rp: gerard way

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Gerard Way/Mikey Way (lieve).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: AU, Angst, Slash (lieve), Incest (lieve), Flashfic.
- "La notte, fuori dall’edificio perso nel deserto come tutto il resto della base militare all’interno della quale hanno completato l’addestramento in attesa dell’arrivo degli ordini dal fronte, è talmente silenziosa e tranquilla che neanche con un incredibile sforzo di fantasia si potrebbe credere alla guerra che infuria oltre il confine." AU ispirata al video di The Ghost Of You.
Note: Omg non posso credere di essere finalmente riuscita a scrivere questa storia dopo, boh, millenni da quando ho pensato che mi sarebbe piaciuto scrivere di loro due su questo 'verse XD Ovviamente, il tutto non poteva che essere donato con tutto il mio cuore alla Fae, perché be', che Gerard sarei se non donassi una cosa del genere al mio Mikey? (Bel regalo, dico, una fic ambientata in un 'verse in cui sei destinato a morire, fratello. Dovresti odiarmi. *si prostra e piange*)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GHOSTS DON’T FADE

Mikey sta dormendo, e Gerard non sta già scorrendo il profilo del suo viso sotto i polpastrelli solo perché, assieme a lui, stanno dormendo anche altri cinque o sei soldati, di alcuni dei quali non conosce nemmeno il nome. Dev’esserci Frank, da qualche parte nel buio del dormitorio, e sicuramente ci sono Bob e Ray, i tre ragazzi con cui ha legato di più da quando è arrivato, ma soprattutto c'è Mikey, Mikey è qui a pochissimi centimetri da lui, nella cuccetta che per forza di cose devono condividere in sei, visti quanti sono, e Gerard non può nemmeno sfiorarlo.
La notte, fuori dall’edificio perso nel deserto come tutto il resto della base militare all’interno della quale hanno completato l’addestramento in attesa dell’arrivo degli ordini dal fronte, è talmente silenziosa e tranquilla che neanche con un incredibile sforzo di fantasia si potrebbe credere alla guerra che infuria oltre il confine. Gli orrori di cui ha sentito parlare, di cui i veterani si riempiono la bocca dai letti dell’infermeria sui quali stanno immobilizzati ventiquattro ore al giorno cercando di non pensare ai pezzi di se stessi che hanno lasciato a marcire sul campo di battaglia, sembrano lontani come ricordi, ma dal momento che non li ha mai visti sono anche impalpabili come fantasie. Non riescono quasi nemmeno a fargli paura.
Tranne quando pensa a Mikey, naturalmente.
Sono sempre stati attaccati, fin da piccoli, fin da quando mamma lo vedeva recuperare la palla ed uscire per andare nel cortile sul retro a giocare coi suoi amici, e gli diceva “porta con te anche Mikey”, e Gerard lo faceva, e non aveva il coraggio di dirle che l’avrebbe fatto anche se lei non gliel’avesse ricordato costantemente. C’era qualcosa, in Mikey, che lo rendeva assolutamente indispensabile, che rendeva la sua presenza irrinunciabile.
Mikey da bambino era così piccolo, così magro, così fragile. Era spesso ammalato, ed a Gerard capitava spesso di restare al suo fianco per tenergli compagnia durante le sue lunghe influenze. Si annoiava, naturalmente, Mikey per la maggior parte del tempo dormiva, non era neanche di compagnia, ma Gerard si sacrificava volentieri, per lui. Solo per lui, in realtà. Non è mai stato un altruista, ed anche con Mikey in realtà non crede di essersi mai comportato in maniera genuinamente altruista. Se restava al suo fianco non era per far felice lui, ma per far felice se stesso. Che poi anche Mikey ne fosse contento era solo un effetto collaterale. Non indesiderato, ma neanche appositamente cercato.
Col passare degli anni le cose sono cambiate, Mikey è cresciuto, è diventato più alto, è rimasto magrissimo ma ha smesso di passare a letto con la febbre alta un finesettimana sì e l’altro no. E poi è cominciata la guerra e Gerard s’è ritrovato a rimpiangere i lunghissimi pomeriggi invernali che passava accucciato sullo sgabello o sulla sponda del letto del suo fratellino minore malato, perché all’esame per la chiamata alle armi Mikey è risultato arruolabile, e Gerard si è sentito come se le porte dell’Inferno gli si stessero spalancando davanti agli occhi, e lui non potesse fare nulla per fermarle.
“La guerra,” gli ha detto suo padre prima di salutarlo, “è una brutta bestia, Gerard. Ha troppe teste, troppe bocche, e azzannano tutte insieme.”
