Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest.
- Anno 2012. Esce Der Letzte Träum, il terzo album in tedesco dei Tokio Hotel. La title-track, sul finale, recita "Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti". Le sue parole si rivelano premonitrici. Nell'anno 2025, i gemelli Kaulitz hanno trentacinque anni ed hanno passato gli ultimi dieci l'uno lontano dall'altro, senza nemmeno vedersi. Il matrimonio di Georg darà loro occasione non solo di rincontrarsi, ma anche di ricordare i motivi per i quali avevano deciso di non rivedersi più.
Note: Sono tornata al twincest T___T!!! Omg T___T!!! Sono commossa T___T!!! In realtà non è che l’avessi proprio abbandonato (è palese che io i fandom non li abbandono proprio mai, possono passare pure anni e magari non ci scrivo più su, ma l’amore resta identico <3), solo che proprio m’era venuta voglia di scrivere di altri tipi di rapporti e dinamiche, perciò, pur non lasciando nel dimenticatoio i gemellini, avevo un po’ trascurato questa parte di fandom.
E in realtà la spinta definitiva per scrivere questa storia me l’ha data Yul, che ad un certo punto in chat mi fa “ma non ti starai un po’ stancando del twincest?”. La mia risposta mentale è stata “omg, no!!!”, e questo è il risultato XDDD
Il desiderio di usare Forbidden Colours (di Ryuichi Sakamoto – piano – e David Sylvian – voce) era nato già tempo prima, solo che, per quanto il testo fosse così disgustosamente e palesemente twincest, non avevo una trama da intrecciarci su. Sapevo solo che mi faceva venire voglia di scrivere dei gemelli che s’erano messi insieme, poi s’erano lasciati ed alla fine si incontravano di nuovo e decidevano di riprovarci. Voglio dire, questa non era una trama, non potevo usarla T_T Così alla fine mi sono messa a ricamarci su ed è venuto fuori questo emostruggimento di palle (cit. Sara <3) del quale non so nemmeno che pensare a parte il fatto che è lungo! XD
A proposito di spropositi: l’idea di una “nuova canzone” (in questo caso Der Letzte Traum – grazie a Meg per la traduzione del titolo ed a Sara per la traduzione dei tre versi che uso nella storia) da intrecciare con le vicende della fanfiction, non è mia. Gli illustri precedenti (le solite note: Sara e Meg, le quali, è ormai evidente, occupano posti speciali nel mio cuore <3 XD) dimostrano pienamente, con le loro storie bellissime, la mia incapacità di usare lo stesso espediente in modo appena decente, ma ho voluto usarlo anche io perché continuavo a ripetermi che sarebbe stato inusuale per dei musicisti rimanere all’asciutto di musica nuova durante tutti quegli anni. Chiedo umilmente perdono ç_ç”
E già che ci sono vi ringrazio tutti, mandando un bacio particolare alla mia Misako di fiducia (i cui betaggi dotati di commento finale sono il bene <3) ed alla Nai (che mi ha aiutato a risistemare a monte delle parti poco chiare <3).
Un ringraziamento speciale (condito da dedica innamorata) a Meg: perché è stata Mezzanotte, la sua storia-paura, a darmi “la forza” (nonché ad obbligarmi moralmente!) per scrivere Forbidden Colours. Grazie <3
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FORBIDDEN COLOURS

You remind me
A lifetime away from you
The blood of Christ
Or the beat of my heart
My love wears forbidden colours
My life believes in you once again

Quando ho detto a Georg che non credevo fosse il caso di presenziare al suo matrimonio, ho seriamente avuto paura che impazzisse. Che cominciasse a strillare, salisse in macchina e venisse a prendermi fino a casa, per poi trascinarmi alla cerimonia per i capelli, come tutti i bravi uomini delle caverne.
L’unica libertà da uomo delle caverne che si è preso, in realtà, è stato un grugnito profondo ed infuriato, di quelli che spaventano sempre l’interlocutore, perché somigliano a ruggiti repressi. Quando la bestia reprime un ruggito è perché non vuole farsi sentire dalla preda.
Dopo il ruggito, comunque, è immediatamente tornato al mondo della civiltà. L’ho sentito sospirare profondamente e l’ho immaginato socchiudere gli occhi e passarsi una mano fra i capelli con fare sconsolato. Era il suo gesto caratteristico di fronte ad ogni cattiva notizia, quando ancora vivevamo tutti insieme e potevamo dirci davvero felici.
Con quel telefono in mano, sorridevo impercettibilmente e lo ascoltavo inspirare ed espirare. Lo immaginavo muoversi esattamente come lo ricordavo, ed allo stesso tempo prendevo laconicamente atto di non avere neanche la più pallida idea di come apparisse Georg oggi, dopo tutto quel tempo.
Erano passati dieci anni da quando avevo lasciato Amburgo. E sei dall’ultima volta in cui l’avevo visto.
Poteva non avere più neanche un capello.
Le sue braccia potevano aver perso tono.
Poteva aver completamente cambiato abitudini, modi di fare, espressioni…
- Bill. – mi disse, con aria angosciata, - Non puoi farmi questo.
Era vero, non potevo farglielo. Così come non avevo veramente potuto abbandonare lui e Gustav, durante tutti quegli anni. Come non avevo potuto rinunciare alle telefonate, alle visite inaspettate che pure erano praticamente sparite durante gli ultimi anni – sempre loro da me, mai io da loro. Non potevo rischiare: la posta in gioco era la mia vita. Troppo alta per qualunque giocatore d’azzardo. – così come non avevo potuto rinunciare alle lettere, o anche solo a pensare a loro.
L’unico che ero stato veramente capace di abbandonare era stato Tom.
E, d’altronde, era esattamente in quel modo che doveva andare.
- Lui ci sarà, vero? – chiesi sottovoce.
- Sì. – rispose Georg, senza attendere neanche un secondo, né mostrare la minima incertezza. – Non voglio che riprendiate a parlare, anche se sai come la penso al riguardo. Non voglio neanche che vi notiate a vicenda. – sospirò ancora. – È troppo pretendere da voi che riusciate a coesistere nello stesso ambiente per una giornata?
Risi debolmente.
- Non lo so. – risposi sincero, - Non abbiamo più provato.
L’ennesimo sospiro di Georg raggiunse le mie orecchie risuonando come un’ultima disperata richiesta.
E davvero non potevo rifiutare.
- D’accordo. – annuii, - Se lui può, posso anch’io. Ci sarò.
*
Sarebbe sciocco negare che sono agitato. È un’agitazione inspiegabile, comunque. Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. L’ho saputo fin dal momento in cui Georg ha cominciato a frequentare Karen. Sapevo che sarebbe successo, perché Gustav ha cominciato immediatamente a scherzare sul fatto che, a guardarli insieme, si sarebbe giurato di vederli già sposati.
Gustav non ironizza mai su cose prive di fondamento.
