamente lo sguardo.
Gustav annuisce.
- Tom è stato piuttosto presente, devo dire… - poi si blocca un secondo, e si affretta a correggersi, - D’altronde, era normale: vivendo qui vicino…
Sorrido per rassicurarlo e mi sforzo pure di guardarlo negli occhi.
- Non mi sono mai scusato per non essere venuto… al tuo matrimonio, intendo. – mormoro incerto.
Gustav sorride bonario.
- In realtà l’hai fatto circa un milione di volte.
- Be’… non credendoci davvero. – sorrido mesto, stringendomi nelle spalle. – Le altre volte, anche quando mi scusavo, pensavo comunque di aver fatto la cosa giusta, l’unica possibile. E quindi mi dispiaceva, ma non ero pentito.
- …ed ora lo sei?
Sorrido ancora.
Non voglio veramente rispondere a questa domanda.
E infatti non lo faccio.
*
Franny mi sta guardando come fossi un alieno già da una buona mezz’ora. Inarco un sopracciglio e la guardo allo stesso modo anch’io. Lei mi fissa di rimando, sconvolta, e poi suggella la propria disapprovazione con una linguaccia inviperita. A questo punto, non posso proprio fare altro che ridere di cuore ed avvicinarmi per scompigliarle i capelli, tra le sue proteste. Come mi permetto di scombinarli?! Mamma glieli ha acconciati fino a poco prima di arrivare in chiesa!
- Be’? – chiedo curioso, - Che avevi da guardarmi a quel modo?
Lei aggrotta comicamente le sottili sopracciglia bionde, scrutandomi con sospetto.
- Perché prima hai fatto finta di non conoscermi?! – mi rimprovera, offesa.
Oh.
Mi chino su di lei, cercando di sorridere rassicurante.
- Franny, quello di prima non ero io.
- Sì che eri tu! – protesta lei, - Ti ho visto!
- No. – sorrido ancora io, - Non hai visto me, hai visto il mio gemello, Bill. Lui è uguale a me, sai?
- Non mi fare questo scherzo! L’ha fatto pure Theo alla maestra, l’altra volta, ma lei l’ha scoperto e l’ha messo in castigo! Non ti parlo più, sai?!
- Dovresti credere a Tomi. – dice la mia voce da qualche parte alla mia sinistra. Solo che non è la mia voce. Io ci metto un po’, a capirlo, però decisamente non è la mia voce. – Lui è sempre molto sincero.
Franny solleva lo sguardo prima di me. Spalanca gli occhioni azzurrissimi che ha preso dalla mamma e modula le piccole labbra sottili di papà in una “o” di puro stupore, irrigidendosi tutta.
- Siete proprio due! – esulta, mentre sul suo volto si apre un delizioso sorriso sorpreso e divertito, - Siete ugualissimi!
Io mi rimetto dritto ma non mi volto. Mi sembra che lo smoking che indosso mi trattenga fermo, come fossi marmorizzato.
Sarebbe molto più facile, se fossi una statua.
Franziska evita il mio corpo e trotterella felice alle mie spalle, cominciando subito le presentazioni.
- Scusa per prima, credevo che eri Tomi che mi voleva fare uno scherzo! – trilla gioiosa, - Io sono Franziska e tu sei Bill! Vuoi giocare con me?
Bill ride di cuore, eppure a bassa voce, discreto, come avesse paura di farsi sentire da qualcuno, o come avesse paura che la sua risata potesse risultare offensiva per gli altri.
- Magari dopo. – risponde pacato, - Tuo papà ti sta cercando. È vicino al vaso di fiori gialli che c’è all’entrata. Lo raggiungi?
Franziska non risponde. Immagino abbia annuito e si sia messa a correre verso papà per raccontargli la nuova meravigliosa scoperta che ha effettuato, perché sento il tacco basso delle sue scarpette martellare il pavimento marmoreo della navata laterale all’ombra della quale mi sono nascosto, e poco dopo non sento più nulla.
Se non la presenza di Bill da qualche parte accanto a me.
Riempie già abbastanza i miei sensi. Non voglio sentire nient’altro.
- Tomi. Mi guarderai, prima o poi?
Sì. Certo che ti guardo, Bill. Certo che ti guardo.
Mi volto lentamente. Non so di cosa ho paura, ma so per certo che è proprio paura, quella che sto provando. Paura in piena regola. Con i tremori e i sudori freddi. Mi sembra di avere la febbre, e invece no, è solo paura.
- Bill…
Il suo nome è dolcissimo. È la cosa più dolce che esista. Mi riempie la bocca ogni volta che lo pronuncio, ma in questi dieci anni ogni volta era anche uno spillo nel petto. Adesso no. Adesso suona solo come un bel sorso d’acqua fresca.
Bill sorride. Sta fermo solo per un attimo. E poi mi corre addosso, impattando contro il mio corpo e stringendomi fra le braccia con urgenza, mentre io cerco un varco per stringerlo a mia volta e, non trovandolo, mi lascio semplicemente andare contro il suo collo, inspirando il suo profumo, saggiando il tepore della sua pelle con le labbra, sfiorandogli una guancia con le ciglia.
- Amore mio…
E non so chi l’abbia detto. Non percepisco il mio corpo muoversi. Non riconosco le differenze fra le nostre voci. Forse perché semplicemente non ce ne sono più. Magari la distanza ha cancellato anche quelle.
- Dio… - stavolta so chi sta parlando. È lui. Lo so perché s’è allontanato da me e posso vedere le sue labbra modulare le parole. Avrei preferito rimanesse più vicino, ma mi sta bene anche così, alla fine. – Ora capisco perché Franziska mi ha scambiato per te…
- Sì, è sorprendente! – rispondo io, con entusiasmo perfino eccessivo, - Siamo identici! Non so più da… sono decenni che non siamo più così uguali!
Bill scuote lentamente il capo.
- No. – risponde pacato, - È che sorridiamo allo stesso modo. – la sua tranquillità s’incrina, mentre si stringe nelle spalle ed inarca le sopracciglia, guardandomi tristemente. – Sei stato molto male?
Io cerco di mantenere il sorriso. Non voglio incolparlo di niente, davvero. So che ha già provveduto da solo. Lo so, perché lo conosco. Nonostante tutto il tempo passato, io lo conosco ancora benissimo.
- Non pensiamoci. – dico, scuotendo il capo, - Cielo, sei biondo! Non posso veramente stare a riflettere sulla sofferenza, sei biondo!
- Anche tu! – ride lui, coprendosi le labbra con una mano, - Non fare sensazionalismi!
- Per me essere biondo è la norma! – ribatto competente, socchiudendo gli occhi.
Lui inclina lievemente il capo.
- Anche per me. – ammette in un sospiro, - Ormai da cinque o sei anni, credo. Ho tagliato i capelli, li ho lasciati ricrescere del loro colore… sono diventato un perfetto signor Nessuno. – sorride ancora, intrecciando le braccia dietro la schiena. – Non sei fiero di me?
Io inarco le sopracciglia, ghignando sardonico.
- Quello sempre. – ma il mio sorriso si smorza inevitabilmente. – Hai visto? – chiedo poi, deglutendo agitato. – Non ti ho cercato. Sono stato bravo.
Lui annuisce lentamente.
- Non ne ho mai dubitato. – poi si lascia andare ad un sorrisino brevissimo, triste in maniera quasi dolorosa, e si avvicina nuovamente, - Com’è Karen? – si informa, - È giusta per Georg?
Ridacchio divertito.
- Perfetta.
- E Marlene per Gustav?
- Anche lei.
Ride compiaciuto, rilassando le spalle tese.
- Ognuno ha il suo, vedo. – commenta ironico, - E noi due?
Mi stai provocando o stai solo cercando di dirmi qualcosa?
- Noi ce l’abbiamo da sempre.
Il suo sorriso si fa dolcissimo, ed ancora più triste. In questo preciso momento, non so se vorrei cancellarlo o lasciarglielo addosso per sempre. È stupendo e fa male. È la perfetta sostanza di Bill. Bill è fatto di questi sorrisi qui. Da sempre.
- Io sto in una casa che odio. – dice a bassa voce, - La vista è splendida, ma è enorme. È vuota. La odio e basta.
Fingo di riflettere.
- Be’, il mio appartamento a Loitsche è già piccolo per me e Gordon, però la città è molto diversa da com’era prima. È più grande. Magari un appartamento nuovo si trova.
Il suo sorriso si apre ancora un po’. Si fa più luminoso. Decisamente più sostenibile. E infatti sorrido anche io.
- Non pensi che sarebbe uno sbaglio enorme?
Mi mordo un labbro e scuoto il capo.
No, non lo penso. Mai, mai, mai.
Bill inspira e trattiene l’aria nel petto, come volesse provare a farsi coraggio.
- Tomi… davvero pensi che noi potremmo-
- Non ha importanza quello che penso. – lo interrompo, fissandolo dritto negli occhi, - È ciò che voglio. Tu lo vuoi?
Georg appare al mio fianco, le sopracciglia aggrottate ed un broncio estremamente infantile sul volto.
- Posso anche essere contento di questo riavvicinamento, - commenta, incrociando le braccia sul petto, - ma non posso dire “sì” senza il mio testimone di nozze! Tom, ci diamo una mossa o no?
Io e Bill scoppiamo a ridere nello stesso momento, e Georg ci guarda come fossimo improvvisamente diventati viola, inclinando lievemente il capo.
- Non si dice “sì”, Georg. – lo corregge Bill, avvicinandosi a lui per stringerlo in un abbraccio che è al contempo un “congratulazioni”, uno “scusa” e un “ti voglio bene”. Poi si volta a guardarmi. – Si dice “lo voglio”.
Sorrido.
Possiamo farcela.
Forse non è vero che ad un certo punto i sogni si esauriscono. Forse continuano a nascere sempre. Forse proprio non scompaiono mai.
- Be’, andiamo. – sospiro infine, tirando Georg per il colletto dello smoking e strappandolo letteralmente dalle braccia di Bill, - Con tutta la fatica che hai fatto prima di trovare quella giusta, ci manca solo che ti fai abbandonare all’altare perché sei arrivato in ritardo!
Genere: Triste, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Hurt/Comfort.
- Scritta prendendo ispirazione da ciò che sta succedendo ora come ora in casa Tokio Hotel. Bill sta male ed il concerto di Lisbona viene annullato. A Tom tocca fare l'annuncio alla folla e, supportato silenziosamente da Georg e Gustav, pure sostenere una conferenza stampa, mentre suo fratello torna in Germania per farsi visitare al più presto da uno specialista.
Note: Questa storia è nata perché l’angoscia mi stava divorando viva, ecco XD Non so perché ho aspettato i vent’anni, per vivere pienamente “passioni” come questa che nutro per i Tokio Hotel, così tipicamente adolescenziali negli intenti e nei modi da sembrare quasi ridicole. Per certi versi sono consapevole che sarebbe stato meglio l’avessi vissuta a sedici. Sarebbe stato più giustificato, forse anche più giusto. Per altri versi, sono piuttosto convinta che non sarebbe stato “bello” come invece è adesso ^^
Insomma, tant’è: Bill sta male ed io sono in pena per lui ç_ç Quando è arrivata la notizia del concerto di Lisbona annullato (e poi, in una spirale di depressione, Madrid, Douai e Ginevra), sono praticamente andata in paranoia °° Suona cretino dirlo, ma insomma! Ognuno ha i suoi motivi per star giù di morale XD
È venuta fuori una specie di dichiarazione d’amore a Tom, alla fine. Come sempre. Il punto è che è stato veramente molto forte. Fronteggiare la massa di ragazzine infuriate e poi quella di giornalisti curiosi… tra l’altro, non so se David fosse o meno coi ragazzi: certo è che durante la conferenza stampa non si vede. O era attaccato al cellulare con Bill che tornava a casa, o era effettivamente con lui. Quello che resta è che Tom è stato molto forte. E mi ha pure commossa, toh.
Sperando che il criceto si rimetta presto (e ci sono buone possibilità che proprio ci diventi, un criceto, visti gli effetti devastanti che ha il cortisone sulle sue guanciotte XD), vi saluto <3
PS: Comunque il fangirling è malefico. Soprattutto quando esercitato sotto stress. Io e Meg ne abbiamo scritto due contemporaneamente sullo stesso argomento XD Oserei dire siano differenti e simili ed anche complementari. Un po’ come i gemelli. Twinfic <3
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HOLD ON, BE STRONG

Se la stava facendo addosso. Letteralmente. Sentiva il bisogno fisico di scappare in bagno. E restarci. Il più a lungo possibile.

Coraggio, Tom. Non è mica la prima volta che fronteggi un’orda di ragazze innamorate, deluse e considerevolmente incazzate. Succedeva sempre a Loitsche, no? Succedeva sempre quando le voci cominciavano a circolare troppo diffusamente e tutte le ragazze cominciavano a subodorare di avere davvero solo una cosa le accomunasse tutte: te. Ed allora partivano le spedizioni punitive. Ed era pure peggio di così, no? Lì, ad essere considerevolmente incazzate non erano solo le ragazze, ma anche un buon numero di fratelli maggiori e migliori amici iperprotettivi.
Allora era peggio. Nessuno vuole veramente ucciderti, adesso.
E poi non sarai nemmeno solo. Ci saranno Georg e Gustav, con te. Georg e Gustav sono una buona assicurazione sulla vita, no? Sono forti. In caso di rivolta, ti farebbero scudo col loro corpo, lo sai.
Non c’è proprio niente di cui aver paura.
Coraggio.


Si lasciò andare ad un mugolio preoccupato ed ansioso, scivolando lentamente sulla sedia accanto a quella in cui suo fratello giaceva, raggomitolato in una coperta di lana e totalmente abbandonato contro lo schienale.
- Come stai…? – chiese a bassa voce, sollevando una mano ad accarezzargli una guancia e poi a massaggiargli piano il collo.
La pelle di Bill scottava. La sua, invece, era freddissima.

Magari questa paura fottuta si rivela pure utile per qualcosa, chissà.

Bill piegò le labbra in un sorriso semplicemente stremato, abbandonandosi contro la sua mano e socchiudendo gli occhi sotto le sue carezze.
- Sono stato meglio. – scollò a fatica. E poi deglutì. Tom lo sentì sotto le dita. E deglutì a propria volta. – Mi fa male la gola…
- Bill. – la voce di David suonò ansiosa e freddissima, infrangendo il silenzio del backstage e mettendo in agitazione tutti, - Abbiamo un biglietto virtuale che ci aspetta all’aeroporto. Vuoi che venga qualcuno con te?
Bill scosse il capo, aggrottando le sopracciglia.
- Ho già causato-
- Balle. – lo interruppe Tom, stringendo dolcemente la presa sulla sua nuca, - Non puoi andare da solo. David, vai con lui.
Il manager gli scoccò un’occhiata stupita dalla porta, schiudendo le labbra come per parlare ma restando in silenzio come non sapesse effettivamente cosa dire.
- Tom, dovete parlare coi giornalisti. Io non so se è il caso di lasciarvi soli…
Tom avrebbe voluto rispondere prontamente che sì, era decisamente il caso, perché Bill stava male proprio tanto e lui aveva bisogno di sapere che qualcuno di fidato sarebbe stato con lui per ogni evenienza.
Ma non ne ebbe la forza.
Perché era terrorizzato. Perché avrebbe voluto essere lui a seguirlo mentre tornava in Germania. Perché il solo pensiero che Bill stesse così male evidentemente toccava qualche nervo scoperto del suo corpo. E faceva male.
Fortunatamente, Georg sembrava aver mantenuto quel misero brandello di lucidità che lui aveva immediatamente perso quando aveva capito che Bill non ce l’avrebbe fatta, e che Gustav aveva smarrito conseguentemente quando la cosa era diventata pesante al punto da richiedere il rimpatrio.
- David, possiamo cavarcela. Sappiamo già cosa dire, ci limiteremo a ripeterlo fino alla nausea.
Jost fece una smorfia, avvicinandosi lentamente a Bill e controllandogli la temperatura con una mano sulla fronte, per poi rimboccargli la coperta attorno al corpo, un attimo prima che lui si abbandonasse contro il petto di suo fratello. Che lo strinse a sé mordendosi le labbra, perché era tutto ciò che poteva fare, e tutto ciò che poteva fare era troppo poco.
- Non lo so. Vediamo se almeno con le ragazze possiamo far parlare solo un organizzatore…

Altro che organizzatore.
Quelle vogliono noi.
Se non usciamo, vorranno pure la nostra pelle.