“Proteggi Mikey,” gli ha detto sua madre, le lacrime agli occhi, “Ti prego, Gerard, proteggi Mikey.”
Manca meno di una settimana alla loro partenza, adesso, e Gerard non sa nemmeno se sarà smistato sullo stesso fronte al quale sarà destinato Mikey. Ed anche se lo fosse, come potrebbe riuscire a proteggerlo? Se solo pensa al clangore della battaglia, ai botti delle bombe che esplodono, alle urla dei soldati, alle raffiche delle mitraglie, tutte uguali fra amici e nemici, non riesce a capire più niente. Non vuole capire più niente, vuole solo nascondersi sotto il cuscino e piangere di paura fino ad addormentarsi, per potersi svegliare qualche ora dopo e fingere di aver fatto soltanto un brutto sogno.
Ma non può, ed ora che riapre gli occhi vede che suo fratello s’è voltato su un fianco e lo sta guardando. Nonostante l’oscurità, i suoi occhi brillano, e nonostante la piega delle sue labbra sia a malapena intuibile nello spicchio di luce lunare che filtra attraverso i vetri opachi delle finestre in fondo alla stanza, Gerard saprebbe percorrerne i contorni in punta di dita anche senza riuscire a vederli con gli occhi. Non ne avrebbe bisogno, non ne ha mai avuto bisogno. Ha imparato Mikey a memoria molto tempo fa, quando ancora non aveva nessun bisogno di farlo per paura di perderlo, semplicemente perché gli andava di farlo. Ed è l’unica consapevolezza alla quale può aggrapparsi adesso: non importa quanto confusa possa essere la battaglia, quanto forte il rumore, le grida degli altri, quanto spesso lo strato di polvere e fango che gli ricopre la pelle, appesantendogli addosso la divisa, che già pesa abbastanza, che già pesa troppo, ma potrebbe pesare ancora molto di più se non ci fosse più Mikey a dividerla con lui.
In mezzo a tutti il resto, riuscirebbe comunque a riconoscere Mikey al primo sguardo. Riuscirebbe comunque a rimanere al suo fianco. Riuscirebbe comunque a salvarlo in tempo.
Nel buio, nel silenzio, suo fratello sorride. Solleva una mano e gliela appoggia sul collo, lo accarezza piano e poi si sporge in avanti.
Non è che un contatto fugace. Gerard gli si scioglie addosso.
Non si sono mai detti tanto senza dover neanche aprire bocca.
In coppia con Nainai
Genere: Generale.
Pairing: BrianxMatthew
Personaggi: Placebo, Muse, Gerard Way, Chester Bennington e un po' di PG originali °_°
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Una storia dolce. Una storia a frammenti. Passato e presente. Fotografie che raccontano i momenti di un tour e di una storia d'amore.
Quella di Brian e Matthew. Del loro inizio. Del loro desiderio di stare insieme.
E della distanza.
Note: Io non è che abbia moltissimo, da dire XD Questa storia mi ha tenuto tanta compagnia, sia mentre la scrivevo che poi mentre andavamo pubblicandola. Sono stata molto contenta che l’abbiate apprezzata, perché secondo me è una storia molto bella. Posso dirlo senza vergogna perché non è stata tutto merito mio XD Spero che anche questo finale vi sia piaciuto come il resto. E spero tanto anche di potervi fornire presto il seguito, ma vedremo bene con Nai XD
Baci e grazie di tutto :*
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They Have Trapped Me In A Bottle


Before you begin… Ciao, siamo Nai e liz *_* Ditelo, che siete felici di vederci <3 E questa è la seconda storia che scriviamo insieme e decidiamo di pubblicare dopo Cupid’s. Speriamo vi piaccia altrettanto X3 (anche perché questa è una storia vera!).
Precisazioni del caso: nessuno dei personaggi citati ci appartiene (e dal momento che sono veramente… ma veramente svariati °.° È giusto dirlo XD) e noi non abbiamo niente a che fare con loro se lasciamo da parte il fatto che li amiamo tutti, in un modo o nell’altro è_é Non abbiamo niente a che fare con loro e, per la maggior parte, non hanno mai fatto né faranno niente di quanto descritto in questa storia.
Ovviamente non ci guadagniamo niente >_< Sono solo fanfiction, in fondo ù_ù
Per quanto fanfiction, però, la base di partenza è reale °_° È ambientata fra la fine di luglio e l’inizio di settembre di quest’anno, durante il Projekt Revolution (festival itinerante al quale hanno preso parte band celebri come i Linkin Park, ideatori del progetto, e i My Chemical Romance… e il bello è che avranno tutti un ruolo, in questa storia XD). Siamo state abbastanza scrupolose, ma se c’è qualche cavolata random non badateci troppo >.<
Per quanto sia triste, né Cody né Gaia sono contemplati è_é” In fondo è meglio così, credeteci :D
Buona lettura :*