Gustav, per scherzare, ha sempre bisogno di basi solide.
È per questo che non aveva mai scherzato sul twincest, prima di…
Be’. Prima di quello.
E dopo, ecco, non è che ci fosse poi molto su cui scherzare.
Comunque, anche se l’ho effettivamente saputo solo da quando ho cominciato a subodorare aria di fidanzamento, in realtà ho sempre sentito che questo momento sarebbe arrivato, indipendentemente da qualsiasi motivazione esterna. Esterna a me e Bill, dico.
Ecco perché ho sempre saputo che prima o poi ci saremmo rivisti: Bill e Tom sono sempre bastati, come motivo per rivedersi.
Almeno, prima che il nostro mondo si rovesciasse non una, non due, ma ben tre volte. Annaspando, siamo riusciti a sopravvivere alla prima. Siamo usciti malconci dalla seconda. Ma alla terza nessuno sarebbe sopravvissuto. Nessun legame è tanto forte. Neanche il nostro, no. Perché quando recidi volontariamente un’arteria non c’è nulla che tu possa fare, poi, per legarla nuovamente insieme. Anche se fai un bel nodo, cosa risolvi? Il sangue ha smesso comunque di scorrere.
- Sei teso come una corda di violino.
Mi sforzo di sorridere a Gustav, che mi porge un’enorme tazza di caffé annacquato.
- Cos’è questa brodaglia, Juschtel?! – fingo di indignarmi, stringendo la tazza bollente fra le mani. Ad Amburgo fa sempre dannatamente freddo, in inverno.
In effetti, ci sono cose che non cambiano mai.
- Non voglio che resti sveglio tutta la notte. – mi risponde il mio batterista – ex. Ex, Tomi. Ficcatelo in testa, una buona volta.
Sorrido debolmente, spalmandomi sul divano del suo salotto. È stato carino ad ospitarmi, finché Bill non si farà vedere.
- Quando hai detto che arriva? – chiedo distrattamente, sorseggiando il caffé.
Gustav sospira.
- Domani pomeriggio. Credo di avertelo detto circa un centinaio di volte. Il tuo cervello si rifiuta di immagazzinare l’informazione o godi nel farmelo ripetere fino allo sfinimento? – ribatte con un ghigno.
- Niente del genere… - confesso io con un mezzo sorriso che deve sembrare pure parecchio stupido, - Voglio solo essere sicuro.
- Ti scrivo un post-it. – ironizza lui, inarcando le sopracciglia.
Io rido piano. Non voglio svegliare Marlene né la piccola, si meritano un bel po’ di sonno. Ce la stanno mettendo tutta, per organizzare bene il matrimonio di Georg.
Be’, Marlene ce la sta mettendo tutta. Organizzare matrimoni è il suo lavoro, ma ha preso quello di Georg come una missione di vita, c’è proprio da dirlo. Gira come una trottola impazzita da quando sono qui – vale a dire già quattro giorni. La piccola Franziska, invece, ce la sta mettendo tutta solo nella complicata operazione di sfiancarsi, giorno dopo giorno. Anche lei gira come una trottola impazzita: vede ovunque esclusivamente occasioni di gioco sfrenato. Ed è anche giusto, visto che ha solo cinque anni. Comunque anche lei, a proprio modo, si sta preparando: portare le fedi all’altare non è un compito da prendere sottogamba. Nemmeno se hai solo cinque anni, sei carina da morire e il mondo intero sarebbe pronto a perdonarti anche se facessi cose molto peggiori che non capitombolare lungo la navata principale della chiesa perché sei inciampata nel tuo adorabile vestitino da meringa rosa in miniatura.
- Be’, io vado a letto. – annuncia piano Gustav, allontanandosi verso la porta. Io lo saluto con un sorriso e un breve cenno della mano, accucciandomi sotto al piumone.
Gustav s’è sposato otto anni fa.
Né io né Bill eravamo presenti.
Penso che lui non riuscirà mai a perdonarci, per questo. A suo merito va l’essere riuscito a soprassedere ed avere comunque continuato a sopportarci e volerci perfino bene, ma la cosa lo ha rattristato enormemente. Ed il sapere che, invece, per il matrimonio di Georg saremo qui, non deve rendere di certo più facile la cosa.
Ma allora erano passati solo due anni. Era troppo presto. Non potevamo proprio rischiare.
Adesso ne sono passati dieci. Possiamo fare un tentativo.
*
Odio l’aereo. Dio, Dio, Dio, lo odio a morte. Perché sono andato a vivere in Italia? È troppo distante da casa. Mi obbliga proprio a salire su questi inaffidabili pezzi di ferraglia volanti. E d’accordo che il Lago di Como offre un’invidiabile lenzuolo di discrezione sotto il quale nascondersi, ma l’anonimato non vale proprio questo terrore folle.
E dire che dovrei esserci abituato, ormai. Ho preso aerei per più di metà della mia vita, così spesso che suona quasi assurdo io ne sia ancora così irrazionalmente turbato.
Però c’è anche da dire che prima, quando prendevo l’aereo, con me c’era sempre Tom.
Adesso, invece, non c’è nessuno.
Improvvisamente, ricordo che, se sono andato a vivere così lontano dalla Germania, è stato proprio perché contavo di non ritornarci mai più. Il pensiero mi fa un po’ male, perciò cerco di estirparlo dalla mia mente ficcando più a fondo gli auricolari nelle orecchie ed aspettando che la romantica e sottilissima voce di Chris Martin ne scacci ogni traccia.
L’ultimo album dei Coldplay, comunque, fa veramente schifo. Avrebbero dovuto ritirarsi anni fa. Sapevo che collaborare con Kanye West sarebbe stato deleterio. Sono sempre stato contrario alle commistioni stilistiche, se uno fa pop o rock non ha proprio alcun bisogno di mischiarlo all’hip-hop.
Mio fratello lo sapeva bene. Mio fratello conosceva a memoria i miei gusti, intuiva le mie idee e concretizzava la mia ispirazione senza che io neanche dovessi spiegargli cos’avevo in testa.
Era per questo che i Tokio Hotel funzionavano così bene. Perché ci legava una chimica perfetta.
Io inventavo, Tom rendeva plausibile, Georg realizzava e Gustav coordinava il tutto.
Non c’è che dire: un meccanismo inestimabile.
A ripensarci, era semplicemente ovvio andasse tutto a puttane, dopo quanto è successo. I legami così perfetti sono anche fragilissimi. Incrinali anche solo un po’ e si sfaldano. Quattro persone in equilibrio su una bilancia possono crollare al più piccolo scossone. Abbiamo fatto tutti i funamboli per un sacco di tempo, prima di capire che non c’era proprio più nulla da salvare, perché tutto ciò che stavamo cercando di preservare era crollato alla prima incertezza, tantissimo tempo addietro, e noi non ce n’eravamo nemmeno accorti.