Ed infatti così era stato: per il pover’uomo che aveva ottenuto l’incarico “diplomatico”, non c’erano stati che fischi e boati di disapprovazione.
- Dobbiamo uscire noi. – aveva sibilato Gustav, guardando lo stage da dietro le quinte, senza preoccuparsi di nascondere la nota spaventata che aveva assunto la sua voce.
- Già. – aveva annuito Georg, mentre Tom si perdeva nel respiro un po’ affannoso di Bill, ancora stretto fra le sue braccia, - E voi dovete andare. Appena daremo l’annuncio ufficiale, il palazzetto comincerà a svuotarsi… la cosa potrebbe farsi pericolosa.
- In effetti, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è uno stuolo di ragazzine piangenti che insegue la macchina. – aveva considerato pensosamente l’uomo, dondolando nervoso sulle gambe. – Bill? Te la senti di muoverti?
Bill non aveva risposto. Aveva sollevato lo sguardo su Tom e ne aveva calamitato l’attenzione, fissandolo con una tristezza difficilmente sostenibile. Lui s’era sforzato quantomeno di abbozzare un sorriso, stringendolo con più decisione.
- Vai. Ci mettiamo sul primo aereo appena possibile. – gli aveva sussurrato piano all’orecchio, prima di baciarlo teneramente su una guancia.
Bill aveva tirato le labbra in una smorfia addolorata. Per lui non doveva esistere niente di peggio, probabilmente: mal di gola – con sospetta laringite, giusto perché, quando c’è da infilarsi in una disgrazia, è sempre meglio scegliere la peggiore – un concerto annullato – probabilmente più d’uno, per quanto Tom fosse certo più o meno metà del mondo stesse sperando il contrario, mentre l’altra rideva sadicamente – e, per di più, dover tornare a casa praticamente da solo.
- Vai. – ripeté, consegnandolo letteralmente fra le braccia di David.
Non poteva guardarlo più. Non ci riusciva.
Si alzò lentamente, raggiungendo Georg e Gustav già pronti ad entrare in scena.
Prese un enorme sospiro e si mosse.
*
Io non ce la faccio.
Io non ce la posso fare.


Non riusciva proprio a capire se la quantità enorme di ragazzine che stava fronteggiando li amassero tutti alla follia o li odiassero a morte.
In effetti, non era un particolare veramente rilevante. Si sentiva comunque in pericolo di vita.

Non posso nella maniera più assoluta. Non da solo.
È Bill che parla, in questi casi. Io, al più, dico una cazzata al volo per far ridere tutti.
È Bill quello degli annunci seri. Quello del cuore e del cervello. Quello che spiega le cose come stanno.

Io non ce la posso proprio fare. Sul serio.


- Ci dispiace molto… - cominciò, dondolandosi incerto sulle gambe e torturando la maglietta in maniera del tutto irrazionale, - Bill sta molto male. – e dirlo gli metteva sulla lingua davvero un brutto sapore. Un sapore amaro e pungente. Fastidiosissimo. Aveva la nausea. – Ha perso la voce. – Dio. Dio, Dio, Dio. La sua voce. – In questo momento sta tornando in Germania, per farsi visitare da uno specialista… - il boato che si alzò dalla folla lo terrorizzò ancor più di quanto non fosse già. Georg e Gustav, dietro di lui, respiravano così affannosamente che poteva sentirli nonostante tutto. Era consolante, in un certo senso, sentire un sentimento condiviso in quel modo. Era tremendo, per altri versi, che nessuno potesse condividere il suo sentimento nella sua pienezza. Solo Bill. E Bill non c’era. – Ci dispiace molto, per oggi. Ma torneremo, il ventinove giugno. I vostri biglietti sono ancora validi per quella data.

Lo sono ancora. Anche se in questo momento sto odiando l’Europa intera. E tutte quante voi. E l’Universal, e David, e me stesso ed anche Bill e tutto il mondo a seguito.
Vorrei che questo tour non fosse mai cominciato. Vorrei che Bill non si fosse mai ammalato.
Vorrei essere con lui. Cazzo.


La donna al suo fianco aveva tradotto per le fan. Ulteriori boati. Lacrime a fiumi.

Spero stiate piangendo perché siete in pena per lui.

Aveva preteso il microfono, e salutato tutte un’ultima volta. Non c’era motivo per cui non dovesse credere alla loro buona fede.
Tornando nel backstage, s’era sentito cedere. Di David e Bill non c’era più alcuna traccia. Immaginò suo fratello fosse già in aeroporto. Possibilmente sull’aereo.

Oddio.
Dovrò tornare in aereo senza di lui.


Scosse decisamente il capo. Pensieri come quello erano del tutto fuori luogo.
Gustav gli batté una mano sulla spalla, passandogli frettolosamente accanto.
- Forza. – lo incitò conciliante, - Sbrighiamo questa pratica e torniamo a casa.
*
Gli sembrò di essere in grado di tornare a ragionare normalmente soltanto quando mise piede in casa. C’erano quasi tutte le luci spente, e l’ambiente era avvolto in una cortina di silenzio irreale e spaventosa. Georg e Gustav si ritirarono quasi immediatamente nelle loro camere: erano esausti. Lui, invece, si diresse istintivamente verso la luce.
Davanti al portatile acceso, nel piccolo studio attiguo alla sala, David monitorava qualcosa come dieci forum diversi, mordicchiandosi le labbra con aria perplessa.
Quando lo sentì entrare, sollevò lo sguardo e poi scattò immediatamente in piedi, raggiungendolo sulla porta.
- Meno male. – gli disse, abbozzando un sorriso e stringendogli rassicurante una spalla, - Siete stati bravi. Fermi e concisi.
Anche Tom si sforzò di sorridere, abbassando impercettibilmente lo sguardo.
- È tutto a posto? – chiese poi, indicando il computer con un cenno del capo.
- Solite noie. – sbuffò David con una smorfia, - Niente di irrimediabile.
Lui annuì, inumidendosi le labbra. Era nervoso. Elettrico.
- David…
- Sta bene. – rispose lui, sorridendo, senza nemmeno lasciarlo finire, - Cioè, bene magari è una parola un po’ grossa, ma la situazione non è così drammatica. Certo è che per ora è completamente afono. – aggiunse con un sospiro, - Madrid salta per forza.
Tom annuì meccanicamente. Un movimento così rigido che gli fece male al collo.
- Allora io… vado a dormire… - mugugnò incerto, indietreggiando verso la porta.
- Tom. – lo richiamò David, prima che riuscisse ad uscire, costringendolo a fermarsi, voltarsi indietro e guardarlo. – Tuo fratello… - cominciò, con un sorriso un po’ intenerito ed un po’ irrimediabilmente divertito, - ha preteso che gli facessi vedere il filmato dell’annuncio. Credo che metterlo online sia stato il primo pensiero delle fan, tornando a casa. – rise piano, e rise anche Tom. – Mi ha detto di dirti che è molto orgoglioso di te.
Tom sollevò lo sguardo su di lui, schiudendo stupito le labbra. Ma non disse niente.
- Lo siamo tutti. – concluse David, sorridendo più apertamente. – Buonanotte.
*
Bill dischiuse subito gli occhi, quando sentì la lievissima pressione delle sue dita fra i suoi capelli. Non voleva svegliarlo, solo che la frangia era scesa a coprirgli il viso fino al naso, ed aveva paura che potesse dargli fastidio, e quindi…
…be’, sì, si sentiva molto stupido.
- Scusa. Torna a dormire… - disse, cercando di sorridere tranquillamente.
Bill scosse il capo e non parlò. Non poteva, ma non è che ci fosse davvero qualcosa da dire, in ogni modo.
- Vuoi… - deglutì. Il saporaccio sulla lingua era ancora lì. Forse s’era un po’ attenuato, però. - …posso restare? – si decise a chiedere, torturandosi il labbro inferiore con gli incisivi, - Sai, - aggiunse in una mezza risata imbarazzata, - credo di avere una quantità di coraggio piuttosto limitata. E di averla pure esaurita tutta.
Bill ridacchiò. Pianissimo. Un suono appena percettibile.
Ma si spostò più in là sul materasso, e sollevò le coperte perché Tom potesse prendere posto accanto a lui.
Scivolò sul materasso senza neanche svestirsi, lanciando lontano le scarpe con un calcio disinteressato. Bill mugolò soddisfatto, accoccolandosi contro di lui ed affondando il viso nel suo petto.
Riuscì a prendere sonno solo quando sentì il suo respiro tornare lento e regolare.
Era ancora preoccupato. Ma standogli accanto, in qualche modo, sembrava tutto incredibilmente più facile. Magari, per arrivare alla fine di quella brutta storia, non sarebbe servito poi tantissimo coraggio. Solo qualche abbraccio in più.
…e, probabilmente, un’altra settimana di guance da criceto.
Titolo originale: Forever Sacred
Autrice: Lirren
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Death, OC, Traduzione.
- Georg e Gustav si ritrovano a guardare da lontano la piccola folla di persone presente al funerale dei loro più cari amici, e si lasciano andare ai ricordi.
Note: Oddio ç_ç Prima di tutto, ci terrei a specificare che questa fanfiction mi ha portato – forse ingenuamente – a rivedere la (bassissima) considerazione che avevo delle deathfic. Il fatto è che ho sempre creduto (probabilmente a ragione, eh XD) che la maggior parte delle deathfic risultasse inesorabilmente per fare schifo – soprattutto in ambito RPF, devo dire. Forever Sacred mi ha spiazzato, perché è incredibilmente semplice, incredibilmente vera e, a mio parere, anche incredibilmente toccante. Nel momento esatto in cui Gustav confessa ciò che ha fatto, io ed Ana abbiamo avuto la stessa reazione. Prima abbiamo riso, e poi c’è venuta una voglia incredibile di piangere. Anche rileggendo la storia per tradurla, la mia reazione è stata lo stesso, ed è veramente stupenda come cosa.
Spero sia piaciuta anche a voi ^_^ Commentate numerose, perché tradurrò i vostri commenti per l’autrice originale ù_ù Facciamola sentire amata come merita, e vedrete presto anche le altre shottine (tutte adorabili, e fortunatamente molto più allegre e comprendenti i gemelli sotto forma vivente XD) situate nello stesso universo! A presto <3 :*
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PER SEMPRE SACRO
Forever Sacred

Georg rimase a fissare quietamente il piccolo gruppo di persone che stazionava a qualche metro da lui. Sapeva che c’erano persone che avrebbero preferito lui si trovasse fra loro, ma ciò che stava provando non era qualcosa che fosse intenzionato a condividere con persone che erano, in effetti, relativamente degli sconosciuti. Un lieve suono lo forzò a concentrare la propria attenzione sull’uomo al suo fianco. Gustav stava immobile, tranquillo, gli occhiali da sole a nascondere gli occhi.
- Quanto ancora pensi che durerà? – chiese, tornando a guardare il gruppo.
Gustav scrollò le spalle.
- Mezz’ora, forse. – sollevò il viso a guardare il cielo, - Almeno è una bella giornata.
Georg annuì. L’ultima volta che erano stati lì insieme, sei anni prima, quando avevano sepolto la moglie di Gustav, dal cielo cadeva nevischio. Poteva ancora ricordare l’espressione vuota e desolata sul volto di Gustav, dopo che anche l’ultima preghiera era stata detta. Si era preoccupato così tanto che aveva deciso di passare qualche giorno dormendo sul suo divano, solo per controllarlo. Era stato strano il modo in cui s’erano velocemente riadattati alle abitudini della convivenza, anche dopo più di trent’anni passati lontani, e un po’ di giorni s’erano trasformati in settimane, poi in mesi, fino a quando finalmente era stato Gustav a suggerire sarebbe stato meglio rendere la soluzione permanente.
Georg si guardò intorno.
- Sono sorpreso di non vedere telecamere.
Gustav si strinse nelle spalle.
- Non facciamo più battere il cuore a nessuna teenager, oramai. A nessuno importa di un gruppetto di nonnetti.
Georg si offese.
- Parla per te, nonnetto. Io sono un figo come sempre.
Gustav ghignò leggermente.
- Sì, okay. Continua a ripetertelo, se questo ti fa stare meglio.
Il matrimonio di Georg era durato solo qualche anno, ma nel momento in cui colse in uno sguardo la figura di sua figlia ferma in mezzo al capannello di persone si rese conto di nuovo di non averlo mai rimpianto. Kati era la luce della sua vita, e nessuno era stato più felice di lui quando il figlio di Gustav l’aveva chiesta in sposa. Ricordava ancora come lui, Gustav e i gemelli si fossero ubriacati fino a svenire al ricevimento di notte, e come lui avesse cominciato a piagnucolare e blaterare sull’essere felice del fatto che, se doveva proprio lasciare che la sua piccolina se ne andasse, almeno era consapevole di stare lasciando che andasse ad un buono uomo. Bill e Tom l’avevano preso in giro per questo per mesi.
Pensare ai gemelli lo riportò indietro al presente, ed a controllare l’orologio.
- Sta durando troppo a lungo.
- Hanno quasi finito. – disse Gustav, - Dovremo andare all’appartamento, domani.
Georg annuì.
- Pensi che ci sarà molto disordine?
Gustav grugni piano.
- Non più di quanto ce ne sia da noi. – disse con un piccolo sorriso, - Tu e Bill avete avuto sempre più o meno lo stesso modo di fare confusione.
Georg rise a bassa voce.
- Ricordi quando cominciò a fare i capricci perché il suo flacone di balsamo gli esplose nella valigia, imbrattando tutta la sua biancheria?
Gustav ridacchio.
- Ed andava in giro imprecando e battendo i piedi, lanciando i vestiti ovunque. Ho pensato che avremmo dovuto chiamare Saki, per impedirgli di distruggere la stanza.
- E poi arrivò Tom, gli strappò una scarpa dalle mani e gli sussurrò qualcosa, e non servì altro. Era tornato tutto felicità e sorrisi. – Georg percepì qualcosa di pesante scendergli addosso nel ricordare. Guardò in basso, l’erba ai suoi piedi. – Ti sei mai chiesto se per caso non l’avessero fatto di proposito?
Gustav rimase in silenzio a lungo, e Georg aveva quasi rinunciato all’ipotesi di ricevere una risposta, quando lui finalmente parlò.
- Gliel’ho chiesto, una volta. Be’, non proprio chiesto, più che altro gliel’ho gridato. È successo qualche anno dopo che la cosa era venuta alla luce. Il padre di Elaine stava cercando di obbligarla a smettere di vedermi, dicendole che frequentavo pervertiti ed avevo perso il lavoro come produttore di quella giovane band svizzera perché la madre del chitarrista aveva pensato potessi avere una cattiva influenza sui ragazzi. Ho completamente perso la testa. Sono andato a casa loro ed ho cominciato a gridare e strepitare e accusarli di aver consapevolmente fatto l’amore su quella spiaggia, pur sapendo che c’erano paparazzi tutto intorno, così non avrebbero più dovuto sopportare il peso del segreto.
Georg spalancò gli occhi.
- Wow. E cos’hanno detto loro?
Gustav scrollò le spalle.
- Bill mi guardo con quell’espressione che faceva sempre quando qualcuno diceva qualcosa di completamente ridicolo, e disse che non poteva credere potessi pensare cose simili di loro. Ma Tom, - scosse il capo, - Tom sembrava semplicemente sentirsi in colpa.
Il bassista annuì.
- Bill è sempre stato più bravo a mentire, anche a se stesso. – guardò in alto, verso le nuvole bianche e morbide che passavano sopra le loro teste. – Avresti potuto semplicemente andartene. Loro avrebbero capito. Penso che in realtà se lo aspettassero, da entrambi.
- Non avrei mai potuto perdonarmi se li avessi abbandonati. Sapevamo quello che stava succedendo. – si voltò appena a guardare altrove. – Lo sapevamo, e non abbiamo mai detto niente. Li abbiamo perfino coperti. Se loro hanno sbagliato, lo abbiamo fatto anche noi.
- Pensi che abbiano sbagliato? – chiese lui.
Gustav sospirò.
- Non lo so. Forse. Forse no. Ma che importava? Tutto ciò che hanno sempre voluto era la loro musica e loro stessi. Non hanno mai fatto del male a nessuno, quindi non ho mai visto nessuna ragione valida perché non dovessero avere entrambe le cose.
Per un momento, Georg fu distratto dalla discussione. Guardò avanti, per vedere la piccola folla disperdersi e la propria figlia avvicinarsi al punto in cui lui e Gustav stavano aspettando. Sorrise lievemente, quando lei lo baciò sulla guancia.
- Siete pronti per andare? – chiese lei, mentre si chinava ad abbracciare Gustav.
Georg scosse il capo.
- Vi raggiungeremo presto.
Kati spostò lo sguardo fra loro, visibilmente preoccupata.
- Perché non venite a cena, stasera? Potrei prepararvi il vostro piatto preferito! E i bambini sarebbero felici di vedervi. – disse, voltandosi a guardare suo marito, - Potrebbero anche stare da noi per un paio di giorni, no?
- Kati. – la interruppe Georg, stringendole una mano nella propria, - Stiamo bene. Vai a casa. Verremo a trovarvi fra qualche giorno. Per adesso, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per starcene per conto nostro.
Kati si morse le labbra. Annuì, anche se qualche lacrima cominciava già ad affacciarsi fra le sue ciglia.
- Okay. Ma vi vedremo presto, giusto?
Gustav annuì.
- Date un abbraccio ai bambini da parte nostra. – disse, baciandola sulla guancia ed abbracciando il proprio figlio, prima di indirizzarli con una leggera gomitata verso la macchina che li aspettava.
- Si preoccupa troppo. – si lamentò Georg.
- Non puoi davvero biasimarla. – disse Gustav, - Probabilmente, è la prima volta che deve realmente prendere atto del fatto che tu non sei immortale.
- Hmmm. – mugugnò Georg, voltandosi a guardare il piccolo padiglione che proteggeva dal sole di mezzogiorno una coppia di bare identiche. – Penso che sia arrivata l’ora.
Gustav non rispose, si limitò a cominciare a camminare.
Georg lo seguì, lasciandosi distrarre dalle memorie del passato.
- Ti ricordi quando Kati era ancora una bambina e Bill si mise a giocare con lei subito dopo che Tom le aveva dato da mangiare.
Gustav scoppiò letteralmente a ridere.
- Gli vomitò tutto addosso. Dio, che sguardo aveva.
- Anche Tom. Sembravano entrambi come sul punto di vomitare a loro volta. E c’è stata anche una volta in cui i gemelli le hanno fatto da babysitter. – continuò Georg, ridendo più apertamente, - Subito dopo il divorzio, e fecero il gravissimo errore di lasciare che Kati mangiasse troppe caramelle e bevesse troppa soda. Quando andai a riprenderla, pensai che Bill sarebbe scoppiato a piangere dal sollievo.
- Oh, come se non fosse il giusto prezzo da pagare per tutte le volte che noi avevamo dovuto avere a che fare con lui in overdose da Red Bull. – commentò Gustav seccamente, - Il karma può essere lento, a volte, ma ti raggiunge sempre, in qualche modo.
Le loro risate si spensero nel momento in cui i due si fermarono di fronte alle bare. Georg rimase in silenzio, guardando i contenitori nei quali era conservato quanto rimaneva di due uomini che erano stati per lui una famiglia, per quasi tutta la sua intera vita. Il pensiero di quanto tutto ciò che stava vivendo fosse reale comincio a farsi strada dentro di lui, mentre si ritrovava a fronteggiare il fatto che non avrebbe mai più visto il sorriso luminoso di Tom e non avrebbe più sentito la risata dolce di Bill, mai più. Tutto il dolore ed il cordoglio che aveva trattenuto fin dal momento in cui avevano appreso la notizia di condensò in una sfera nel mezzo del suo petto, rimanendo lì a soffocare i singhiozzi che cercavano di farsi strada con la forza per uscire dalla sua gola.
Lasciò scivolare una mano sulla bara più vicina.
- Non è giusto. – disse, mentre le lacrime cominciavano a scivolare giù sulle sue guance, - Dovrebbero essere insieme. Sono stati insieme dal primo momento in cui sono venuti al mondo. Non dovrebbero stare separati così per tutto il resto dell’eternità. – e la diga finalmente crollò, mentre lui si lasciava andare, appoggiando la testa sulla superficie lucida della bara, singhiozzando.
In un momento Gustav lo attirò a sé, stringendolo fra le forti braccia che l’avevano confortato sin da quando erano piccoli.
- Non lo sono. Shhh, Georg, non lo sono. Non sono soli.
Georg sollevò il capo, ancora tremante per il dolore.
- Che intendi?
Gustav si fermò un attimo, per asciugare le proprie stesse lacrime.
- Non sono soli. Ho pagato un tipo delle pompe funebri perché li mettesse nella stessa bara. L’altra è lì soltanto per conservare le apparenze.
Georg fissò sconvolto l’amico. Poi un piccolo sorriso cominciò a farsi strada sul suo viso, quasi strisciando. Il sorriso si trasformò in una risatina repressa, poi in un singhiozzo divertito, e ben presto Georg si ritrovò ad accasciarsi debolmente per terra, ridendo senza freni.
- Oddio. Oh, mio Dio, Gustav. Posso solo provare ad immaginare la conversazione. – guardò in altu Gustav, che lo stava a propria volta guardando con un sorriso sottile, - I gemelli l’avrebbero adorato.
Gustav ghignò e lo prese per un braccio, aiutandolo a risollevarsi in piedi. Poi tornò a guardare le bare, poggiando una mano sulla più vicina e sussurrando un addio quasi silenzioso, prima di allungarsi a prendere due rose dal vaso che ne conteneva il mazzo. Intrecciò i loro gambi e le passò a Georg.
- Andiamo a casa. Ti faccio un po’ di cioccolata.
- Con i marshmallow?
Gustav annuì seriamente.
- Non sarebbe la stessa cosa senza i marshmallow. – dopodichè si voltò e cominciò a camminare lentamente verso la macchina.
Georg guardò le rose che teneva in mano e si avvicinò alla bara che conteneva entrambi i suoi amici, insieme anche nella morte, nello stesso modo in cui erano sempre stati per tutta la loro vita.
- Ci rivedremo presto. – sussurrò. E poi si allontanò.
Genere: Introspettivo, Romantico, Comico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Language, Lemon, Slash, OC.
- Le tanto agognate vacanze natalizie sono arrivate, e per i Tokio Hotel è arrivato il momento per un po' di sano e meritato riposo. Ma le cose non potranno andare molto facilmente, se si pensa che già anche solo scegliere la destinazione sarà un problema non indifferente...
Note: WIP.
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UNENDLICHKEIT
Prologo
- The Warmth Carries Us -