One:

Ci sono giorni che semplicemente dovrebbero non esistere.
A volte sogno di tracciare una linea rossa sopra questi giorni. Sogno che basti questo – un colpo di pennarello, pescato a caso dentro il cesto della frutta senza che nemmeno sappia come ci è arrivato – per farli sparire ugualmente dai miei ricordi.
Lo sogno.
E generalmente sto facendo proprio come ora. Sto guardando fuori da un finestrino un mondo che va veloce nella direzione opposta.
Sono stanco. Non ho molto altro da dire, molto altro che mi pesi addosso. Sono semplicemente stanco. Come qualunque persona che sia stata costretta per un lungo periodo di tempo a sottoporsi allo stress costante di un lavoro dai ritmi frenetici.
Potrei essere stanco come un manager di impresa, o come un dirigente di industria, o come un professore universitario in giro per congressi. Invece sono stanco come il cantante di una band rock in tour da quasi un anno e mezzo. E questo, per uno strano caso del destino, vale a togliere attendibilità, dinanzi alla gente, al mio stato fisico e mentale. Per questo strano caso del destino, infatti, la gente sembra credere che un musicista rock non possa in alcun modo rivendicare il diritto a qualificare il proprio come “lavoro”. Figuriamoci a riconoscergli “ritmi frenetici” al punto da indurlo a stancarsi.
Di conseguenza, io sono stanco. Davvero. Ma ufficialmente non posso dirlo.
Stefan fa un gran casino quando si lascia cadere pesantemente accanto a me. Il cuscino sistemato sulla panca si abbassa e slitta un po’ sul legno, lui si sistema contro il tavolo e mi gira lo sguardo addosso, anche se io non posso vederlo.
Infatti non lo vedo, ma lo so.
-Hai intenzione di restare con la faccia incollata al vetro finché la tua pelle non si fonderà con il finestrino?
È un’immagine disgustosa. Penso che dovrei dirglielo, ma mi limito a storcere il naso senza muovermi e a mugugnare qualcosa di assolutamente incomprensibile, che vorrebbe essere una protesta risentita.
Sono patetico.
Stefan sospira, si rimette dritto, so che sta scambiando un’occhiata con Steve. Lo so anche perché Steve smette per un attimo di giocare con quelle dannate bacchette e libera la mia mente dall’orrido e ripetuto ticchettio che ha prodotto finora. Presumibilmente Stefan gli sta chiedendo con lo sguardo cosa diavolo devono fare con me. Quasi certamente Steve gli sta rispondendo con un’alzata di spalle.
-Brian!- mi richiama Stefan con una certa urgenza. Mugugno di nuovo una cosa molto simile alla precedente, che stavolta vorrebbe essere un’attestazione di presenza…Il mio vocabolario si sta riducendo incredibilmente in questi pochi minuti.- O.k., senti.- Sento. Ma lui ci pensa su. Si ferma un attimo e raccoglie le idee. Nel frattempo io colgo l’immagine del deserto che sfila contro di noi. Poi il profilo di un altro autobus, leggo il nome del gruppo sulla fiancata quando ci superano. Il deserto ritorna nel mio spazio visivo…- C’è qualcosa che possiamo fare io e Steve per tirarti su di morale?- s’informa Stef alla fine.
-No.- borbotto appena.
La prima parola di senso compiuto da non ricordo quante ore.
Un altro sospiro. Adesso Stefan sta puntando Alex. Lei è seduta nel posto più lontano del tour bus. Si ricambiano lo sguardo, lei scuote il capo dicendogli di lasciarmi perdere. Mi passerà.
Ha ragione lei, è chiaro. Credo che nessuno, a parte i cavalli, sia mai davvero morto di stanchezza.
Solo che Stefan non accetta di lasciarmi perdere. Per lui occuparsi di me è una priorità, una necessità indefettibile. A volte questa cosa mi fa piacere. Altre volte mi sfinisce, esaurendo le mie ultime energie. Come questa volta…
-Senti, Bri.- Tono carezzevole, giusto per farmi sentire che è preoccupato per me e che, quindi, sarebbe carino che io gli dessi quel minimo di attenzione necessario a rassicurarlo. Mi ci sforzo, mi tiro un po’ più su sulla panca, rimetto le spalle in asse con il resto del corpo e stacco la fronte dal finestrino.- Lo so che siamo tutti a pezzi e che non vediamo l’ora di tornare a casa, ma dobbiamo tenere duro ancora un po’.
Borbotto qualcosa che non so nemmeno io cosa sia. Forse un assenso, forse una nuova protesta. Suscito l’ennesimo respiro profondo da parte di Stef. Lui mi guarda, io non alzo il viso ma tanto i suoi occhi li sento anche a metri e metri di distanza, anche quando sto facendo tutt’altro e non ho neppure voglia di voltarmi a sincerarmi che lui sia davvero lì…
C’è questo silenzio che si protrae un po’. Steve ridacchia, Stefan gli sibila di piantarla, aggiunge che è un cretino e che dovrebbe aiutarlo invece di ridere. Steve gli dice che si preoccupa troppo e si alza per andarsi a prendere una birra dal mini frigorifero. Torna indietro con tre bottiglie, ne posa una davanti a Stefan, l’altra me la apre e la allunga verso il mio viso.
-Grazie.- mormoro sollevando gli occhi su di lui mentre prendo la birra dalle sue mani.
Mi sorride come a dirmi che non importa.
-Beh, almeno guarda che bel tramonto.- prova ancora Stefan, cercando invano di scuotermi dalla mia apatia.
Mi volto. Oltre il finestrino si allunga una striscia rosa sull’orizzonte. Una parte del vetro, illuminata direttamente dalle luci del tour bus, mi rimanda il mio volto disfatto.
-Ne ho visti di più belli.- sussurro sollevando la macchina fotografica e fermando il tempo.