Chissà se al matrimonio sarà presente anche David…
…che sciocchezza. È ovvio che ci sarà. Ci saranno tutti, i fantasmi del mio passato.
Dovrò affrontarli. Poco da fare.
Dio, odio gli aerei.
*
- Tomi, mi sta bene il vestito?
Ogni volta che Franziska mi chiama così mi si riempie il cuore. Non saprei dire esattamente di cosa: potrebbe essere gioia, ma è un sentimento di una malinconia tale che proprio non mi riesce di identificarlo con precisione. Fa male solo guardarlo. Solo accorgersi che c’è.
Eppure, avevo un tremendo bisogno di sentirmi chiamare ancora così. Sono stato io a pretendere lo facesse.
Gustav sorride brevemente, solo per un attimo, prima di prendere la piccola in braccio e rimproverarla.
- Non puoi approfittare dell’assenza di tua madre per disobbedirle. – dice serio, - Cosa ti ha detto prima di uscire, stamattina?
Franny abbassa lo sguardo ed arriccia le labbra in una smorfia contrita.
- Di non mettere il vestito del matrimonio…
- E perché?
- Perché si può sporcare…
Gustav annuisce compiaciuto, rimettendola a terra.
- E quindi cosa fai adesso?
- Vado a toglierlo…
- …e lo posi ordinato sul letto. Ok?
Franziska annuisce e si avvia mogia mogia verso il corridoio, le braccia ciondoloni e le spalle incurvate.
- Ti sta benissimo. – sorrido io, facendole l’occhiolino, - Sei proprio bella.
Sono stato un po’ lento con la risposta, ma a giudicare da come si illumina il suo viso non deve essere arrivata troppo tardi.
- La vizi. – constata Gustav, lanciandomi un’occhiataccia mentre si siede sul divano al mio fianco.
- L’ho sempre fatto. – ridacchio io, - Cosa ti fa pensare che, solo perché sta crescendo, io debba smetterla?
- Sei peggio di un vecchio nonno. – sospira lui, alzando gli occhi al cielo. Poi torna serio. E torna anche a guardarmi. – Io devo andare a prendere Bill all’aeroporto, Tom. – annuncia quindi, grave.
Sento la saliva bloccarmisi in gola.
È una sensazione spaventosa: il solo sentire pronunciare il suo nome mi attorciglia le viscere.
È mai possibile amare una persona a questo punto? Il suo ricordo, la sua immagine, la sua semplice idea?
Dopo tutto questo tempo, non è possibile che io lo senta ancora così tanto. Non così profondamente. Non dopo tutto quello che è successo.
Dieci anni, cazzo.
Dieci anni di vita. Be’, più o meno. Non ho vissuto davvero, ma il tempo m’è passato addosso lo stesso. M’è passato dentro. È passato sulla mia pelle, sui miei occhi, sulle mie gambe. È passato sulle piccole rughe d’espressione che ho agli angoli della bocca, è passato sui miei capelli, che ormai sono corti e leggeri come l’aria, è passato sui miei vestiti, che si sono ristretti, accorciati, sgonfiati e sono poi sfociati nell’anonimato più totale.
Ho trentacinque anni, cazzo.
Non posso ancora sentire Bill come se ne avessi venti.
L’amore, a quest’età, non dovrebbe essere ancora lo stesso. Dovrei avere imparato a viverlo diversamente. Dovrei avere imparato, per il mio stesso bene.
Non mi sono mai amato granché, evidentemente.
Non lo faccio neanche adesso.
In realtà, colui che ho sempre amato era un me stesso ugualissimo e diversissimo da me.
Vista in questa prospettiva, la cosa prende decisamente senso. Anche se non dovrebbe.
- Vuoi accompagnarmi? – prosegue Gustav, prendendo il mio silenzio come un invito in tal senso.
- Non credo. – deglutisco con difficoltà.
- …sì o no? – insiste lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
Scrollo le spalle.
- Aspetterò qui. – concludo, cercando a tentoni sul divano il telecomando, - Così puoi lasciare la bambina.
Gustav sospira e si alza in piedi, scuotendo il capo.
- Meno male che vai a stare da David. – borbotta, - Non riesco nemmeno ad immaginare di avervi nella stessa casa. Scommetto che fareste i turni per uscire ed entrare dalle stanze.
Sorrido mestamente. Il ritorno di David dall’Inghilterra mi ha dato una scappatoia non indifferente. Il fatto che fra lui e Bill le cose non siano andate più tanto bene impedisce loro di condividere casa, ma fortunatamente per me le cose sono state diverse.
Suppongo sia stato solo perché io sono rimasto in Germania e Bill, invece, è fuggito in Italia. David non glielo perdonerà mai, credo.
- È probabile. – sospiro alla fine, accendendo il televisore.
- Già. – annuisce lui, - Ma la cosa sconvolgente non è questa: è che non avreste nemmeno bisogno di organizzarvi, per sincronizzare gli orologi biologici. – commenta con un sorriso triste.
Non rispondo, perché non c’è niente da dire.
Franziska trotterella in salotto e si getta sul divano, arrampicandosi immediatamente sulle mie gambe.
- Voglio guardare i cartoni animati di Barbie! – pretende, cercando di scalare le mie spalle per raggiungere la libreria sulla quale sono stipati i DVD, dietro al divano. Io la lascio fare, reggendola per i fianchi ed aspettando che scelga. Gustav mi lancia un’occhiataccia.
- La vizi proprio. – commenta rassegnato. Poi mi saluta ed esce.
*
Appena entro in casa di Gustav, vengo investito dalla certezza fisica della presenza di Tom. C’è il suo odore, lo sento ovunque. Ha saturato l’aria. Non solo è qui, ma sta qui da un bel po’ di giorni.
Mi guardo intorno con aria spaesata, ma i miei occhi sono in febbrile ricerca. Mi spavento da solo, quando succedono cose del genere. Quando comincio ad esaminare l’ambiente perché ho paura che Tom possa spuntare fuori da un angolo senza preavviso, sono veramente… tremendo.
- È andato via. – mi rassicura Gustav, intuendo i miei pensieri, - L’ho ospitato finché non è tornato David. Ora sta da lui. – mi informa, avvicinandosi alla consolle dell’ingresso e sfiorando con lo sguardo il bigliettino che Tom gli ha lasciato prima di andare via: “Sono uscito. Franny è con me. Ti aspetto da David”.
La scrittura di Tom non è cambiata. Ed io comincio a sudare freddo.
- Scappato appena ha sentito l’odore? – scocco sarcastico, indicando il foglietto con un cenno del capo.
Non so perché dico questa cattiveria gratuita. Non so perché sorrido in modo così crudele. Forse ho semplicemente bisogno di farmi un po’ di coraggio, perché proprio non ne ho.
Tremendo. Tremendo. È tremendo. Sono tremendo.