Ogni volta che si fissavano negli occhi era una sfida aperta. A reggere lo sguardo l’uno dell’altro, a far valere le proprie ragioni rispetto a quelle appena esposte, o semplicemente a cercare di stabilire che fosse più capace a rimanere immobile senza scoppiare a ridere. C’era sempre qualcosa, nei loro scambi di sguardi, che li rendeva avvincenti come un romanzo. E lasciava qualunque spettatore a fissarli ammaliato come stesse seguendo con interesse la trama e non volesse perdere neanche un particolare per arrivare prima del narratore alla soluzione finale.
Bill e Tom si stavano fissando, in quel momento.
La luce delle loro pupille si incontrava e si infrangeva nello spazio fra i loro visi. Georg e Gustav osservavano attentamente. Conoscevano i gemelli da abbastanza tempo per non stupirsi più di quell’intensità, ma erano comunque troppo preoccupati dal pensiero che l’aria in mezzo a loro sembrava sul punto di incendiarsi, per azzardarsi a esprimere un parere in merito.
- Tropici!
- Montagna!
E quello era il succo della discussione.
- Voglio andare ai tropici!
- Non esiste! Si va in montagna!
- Ma Toooooooooooom! – sbraitò Bill, colpendo il tavolo e facendo echeggiare per la stanza il rumore sordo, provocato dagli anelli pesanti venuti a contatto con il legno duro. – Mi sono ripreso da poco! Ho avuto la tracheite! Devo riposarmi al caldo.
Tom sbuffò.
- La tracheite ti è passata quasi due mesi fa. La montagna ti farà bene, così almeno ti fai un po' di corazza, sei peggio di una femminuccia, ti ammali con un niente! – sentenziò incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo schienale.
- Ma siamo in vacanza! – insistette Bill, cocciuto, - Le vacanze esistono per andare a cercare il caldo anche dove non c’è! Se andiamo in montagna tutto questo non avrà più senso!
Tom si limitò a sbuffare chiudendo gli occhi in un’evidente affermazione di superiorità.
Bill lo fissò, basito dal suo comportamento.
- Geooooooooooorg, aiutami tu! – piagnucolò poi, girandosi verso il bassista, che non ci mise più di due secondi a reagire, alzando le mani e sentenziando:
- Tenetemi fuori dai vostri bisticci, a me basta che ci sia un letto comodo per dormire!
Un ghigno apparve sul viso di Tom mentre osservava il fratello provare a convincere l'ultimo componente rimasto della band.
- Gustaaaaaaaaaaaaaav, almeno tu sei dalla mia parte, vero? – chiese con un'espressione da cucciolo bastonato. Ma nemmeno col batterista ebbe fortuna.
- Bill, lo sai che non sono amante delle spiagge... – motivò infatti il ragazzo.
- Ma diamine! – Bill colpì il tavolo, di nuovo – Voglio prendermi un po' di sole, eccheccazzo!
- Bill, - il moro guardò il fratello che l'aveva chiamato con un tono al limite della sopportazione, - per quel poco di pelle che mostri in giro, puoi prendere la tintarella anche in montagna, e poi con il riflesso sulla neve...
- Tom, dacci un taglio. – si limitò a protestare Bill, fissandolo in cagnesco.
Ricominciarono a guardarsi astiosi, entrambi con le braccia incrociate sul petto e i piedi ben piantati sul pavimento, come mastini pronti a prendersi a morsi.
- Allora? – chiese di nuovo il biondo, dopo qualche minuto di silenziosa sfida.
- Allora cosa? – chiese a sua volta Bill, ben deciso a trascinare quella questione fino all’ultima parola, per non mostrare di essere, in fondo, terribilmente succube dei capricci del fratello maggiore.
Tom si limitò ad alzare le sopracciglia mostrando un'espressione interrogativa.
Bill sospirò e abbassò le spalle.
Poteva tirarla quanto voleva, ma alla fine il risultato sarebbe stato lo stesso.
- Vada per la montagna. – accettò con disappunto, - Ma non pensate che ve la farò passare liscia, traditori fedifraghi che non siete altro!
Genere: Comico, Demenziale, Parodia.
Pairing: BillxTom, MattxBrian, principalmente, ma ci pieghiamo alle esigenze del lol quando serve XD
Rating: R
AVVISI: Boy's Love, CrackFic, RPS.
- Una raccolta contenente una serie di oneshot demenziali ispirate alle fiabe tradizionali (o della Disney X'D) rivisitate in chiave demenziali con protegonisti Muse, Placebo e Tokio Hotel.
Note: Inserirò un commento quando avrò concluso la storia è_é
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Fairytales Gone Bad
1. CAPPUCCETTO BILL
Storia di una bella bimba (?), di suo fratello e delle loro disavventure nella Foresta del Lupo Cattivo

Before you begin… Questa storia è STUPIDA. Ma proprio stra-stupida come non ne vedete da tanto tanto tempo su questi lidi XD In compenso (dicono) è divertente è_é Voi godetevela e fatemi sapere ù_ù
Comunque né i gemelli né Brian né Matthew mi appartengono, ovviamente XD Niente lucro. Solo tanta idiozia XD Veniteci a patti è_é!
Ah, e Brian e Matthew non hanno alcun legame con Tom e Bill °_° Per carità, non sono legati neanche tra di loro!!! Ma le fic AU demenziali permettono questo ed altro, perciò viva le fic AU demenziali *_*!!!

*

C'era una volta una bambina molto carina che viveva un in bel paese con la sua mamma.
Solo che questa bambina si chiamava Bill.
E in realtà era un bambino. Eggià.
E non viveva solo con la sua mamma, ma anche col suo fratellino gemello, Tom, uguale a lui in tutto e per tutto a eccezione del fatto che Tom, be’, al contrario del fratello Tom sembrava maschio. Infatti, che la piccola Bill fosse in realtà un piccolo Bill, era un segreto; anche perché al piccolo Bill piaceva vestirsi da donna, e quindi sarebbe stato faticoso per mamma e Tom spiegare la situazione, se si fosse scoperto che era un maschio.
Comunque.
Un giorno, la mamma dalla cucina chiamò il piccolo Bill, e il piccolo Bill uscì dalla propria cameretta, scese le scale e la raggiunse.
- Che c’è mamma? – chiese, sorridendo allegramente.
- Piccolo Bill! La tua nonna s’è molto ammalata. – disse la mamma con aria grave, - E perciò ho bisogno che tu vada a trovarla a casa e le porti questi biscotti. – concluse, porgendogli un adorabile cestino di canapa intrecciata ricolmo di ogni ben di Dio.
Il piccolo Bill lo guardò come avesse contenuto scarafaggi e poi, arricciando il naso, afferrò una copertina spuntata dal nulla e se l’arrotolò addosso, crollando sul divano poco distante e accendendo la tv con aria distratta.
- Mammaaaah, - disse, con tono lamentoso, - non mi vaaaah!
La mamma, che ben conosceva il suo pargolo, non si arrese di fronte alla sua ritrosia, e si preparò a sfoderare la sua arma più potente: Tom.
- Ma dai, Bill, amore! – cinguettò allegra, afferrando Tom per il colletto della maglietta (mentre lui non si accorgeva di nulla e continuava a suonare la chitarra – o almeno a provarci – come stava facendo prima che sua madre lo prelevasse), - Ti accompagnerà Tomi!
La reazione di Bill non fu immediata, ma la mamma sapeva di non aver sbagliato i propri calcoli. E infatti gli occhi del suo figliolo cominciarono presto a sbrilluccicare come stelline.
“Uuuuh”, pensò Bill, “se prendiamo la strada del bosco saremo soli… potrò stare da solo con Tomi… potrebbe essere un’ottima occasione per farci le coccole!!!”.
Simone osservò il proprio figlio emanare luce come un piccolo sole, afferrare il fratello per la collottola e trascinarlo gioiosamente fuori casa, dopo aver indossato l’immancabile mantellina rossa che gli aveva regalato tempo prima e grazie alla quale tutti la conoscevano come Cappuccetto Bill, e poi ritornò tranquilla alle faccende domestiche.