Gustav mi risponde con l’occhiataccia sconvolta e disgustata che merito.
- Bill! – mi riprende con un tono, in effetti, molto paterno, - Che razza di discorsi fai?!
- Sì, lo so, lo so… - mugolo, roteando gli occhi e trascinandomi dietro la valigia.
- No, non lo sai affatto! – continua lui, inviperito, - Ringrazia solo che tuo fratello non sia ancora qui, perché se ti avesse sentito, come minimo, ti sarebbe saltato al collo.
- No. – correggo, sedendomi sul divano e sfiorandone la fodera con una mano. È ancora tiepida. – No, Tom non l’avrebbe fatto.
- Be’, se fossi stato al suo posto, io sì. – commenta acido, scrollando le spalle.
- Gustav… - sospiro io, socchiudendo gli occhi, - noi l’abbiamo deciso insieme, di non rivederci più. Nessuno ha imposto niente a nessun altro. E nessuno ha qualcosa da rimproverare all’altro.
Lui imita il mio sospiro e si massaggia la radice del naso.
- Mi auguro che tu non lo pensi davvero. – sbotta, rassegnato. – Vado a recuperare la bambina. Tu sistemati pure. Il bagno è in fondo al corridoio, le tovaglie nel mobile dietro la porta e… - si interrompe un attimo, incrociando le braccia sul petto.
- Cosa? – lo incito io, inarcando le sopracciglia.
Lui scuote il capo.
- Credo che mi toccherà rifare il letto nella camera degli ospiti. – borbotta, - Ci ha dormito Tom, fino ad oggi.
*
Il sorriso che si apre sul volto di David appena appaio sulla porta mi consola e riesce in qualche modo a debellare ogni singola ombra dei miei pensieri, riempiendomi d’allegria.
- Tom! – chiama eccitato, abbracciandomi, - Che piacere vederti!
Mi fa sempre più impressione rivederlo, comunque. Si sta facendo vecchio. Piano piano, ma sta succedendo. I capelli brizzolati lo rendono affascinante, in qualche modo, gli danno un’aria più affidabile e meno svagata, ma…
…Dio. Quanto mi fa impressione.
- E tu? – chiede poi, ironico, chinandosi verso Franziska, - Ti sei fatta rapire? – ridacchia, prendendo la piccola in braccio.
Lei ride e gli schiocca un bacio rumoroso sulla guancia.
- Tomi non poteva lasciarmi a casa! – spiega professionale, - Ero tutta sola!
- Certo, certo! – annuisce lui, fin troppo entusiasticamente per non essere comico in maniera quasi irresistibile. Tant’è che ridacchio pure io. – Vediamo se in questa vecchia casa è rimasto qualcosa da farti mangiare per merenda. – riflette serioso, introducendoci all’interno del loft.
Io mi muovo lentamente, sistemando il borsone sulle spalle.
Questa casa mi uccide, ogni volta.
È sempre uguale. È sempre lei.
C’è così tanto di noi che fa paura.
…a ben pensarci, è l’unica cosa sia veramente rimasta di noi.
- Allora, come va? – mi chiede David, mentre rimpinza Franny di caramelle alla fragola, - Stai ancora a Loitsche?
- Già. – sorrido, - Gordon non mi lascia andare. – Lui inarca un sopracciglio, fissandomi scettico. – Ok, ok. – correggo, - Sono io che non voglio andare via. – ammetto, sorridendo mestamente.
Lui ride e mi omaggia di una pacca sulla spalla che solo nella sua mente sovraeccitata può sembrare amichevole. Perché in realtà mi fa un male cane.
Solo fisicamente, però. L’entusiasmo di David ogni volta che mi vede è sempre un balsamo.
Di Bill neanche mi chiede.
Un po’ perché sa perfettamente che non ci sentiamo più. Un po’ perché dubito che, anche se fossimo ancora in contatto, vorrebbe sapere qualcosa di lui.
Sono le controindicazioni degli abbandoni.
C’è sempre qualcuno che la prende peggio di altri.
Gustav e Georg sapevano tutto, di noi, e per loro è stato molto più facile comprendere la nostra scelta. Il povero David, invece, è sempre rimasto all’oscuro di ogni cosa. Non lo biasimo, per essere rimasto così deluso. Credo non lo biasimi neanche Bill, in fondo.
È che ogni azione ha le proprie conseguenze.
Ogni tanto, sono così incredibilmente presuntuoso da credere anche che io e Bill lo sappiamo meglio di tutti gli altri.
*
Nostra madre è morta quando noi avevamo ventidue anni. Stavamo vivendo un periodo talmente glorioso che, se ci ripenso, mi sembra perfino irreale. Der Letzte Traum, il nostro terzo album in tedesco, era stato un tale successo in Europa che la Universal inizialmente non aveva nemmeno sentito il bisogno di realizzarne una versione in inglese per il mercato internazionale.
Ciò che non avevano immaginato era che il successo, stavolta, si sarebbe fatto sentire pure in America. D’altronde, comunque, dopo tutti quegli anni di gavetta, era il minimo potessimo aspettarci dalla vita.
Insomma: l’album in inglese l’abbiamo comunque fatto, alla fine. Le vendite di The Last Dream non sono certo state astronomiche, ma di sicuro non sono state indifferenti.
E perciò tutti noi stavamo vivendo un periodo davvero incredibilmente felice. Io e Tomi avevamo perfino comprato un appartamento a Magdeburg. In parte per stare più vicini a mamma e Gordon ma mantenere comunque un po’ di privacy anche durante le vacanze, ed in parte anche per far pesare di più certe rivincite che sentivamo di meritarci in pieno.
L’infarto di mamma è arrivato del tutto inaspettato. Ha svelato una serie di crepe nella sua salute che noi non immaginavamo nemmeno. Che nemmeno Gordon immaginava. Che neanche nostra madre, probabilmente, doveva aver realmente percepito.
Ci spaventò. No. Ci terrorizzò.
Ci pietrificò.
Cercammo comunque di stringerci attorno a lei, ci prendemmo una pausa dal lavoro, ricominciammo a fare la spola da Loitsche a Magdeburg – e non fu piacevole, non fu piacevole affatto, non fosse altro per il fatto che fummo costretti a fare a ritroso la stessa dannata strada di un tempo che avremmo preferito dimenticare. E la situazione contingente non aiutava, proprio no. – fummo dei bravi figli, davvero. Devoti. Responsabili.
Lei è morta comunque.
Il suo cuore era irrimediabilmente provato. Almeno, così ci disse il medico.
Era stata talmente forte, per tutta la sua vita, che a sentirla, come motivazione, pareva del tutto campata in aria. Provata, nostra madre? Era impossibile. La Simone che conoscevamo noi non sapeva neanche dove stesse di casa la fatica. Era instancabile. Frenetica. Sempre vigile. Attiva. Rumorosa e furbissima e incasinata e brillante e splendida. Tutta splendida.
Tom ed io realizzammo che era esattamente per questo che era morta. E fu orribile.
Fu orribile.
Non saprei descriverlo altrimenti.
Non ci ho neanche mai speso su particolari quantità di parole: era morta mia madre. Bastava, per esprimere lo strazio.
A ripensarci adesso, la title-track del nostro ultimo album suona un po’ come l’estrema presa in giro autoironica di una breve quanto fulminante carriera di successo. Der Letzte Traum è una canzone molto positiva – in realtà credo di non aver mai scritto canzoni veramente e pienamente negative, ecco, ma questa lo è particolarmente. Dice che, una volta che hai esaudito tutti i tuoi sogni, e da sognare non ti resta più niente, puoi cominciare a riposarti. Stare tranquillo. Pensare a te stesso e vivere in pace.
Der Letzte Traum, però, si chiude malissimo. Ripete il concetto, ma lo amplia anche.
Forse avrei fatto meglio ad evitarlo. Almeno, non sarebbe suonato così dannatamente premonitore.

Wenn du deine Träumen erfüllt hast
und Nichts bleibt ungeträumt,
ist der letze Traum trauriger (als alle anderen)

Quando hai esaudito i tuoi sogni, e da sognare non resta più niente, l’ultimo sogno è il più triste di tutti.

*
Dopo la morte di mamma, io e Bill diventammo praticamente una cosa unica. Ogni singola persona del nostro entourage, perfino chi era più abituato a vederci agire in perfetta simbiosi, si stupì e, credo, venne perfino turbato dal nostro comportamento.
Avevamo un album che spopolava più o meno in ogni parte del mondo. Quella dannata canzone si sentiva su ogni stazione radio e pure in una o due pubblicità, se non sbaglio. Il video era ovunque. Avevamo un DVD in uscita. Un best of, dannazione. Coi video e le interviste e tutto.
Nostra madre era morta. E noi non riuscivamo a reggere il peso.
Fondamentalmente, ci alternavamo. C’erano momenti nerissimi in cui io o Bill non riuscivamo proprio a mantenere la lucidità. Erano momenti che tutti aspettavano con timore: sapevano sarebbero arrivati, li giustificavano perfino, ma ne erano spaventati a morte, perché spesso e volentieri coincidevano in scoppi d’ira o di pianto piuttosto violenti, ecco. Quindi, per dire, io cominciavo a lamentarmi e spaccare vetri chiuso in camera mia, e Bill manteneva la calma. Interagiva coi giornalisti, si occupava della promozione, ed a guardarlo non avresti notato, neanche cercando in fondo ai suoi occhi, nemmeno la più piccola traccia di disagio.
Poi Bill crollava inesorabilmente, e allora ero io a prendere in mano le redini della situazione, mentre lui si sfogava a modo proprio.
Reggevamo uno per volta i ritmi che già faticavamo a reggere insieme.
Cose simili non sono mai salutari.
Quindi sì, diventammo una cosa sola. Diventammo perfino troppo uniti. Troppo davvero.
Non ci separavamo quasi mai, se non, appunto, per lavoro. Cominciammo a dividere la stanza. Dormivamo, mangiavamo, ci lavavamo ed andavamo perfino al cesso insieme. Come dannati gemelli siamesi, neanche fossimo stati attaccati per i fianchi.
Io, sinceramente, non so chi pretese il primo bacio. Non so neanche perché, in effetti, cominciammo a baciarci. Sì, suppongo potesse avere a che fare con lo stare male, con l’aver bisogno di tornare vicinissimi come quando Simone ci proteggeva dall’universo intero stringendoci nell’abbraccio caldissimo del suo ventre, però insomma, anche a guardarla da questo punto di vista, non mi sembra una ragione sufficiente per rovinarsi la vita.
Eppure è bastata. Non è spaventoso?
Inizialmente, erano baci innocenti a fior di labbra. Semplici rassicurazioni. O consolazioni.
Poi hanno cominciato a farsi più lunghi. Sempre asciuttissimi, ma potevano durare anche delle ore. Ore intere, sì, potevamo stare ore intere nascosti in un cantuccio buio, solo a sfiorarci le labbra. Senza dire una parola.
Davvero: non ricordo chi fu il primo a pretendere di più. So che fu una pretesa, perché ne ho un ricordo estremamente impetuoso – io, Bill, il muro e nient’altro – ma, in fondo, chi sia stato il primo non importa: era comunque solo questione di tempo; non l’avesse fatto lui, l’avrei fatto io, e viceversa.
Fu un errore. Fu l’ostinazione infantile di credere che se fingi di non vedere qualcosa di brutto quella cosa scomparirà davvero.
Una volta Bill me lo disse chiaramente. Mi disse che gli piaceva baciarmi con la luce spenta, perché così poteva sentirmi ma non doveva necessariamente vedermi.
Mi fece male in maniera indescrivibile. Accesi la luce, lo guardai dritto negli occhi e risposi che a me, invece, piaceva baciarlo con la luce accesa, perché io volevo vederlo.
Parlavo e piangevo. Non perché ci credessi davvero. Non volevo davvero vederlo. Ma avevo la netta sensazione stessimo sbagliando proprio tutto, ogni singola tappa di quello che avrebbe dovuto essere un percorso di ripresa ed invece si stava dimostrando una lunga discesa verso la fossa dei leoni.
E, nonostante tutto, mi sembrava che Bill non mi capisse. Mi sembrava di essere solo col mio dolore. Con la mia nostalgia. Con questi desideri assurdi che provavo, che mi tenevano al caldo e mi avvolgevano di tenerezza, ma mi disturbavano così profondamente che non riuscivo neanche a pensarci senza sentirmi male.
Sapevo che Bill stava provando le stesse cose, non dico di no. Dico solo che era troppo preso da quelle per occuparsi anche delle mie.
D’altronde, per me era lo stesso.
Ci consolammo a vicenda per quanto potemmo, fino a quando le carezze e i baci bastarono.
Poi, però, si fecero insufficienti.
Eravamo di fronte ad un bivio: facciamo il passo avanti definitivo e ci distruggiamo irrimediabilmente la vita o proviamo a ricominciare da zero e vedere se cambia qualcosa?
Io non ho deciso. Non volevo farlo. Non avrei saputo come fare.
Io non ho deciso niente.
Bill ha certamente dimostrato molta più lungimiranza di me.
*
Georg e Gustav lo sapevano. Né io né Tom abbiamo mai detto loro nulla, ed in effetti neanche loro hanno mai confermato niente del genere, ma lo sapevano.