*

Una volta che furono nel bosco, i ragazzi presero a dilettarsi con le loro attività preferite: mentre Tom riprendeva a fare del male alla propria chitarra, cercando di suonarla, Bill cominciò a vagolare in giro per la selva, ammaliato dai colori dei fiori e dai mille cinguettii diversi degli uccellini che lo circondavano.
- Tooooomiiiii!!! – chiamò entusiasta, roteando su sé stesso come una principessa Disney, - Guardati intorno!!! Non è bellissimo?!
- Mh-hm. – disse Tom, senza neanche sollevare lo sguardo dalle corde, facendo una smorfia crudele a un accordo nato sbagliato.
Bill gonfiò le guanciotte e aggrottò le sopracciglia.
Detestava essere ignorato! Avrebbe solo desiderato che suo fratello gli regalasse un fiorellino! Che lo guardasse, gli sorridesse, gli porgesse una margherita, sfilasse il cappellino, sciogliendo i rasta al vento come un modello in riva al mare e gli dicesse “Bill, sei il ragazzo più bello dell’universo! I miei occhi vorrebbero essere pieni solo ed esclusivamente della tua immagine! Ti voglio bene!”.
Ma no, Tom era troppo impegnato ad amoreggiare quella sua stupida chitarra, per accorgersi di lui! Cosa diavolo aveva quella chitarra in più di lui, in fondo? Era anche stupida! Aveva bisogno di essere suonata, per produrre quel rumore! Mentre Bill era perfettamente in grado di produrre rumore anche senza essere toccato!
Di quella immensa tristezza si accorse un lupo che passava di lì per caso, avvolto in una camicetta molto fashion, con un paio di jeans attillati anch’essi molto fashion, due graziose orecchiette lupose in cima alla testa e una lunga e morbida coda altrettanto luposa ad uscire con naturalezza da un buco sul sedere.
- Ciao, bella bambina! – disse il lupo, avvicinandosi a Bill e fissandolo con occhi bramosi, - Cosa c’è che non va?
Bill sollevò un paio di enormi occhioni castani truccati all’inverosimile, fissandoli in quelli grandi e grigi e altrettanto truccati del lupo.
- Non sono una bambina! – piagnucolò deluso, - Tutti mi scambiano per femmina solo perché sono carino e gracilino e ho i capelli lunghi e i lineamenti delicati e mi trucco e mi vesto da donna! Ma in realtà io sono maschio!
Il lupo lo guardò da capo a piedi, annuendo comprensivo.
- Be’, per me non fa nessuna differenza. – concluse deciso, - Io mi chiamo Brian, e tu?
- Io mi chiamo Bill! – rispose lui, sorridendo felice perché qualcuno lo stava prendendo in considerazione.
- E come mai piangevi? – si informò il lupo, premuroso.
- In realtà non piangevo, ero solo triste, ma evidentemente l’autrice pensava fosse più carino che tu mi chiedessi questo… comunque!!! È colpa di mio fratello Tom! Lui mi ignora! Continua a suonare la sua stupidissima chitarra e non perde neanche un secondo per dimostrare che tiene a me!
Brian lanciò uno sguardo a Tom, che continuava a tentare di suonare senza molto successo, sbagliando gli accordi e saltando le note, e pensò “oh, come lo capisco! Continua a provarci, povero caro, anche se il mondo è contro di te vedrai che un giorno anche tu strimpellerai bene come il sottoscritto!”.
- Signor Lupo! – strillò Bill, sentendosi nuovamente ignorato, e Brian tornò a dedicargli tutta la propria attenzione.
- Oh, povera bamb- ehm, povero bambino! – disse, giungendo le mani sotto al mento, - Che vita triste, la tua! Ecco, tieni un fiorellino! – e così dicendo gli porse una margherita.
- Yay! – gridacchio Bill, commosso, sistemando il fiorellino fra i capelli, - Grazie!
- E adesso che ne dici di divertirci un po’? – propose Brian, malizioso, avvicinandoglisi con fare ammiccante, da bravo lupo famelico.
Bill, però, non era uno sprovveduto! Era ben cosciente degli effetti che la sua persona poteva avere sui lupi famelici come Brian, e perciò si tirò indietro.
- Ti pare che io sia una sciacquetta qualsiasi?! – disse contrariato, - Io ho una dignità! Io non mi svendo così! Io non-
- Vuoi andare a farlo in un posto più comodo, vero?
- Esatto! – concluse Bill, battendosi un pugno sul palmo della mano come se quella fosse l’espressione che aveva sempre cercato durante tutta la propria vita.
- Allora perché non andiamo a casa da tua nonna? – propose Brian, sospirando di sollievo, - Ci liberiamo della vecchia e avremo il lettone tutto per noi!
- Yeeeh! – disse Bill, e poi entrambi, festanti, cominciarono a correre allegramente verso la dimora dell’ignara nonnina, mano nella mano, saltellando gioiosi con gli uccellini che continuavano a cinguettare felici sulle loro teste.
Nel frattempo, Tom aveva smesso di giocare con la sua chitarra e s’era guardato intorno, notando con estremo disappunto che sua sor- ehm, suo fratello era scomparso.
- Bill, tesorino, dove sei? – chiamò, - Vieni fuori, dai, che mamma mi ammazza se- ehm, che mi dispiacerebbe moltissimo se tu dovessi perderti!!!
Ma nonostante i suoi ripetuti richiami, dal folto del bosco non venne nessuna risposta!
Preoccupato, cominciò a vagare per la foresta, fino a quando non incontrò un cacciatore.
- Signore! – lo chiamò, avvicinandosi, - Scusi, sa, non è che per caso ha visto una bella bambina coi capelli lunghi e un cappottino rosso che vagava da queste parti?
- Un cappottino rosso come questo? – chiese a sua volta il cacciatore, facendo un giro su sé stesso per mostrare a Tom il proprio cappottino in tutto il suo splendore.
- Sì, sì! Esattamente come questo! – disse Tom, entusiasta.
Il cacciatore lanciò un urlo.
- Ommioddio! Ragazzo! Tua sorella è in grave pericolo! – disse, allarmato.
Tom si trasfigurò nell’Urlo di Munch.
- Perché in pericolo?! Cosa può esserle successo?!
- Devi sapere… - spiegò tenebroso il cacciatore, - che in questo bosco c’è un lupo maniaco che attacca qualsiasi cosa sia carina e pucciosa!
- E mio fratello è carino e puccioso!
- …ma non era una sorella?
- …be’, più o meno.
Il cacciatore annuì seriamente.
- Capisco. Il lupo ci andrà a nozze.
- È un lupo pervertito?!
- Il più pervertito che si sia mai visto sulla faccia della terra!!! – annuì il cacciatore, che ormai, visto il cappottino, abbiamo capito essere Matthew Bellamy, rabbrividendo, - Devi sapere che anche io… - cominciò a raccontare, ma Tom lo fermò.
- Non credo di voler conoscere i dettagli… andiamo a salvare mio fratello! – affermò Tom con convinzione.
- Sì! – disse Matt, imbracciando il fucile, - Dove possono essere andati?
- Probabilmente sono a casa della mia nonnina! Bill si sarà diretto lì in tutta la sua innocenza, e il dannato lupastro l’avrà seguito!
- Bene! – disse Matthew, - Andiamo! – ed entrambi si mossero verso la casa della nonna, al limitare del bosco.
Frattanto, Bill e Brian erano già arrivati a destinazione, si trovavano proprio di fronte alla porta di casa e stavano intensamente pensando a un modo per sbarazzarsi della nonna, conquistare l’appartamento e fare i loro porci comodi fino a quando sarebbe loro andato.
- Ma tua nonna che tipo è? – chiese Brian, come fosse interessato a scoprire se era una signora compiacente per organizzare un mènage a trois, sfilando celermente dalle spalle di Bill il cappottino rosso, per dimezzare i tempi una volta che fossero entrati.
- Oh, una signora tranquilla! – rispose Bill, mentre cercava anche lui di spogliare Brian sul selciato, - Una di quelle che preparano i biscotti e quando ti guardano dicono “oh, ti sei fatta proprio una bella signorinella!” – disse il ragazzo con uno sbuffo, liberandosi della propria camicia.
- Ah bene! – gioì Brian, facendosi avanti e puntando minaccioso alle labbra di Bill, - Allora non sarà difficile liberarsi di lei.
Bill rispose con un sorrisetto malizioso e soddisfatto, avventandosi sul lupo e scaraventandolo a terra, per poi arrampicarglisi addosso.
- CHI È CHE FA OSCENITÀ SUL TAPPETINO WELCOME DI CASA MIA?! – ululò all’improvviso un vocione, mentre qualcuno spalancava la porta della casa della nonna.
Fu in quel momento che Bill sollevò lo sguardo e vide la sua amata nonnina.
O meglio.
Era ovvio che fosse la sua amata nonnina, perché aveva la sua vestaglia rosa a fiorellini e i suoi occhialini spessi come fondi di bottiglia e la sua cuffietta celeste e le sue pantofole pelose a forma di coniglio e il suo mattarello in mano.
Ma in effetti quella roba non somigliava granché alla donnina gracilina e bassina che Bill ricordava.
- Nonna! – disse stupito, - Che mascelle grandi che hai!
- È perché non sono tua nonna, razza di deficiente, ma David Jost! – tuonò l’uomo, brandendo il mattarello a mo’ di ascia bipenne.
- E che fine ha fatto la mia nonnina? – chiese il ragazzo, mentre Brian, terrorizzato, cercava di fuggire senza riuscirci, dal momento che Bill lo teneva ancorato a terra con tutto il suo peso.
- Me la sono mangiata! – rispose David con un poderoso rutto, - Quella stronza andava in giro dicendo che sfrutto troppo te e tuo fratello! Avesse almeno una minima idea di quanto è difficile fare il mio lavoro!!!
- Oddio, David!!! Ti sei mangiato la mia nonnina!!! Ora come lo spiegherò alla mamma?! – chiese Bill con gli occhi pieni di pianto, cercando di ammorbidire il manager infuriato.
David però si mostrò completamente insensibile ai piagnucolii di Bill, e si limitò a scoccare uno sguardo crudele a Brian, che rabbrividì fino alla punta della coda luposa che gli era stata data in dotazione per la fanfiction.
- E lui chi sarebbe? – chiese il manager incuffiettato, con tono grave.
- Lui è Bri! – sbrilluccicò Bill, ignaro di tutto, mentre Brian continuava a tremare.
- E cos’è che avrebbe intenzione di fare qui? – proseguì impietoso David, incrociando le braccia sul petto.
- Io e lui volevamo farci tante coccole!!! – continuò a sbrilluccicare Bill, senza neanche un pensiero per la testa.
A quel punto, Brian pensò che fosse il caso di scappare, una buona volta, e così lanciò in aria Bill e scattò in piedi, ma non riuscì ad allontanarsi neanche di un passo, perché David lo afferrò per il colletto della camicia fashion che indossava e lo costrinse a rimanere fermo dov’era.
- TU! Dannato pervertito!!! Cos’è che avevi intenzione di fare al mio protetto?!
- Ma nulla! – si giustificò Brian, sorridendo terrorizzato, - Assolutamente nulla!!! Giuro!!! Ho famiglia e cucciolo a casa, sono un lupo rispettabile io, è il moccioso che ha frainteso tutto!!!
- Ma Bri! – piagnucolò Bill, - Quando ti ho chiesto se poi mi avresti sposato, mentre venivamo qui, hai detto “sì certo”!!!
- Perciò avevi anche intenzione di prenderlo con l’inganno!!! – sbraitò Dave, strapazzando Brian qua e là, - Non sai che certi favori si pagano a peso d’oro?! Bill è ancora vergine!!! E poi comunque c’è una tassa speciale da pagare, perché Bill può essere rappresentato in atteggiamenti sconci solo con suo fratello, dal momento che noi abbiamo delle fangirl da soddisfare!!!
Brian stava per inginocchiarsi e chiedere perdono implorando pietà, ma proprio in quel momento un potentissimo acuto fece tremare tutti gli alberi del bosco e la casa della nonna fin nelle sue fondamenta, e il cacciatore Matt e Tom apparvero davanti ai tre litiganti, strillando “Fermi tutti! Nessuno si muova!!!”.
- Ah! Il cacciatore!!! – disse Brian.
- Ah! Tom!!! – disse David, incapace di sopprimere un altro rutto.
- Ah! Che cappottino adorabile!!! – disse Bill.
- Grazie, anche il tuo!!! – sorrise Matt, facendo un altro giro su sé stesso per mostrare il cappotto.
- David! – strillò Tom, accorgendosi del proprio manager, - Che ci fai qui?! E perché sei vestito come mia nonna?!
- Perché me la sono mangiata! – rispose David, - E comunque, invece di indagare sul mio passato, dovresti ringraziarmi! Ho salvato il tuo amato fratello da questo lupo malvagio!
Nel momento in cui le parole “amato” e “fratello” affiancate raggiunsero le orecchie di Bill, il ragazzo ricominciò a brillare.
- Amato… amato… amato fratello…? – chiese il giovane cantante, come in trance, - Che vuol dire amato…?
Proprio in quel momento, Georg apparve su un albero, vestito da scoiattolo, e accese un enorme riflettore retto con delle stampelle metalliche che arrivavano a terra, tenute in piedi da Dom, Chris, Stef e Steve vestiti da coniglietti pacioccosi, che andò a puntarsi direttamente sulla figura di Gustav, appollaiato su un altro ramo e vestito da gufo tedesco (nel senso che aveva addosso un costume tipico tedesco) con un paio d’occhiali finti sul becco, che sollevò un’ala e recitò candidamente:
- Amata o Amato che dir si voglia: il nome ha origine latina con chiaro significato. Questo nome fu molto usato nel Medioevo, come nome augurale per un bimbo molto desiderato e, appunto, amato. Amata si festeggia il 24 settembre in ricordo di Santa Amata vergine e martire. Amato, invece, viene festeggiato il 13 settembre in ricordo di Sant'Amato vescovo di Sens.
- Ebbene sì, Bill. – disse Dave, cercando di riportare il discorso sul serioso andante, - Tuo fratello in realtà è innamorato di te!
Una strana musica ricordante tanto un TA-TA-TA-TAAAAN! si diffuse nell’aria, e Bill intensificò l’attività sbrilluccicante della propria pelle, arrossendo fino alla punta dei capelli e giungendo le mani come in preghiera.
- Oooooh, Tomi!!! Anche io sono innamorato di te!!! – disse entusiasta, gettando le braccia al collo del fratellone.
- Come posso crederti?! – disse Tom, scuotendo teatralmente il capo e causando un uragano col movimento turbinoso dei rasta, facendo così volare via tutti gli animaletti della foresta sopraccitati, - Tu stavi venendo qui a fare sozzerie col lupo!!! Vi abbiamo visti amoreggiare prima che Dave spalancasse la porta!!!
- Ma no, Tom! – disse Bill, abbracciando più decisamente il ragazzo, - In realtà lui era solo un ripiego perché tu mi ignoravi e non volevi regalarmi un fiorellino!!!
- Ehi… - provò a dire Brian, sentendosi trattato come un uomo-oggetto, ma uno sguardo furioso di Dave, accoppiato a un mattarello roteante incombente sopra la sua testa e la bocca del fucile di Matthew puntata contro la tempia lo zittirono.
- Se è così, Bill… - disse Tom, strusciandosi amorevolmente contro il fratellino, - posso perdonarti! Scappiamo insieme dove nessuno potrà ostacolare il nostro amore!
- Oh, sì! – annuì Bill, entusiasta.
- Fate che sia un posto raggiungibile in elicottero. – puntualizzò Dave, sistemandosi la cuffia sulla testa, - Avete un servizio fotografico, domani.
I due ragazzi annuirono responsabilmente, e poi si diressero mano nella mano verso un luogo sconosciuto, per coronare il loro sogno d’amore.
- Be’, il mio lavoro qui è finito. – commentò Dave con un altro rutto, - E la digestione si prospetta lunga e complicata, perciò buonanotte! – concluse, e si rintanò in casa in un fruscio di vestaglie.
Fuori dalla porta rimasero solo Matt e Brian.
- Adesso a noi, lupastro! – strillò Matthew, piantando il fucile in mezzo agli occhi del lupo, - Finalmente potremo chiudere i conti, e io potrò vendicarmi per quello che mi facesti anni fa, rubando la mia innocenza e-
- Oh, avanti! Falla finita! – lo fermò Brian, scostando il fucile con una zampata e rimettendosi in piedi, pulendo i pantaloni fashion sporchi di terra, - Ti è pure piaciuto, quella volta!
- No che non mi è piaciuto!!! – strillò Matt, diventando rosso come il cappottino che indossava, - E poi… e poi… tu mi avevi giurato che sarei stato l’unico!!! – piagnucolò, - E invece sei sempre in giro ad adescare ragazzini compiacenti!!!
Brian sospirò, si sistemò il colletto della camicia e poi pensò di sistemare definitivamente la situazione sfoggiando il più seducente degli sguardi che aveva in repertorio.
- In realtà, Matthew… - disse sensualmente, avvicinandoglisi, - nessuno dei ragazzini che adesco può essere anche solo lontanamente paragonabile a te… il ricordo di quella meravigliosa notte che passammo insieme è ancora vivo dentro di me… ed è lui che mi spinge a cercare di provare ancora quelle fantastiche sensazioni… ma non riesco con nessuno, perché Matt, solo tu sei in grado di farmi sentire in quel modo…
Matthew lo ascoltò parlare e, molto semplicemente, si sciolse.
- Oh… Brian… come ho potuto dubitare di te…? – disse, con voce rotta dalla commozione, - Adesso ricordo il grande amore che ci univa, e com’eravamo felici insieme…!!!
- Esatto!!! – annuì Brian, abbracciandolo, - Perciò riproviamo ancora quelle meravigliose sensazioni! La mia caverna ci aspetta!
- Sì!!! – disse Matt entusiasta, ed entrambi si diressero a braccetto verso la caverna del lupo.
…e tutti vissero felici e contenti.


*


Dall’autrice… Ossignore santo XDDDD Allora, prima di tutto: ogni riferimento a nomi, cose, città, animali, personaggi famosi e persone reali è assolutamente vol- ehm, non voluto, non previsto e non intelligente >_< Davvero, che nessuno si offenda per questa roba, perché è talmente cretina e insensata che sarebbe assurdo farlo XD
Nata perché la Lemmina un giorno è apparsa su MSN e mi ha chiesto “Dai, raccontami una storia!”. E io, per pronto accomodo, ho tirato fuori questa ROBA XD Totalmente improvvisata in chat, eh ù_ù La versione che avete sotto gli occhi al momento, invece, è la storia trasformata in fanfiction seguendo il “copione” della chatlog (ed è in gran parte copiata da quella XD che dire, era venuta bene XD).
Sono inoltre le prove generali del quartetto vincente Brian/Matthew/Bill/Tom che, prima o poi, vedrete ANCHE in una fic vera e propria ù_ù Della quale ho parlato entusiasticamente con circa la metà dei miei contatti MSN e anche con buona parte del resto del mondo, e che si intitola Teenage Angst, e che scriverò presto, anche se non so quando ._.””””
In ogni caso questa storia non è che la prima di una serie di rivisitazioni di varie fiabe che intendo fare XD Aspettatevi (non tanto) presto anche BiancaBill E I Sette Pseudo-Nani e La Bella Bill Addormentata Nel Bosco, per non parlare di Billerentola e Billahontas XDDDDDD
Stay tuned è_é
PS: Si ringrazia con affetto la neechan per avere trovato il titolo della raccolta nel tempo record di due secondi e mezzo X***** E già che ci siamo ringraziamola anche per gli uccellini cinguettanti, per la tassa da pagare al twincest, per il secondo giro su sé stesso di Matt, per il significato della parola amato/amata e per l’effetto dell’uragano sugli animaletti della foresta X’D Neechan, sei un concentrato di lol <3
Genere: Comico, Erotico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Lemon, PWP.
- Tom adora passare del tempo da solo con suo fratello. Bill lo diverte, lo riempie di ricordi piacevoli e lo fa stare bene. Ma stare con Bill può essere anche molto pericoloso. Soprattutto quando sente degli strani suoni provenire da un punto imprecisato del mondo intorno a lui e, per verificarne la provenienza, decide di calarsi sul balcone di sotto, combinando un disastro.
Note: Prima di tutto: i gemelli Kaulitz SONO DAVVERO dei guardoni X’D Nel dvd Leb Die Sekunde (che io e la neechan abbiamo amabilmente guardato insieme dopo aver affrontato la TORTURA di passarcelo tramite cartelle condivise di MSN), Bill racconta di questo momento allucinante in cui lui e tutti gli altri ragazzi del gruppo hanno assistito praticamente alla stessa cosa cui assistono in questa modesta storiella XD Quindi sì, questa parte è veritiera. Tutto il resto è fangirling XD E porno, chiaramente. Perché il porno? Perché il fandom inglese LETTERALMENTE pullula di PWP smut su Bill e Tom. È semplicemente INDECENTE che in Italia non ce ne sia neanche una perché… perché un archivio ha vietato l’incest graficamente esplicito fra le proprie pagine! Chissene, dico io! Pubblicheremo altrove! Oh. *angst*
E poi, cosa può esserci di meglio per augurare i migliori venti anni possibili a una neechan stupenda come la mia, che non un’enorme dose di porno-lol fra i gemelli Kaulitz…? :D Tanti auguri Ana >*<
(Tra l’altro, PER CARITA’: Ask For Answers dei Placebo sta diventando tipo la canzone ufficiale dei gemelli Kaulitz?! È tipo la MILLESIMA volta che la uso per una fic su di loro! Qui, nel caso specifico, per il titolo: “these bonds are shackle free / wrapped in lust and lunacy” <3)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
YOUR PIDGEON AND THE DAMAGE DONE