Noi lo capimmo quando cominciarono a coprirci. Anche fisicamente. Ricordo un momento preciso che ce ne diede la certezza matematica. Io e Tom, be’, non è che ci stessimo proprio con la testa, in quel periodo. Perfino nei momenti migliori, ragionare lucidamente sembrava un’impresa impossibile. David, in quel frangente, fu efficientissimo: continuava a propinarci vacanze ogni settimana, era sempre riluttante quando si trattava di farci tornare al lavoro e, quando la cosa si rivelava indispensabile, programmava le giornate fin nei più piccoli e insignificanti dettagli, per assicurarsi che non saremmo mai rimasti privi di un supporto che ci aiutasse a sostenere il ritmo. Finché c’era da eseguire ordini, non avevamo che da seguire la tabella di marcia. Era semplice. Scorrevamo l’elenco, segnavamo gli orari, provavamo le risposte e andavamo.
C’erano comunque ancora delle attività in cui potevamo ritrovarci piuttosto liberi di agire in preda all’ispirazione del momento.
E, quando non stai bene, non è mai una cosa buona.
Quel giorno avevamo sostenuto una delle solite interviste preconfezionate con Bravo, ed era andata discretamente. Monotona e tranquilla e rassicurante, come al solito.
Poi, però, ci dissero che c’era da fare un piccolo servizio fotografico per accompagnare l’articolo.
David montò su tutte le furie. Gli avevano promesso che avrebbero usato qualcuna delle foto mai utilizzate che avevano ancora in archivio. Gli risposero che la direzione aveva preteso qualcosa di nuovo, e Sascha annuì con aria professionale, dicendo che comunque si stupiva della sua riluttanza: far vedere alle fan che i gemelli ormai stavano bene era una mossa auspicabile. La mossa giusta.
Lo era davvero, a livello di marketing.
A livello umano, però, era una colossale menzogna, perché noi non stavamo bene affatto. David lo sapeva: per questo quel servizio fotografico lo irritava, sapeva che era quello – il nostro disagio – che sarebbe venuto fuori quasi trasudando fisicamente dalle pagine patinate della rivista. Niente di particolarmente rassicurante.
Ciononostante, fummo costretti a chinare il capo e fingere una propensione alla professionalità che, in quel momento, non sentivamo affatto.
Il titolo di quell’articolo fu qualcosa di estremamente lungo, adolescenziale, melenso e sciocco. Qualcosa del tipo “Alla fine dei sogni, i Tokio Hotel si preparano a ricominciare a sognare davvero”. Insomma: la classica reprise dei versi di una canzone che tutti quanti avremmo preferito relegare nel dimenticatoio e che invece sembrava destinata a perseguitarci ancora a lungo.
Ciononostante, c’era qualcosa di vero.
Io e Tomi, il nostro nuovo sogno, lo stavamo vivendo davvero.
Quella settimana ero io, quello lucido. Tom non stava affatto bene. Doveva aver mangiato – solo perché costretto – forse appena un panino negli ultimi tre giorni. Era debole. Affaticato. Stanco. Crollava di sonno perché la notte non riusciva a riposare correttamente, e veniva dritto dritto da un attacco isterico che l’aveva colto quella stessa mattina e che si era manifestato nel cominciare a chiedere insistentemente di tornare a Loitsche perché aveva qualcosa da dire a Simone. Continuava a ripetere “Lo so che è morta, non sono impazzito, è alla sua tomba che voglio parlare!”, mentre io provavo a calmarlo accarezzandogli le spalle e David cercava ovunque un tranquillante.
Non era una buona giornata. Decisamente.
All’improvviso, mentre posavamo per il fotografo, mollemente adagiati su un pavimento bianco e immacolato, sentii la mano di Tom posarsi sulla mia e stringersi convulsamente attorno alle dita.
Non potei scansarla. Non potevo farlo a Tom. Sarebbe stato buono e giusto, ma non potei.
Ricordo che pensai “oddio, no”. Nessuno avrebbe dovuto vedere una cosa simile. E invece ecco che si preparava ad andare in stampa. Impressa su pellicola per l’eternità.
Sudai freddo e girai intorno a me uno sguardo disperato, solo per notare che Georg e Gustav, che originariamente stavano seduti rispettivamente alla mia destra ed alla sinistra di Tom, s’erano spostati fino a sedersi davanti a noi, schiena contro schiena, in modo da coprire perfettamente l’intreccio delle nostre dita.
Il fotografo, alla fine, scelse quella foto lì ed un paio di mezzibusti per ciascuno da piazzare in trasparenza come sfondi alle colonnine dell’articolo. In sostanza, ne venne fuori un servizio fotografico molto meno disastroso di quello che avevamo pensato inizialmente. Soprattutto, però, niente di troppo pericoloso era uscito dalla nostra intimità. Eravamo salvi, e non solo: eravamo stati salvati. I nostri salvatori erano stati Georg e Gustav.
Quell’episodio valse a farci capire quanto profondamente ci conoscessero e con quanta attenzione e quanta cura ci avessero tenuto d’occhio fino a quel momento. Allo stesso tempo, però, ci fece comunque capire anche quanto grave e pericolosa fosse la situazione in cui c’eravamo andati a cacciare.
Era un incesto.
Tutto ciò che stavamo provando si risolveva in una parola secchissima e dal suono orrendo – per non parlare delle sue implicazioni.
Suonava perfino sbagliato da definire in quel modo, perché non c’era proprio nulla di orrendo, tra me e Tomi. Solo tanta dolcezza, forse troppa, e tanto dolore, sicuramente troppo – ma era la realtà dei fatti. Le definizioni sono comunque sempre troppo concise, troppo dirette e troppo dolorose. Troppo esatte, in fondo. È per questo che fanno tanto male.
In quel periodo ero io, quello lucido. I nostri periodi non avevano mai una durata fissa. Non erano ciclici, non erano regolari, non erano ordinati e non erano affidabili.
Non potevo aspettare che Tomi rinsavisse, perché a quel punto sarei andato in black out io, e…
…se avessi aspettato, saremmo ancora impantanati in quella situazione. Non potevo proprio ritrarmi, dovevo prendere una decisione. Dovevo fare qualcosa.
The Last Dream aveva appena concluso di scalare faticosamente la classifica dei singoli più venduti in Canada, giungendo ad un primo posto che risuonò come una sinfonia alle orecchie di David, quando annunciai che avrei lasciato i Tokio Hotel e la musica.
L’ultimo sogno era finito.
*
Non posso colpevolizzare Bill. Non posso farlo, perché lui mi parlò a lungo, prima di mollare. Cercò di farmi capire, di prepararmi all’impatto, di motivarmi. “Non posso restare qui, Tomi”, diceva dolcemente, abbracciandomi, “Non posso continuare a girarti intorno. Altrimenti, come farai a dimenticarmi?”.
La verità è che non avrei potuto comunque, ed infatti non l’ho fatto. Continuavo a lamentarmi e piangere, ma non prendevo atto di nulla. Ascoltavo le parole di Bill, mi ferivano in profondità, ma non le immagazzinavo. Preferivo concentrarmi sulla sua stretta, sul battito del suo cuore, sulla gentile carezza del suo respiro sul mio collo.
Purtroppo, dal momento che proprio non riuscivo a ragionare correttamente, ricordo poco dei nostri ultimi giorni insieme. Tutti i pochi ricordi che posseggo sono molto dolci ed anche molto tristi, intrisi di una nostalgia potentissima che ha cominciato a farsi strada nel mio cuore già prima che Bill partisse. Non ricordo niente di come la presero gli altri, di come reagirono. So che ci sono stati dei litigi furiosi, dei tentativi di cambiare ciò che era già stato stabilito, so che fu in quei giorni che il rapporto fra David e Bill si incrinò e poi si spezzò irrimediabilmente nel momento in cui il nostro manager fu costretto a sciogliere il contratto ed accompagnare per l’ultima volta all’aeroporto il figlio che non aveva mai avuto ma che, dannazione, aveva voluto con tutte le proprie forze, e che alla fine gli era sembrato perfino di essersi guadagnato.
Rinsavii nel momento stesso in cui Bill si allontanò da me.
Non riuscii a dire o fare niente. Ricordai tutti i discorsi che mi aveva fatto, con una lucidità ed una chiarezza perfino dolorose, e mi resi conto di non poter fermare l’ingranaggio che era stato messo in movimento.
Non ci saremmo mai più rivisti.
*
Cerco di tenere lo sguardo basso. So che Tom è da qualche parte qua vicino, riesco a sentirlo con estrema precisione, ma non so se sono già pronto a fissarlo negli occhi e chiedergli scusa. So che è questo che dovrei fare, ma è sempre stato lui la mia forza, e da quando lui non è più con me sono diventato irrimediabilmente debole. Non sono sicuro che ritrovarmelo davanti possa ridarmi il coraggio che ho perso. Vorrei fosse così semplice, ma non lo è mai.
- Vorrei farti conoscere una persona… - mormora Gustav, richiamando la mia attenzione su di sé.
Sollevo lo sguardo, forzando un sorriso condiscendente, e mi ritrovo davanti una bambina stupenda.
- Oddio… - mormoro emozionato, - Tu devi essere Franziska…
Non ho ancora avuto modo di conoscerla di persona. Ovviamente, l’ho vista in foto, ma Gustav non l’ha mai portata in viaggio, e d’altronde è così piccina che la cosa proprio non mi stupisce. Ieri, tra l’altro, quando loro sono tornati a casa, io già dormivo come un ghiro – anche perché, in realtà, non avevo alcuna voglia di lasciare che Gustav cambiasse davvero le lenzuola di quel letto. E stamattina mi sono svegliato così tardi che…
…be’. Che sono tremendo l’ho già detto.
- Ma sei uno splendore! – sorrido, protendendo le braccia verso di lei. Franziska si ritrae, stringendosi al petto di suo padre, e mi guarda un po’ incuriosita.
- Papà… perché Tomi non mi riconosce? – bisbiglia incerta.
Ci metto un po’ a capire cosa vuole dire. Rimango a fissarla attonito, mentre Gustav la libera dalla stretta, consentendole di scivolare lungo il suo corpo e scappare via in cerca di qualcosa di meglio da fare. Poi mi sorride tristemente, come volesse scusarsi.
- Perdonala. – mormora imbarazzato, - Tu e Tom vi somigliate così tanto che deve essersi confusa.
Io cerco di abbozzare un sorriso, ma mi riscopro molto più turbato di quanto non vorrei.
- Lo conosce bene, lui? – chiedo a mezza voce, abbassando nuovamente lo sguardo.
Gustav annuisce.
- Tom è stato piuttosto presente, devo dire… - poi si blocca un secondo, e si affretta a correggersi, - D’altronde, era normale: vivendo qui vicino…
Sorrido per rassicurarlo e mi sforzo pure di guardarlo negli occhi.
- Non mi sono mai scusato per non essere venuto… al tuo matrimonio, intendo. – mormoro incerto.
Gustav sorride bonario.
- In realtà l’hai fatto circa un milione di volte.
- Be’… non credendoci davvero. – sorrido mesto, stringendomi nelle spalle. – Le altre volte, anche quando mi scusavo, pensavo comunque di aver fatto la cosa giusta, l’unica possibile. E quindi mi dispiaceva, ma non ero pentito.
- …ed ora lo sei?
Sorrido ancora.
Non voglio veramente rispondere a questa domanda.
E infatti non lo faccio.
*
Franny mi sta guardando come fossi un alieno già da una buona mezz’ora. Inarco un sopracciglio e la guardo allo stesso modo anch’io. Lei mi fissa di rimando, sconvolta, e poi suggella la propria disapprovazione con una linguaccia inviperita. A questo punto, non posso proprio fare altro che ridere di cuore ed avvicinarmi per scompigliarle i capelli, tra le sue proteste. Come mi permetto di scombinarli?! Mamma glieli ha acconciati fino a poco prima di arrivare in chiesa!
- Be’? – chiedo curioso, - Che avevi da guardarmi a quel modo?
Lei aggrotta comicamente le sottili sopracciglia bionde, scrutandomi con sospetto.
- Perché prima hai fatto finta di non conoscermi?! – mi rimprovera, offesa.
Oh.
Mi chino su di lei, cercando di sorridere rassicurante.
- Franny, quello di prima non ero io.
- Sì che eri tu! – protesta lei, - Ti ho visto!
- No. – sorrido ancora io, - Non hai visto me, hai visto il mio gemello, Bill. Lui è uguale a me, sai?
- Non mi fare questo scherzo! L’ha fatto pure Theo alla maestra, l’altra volta, ma lei l’ha scoperto e l’ha messo in castigo! Non ti parlo più, sai?!
- Dovresti credere a Tomi. – dice la mia voce da qualche parte alla mia sinistra. Solo che non è la mia voce. Io ci metto un po’, a capirlo, però decisamente non è la mia voce. – Lui è sempre molto sincero.
Franny solleva lo sguardo prima di me. Spalanca gli occhioni azzurrissimi che ha preso dalla mamma e modula le piccole labbra sottili di papà in una “o” di puro stupore, irrigidendosi tutta.
- Siete proprio due! – esulta, mentre sul suo volto si apre un delizioso sorriso sorpreso e divertito, - Siete ugualissimi!
Io mi rimetto dritto ma non mi volto. Mi sembra che lo smoking che indosso mi trattenga fermo, come fossi marmorizzato.
Sarebbe molto più facile, se fossi una statua.
Franziska evita il mio corpo e trotterella felice alle mie spalle, cominciando subito le presentazioni.
- Scusa per prima, credevo che eri Tomi che mi voleva fare uno scherzo! – trilla gioiosa, - Io sono Franziska e tu sei Bill! Vuoi giocare con me?
Bill ride di cuore, eppure a bassa voce, discreto, come avesse paura di farsi sentire da qualcuno, o come avesse paura che la sua risata potesse risultare offensiva per gli altri.