Era un tranquillo e uggioso pomeriggio ottobrino. I Tokio Hotel, a bordo del fedele tour-bus, compagno di mille avventure più o meno piacevoli, stavano dirigendosi alla volta di Toulon, dove avrebbero dovuto esibirsi per il pubblico francese per l’ultima volta prima di trasferirsi a Milano per l’unica data italiana dell’European Tour.
Dal momento che era un pomeriggio uggioso, e dal momento che Bill era metereopatico, il povero frontman non faceva che sbuffare, malamente abbandonato contro il tavolino nel mezzo della vettura, facendo sciocchi disegnini con le dita sul piano lucido in finto legno e mugolando come fosse sul punto di morire.
Dal momento che Bill era triste, e dal momento che il resto della band, più che essere metereopatica, era Billpatica, anche gli altri ragazzi non si trovavano in perfetta condizione. Tom vagolava infelice da un finestrino all’altro, fissando preoccupato il cielo e pregando perché non si mettesse a piovere, Georg guardava il vuoto abbandonato nella propria cuccetta e Gustav si rigirava le bacchette fra le dita, ascoltando musica in cuffia.
Nonostante il pesante alone di depressione che gravava sull’ambiente, erano tutto sommato ore tranquille, e perciò nessuno si lamentava più di tanto.
I quattro giovani tedeschi si stavano già rassegnando a passare in quel modo l’intero pomeriggio, quando successe qualcosa che cambiò irrimediabilmente non solo i loro programmi immediati, ma anche tutto il resto della loro vita: un enorme piccione grasso, grigio e palesemente folle fece irruzione attraverso un finestrino aperto e, sbattendo le ali come un ossesso, guardandosi intorno con occhi pallati iniettati di sangue, andò a schiantarsi contro il finestrino chiuso dall’altro lato del bus, proprio sopra la testa di Bill.
- Gluglu! – disse il piccione, spiccicandosi dal finestrino e lasciandosi ricadere morbidamente sulla testa di Bill, dopo aver riconosciuto i suoi capelli come un luogo sicuro.
- Cosa diamine…? – balbettò il ragazzo, che aveva seguito il movimento dell’animale solo distrattamente e, perciò, non era riuscito a riconoscerlo, - Che cavolo era?!
Gustav sollevò appena lo sguardo da terra, ma tornò subito a piantarlo sul pavimento quando capì cosa stava succedendo. Dal momento che Georg si trovava nella zona notte, e non poteva essere perciò molto d’aiuto, Bill si rivolse unicamente a Tom, cercando di attirare la sua attenzione con un calcio da sotto il tavolo.
- Tomi! – disse deciso, - Ho un cerchio alla testa.
- Mmh. – mugugnò il chitarrista, senza neanche guardarlo, continuando a scrutare il cielo.
- Tomi!!! – lo richiamò il cantante, sfilando una scarpa e tirandogliela addosso, - Non ignorarmi!
- No, no… - si arrese il biondo, sospirando pesantemente e voltandosi a guardare il fratello. – Dimmi, cosa- - ma si interruppe prima di poter concludere, rimanendo a fissare il proprio gemello come lo avesse visto per la prima volta.
- Tom…? – lo chiamò ancora lui, incerto sul da farsi.
- Sssh! – soffiò immediatamente il giovane, portando l’indice davanti alle labbra e avvicinandoglisi con fare circospetto.
Quando fu abbastanza vicino, Bill riuscì finalmente a capire che ciò che Tom stava guardando con tanto idiotissimo stupore non era lui, bensì qualcosa di non meglio definito sopra la sua testa.
- Ma si può capire-
- Ti ho detto di stare zitto! – insistette il ragazzo, spiaccicandogli poco delicatamente una mano sulla bocca, - Sto cercando di instaurare un dialogo!
- Mfhghrthddfghg?! – si agitò Bill, ma Tom non lo liberò dalla stretta e quindi nessuno poté comprendere il significato profondo delle sue obiezioni.
Frattanto, sopra la testa del moro, Tom e il piccione si scrutavano con reciproco interesse.
- Glu. – disse il piccione, agitando la testolina tonda avanti e indietro nell’usuale gesto dei volatili della sua razza.
- Ghhg?!?!?! – si agitò ulteriormente Bill, muovendo la testa allo stesso modo, nel tentativo di liberarsi, facendo in modo che il piccione dovesse sollevarsi sulle zampette artigliate e agitare le ali per non perdere l’equilibrio, in un tripudio di piume un tempo bianche ma ormai grigio sporco che turbinavano attorno a loro.
Tom deglutì, stringendo la presa della mano attorno alla mascella del gemello.
- Glu. – rispose seriamente, dopo un attimo d’esitazione.
A quel punto, Bill non riuscì più ad ignorare ciò che stava succedendo, e si staccò da lui con un gesto repentino e violento.
- Tom, dimmi immediatamente cosa diavolo ho sulla testa!!! – strillò, agitando le braccia sul capo e scuotendosi come un ramo nel vento.
Per tutta risposta, il gemello si sollevò di qualche centimetro, molleggiando sulle punte, protese le braccina verso di lui e afferrò l’inquilino misterioso, stringendolo poi fra le braccia, lasciando che si accovacciasse sul suo petto come una piccola, lurida gallina.
Bill lo fissò.
Tom scorse le avvisaglie di un tic nervoso all’occhio delinearsi sul suo volto e cercò di sorridere rassicurante, per evitare la catastrofe, ma servì a poco.
- CHE COSA DISGUSTOSA!!! – ululò infatti Bill, facendo un salto indietro, - Uno schifosissimo piccione! Sulla mia testa!!! – lo guardò meglio, - FRA LE TUE BRACCIA!!!
- Oh, avanti, Bill! – si lamentò Tom, sollevando il piccione all’altezza del suo viso come fanno i fratellini crudeli con le sorelline spaventate quando trovano uno scarafaggio particolarmente enorme e disgustoso nel giardino di casa, - È carino, in fondo!
Bill si tirò indietro con una smorfia inorridita.
- È sporco! – osservò, agitando una mano davanti all’uccello, che seguì il movimento delle sue dita smaltate con enorme interesse, - Portalo via!
- Glu!!! – protestò il piccione, offeso.
- E fallo smettere di guardarmi!!! – aggiunse il frontman, offeso, - È estremamente maleducato!
- È un piccione… - cercò di difenderlo debolmente Tom.
Il piccione sembrò annuire.
- Ma che sta succedendo…? – mugugnò irritato Georg, spalancando la tenda della zona notte e sollevandosi dalla propria cuccetta, tornando alla vita comunitaria, - Bill s’è rotto un’unghia…?
- Georg! – strillò Bill sollevato, saltandogli praticamente in braccio, felice della possibilità di aver trovato un alleato al punto da ignorare l’offensiva presa in giro nascosta nel suo commento, - Tom è impazzito! Ha adottato un piccione!
- Ma è simpatico! – motivò il biondo, agitando il piccione davanti ai due come dovesse essere una prova della sua buona fede, - Ed è anche carino! Non capisco perché non ti piace! – si lamentò, rivolgendosi al fratello.
- Perché è una malattia ambulante! Che schifo, non vorrai mica che mi spunti qualche macchia sulla faccia?! Va bene se succede a te, perché tanto nessuno ti guarda, ma io ho una reputazione da difendere! E le mie fan-
- Le tue fan ti adorerebbero se ti vedessero andare in giro con un piccione appollaiato sulla testa!!! – commentò Tom con aria entusiasta, continuando ad agitare l’uccello su e giù, fra i suoi gluglu disperati.
Bill si arrampicò sulle spalle di Georg, tirando su le gambe perché non strisciassero a terra, ed emerse dalla massa di capelli del bassista solo per spalancare la bocca e strillare un verso disgustato random.
Fu allora che il piccione decise che non era più il caso di subire le angherie di quello zoofilo pazzo del chitarrista dei Tokio Hotel e, grazie anche alla notevole quantità di viscida sporcizia che gli ricopriva le ali, sgusciò fuori dalla sua stretta. La propulsione che si diede per la fuga, però, si rivelò talmente elevata che non solo l’uccello riuscì a liberarsi, ma anche a percorrere in poco meno di due centesimi di secondo lo spazio che lo separava dalla terrorizzata figura di Bill Kaulitz, che non ebbe neanche il tempo di richiudere le labbra, prima di ritrovarsi una coda terribilmente agitata a dimenarsi davanti agli occhi e mezzo piccione in bocca, che continuava a gorgogliare sulla sua lingua.
- GGGGGGGGGGGGGGGGGGH! – strillò disperato, scrollando Georg per le spalle con l’unico risultato di spostarlo di mezzo centimetro dal luogo in cui si trovava.
- Ossignore! – strillò spaventato Tom, - Piccione! Soffocherai! Tirati fuori di lì!
- GGGGGGGGGH!!! – ripeté isterico Bill, gli occhi a girandola, provando ancora a scuotere Georg per far sì che si accorgesse del suo enorme problema.
Georg sospirò svogliatamente e afferrò Bill da sotto le ascelle, aiutandolo a tornare coi piedi per terra.
- Povero tesoro… - commentò dispiaciuto, - Guardati qui, con un piccione in bocca… Gusti, che si fa? Lo si lascia lì? Almeno parleremmo un po’ di più durante le interviste…
- GGGGGGGGGGGGH!!! – si ostinò a motivare Bill, assolutamente sconvolto da quanto stava accadendo.
- Non potrei mai fare questo a Piccione! – s’infastidì Tom, raggiungendo il fratello e strappando l’uccello dalla sua bocca con un suono che ricordò vagamente quello delle bottiglie che vengono stappate, - Ormai siamo amici!
- Stronzo! – sputacchiò Bill, - Come osi anche solo pensare una cosa simile?! Tuo fratello gemello, sangue del tuo sangue!!!, è qui che soffre con uno stupido piccione in bocca, e l’unica cosa di cui tu ti preoccupi è questo dannato uccello!
- La cosa sta diventando ambigua. – commentò Georg, sollevando le sopracciglia, - Non so se voglio continuare ad assistere a tutto questo.
- Ragazzi, state facendo troppo casino. – borbottò irritato Dave, apparendo dalla porticina che divideva il vano del guidatore dal resto del tour-bus, - Dovreste stare più tranquilli, stasera avete un concerto e se Bill perde la voce è la fine.
- Oh, non è colpa mia, chiaro?! – sbottò Bill, incrociando le braccia sul petto, - Questo stupido piccione s’è innamorato di me e ha provato a baciarmi!
Il manager si guardò intorno con aria smarrita.
- Eh? – chiese, cercando uno sguardo intelligente all’interno della stanza e ritrovandolo in Georg.
- Pare che un piccione sia entrato nel tour-bus. – spiegò pacatamente il bassista, - Ed abbia fatto amicizia con Tom.
- Ah. – registrò l’uomo, scivolando con lo sguardo sulla figura di Tom e individuando il piccione ancora sconvolto e umido di saliva a languire fra le sue braccia.
- Solo che la cosa a Bill non piace. Anche perché il piccione gli si è infilato in bocca a tradimento.
- Ah-ha! – scosse il capo Dave, in disaccordo, - Bill, ne abbiamo già parlato: niente uccelli in bocca se non in circostanze del tutto particolari! – aggiunse con un risolino crudele.
- Possiamo evitare che questa storia diventi un concentrato di cattivo gusto?! – si lamentò il frontman, passandosi una mano fra i capelli, - E comunque il problema resta: quel dannato topo con le ali deve sparire.
- Mh. – rifletté Jost con aria seria, - In effetti i piccioni sono veramente portatori di malattie. Su, Tom, andiamo a-
- Mai!!! – gridò il biondo, balzando agilmente sul tavolo e stringendo al petto il piccione ancora troppo tramortito per protestare contro il suo tentativo di soffocamento mascherato da tentativo di salvargli la vita, - Piccione è mio amico!
- Coraggio Tom… - esalò David, già esasperato, - Nessuno conta sulle tue facoltà intellettuali, ma mi auguro tu possa quantomeno arrivare a capire che questo è il tour-bus dei Tokio Hotel, non dei Tokio Hotel con la loro uccelliera…
- Ma io non voglio altri uccelli! Voglio solo Piccione! – si ostinò il ragazzo, schiacciandosi contro il finestrino alle proprie spalle.
- Accidenti a te, idiota di un moccioso! – s’innervosì dunque Dave, cercando di scalare il tavolo per raggiungerlo, - Non voglio che Bill diventi isterico, e se per raggiungere il mio scopo dovrò sfrattare questo dannato piccione, be’, sfratterò questo dannato piccione!!!
- No, no e ancora no!!! – continuò Tom, scuotendo velocemente il capo e i rasta, fino a frustare David coi dread, impedendogli di completare la sua ascesa al tavolino.
Fu in quel momento che si sentì un enorme sospiro sollevarsi da qualche parte nella stanza, e tutti si voltarono a guardare Gustav. Il batterista si alzò in piedi, sfilò velocemente le cuffie dalle orecchie, impugnò saldamente le bacchette fra le dita e si diresse tranquillo verso il tavolo. Lì sollevò appena le braccia e, sotto lo sguardo attonito di Tom, tramortì definitivamente il povero piccione con un paio di colpi sulla testa e, aiutandosi con le bacchette per prenderlo come fosse un tocchetto di pollo alle mandorle, lo accompagnò con malagrazia fuori dal finestrino, osservandolo cadere tragicamente sull’asfalto dietro di loro.
Dopodiché, come niente fosse successo, tornò a sedersi al proprio posto, agitando il capo al ritmo di una qualche canzone degli AC/DC.
- Evviva! – strillò Bill quando si rese conto di quanto era accaduto, saltando in grembo al proprio batterista e strusciando una guancia contro la sua per esprimere la propria gratitudine, - Gusti, sei stato grande!
- Non è vero!!! – strillò Tom, cercando di riprendersi, - Il tuo comportamento con gli uccelli è ignobile!
- E ne vado fiero. – commentò svogliatamente il batterista, senza neanche degnarsi di guardarlo, - E per inciso, Bill, sei un “uccello” anche tu. – disse, cercando di scrollarselo di dosso, - Aria.
- Oh, be’. – scrollò le spalle Dave, - Una soluzione come un’altra. – commentò tranquillo, dirigendosi a passo spedito verso la propria cuccetta, velocemente imitato da Georg, che sbottò un qualcosa di molto simile a “ma che ci faccio io con questi cretini?”, prima di sparire in zona notte.
Tom rimase immobile, ancora in piedi sul tavolo, a fissare l’ambiente circostante come l’avessero lobotomizzato.
Almeno fino a quando non saltò giù sul pavimento e, sul piede di guerra, non strillò “Autista! Fermati immediatamente!”.
Non sapendo se stesse succedendo qualcosa di grave, l’autista pensò bene di ubbidire, accostando veloce sul lato della strada.
Tom divorò in quattro passi il corridoietto del tour-bus e si catapultò fuori, raggiungendo il piccione ancora privo di sensi sull’asfalto e riprendendolo fra le braccia, mentre quello pigolava una protesta gorgogliante che un buon ornitologo avrebbe sicuramente tradotto come “mi avete già fatto abbastanza, lasciatemi almeno morire in pace”.
- Non preoccuparti, Piccione! – disse il chitarrista accorato, - Vedrai che te la caverai!
Il piccione sbuffò un ultimo glu di protesta e poi si fece riportare all’interno del tour-bus.
- NON DI NUOVO!!! – strillò senza pietà Bill, quando vide che quel diavolo di suo fratello aveva riportato il Male a bordo, - Fallo sparire! – sentenziò, nascondendosi dietro le spalle di Gustav.
- Sei senza cuore! – si lamentò Tom, agitando il piccione davanti al viso del fratello, per farlo sentire in colpa, - Guarda in che condizioni è!
- Non me ne frega un accidenti di niente! Per quanto mi riguarda, potrebbe stare anche peggio!
- Sei un malvagio!
- E tu sei un idiota!
- Meglio idiota che bastardo!
- Scusami se dissento!
- GLU! – strillò il piccione, interrompendo il battibecco.
I due gemelli abbassarono lo sguardo sulla creaturina ansimante sul tavolo, e la osservarono attentamente. Il piccione si sollevò stancamente sulle zampette, poi spalancò le ali con un gesto lento e doloroso e spiccò pesantemente il volo.
Non dovette fare molta strada. Si lasciò infatti andare quasi come assopito sulla testa di Bill, accomodandosi nella morbida matassa di capelli; e mentre il moro strillava come un ossesso, scappando da un lato all’altro del tour-bus come avesse davvero potuto fuggire dall’ombra dell’uccello incombente sul suo capo, il piccione si lasciò andare ad un ennesimo glu sommesso, e Tom strillò “ASPETTA!”, e allora Bill si fermò, immobile, e aspettò.
Il rasta gli si avvicinò, scrutandolo con attenzione.
- Cosa?! – chiese il frontman, spaventato, - È già spuntata qualche macchia?! Oddio!
- No. – disse sbrigativamente il ragazzo, riprendendo il piccione fra le mani per poi abbandonarlo sul tavolo con un gesto sufficientemente distratto da far supporre che la sua fissazione per la bestiola si fosse estinta, - Ha deposto le uova.
E così dicendo allungò ancora una mano, recuperò due piccole uova bianche dal nido improvvisato sulla testa di Bill e le mostrò al gemello.
- Uova? – chiese quest’ultimo, stupito, fissando con attenzione le sfere, - Non sono come quelle della gallina…
- Be’, Piccione non è una gallina.
- Uhm…
- …
- …chissà se sono buone da mangiare. – si domandò Bill, accarezzandosi il mento.
- Già. – annuì partecipe Tom. – E se provassimo?
I due si sorrisero malevoli a vicenda, e dopo pochi secondi si avviarono impietosi verso il cucinino.
Quando David riemerse dalla propria cuccetta, grattandosi la testa con aria assonnata, chiese a Gustav dove fossero finiti i gemelli.
- Hanno trovato un altro passatempo. – rispose lui, soprappensiero.
Il manager si guardò intorno.
A tavola, Bill e Tom divoravano uova alla coque con due buffi bavaglini ricoperti di cani sorridenti annodati attorno al collo.
Il povero piccione pigolava disperato, ancora abbandonato su un angolo del tavolo.
- Che angoscia, Dave! – commentò Tom, addentando voracemente un pezzo di pane, - Fa’ sparire quest’uccello! È terribilmente antigienico!
Genere: Comico, Demenziale, Romantico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack, Incest.
- E se il twincest fosse una meravigliosa realtà? Be', non sarebbe poi tanto meravigliosa. Almeno a detta dei protagonisti.
Note: WIP.
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QUANDO L’AMORE BRUCIA I NEURONI
GUSTAV SCHÄFER SI RACCONTA

Lasciatevelo dire da uno che col twincest – quello vero – è costretto ad avere a che fare tutti i giorni che il buon Dio manda sulla terra: non c’è niente, niente di bello in due gemelli che scopano.
O, a voler essere totalmente sinceri, non c’è niente di bello in due gemelli che stanno insieme ma non scopano.