- Magari dopo. – risponde pacato, - Tuo papà ti sta cercando. È vicino al vaso di fiori gialli che c’è all’entrata. Lo raggiungi?
Franziska non risponde. Immagino abbia annuito e si sia messa a correre verso papà per raccontargli la nuova meravigliosa scoperta che ha effettuato, perché sento il tacco basso delle sue scarpette martellare il pavimento marmoreo della navata laterale all’ombra della quale mi sono nascosto, e poco dopo non sento più nulla.
Se non la presenza di Bill da qualche parte accanto a me.
Riempie già abbastanza i miei sensi. Non voglio sentire nient’altro.
- Tomi. Mi guarderai, prima o poi?
Sì. Certo che ti guardo, Bill. Certo che ti guardo.
Mi volto lentamente. Non so di cosa ho paura, ma so per certo che è proprio paura, quella che sto provando. Paura in piena regola. Con i tremori e i sudori freddi. Mi sembra di avere la febbre, e invece no, è solo paura.
- Bill…
Il suo nome è dolcissimo. È la cosa più dolce che esista. Mi riempie la bocca ogni volta che lo pronuncio, ma in questi dieci anni ogni volta era anche uno spillo nel petto. Adesso no. Adesso suona solo come un bel sorso d’acqua fresca.
Bill sorride. Sta fermo solo per un attimo. E poi mi corre addosso, impattando contro il mio corpo e stringendomi fra le braccia con urgenza, mentre io cerco un varco per stringerlo a mia volta e, non trovandolo, mi lascio semplicemente andare contro il suo collo, inspirando il suo profumo, saggiando il tepore della sua pelle con le labbra, sfiorandogli una guancia con le ciglia.
- Amore mio…
E non so chi l’abbia detto. Non percepisco il mio corpo muoversi. Non riconosco le differenze fra le nostre voci. Forse perché semplicemente non ce ne sono più. Magari la distanza ha cancellato anche quelle.
- Dio… - stavolta so chi sta parlando. È lui. Lo so perché s’è allontanato da me e posso vedere le sue labbra modulare le parole. Avrei preferito rimanesse più vicino, ma mi sta bene anche così, alla fine. – Ora capisco perché Franziska mi ha scambiato per te…
- Sì, è sorprendente! – rispondo io, con entusiasmo perfino eccessivo, - Siamo identici! Non so più da… sono decenni che non siamo più così uguali!
Bill scuote lentamente il capo.
- No. – risponde pacato, - È che sorridiamo allo stesso modo. – la sua tranquillità s’incrina, mentre si stringe nelle spalle ed inarca le sopracciglia, guardandomi tristemente. – Sei stato molto male?
Io cerco di mantenere il sorriso. Non voglio incolparlo di niente, davvero. So che ha già provveduto da solo. Lo so, perché lo conosco. Nonostante tutto il tempo passato, io lo conosco ancora benissimo.
- Non pensiamoci. – dico, scuotendo il capo, - Cielo, sei biondo! Non posso veramente stare a riflettere sulla sofferenza, sei biondo!
- Anche tu! – ride lui, coprendosi le labbra con una mano, - Non fare sensazionalismi!
- Per me essere biondo è la norma! – ribatto competente, socchiudendo gli occhi.
Lui inclina lievemente il capo.
- Anche per me. – ammette in un sospiro, - Ormai da cinque o sei anni, credo. Ho tagliato i capelli, li ho lasciati ricrescere del loro colore… sono diventato un perfetto signor Nessuno. – sorride ancora, intrecciando le braccia dietro la schiena. – Non sei fiero di me?
Io inarco le sopracciglia, ghignando sardonico.
- Quello sempre. – ma il mio sorriso si smorza inevitabilmente. – Hai visto? – chiedo poi, deglutendo agitato. – Non ti ho cercato. Sono stato bravo.
Lui annuisce lentamente.
- Non ne ho mai dubitato. – poi si lascia andare ad un sorrisino brevissimo, triste in maniera quasi dolorosa, e si avvicina nuovamente, - Com’è Karen? – si informa, - È giusta per Georg?
Ridacchio divertito.
- Perfetta.
- E Marlene per Gustav?
- Anche lei.
Ride compiaciuto, rilassando le spalle tese.
- Ognuno ha il suo, vedo. – commenta ironico, - E noi due?
Mi stai provocando o stai solo cercando di dirmi qualcosa?
- Noi ce l’abbiamo da sempre.
Il suo sorriso si fa dolcissimo, ed ancora più triste. In questo preciso momento, non so se vorrei cancellarlo o lasciarglielo addosso per sempre. È stupendo e fa male. È la perfetta sostanza di Bill. Bill è fatto di questi sorrisi qui. Da sempre.
- Io sto in una casa che odio. – dice a bassa voce, - La vista è splendida, ma è enorme. È vuota. La odio e basta.
Fingo di riflettere.
- Be’, il mio appartamento a Loitsche è già piccolo per me e Gordon, però la città è molto diversa da com’era prima. È più grande. Magari un appartamento nuovo si trova.
Il suo sorriso si apre ancora un po’. Si fa più luminoso. Decisamente più sostenibile. E infatti sorrido anche io.
- Non pensi che sarebbe uno sbaglio enorme?
Mi mordo un labbro e scuoto il capo.
No, non lo penso. Mai, mai, mai.
Bill inspira e trattiene l’aria nel petto, come volesse provare a farsi coraggio.
- Tomi… davvero pensi che noi potremmo-
- Non ha importanza quello che penso. – lo interrompo, fissandolo dritto negli occhi, - È ciò che voglio. Tu lo vuoi?
Georg appare al mio fianco, le sopracciglia aggrottate ed un broncio estremamente infantile sul volto.
- Posso anche essere contento di questo riavvicinamento, - commenta, incrociando le braccia sul petto, - ma non posso dire “sì” senza il mio testimone di nozze! Tom, ci diamo una mossa o no?
Io e Bill scoppiamo a ridere nello stesso momento, e Georg ci guarda come fossimo improvvisamente diventati viola, inclinando lievemente il capo.
- Non si dice “sì”, Georg. – lo corregge Bill, avvicinandosi a lui per stringerlo in un abbraccio che è al contempo un “congratulazioni”, uno “scusa” e un “ti voglio bene”. Poi si volta a guardarmi. – Si dice “lo voglio”.
Sorrido.
Possiamo farcela.
Forse non è vero che ad un certo punto i sogni si esauriscono. Forse continuano a nascere sempre. Forse proprio non scompaiono mai.
- Be’, andiamo. – sospiro infine, tirando Georg per il colletto dello smoking e strappandolo letteralmente dalle braccia di Bill, - Con tutta la fatica che hai fatto prima di trovare quella giusta, ci manca solo che ti fai abbandonare all’altare perché sei arrivato in ritardo!
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