Quando, nell’innocenza dei miei tredici anni, ho deciso che i gemelli Kaulitz sarebbero stati la chiave per il coronamento del mio sogno più infantile e remoto, ho deciso anche che i loro insopportabili caratteracci valevano bene l’obiettivo finale, e che, perciò, potevo sopportarli, e farlo con gioia, se questo avesse significato la possibilità di suonare a livello internazionale.
Era evidente che mi stavo condannando a morte e ancora non lo sapevo.
- Tu non capisci.
Lascio roteare lo sguardo, sbuffando annoiato e fissando il paesaggio bianco di neve oltre la finestra della mia camera, con una sorta di tenerezza nostalgica. Nel senso che preferirei trovarmi sotto una bufera piuttosto che continuare questo discorso.
Voi fangirl decisamente non avete idea.
Io vi conosco.
Voi state lì, protette dalle quattro mura delle vostre stanzette tappezzate di poster e dall’anonimato tipico di internet, e vi limitate a buttare giù fantasie più o meno erotiche che avete perfino il coraggio di spacciare in giro con orgoglio, e le credete intriganti, sexy, tenere; e poi andate sui forum e argomentate seriamente che no, non credete che fra Bill e Tom ci sia veramente una storia, e che no, non vorreste mai che ci fosse sul serio, perché poverini non potrebbero mai essere felici, dal momento che la società fa schifo, l’umanità è composta da personaggi osceni che non comprendono l’importanza del Vero Amore, eccetera eccetera.
Lo ripeto. Voi non avete idea.
Avere a che fare coi gemelli era già difficile prima. Da quando poi hanno deciso di fare outing – seppure solo all’interno della ristrettissima cerchia di persone che, lo sapevano, non li avrebbero abbandonati neanche di fronte a confessioni ben peggiori – ormai qui non si vive più una vita normale: si vive in un delirio. Per di più, totalmente disorganizzato.
- Gustav! – si lamenta il Kaulitz maggiore, agitando i pugni in aria, - Mi stai ascoltando?!
- No. – rispondo sinceramente, lasciandomi andare di schiena sul letto, - Facevo considerazioni interiori sulla vita di merda che mi avete costretto a vivere da quando avete deciso di mettervi insieme, da cretini che non siete altro.
Se c’è una cosa, una sola, che mi solleva dalla depressione, è stuzzicare Tom su questo argomento. È così deliziosamente irritabile, quando si parla di Bill… si vede che si sente in colpa, dal momento che è stato lui ad irrompere in camera di suo fratello una mattina e fargli presente che ciò che provava per lui non era più considerabile “amore fraterno”.
E non sto esagerando, con le dinamiche.
Ma per questa storia dovreste chiedere a Georg, davvero. Non fosse una tragedia, sarebbe uno spasso.
- La prossima volta che m’innamoro di mio fratello, Schäfer, mi assicuro di scriverti prima una lettera di avviso. – borbotta infatti il nostro incazzosissimo Tomi, acido come sempre, mostrandomi il medio.
- Fortunatamente non hai altri fratelli. – rispondo io, gelido. – E guai a te se cominci a considerarmi tale. Ti assicuro che non lo sono, il nostro non sarebbe considerabile incesto.
- Non è che… - comincia a protestare lui. Poi, probabilmente, si rende conto del fatto che cercare di argomentare seriamente una difesa contro una presa per il culo è del tutto inutile, e si rassegna a provare a tirarmi uno scappellotto sulla fronte, che però io evito con grazia rimettendomi seduto. – Fanculo, stronzo! – si limita quindi a commentare, sfilandosi una scarpa e tirandomela addosso senza tanti complimenti.
Ora, io so che Tom non è completamente stupido. O meglio, so che non lo è affatto. Solo che si ostina a dimostrare la propria intelligenza solo in ambiti della propria esistenza del tutto imbecilli. Per dire, il Monopoli, che suo fratello ama tanto. Mai una volta che lo si riesca a battere! Un po’ anche perché David ha fiutato in lui una certa scaltrezza a livello manageriale, e lo sta allevando come un piccolo di alligatore perché segua le sue brillanti orme, ma sono propenso a credere che la maggior parte del merito vada comunque a Tom.
Quindi io so che la persona che ho davanti in questo momento non è idiota.
Solo che, davvero, in occasioni come questa mi riesce difficile crederlo.
- Vuoi piantarla di perderti dentro la tua testa e stare ad ascoltarmi? – si lamenta, sconvolto dalla facilità con cui mi distraggo pur di non starlo a sentire.
A questo punto mi arrendo e annuisco. Neanche io sono stupido.
- Avanti. – incito bonario, - Qual è il problema?
- Che non me lo scoperò mai, è ovvio. – confessa lui tranquillamente.
Se questo fosse un cartone animato, io come minimo finirei gambe all’aria mentre in lontananza una palla di fieno rotola fra i cactus.
Trovandomi invece palesemente catapultato in una kaulitzest neanche tanto originale, sono fregato.
- Tom, fai schifo. – borbotto, fissandolo basito, - È di questo che blateri da mezz’ora?
- Ovviamente no! – ammette lui, recuperando la scarpa dal mio letto e rinfilandosela, - Ma dal momento che non mi hai ascoltato sicuramente non lo sai! Sto parlando del Natale, cretino di un batterista che non sei altro.
- Mancano ancora tre dannatissime settimane al venticinque, Kaulitz! Cosa diavolo vuoi da me?!
Odio perdere la calma, ma Tom mi ci costringe ogni santissima volta, è indecente.
- C’è che, da cretino quale sono – argomenta con fare esagitato, - mi ritrovo al quattro con trenta euro e la drammatica certezza di scoprire le mie stesse tasche sempre più vuote giorno dopo giorno finché non avrò esaurito i liquidi! E non ho idea di cosa comprargli!
- …Tom, che c’entra questo col sesso?
Lui mi fissa come fossi scemo.
- Non capisci un cazzo di femmine, Gustav.
- Neanche tu, se non hai ancora realizzato che tuo fratello non lo è. – è la mia serafica risposta, mentre mi tiro indietro sul materasso per poggiarmi di schiena alla parete.
- Sai cosa intendevo! – sbotta lui, sfilando di nuovo la scarpa e lanciandomela addosso, abbastanza lentamente perché io possa sollevare una mano e bloccarla prima che vada a colpirmi in viso.
- Tom, cosa vuoi che ti dica? – protesto mugugnando e facendo roteare la scarpa, tenendola per i lacci, - Non posso farci niente se non hai un centesimo e neanche uno straccio d’idea per un regalo che ti renda scopabile agli occhi del tuo stesso fratello. – mi interrompo, e anche la scarpa smette di girare, afflosciandosi lungo il mio avambraccio. – Dimmi che non ho davvero detto qualcosa di simile…
Tom scuote il capo, serio ma vagamente compiaciuto.
- È bello che tu stia cominciando ad abituarti! – mi rassicura, mentre io medito di raggiungere il mio manager e chiedergli una rescissione di contratto immediata. – Comunque, - continua imperterrito, ignorando il palese disgusto che provo nei confronti suoi, per essere così drammaticamente idiota, e miei, per essere altrettanto drammaticamente scemo, - è anche affar tuo. Se non riesco a risolvere questo problema, sarò molto irritato. E se io sarò irritato, anche Bill lo sarà. E se lo saremo entrambi, anche David si irriterà.
- …questo elenco finirà prima di arrivare ai vertici del tuo albero genealogico o…?
- Schäfer, mi stai facendo incazzare!
- Ma scusa, Tom, vieni a rompere le palle per motivi del tutto discutibili, per usare un eufemismo, e dovrei pure prenderti sul serio?!
- Te lo do io un motivo per prendermi sul serio: voglio che mi accompagni a cercare un regalo carino per Bill.
Sapevo che stamattina avrei dovuto scendere dal lato destro del letto.
- …oggi?
- Ora. Subito.
- Ma…
- Per forza. O i miei soldi scompariranno e arriverò alla vigilia di Natale a mani vuote. E sarò costretto a sventrarti e offrire a Bill le tue viscere come dono.
Deglutisco rumorosamente, osservando ancora la bufera che imperversa all’esterno. Non so che prospettiva sia meglio, se essere assassinato dal mio chitarrista fra tre settimane o da una quantità abnorme di neve fra dieci minuti. La scelta è ardua.
- Va bene. – concedo infine.
Tanto so già che sarà una giornata di merda.
*
- È ovvio che non lo scoperò mai.
Gli sollevo addosso uno sguardo disgustato, e lui deve percepirlo, perché mi guarda a propria volta e bisbiglia un infastidito “che vuoi?!”, prima di tornare a rigirarsi fra le mani il peluche a forma di ratto che ha trovato in un cestone.
- Che voglio, chiede lui. – borbotto irritato, sfilandogli il topo di mano e gettandolo in un mucchio di pinguini, - Primo: non è che siccome noi siamo stati così dolci, meravigliosi e comprensivi da accettarvi senza farvi problemi, allora deve farlo anche il resto del mondo. Quindi abbassa la voce. E in secondo luogo, comunque, non è che siccome noi siamo stati così dolci, meravigliosi e comprensivi da accettarvi senza farvi problemi, allora io devo essere costretto ad ascoltarti parlare impunemente di sesso, o meglio, del sesso che non riesci a fare! Quindi piantala.
- Non capisco perché il sesso possa essere un argomento naturale per chiunque tranne che per me e Bill! – strilla lui a quel punto, completamente dimentico di essere in un centro commerciale, - Non ho mai dovuto aspettare tante settimane per una scopata, sono allibito!
Lo fisso, sconvolto.
- Tom, se fossi tuo fratello neanche io te lo darei. Sei un uomo veramente pessimo!
- Come osi?! – ricomincia a strillare l’idiota, recuperando il sorcio dal mucchio di pinguini e prendendo a sprimacciarlo senza delicatezza, - Io sto qui che mi ammazzo per cercare un regalo carino, e tu mi dai del pessimo! È questo posto, che è pessimo! – aggiunge, evidentemente insoddisfatto della quantità enorme di stronzate già dette, - Visto che il regalo migliore che si riesce a trovare è questa specie di topo di fogna imbottito!
Io sospiro e libero il topo dall’agonia cui è costretto, nascondendolo più a fondo nel mucchio dei pinguini, perché Tom non possa più ritrovarlo.
- Abbiamo visto anche delle cose carine, prima. – gli ricordo puntuale, scrollando le spalle.
- Sì, certo. Tipo cosa, secondo te? La paletta per la pasta con le canzoncine di Natale incorporate?! Dico, scherzi?! Se mi presento con una roba simile, altro che sesso: come minimo Bill me la ficca su per il culo. E poi fa partire Jingle Bells!
- Ma lo vedi che fai schifo?! – rabbrividisco io, allontanandomi da lui in un gesto repentino e sconvolto, per quanto del tutto giustificabile. – E comunque c’era anche altro!
- Se parli di quello stupido salvadanaio a forma di porcello al quale si allungava la coda man mano che lo riempivi di soldi, neanche ti dico come potrebbe usarlo Bill su di me se glielo regalassi.
- Te ne sono grato. – sbuffo demoralizzato. – Ma c’era anche quell’altro salvadanaio… quello a forma di piantina, che più lo riempivi più cresceva…
Tom rotea gli occhi e si allontana a grandi passi verso il reparto cosmetici.
- Mio fratello va dal parrucchiere tre volte a settimana e si trucca quanto la versione alta e magra di Christina Aguilera, cosa cazzo vuoi che se ne faccia di un posto dove conservare i soldi che non conserva?!
Be’, che dire. Ha ragione anche lui.
- Tom, si può sapere cosa stai andando a fare di là? – mi limito a chiedere, alquanto esasperato, seguendolo controvoglia, - Non mi risulta che Bill sia a corto di trucchi, sinceramente.
- Ma che ne so! – sbraita, totalmente rincretinito dagli odori e dai colori tipici di quel reparto, - Sto cercando di farmi venire un’idea, e per inciso, tu non sei affatto d’aiu-…!!!
Vedendolo fermarsi nel mezzo del nulla, con un’espressione idiota sulla faccia, tutto rigido sulle gambe come la pertica che è, quasi mi preoccupo.
- Tom, che diavolo hai? – cerco di capire, sollevandomi sulle punte per verificare che nei suoi occhi sia ancora presente la scintilla della vita. Se muore mentre è con me, poi vallo a sentire Jost.
- Gustav…! Guarda!!! – ansima lui, sconvolto, indicando uno scaffale mentre sul viso gli si apre un sorriso beota.
Io seguo la mano e raggiungo una papera. Sì. Proprio una papera. Quindici centimetri d’altezza, dieci di larghezza e un’altra quindicina abbondante di profondità di papera bianca e arancione in plastica.
- Che cavolo sarebbe quello?
- Come fai a non capirlo?! – mi riprende lui, afferrandomi per la collottola e spingendomi più vicino all’aggeggio, - È uno di quei cosi che asciugano lo smalto!!!
Mi avvicino ancora un po’ e, non capendo, prendo l’oggetto fra le mani, per esaminarlo più attentamente.
È una papera del tutto normale, a parte il fatto che, in effetti, l’apertura del becco è larga più o meno quanto lo sono le dita di una mano. Faccio la prova, infilandole nell’apposito spazio dall’indice al mignolo.
- Ehi, è vero! – ammetto, sbigottito.
Tom mi strappa l’affare di dosso – rischiando di portar via assieme a lui pure un buon numero di falangi – e, disinteressandosi completamente della tragedia alla quale avrebbe condannato i Tokio Hotel se mi avesse menomato, saltella compiaciuto verso le casse.
Io neanche mi lamento, tanto so che sarebbe inutile. Non ce la faccio proprio, però, a non lasciarmi sfuggire un versaccio disgustato mentre ascolto ciò che borbotta felice mentre si mette educatamente in fila.
- Se non me lo dà dopo questo, non me lo darà proprio mai più!

È questo che intendo quando dico che voi fangirl non capite. Non avete la più pallida idea di cosa significhi avere a che fare con due gemelli innamorati. Anche perché l’amore è pericoloso. Non si limita a bruciare tutti i neuroni presenti nel cervello di chi lo prova, no, contagia anche i cervelli di quelli che li circondano!
Costringendo tutti a un’incipiente e precoce demenza senile.
Che, sinceramente, mi sta più che bene se affligge il mio manager ultra-trentacinquenne.
Mi sta un po’ meno bene se affligge me, che di anni ne ho venti. E sono ancora tragicamente pieno di belle speranze, a dimostrazione che della vita, è ovvio, non ho ancora capito un accidenti.
*
Io e Tom rincasiamo nell’esatto momento in cui rincasano Georg e Bill. Dallo sguardo del mio povero bassista, e dal pacchetto incartato e infiocchettato che Bill sbatacchia in giro per la casa, comprendo che la sua giornata non dev’essere stata granché migliore della mia, perciò sospiro e gli schiocco un’amichevole pacca su una spalla, mentre lui mugugna disperato e corre verso il divano, sul quale si abbandona esausto mentre, dall’altro lato del loft, David rimprovera aspramente i gemelli per essere usciti con un tempo che “neanche i vichinghi sarebbero stati in grado di sopportare”.
Scuoto il capo e mi avvicino a Georg, sprofondando sul divano al suo fianco e accendendo la televisione. Su MTv becco Ready, Set, Go! e ritengo più opportuno spegnere nel momento esatto in cui Georg ricomincia a mugolare come se stessero cercando di ammazzarlo.
- Giornata stressante, eh? – chiedo partecipe, cercando di consolarlo con qualche altra affettuosa pacca.
- Non puoi neanche immaginare. – borbotta lui, riportando dietro l’orecchio una ciocca di quell’improponibile tenda che si ostina a chiamare frangia e che passa la propria intera giornata a cercare di accecarlo ficcandoglisi negli occhi quando meno se lo aspetta. Poi si ferma, tossicchia e aggiunge: - Il twincest fa schifo.
Io ridacchio. Sollevo lo sguardo e adocchio Bill e Tom che, nel mezzo del corridoio che separa le loro stanze, cercando di nascondersi i pacchi regalo a vicenda e finendoo con lo scontrarsi a metà dell’aria fra loro in bacetti fugaci e terribilmente teneri a fior di labbra. David li fissa da qualche metro di distanza, scioccato, e poi si rifugia in cucina borbottando qualcosa sull’indecenza, mentre Tom prende a trascinare Bill verso il bagno, tra le sue deboli quanto inutili proteste.
Scrollo le spalle.
Georg si lascia andare a tutto il repertorio di versetti disgustati che inscena quando è invidioso del fatto che i gemelli pomicino comunque più di lui.
- Che vuoi farci? – sbotto divertito, - Sono canon!

Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia, Drammatico.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVISI: Angst, Slash, Violence.
- "Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto."
Note: Mi rendo conto dell'assurdo del cominciare una nuova parte di questa saga con uno spin-off, ma per motivi logistici siamo riuscite a organizzarci solo così XD Oltretutto, immagino che tutte voi (?) foste molto impazienti di sapere cosa fosse successo al povero David. Ed ecco che lui, pronto, risponde. Partendo dal Big Bang, ma risponde.
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IL GIORNO IN CUI SONO MORTO

Se dieci anni fa, quando ho cominciato ad interessarmi di produzione e composizione di canzoni, mi avessero detto “guarda che questo mestiere sarà il motivo per cui, in un giorno non molto lontano e ancora nel fiore dei tuoi anni, tirerai le cuoia”, ci avrei riso su. Davvero. Tutti i mestieri che avevo fatto, perfino il breakdancer e il cantante in una boyband, sembravano decisamente più pericolosi di quanto non potesse sembrare restare dietro le quinte a comporre canzoni per gente varia ed eventuale. Perfino svegliarsi al mattino, scendere dal letto e prepararsi il caffè sembrava più pericoloso. Potevi scivolare sulle ciabatte, per dire. O scottarti con la caffettiera. A scrivere canzoni e produrle cosa poteva accaderti? Potevi pungerti con la penna? Poteva venirti un crampo alla mano dopo aver passato ore al computer a modulare voci stonate per farle sembrare meno raccapriccianti di quanto fossero al naturale? Che gran pericoli! Che rischi!
Nel tempo, naturalmente, le cose sono un po’ cambiate, come alla fine cambia tutto, che tu gliene dia la possibilità o meno. Quello del cambiamento è un deprimente destino che ci accomuna tutti, l’unica cosa nella quale in effetti la vita non faccia differenza a seconda di chi va a colpire. Vedete il mio viso, ad esempio? Vedete queste piccole rughe attorno agli occhi, segni del tempo che non è stato possibile cancellare neanche a furia di badilate di creme molto più costose di quanto non possa per decenza rivelare? Ecco, queste stesse rughe assumeranno magari meno fascino su qualcun altro, ma ci saranno. Ci saranno sul viso di un ragazzino che per ora ha tredici anni, e quando arriveranno saranno uguali a quelle dell’uomo sul viale nel tramonto che magari ne ha sessantacinque. E quindi, come è cambiata la mia fisionomia, la grana della mia pelle, il colore dei miei capelli, è cambiato anche il modo che avevo di vedere determinate cose. Più che altro, c’è da ammetterlo, a causa dei Tokio Hotel.
Cinque, ormai quasi sei anni fa, io e Dave, che è un uomo che ormai mi sopporta da molto tempo, nonché l’esempio perfetto di come dovrebbe essere un omosessuale al giorno d’oggi, quando invece io sono circondato solo da checche in mezzo al gruppo delle quali certe giornate sento di poter prendere posto con fin troppa disinvoltura, fummo mandati dalla Universal a Loitsche. Le prime reazioni – di entrambi, peraltro, ai tempi giovani e pieni di possibilità – furono di sconforto. Perché ci mandavano a Loitsche? Cosa c’era, a parte i campi di patate, la campagna e il vuoto cosmico?
Saltò fuori che invece in quel buco dimenticato da Dio c’era un diamante grezzo dal valore inestimabile. Quattro ragazzi che si volevano bene, erano amici davvero, suonavano insieme e volevano divertirsi. Quattro ragazzi in mezzo ai quali si trovava Bill Kaulitz, e Bill era già Bill allora, credetemi. Forse un po’ più spettinato, coi denti un po’ più storti e con addosso vestiti meno costosi, ma Bill comunque.
È stato allora che tutto ha cominciato a cambiare. Improvvisamente la questione non era più circoscritta allo scrivere canzoni o a produrle o ad avere un rapporto di tipo lavorativo con un cantante, no. Io avevo quattro ragazzini da gestire, quattro ragazzini che mi erano stati affidati dalle rispettive madri apprensive e, in certi casi – in tutti i casi, cioè, che non fossero Simone – anche piuttosto diffidenti, e dovevo gestirli in casa mia, a stretto contatto con me, all’interno di spazi che, fino a quel momento erano stati solo miei.
Improvvisamente, il pericolo del mio lavoro mi si palesava in tutta la sua raccapricciante serietà. Si correva il rischio di svegliarsi al mattino e inciampare in Gustav, ad esempio, che ha sempre avuto la passione per la sveglia molto mattiniera ma, quando era molto piccolo, molto goloso e molto tondo, tendeva ad addormentarsi sul pavimento ai piedi del divano verso le otto del mattino, dopo essere sorto col sole alle sei. Si correva il rischio in incappare inaspettatamente nelle mutande sporche di Georg abbandonate nei posti più impensabili, e quando dico impensabili intendo davvero impensabili, come quando una volta lo scarico del lavandino in bagno cominciò a vomitare liquami puzzolenti e scoprimmo che in realtà tutto questo avveniva perché un paio dei suoi boxer più vecchi e sbrindellati ci era finito dentro. Il come, tutt’oggi, è ancora un mistero. Si correva il rischio di irritare Tom, che giuro, è un ragazzo di una bontà infinita, praticamente un santo martire, ma quando gli girano è la fine, soprattutto se gli girano a causa tua, perché poi riconquistarlo è un delirio paragonabile solo a certe quest impossibili coinvolgenti draghi, fuoco e cespugli di rovi per chilometri e chilometri, e di questo fatto Bill è la prova vivente, perché pur amandolo a livelli veramente indegni Tom con suo fratello, per molti mesi, ha chiuso in modi così definitivi da lasciarmi basito.
E poi, naturalmente, si correva il rischio di Bill, un essere umano che, nella sua interezza, ha sempre rappresentato un problema. Bill è una creatura incredibilmente affascinante, e come tutte le creature incredibilmente affascinanti è perennemente in bilico, geneticamente instabile, un disastro, insomma. Vivere con lui era come vivere con una bomba a tempo a ricarica continua in casa. Sapevi che sarebbe esplosa, non sapevi quando ma sapevi che sarebbe successo, e la cosa veramente devastante era sapere allo stesso modo che una sola esplosione non sarebbe bastata, non sarebbe stata definitiva come tutte le esplosioni sono, perché avevi la certezza che alla prima, chissà quando, chissà perché, prima o poi ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora, senza mai fine. E poteva essere per qualsiasi cosa, il motivo più stupido o quello più fondamentale, o solo perché magari era sotto stress e sentiva il bisogno di scaricare, ed allora dovevi solo sperare di non essere tu la vittima designata a fargli da sfogatoio proprio in quel momento, oppure rassegnarti in silenzio al tuo destino e subire finché non fosse stato soddisfatto.
Anche quello, comunque, non era niente in confronto al pericolo che mi sarei ritrovato a subire poi, ma in un certo senso partire da quel punto era importante, e non perché volessi far vedere quanto Bill in realtà sia la fonte primaria e unica dei miei guai – cosa anche possibile, ma non completamente vera, visto che magari Bill mi ha offerto molte possibilità di mettermi nei guai, ecco, ma i guai in cui sono incappato poi me li sono scelti tutti da solo. A partire da una vasta gamma, ma li ho scelti da solo – bensì perché solo quando cerco di ripensare a tutto fin dall’inizio mi rendo conto di quanto in realtà la catena di azioni che mi ha portato fino a qua sia stata comunque un percorso che avrei scelto di rifare anche se per questo avrei dovuto farmi sventrare altre trenta volte. Si parla della mia vita, qui. Della mia fortuna, di ciò che ho amato fare, di persone a cui ho voluto bene, ma bene davvero.
Se nel giorno in cui ho conosciuto Bill lui mi avesse guardato negli occhi e mi avesse detto “io ti ho visto nei miei sogni, so chi sei e so che finirai ammazzato in un magazzino vuoto, sporco e puzzolente, dimenticato ai confini di Berlino, e questo solo perché io mi innamorerò dell’uomo più giusto e più sbagliato in assoluto”, avrei detto “va bene, Bill”, avrei detto “portami da questa gente che mi farà a pezzi, ma portamici tu”. Era quello che volevo. È stato quello che ho ottenuto.
Il fatto è che a questi ragazzi io voglio troppo bene. Quando vuoi bene a qualcuno in maniera così totalizzante, non ti curi del dolore che, per sbaglio o di proposito, ti infligge. Bill non ha chiesto di innamorarsi di un uomo problematico come Bushido – se è per questo, non l’ho chiesto neanch’io. È successo, e non c’è uomo al mondo che possa capire Bill, in questo o in altri momenti della sua vita negli ultimi tre anni, come l’ho capito io. Non c’è uomo al mondo che possa dire di aver sentito dentro il suo dolore come l’ho sentito io, e non solo perché condividiamo certi aspetti della nostra esistenza, ma perché lui è mio. Io l’ho voluto così tanto che alla fine è stato un po’ come l’avessi generato da me. È stato, è e sarà sempre la cosa più vicina ad un figlio che abbia mai avuto, e ciò che vale per lui vale esattamente allo stesso modo per suo fratello, per Georg e per Gustav. In questi ultimi anni ho dovuto subire molte cose, nel tentativo di preservare la felicità di questi ragazzi. Non sempre ci sono riuscito, ma posso dire di averci sempre provato.
È stato con l’intenzione di provarci ancora che, un mesetto fa, sono andato alla Universal, divorato dall’ansia ma cercando di restare lucido e presente a me stesso. La situazione era in stallo da un po’, Bill aveva abbandonato la Germania già da un bel pezzo ma nessuno dei pezzi grossi mi aveva chiamato. Erano rimasti in attesa, e questo raccontavano i loro sogghigni carichi di pietà quando mi hanno visto entrare nel loro ufficio, minuscolo di fronte a loro, molti di più, molto più ricchi, molto più importanti. I loro sorrisi dicevano “finalmente le hai trovate le palle per presentarti, eh, Jost?”. Finalmente le avevo trovate, sì.
In realtà non c’era molto da discutere. Se anche avessi giurato e spergiurato loro che Bill sarebbe tornato nel giro di due giorni già pronto per rimettersi al lavoro, immagino mi avrebbero buttato fuori comunque. Si sono mostrati pazienti e magnanimi – “abbiamo fatto tutto il possibile, David, abbiamo cercato di sfruttare questa cosa con Chakuza, vi abbiamo dato i vostri tempi e i vostri spazi, e con cosa ci troviamo in mano, adesso?” – ed io sapevo perfettamente che dovevo già ringraziare se si limitavano a rescindere il contratto senza trascinarci tutti in tribunale per inadempienza, perciò l’incontro è durato poco. Loro hanno espresso le loro ragioni. Io ho concordato. Venti minuti dopo ero per strada e, per prima cosa, chiamavo Tom.
- È andata male, vero? – mi ha detto subito lui, non appena ha risposto, prima ancora di sentire il mio tono di voce. La sensibilità di Tom in molti aspetti della sua vita è strabiliante. Suppongo sia perché, quando vivi in simbiosi con uno come Bill, i tremiti nella forza devi imparare a percepirli prima che diventino scossoni di terremoto, per provare quantomeno ad arginarli. Lui in questo riesce benissimo, e perciò quando l’ho chiamato, dalla Germania alle Maldive, lui non ha nemmeno dovuto ascoltare il suono della mia voce per sapere che sì, era andata male davvero.
- Mi dispiace. – ho detto io, piano, sospirando profondamente. Tom s’è lasciato andare ad una risatina quasi liberatoria. L’ho immaginato restare in tensione fino a quel momento e mi è dispiaciuto per lui al punto che mi sono sentito stringere il cuore in una smorfia fisicamente dolorosa.
- L’hai già detto ai ragazzi? – s’è informato, una punta di preoccupazione viva nella voce.
- Non ancora. – ho ammesso con una certa vergogna, - Conto di farlo appena chiuso con te. – e poi ho preso un respiro enorme, perché per chiedere di Bill, di questi tempi, mi serve sempre una dose extra di coraggio. – Tuo fratello?
Tom ha lasciato passare qualche secondo, prima di rispondere. Ho sentito qualcosa frusciare, lì, da qualche parte, e ho immaginato subito si fosse sporto ad accarezzargli dolcemente i capelli, un gesto che gli ho sempre visto fare quando Bill gli si addormentava addosso, per un motivo o per l’altro.
- Adesso dorme. – mi ha risposto lui, la voce ridotta a un sussurro quasi eccessivamente dolce, - Ti spiace se a lui ne parlo fra qualche tempo? Non è ancora il momento.
Mi sono sempre fidato ciecamente della profondità con la quale Tom conosce Bill, perciò non ho avuto da ridire in quel caso, così come non avevo avuto da ridire in tanti altri casi durante la nostra storia insieme. Così tanti altri casi, così tanti momenti… ho chiuso la telefonata con un groppo in gola quasi soffocante, e mi sono preparato al peggio. Per non scappare, mi sono ripetuto che era mio dovere dare a quei ragazzi la notizia da me, prima che arrivasse loro la notifica dello studio legale. E per evitare di mostrarmi troppo sconvolto di fronte all’inevitabile furia che mi avrebbe travolto, ho cercato di immaginare tutti gli scenari possibili, dal più pacato al più violento, ma nulla, nulla avrebbe potuto prepararmi a quella mezz’ora passata in compagnia di Georg e Gustav agli studi. Adesso la mia vista è offuscata, così come la mia memoria, ma non dimenticherò mai più lo sguardo profondamente deluso di Gustav, così come non dimenticherò più le parole di Georg, così secche e lucide, incredibilmente dolorose. “Avete giocato con la nostra vita”. Aveva ragione. Nessuno di noi l’aveva voluto, ma alla fine era ciò che era successo. A furia di giocare a fare dio, uccidere persone per poi riportarle in vita e via così, io per primo ho dimenticato quanto altro ci fosse in ballo oltre a Bill, Bushido e il mio affetto per loro.
La vita, comunque, va avanti. È una frase fatta, ma la sua ragione d’esistenza si riflette nel fatto che è vero. A Georg e Gustav ho detto di non perdersi di vista, perché i Tokio Hotel non erano morti, erano solo in stand-by. Gustav s’è lasciato andare ad una risatina afflitta e Georg mi ha guardato con una rabbia in quantificabile.
- Non ti preoccupare, - mi ha detto astioso, - non ci perderemo di vista, ma non certo per i Tokio Hotel.
Io ho incassato e ho lasciato perdere, me ne sono tornato a casa mia, mi sono spogliato, mi sono fatto una doccia, ho indossato il pigiama, ho riscaldato una tazza di latte di soia, ci ho messo dentro un cucchiaino di miele, ho acceso il portatile, mi sono seduto in poltrona, ho fissato lo schermo con una foto di noi cinque insieme come wallpaper e poi mi sono messo le mani nei capelli e ho pianto per ore. La mia vita m’era scivolata via di mano mesi prima, era rimasta intrappolata fra le dita di un tunisino triste e poi era scivolata via anche da lì, perdendosi da qualche parte nell’oscurità come i rivoli di pioggia lungo le strade. E io me ne stavo accorgendo solo in quel momento, quando era troppo tardi per riportare tutto indietro.
Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto. C’è solo una via che può portarti all’uscita, ma di mezzo ce ne sono tante altre che invece ti portano solo verso un vicolo cieco. Alcune di queste altre non ti prendono in giro, fai qualche passo, svolti un paio di volte a destra e a sinistra e subito ti parano un muro davanti alla faccia, e tu allora puoi darti del cretino, concederti un sorriso triste e poi tornare indietro per imboccarne un’altra. Ma ce ne sono di differenti che invece non ti aiutano. Si inerpicano per vie e viottoli costringendoti a decine di cambi di direzione, a destra, a sinistra, dritto, torna indietro, vai avanti per tre metri, fai un giro su te stesso e poi imbocchi la prima porta a destra, e quando tu sei lì che cammini per anni e senti che ormai l’uscita è vicina ecco che invece di fronte a te c’è una parete vuota. E tu ti ritrovi in mano la consapevolezza di dover tornare indietro e ripartire da zero, ma la verità è che non sai nemmeno se ci riusciresti, a ritrovare il punto di partenza, perché sono passati secoli dall’ultima volta che l’hai visto e chi si ricorda se al tale incrocio eri andato a destra o a sinistra? Chissà.
Su quella poltrona, di fronte a quella foto, io ho realizzato che per anni – molto più di tre, in realtà, perché queste cose, quando succedono, poi ti portano a riconsiderare tutto, pure situazioni in cui credevi di essertela cavata bene davvero – avevo percorso una strada che credevo fortemente fosse quella giusta. E lei mi aveva illuso procedendo per tanto, tanto tempo senza il minimo intoppo, salvo poi piazzarmene uno di fronte proprio adesso. Quella notte lì io mi sono detto “cazzo”, mi sono detto, “cazzo, David, e ora cosa fai?”, perché seriamente, mi sembrava di non avere più soluzioni. Non sapevo più che fare, capite, avevo perso tutto. I Tokio Hotel erano la mia vita e si stavano sfaldando senza che potessi fare niente per fermarli, era il più grande fallimento della mia esistenza, non ero stato in grado di prevederlo e non ero più in grado di fermarlo. E mi sono chiesto “e ora come ci torno indietro? Da dove parto, dove ho speranza di arrivare?”, e mi sono visto girare per anni e anni e anni in questo labirinto vuoto cercando l’entrata per ripartire da lì senza riuscire ad uscire mai da quei tre corridoi in croce che avevo percorso girando in tondo negli ultimi mesi.
Poi mi sono addormentato. Lì, in poltrona, tutto piegato su me stesso, col portatile ancora acceso che s’è andato scaricando per tutta la notte fino a spegnersi. E quando l’indomani mattina ho aperto gli occhi e non avevo nemmeno mal di testa, l’ho fatto con stupore. È così che la vita ti stupisce più spesso, d’altronde, non con le cose veramente meravigliose, ma con quelle più brutte: può accaderti la cosa peggiore del mondo, puoi piangere fino a sfinirti e ripeterti che è troppo da sopportare, non puoi più farcela, e sono quelle occasioni in cui sei così depresso, ma così depresso che arrivi a pensare che morire sarà una cosa naturale. Chiuderai gli occhi sentendoli bruciare per via delle lacrime, continuerai a singhiozzare fino a farti dolere i polmoni e poi perderai conoscenza, e l’ultima cosa che pensi è che in qualche modo, intimamente, dentro di te, sai che non ti risveglierai mai più. Ti fa paura ammetterlo, ma è così. Il tuo corpo e la tua mente sono così devastati che implorano solo il riposo eterno, e tu ti abbandoni al buio con la speranza segreta di concederglielo. È stato così, per me, quand’è morto mio padre.
Ma allora come adesso, il giorno dopo ho riaperto gli occhi. Li ho riaperti davvero e mi sono detto “sono ancora vivo”, e il pensiero mi ha irritato, mi ha stancato e mi ha portato a scattare in piedi e darmi una sistemata, lavarmi, vestirmi ed uscire, perché tollerare una tale dose di tristezza con la consapevolezza di essere vivo e sentirne ogni spigolo premere dolorosamente contro tutti i punti deboli del tuo corpo non è davvero possibile. Te la scrolli di dosso, e lo fai per proteggerti, perché non puoi fare altrimenti.
Quando è morto mio padre, il giorno dopo sono andato da mia madre, l’ho abbracciata e le ho sorriso. E lei ha sorriso a me. È così che sopravvivi al dolore. Mettendolo da parte.
L’ho messo da parte anche stavolta, e per molti giorni ho vissuto la mia vita normale, semplicemente senza il lavoro. Per alcuni potrà sembrare folle, soprattutto pensando ad uno che praticamente non smette mai di lavorare come me, ma in realtà è stato piuttosto semplice ed anche alquanto divertente. Ho semplicemente rimosso dall’agenda tutto ciò che poteva avere a che fare con la mia professione e mi sono concesso tutte quelle cose che avevo trascurato in favore del resto. Ho letto bei libri, mangiato buon cibo, sono tornato in palestra e lì ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo col sospensorio di uno schermidore fascinoso dall’aspetto vagamente italianeggiante di nome Bruno ed ho colto un assaggio perfino di ciò che conteneva, con estrema soddisfazione da parte di entrambi. Poi mi sono goduto la mia casa, un appartamento che adoro e che ho arredato con amore direi quasi maniacale. Le sue poltrone bianche ergonomiche, la cucina in acciaio, il letto col materasso in latex, la vasca a idromassaggio nell’ampio bagno piastrellato in nero e bianco. Mi sono preso del tempo per me perché avevo bisogno di sentirmi coccolato e nessuno a parte il sottoscritto sembrava disposto a farlo. Mi sono arrangiato con ciò che avevo e non è stato affatto male. Stavo solo aspettando di trovare una nuova ragione per ricominciare a vivere in maniera più piena, e puntualmente questa ragione è arrivata qualche settimana dopo per via aerea, sotto forma di Bill Kaulitz, come spesso accade. Magari non a tutti, ma a me sì.
Tornati Bill e Tom in patria, la mia vita è cambiata di nuovo. Ho cercato di tenere un posto per palestra, yoga, cibo biologico e menate varie, ma i gemelli hanno semplicemente ripreso ad occupare la quasi totalità delle mie giornate, ed è stato stupendo. Era bello vedere che in qualche modo loro continuavano ad affidarsi a me quasi totalmente, come se non fosse cambiato niente rispetto a prima. Avevo perso Georg e Gustav, ma avevo ancora loro. Egoisticamente, non potevo che essere felice di questo, anche se sapevo che, se Georg e Gustav si erano allontanati, era stato solo perché erano cresciuti bene, per la strada giusta, ed avrei dovuto augurarmi la stessa cosa anche per i gemelli, ma non ci riuscivo. Era splendido averli di nuovo in giro, ritrovarmeli in casa senza un perché, portarli a mangiare fuori perfino quando questo voleva dire entrare in un McDonald’s. E poi c’è stato da dare a Bill la notizia – perché in tutto questo era saltato fuori che no, Tom non gli aveva detto niente, benedetto ragazzo, sarà un padre perfetto, totalmente succube di sua moglie – e maneggiarlo con cura, e tenerlo d’occhio, accertarsi che mangiasse, coccolarlo un po’. Ho ripreso contatto con la parte di me che cercava di far funzionare le cose con dei ragazzini in casa, e mi sono accorto che alla fine il punto di partenza l’avevo ritrovato. Ci ero finito quasi per caso, ma adesso era lì, e da lì potevo provare a ricostruire qualcosa, se volevo. E volevo.
Da quel momento, la mia vita ha imboccato una spirale tantrica ascendente, e tutto ha ripreso a luccicare. Alle volte basta così poco, devi solo scendere in basso, tanto in basso, che lì ti ritrovi di sicuro, soprattutto se stai solo con te stesso abbastanza a lungo da riuscire nuovamente ad ascoltarti, e poi è una passeggiata. Ho cominciato a guardarmi intorno, a sondare il terreno, a vedere se per i Tokio Hotel potesse esserci qualche altra possibilità. Sono tornato da Georg e Gustav e loro erano ancora lì esattamente dove sapevo che sarebbero stati, pronti a rimontare in sella. Ho lasciato che Bill li incontrasse, li ho tenuti da soli in una stanza per il tempo sufficiente e, quando ne sono venuti fuori, sapevo che la via della ricostruzione era stata imboccata, bastava percorrerla, e in quel momento non m’interessava che fosse un altro potenziale vicolo cieco, anche perché non potevo saperlo in anticipo. Ho affrontato il cammino col sorriso sulle labbra, ed effettivamente è anche col sorriso sulle labbra che, questa sera, sono uscito da casa di Bill.
Mi guardo intorno e la strada è deserta ma bene illuminata, spazzata dall’aria calda di inizio agosto. Ho la schiena imperlata di goccioline di sudore perché in casa di Bill si muore di caldo visto che la sua gola sempre sull’orlo di una crisi di nervi ci impedisce di accendere l’aria condizionata, e di sicuro spostare scatoloni per le ultime tre ore non mi ha aiutato a mantenere la mia temperatura corporea ad un livello accettabile, ma in fin dei conti mi ha fatto piacere dare una mano, e poi il dottor Schillinger giustamente dice che non è possibile sistemare la testa di qualcuno se quel qualcuno vive nel caos, perciò il caos che casa di Bill è sempre stata va riordinato. Ne va della sua sanità mentale, qualcosa alla quale tutti, inspiegabilmente, teniamo moltissimo. Forse perché lui, invece, non se ne cura affatto.
Insomma, soddisfatto di me stesso attraverso la strada e mi avvicino alla mia macchina. Splende nella notte, nera come la pece. La accarezzo con lo sguardo ed infilo le mani in tasca per recuperare le chiavi. Mi chino appena per inserirle nello sportello ed aprirlo, ed è allora che spuntano. Da dove, non so. Non li vedo arrivare, appaiono. Prima non ci sono e all’improvviso invece sì.
Capisco subito il pericolo – una cosa che ti abitui a fare quando per lavoro tieni d’occhio quattro ragazzini costantemente circondati da fanciulle isteriche in delirio ormonale – e faccio per spalancare la bocca e gridare, ma non ci riesco perché qualcuno mi schiaccia qualcosa sulla faccia. È gonfio e punge, capisco al primo tocco che si tratta di un maglione di lana decisamente scadente, sicuramente misto acrilico. Faccio una smorfia, schifato, e il tipo ne approfitta per spingere il maglione con più forza, facendomi male, mentre uno dei suoi compari mi afferra per le braccia e mi tiene fermo. Mi dimeno e scalcio, ma qualcuno mi afferra anche per le gambe, ed il tipo che tiene il maglione lancia un’imprecazione e dice ad un altro di fare in fretta con lo scotch, perché sono un indemoniato e non mi si tiene più. Puoi scommetterci, stronzo, lascia solo che mi liberi e ti strapperò l’uccello a morsi, e poi vedremo chi è che non si tiene più.
Continuo a dimenarmi come un ossesso. Non posso più parlare e, dopo qualche secondo, quando mi legano polsi e caviglie, non posso più nemmeno muovermi. Cado a terra come un sacco di patate, le palle che, per la frustrazione, vorticano al punto che, se non fossero al sicuro dentro le mutande, farebbero da eliche e mi permetterebbero di librarmi in volo. Cosa che, peraltro, al momento sarebbe piuttosto utile.
Impreco e insulto chiunque, anche se non si capisce una singola parola di quelle che mi escono dalla bocca. I tipi, ignorando la mia ira funesta, mi sollevano e mi caricano in una jeep che arriva qualche secondo dopo, una roba scalcinatissima che deve aver visto almeno dieci estati come quella che, fra meno di un mese, volgerà al termine anche quest’anno. Mi tirano di malagrazia sul sedile posteriore, due si sistemano alla mia sinistra, uno alla mia destra e il quarto sul sedile passeggero accanto all’autista.
- Fatelo stare zitto. – dice quest’ultimo. Non riconosco nessuna delle loro voci, e la cosa mi inquieta, perché se qualcuno ha pagato dei professionisti per rapirmi in primo luogo questo qualcuno deve essere bene organizzato, ed in secondo luogo deve volermi parecchio male.
Sudo freddo, nonostante l’afa, e mi zittisco immediatamente.
- Bravo. – mi dice il tizio alla mia destra. Quello sul sedile del passeggero guarda l’autista con preoccupazione e si morde il labbro inferiore.
- Ha fatto un sacco di schiamazzi, là fuori… - comincia. L’uomo lo zittisce con una scrollata di spalle.
- Nessuno ha visto né sentito niente. – lo rassicura, - Procediamo come stabilito.
- Klaus, facciamolo adesso. – insiste quello, ed il fatto che lo chiami per nome mi dà una chiara idea di quanto non stia pensando alla possibilità che io possa riuscire a vedere la luce del giorno, domani mattina. – E molliamolo al primo angolo di strada. Lo troveranno di certo. Aspettiamo un paio d’ore per essere sicuri che crepi e poi avvisiamo del punto in cui l’abbiamo lasciato. L’importante è che il messaggio arrivi, no?
- Procediamo come stabilito. – insiste l’uomo al volante. Deve trattarsi del capo, perché il tizio al suo fianco si zittisce immediatamente, dopo aver mormorato un “d’accordo” stentato. Continuo a rimanere immobile, sono pietrificato dalla paura. Restano tutti in silenzio mentre usciamo dal centro ed anche dalla periferia, ritrovandoci in aperta campagna. Non c’è nulla, sulla strada che percorriamo, per moltissimo tempo. Poi, ad una ventina di metri di distanza da dove ci troviamo, nella notte più profonda vedo sorgere una specie di baraccone che dev’essere abbandonato da moltissimo tempo. La jeep si ferma proprio lì davanti, i tipi scendono dalla macchina e mi trascinano con loro, tenendomi ben stretto. Riprendo a dimenarmi perché sento che il momento è vicino e so con certezza che, se mi lasceranno qui, morirò. Qualsiasi cosa vogliano farmi, se anche io dovessi riuscire a non morire sul colpo, col passare delle ore morirei comunque. E non voglio che succeda. Cazzo, non voglio che succeda.
Niente di ciò che faccio è utile alla mia causa, comunque. Quelli mi lasciano cadere per terra di faccia, e poi due di loro mi afferrano per i piedi e mi trascinano per il ciottolato che porta all’ingresso del baraccone. La maglietta mi si solleva tutta, esponendo la pancia alle pietruzze taglienti. Riesco a tenere il viso sollevato, anche grazie al maglione che mi è stato legato attorno alla testa, ma la pancia e i fianchi proprio no. Più tardi, ringrazierò per il dolore che sto provando in questo momento, perché le ferite già aperte diminuiranno l’intensità del male che mi procureranno quelle nuove, ma in questo preciso istante non ringrazio proprio per un bel niente. Fa male e sono terrorizzato. Voglio tornarmene a casa mia. E non voglio morire.
Entriamo nel baraccone ed i tizi chiudono subito la porta. Non la sprangano. Lo noto e mi chiedo se potrei fare qualcosa, sfuggire alle loro mani e saltellare fino a lì… e poi correre a piedi uniti nella notte fino alla prima stazione di polizia? Non sembra granché fattibile, come cosa. Smette di esserlo del tutto quando i tipi mi risollevano in piedi e poi mi scaraventano contro un mucchio di casse accatastate in un angolo. Sento distintamente qualche osso scricchiolare, ma sono troppi contemporaneamente perché possa identificarli uno per uno. So solo che fa un male fottuto, fa tanto male che mi metto a piangere. Non piangevo di dolore da decenni, da quella volta in cui sono cascato di testa durante uno spettacolo e mi sono serviti sei punti di sutura per richiudere la ferita.
- La checca piange. – dice uno dei cinque, ridendo divertito. Uno degli altri gli tira uno schiaffo contro la nuca e gli intima di tacere. Non posso saperlo con certezza, perché i loro volti sono coperti, ma immagino sia l’uomo che ha guidato la jeep fino a qui. L’atteggiamento da capo, almeno, è lo stesso.
- Niente di personale, Jost. – dice accucciandosi davanti a me e tirando fuori dalla tasca dei jeans neri un coltellino a serramanico. Spalanco gli occhi e quello che gli sento dire dopo non fa che sconvolgermi ancora di più. Tuttavia, non ho il tempo di pensarci troppo, perché subito dopo l’uomo mi solleva la maglietta e comincia a incidere. Un taglio, poi un altro. Tutti abbastanza profondi, ma precisi. Millimetrici. Vorrei poter dire che il dolore è tale da costringermi a non sentire più niente, ma purtroppo non è così che va. Nonostante le ferite ancora fresche, il dolore è lancinante. E infinito.
Quando si allontana nuovamente da me, sento il mio intero corpo bruciare. Sono rovesciato per terra ed esausto. Non riesco a respirare. Il maglione mi si è infilato in bocca e non riesco a spingerlo fuori perché non ho più forze. È palese che non sopravvivrò. Lo stronzo di merda mi ha scritto qualcosa addosso, ma non riesco a capire cosa. Non lo capirò mai, non ne avrò il tempo né il modo.
I tipi escono in fretta. L’ultimo, il capo, resta a guardarmi finché da fuori non vengono a richiamarlo. Immagino gli piaccia vedere la vita che mi scivola via dagli occhi. Io la sento che se ne va e non è piacevole per niente. Sto di nuovo piangendo e non so neanche dove ho preso la forza per farlo.
- Niente di personale. – mi ripete ancora, prima di uscire. E poi rimango solo, sento la jeep allontanarsi lungo la strada e il tempo perde senso, perché non riesco a misurarlo. Non ho un orologio con me, ed anche se l’avessi non riuscirei a guardarlo. Naturalmente, non ce ne sono intorno, appesi alle pareti. Non ho idea di quanto tempo passi sdraiato per terra a ridosso delle casse. Sento il sangue uscire dalle ferite in grossi rivoli, così tanto non ne ho mai visto tutto assieme. Si allarga attorno a me come una pozzanghera, impregnando i miei vestiti e gonfiando le assi di legno.
Passano minuti, forse ore. Non lo so. So che a un certo punto sento dei rumori intorno a me, ma sono come un’eco lontana. Non riesco a credere che stia succedendo davvero, che qualcuno mi abbia trovato, e non riconosco nessuna delle facce che ho davanti, anche se sono abbastanza sicuro che dovrei.
E poi, all’improvviso, i miei occhi incontrano quelli di Bushido. Un attimo prima di chiudersi.