***

La fotografia è una “cosa” di Helena.
In una relazione, inevitabilmente, le persone prendono qualcosa le une dalle altre. Io ho preso da Helena molto più di quanto le abbia dato ed alla fine l’unica cosa che le riconosco è questa. Lo penso mentre soppeso la macchina fotografica sul palmo della mano.
Fuori si è fatto tutto buio. Ci sono solo le stelle ed i fari della nostra piccola carovana di autobus e camion ad illuminare la strada che passa attraverso il deserto. Io sono l’unico qui dietro ancora sveglio. Stefan se n’è andato a dormire da poco; Steve sonnecchia su un divanetto, ogni tanto si rigira, apre un occhio e mi brontola qualcosa, poi crolla di nuovo senza pretendere una risposta. Alex è in cabina guida, stava ascoltando musica con l’autista fino ad una decina di minuti fa, ora mi arrivano di tanto in tanto le loro risate e qualche battuta a voce alta. Mi ha chiesto se volevo sedermi con loro, ho risposto che preferivo restare ed andare a dormire anche io.
Helena è uscita dalla mia vita da un po’ ormai.
Helena ed io ci siamo lasciati in modo civile, seduti dentro un caffè, sorridendoci mentre ci dicevamo “addio”.
Ha fatto male lo stesso. Ma non a me.
Io da lei avevo già preso tutto quello che volevo. Il mio nuovo equilibrio, la mia nuova pace interiore, la mia nuova capacità di accettare e di farmi accettare dagli altri.
Lei da me voleva solo una cosa, ma quella davvero non poteva dargliela. Perché io non l’amavo, ed alla fine doveva accorgersene, doveva capire le mie bugie e la mia falsità, nascosta dietro lo zucchero. E dirmi che era finita lì. Com’è finita, infatti.
Sì, sembra strano a me per primo. È stata lei a lasciarmi, lei a dirmi che tra noi non c’era nulla, quando il nulla ero solo io. Il fatto che sia stata lei ha reso possibile che entrambi sorridessimo quando ci siamo alzati da quel tavolo dentro il caffè.
Da allora sono stato felice. Lo ero anche con lei, ma in modo diverso. Quel modo ordinario e pervicace delle storie serie ma senza anima. Lei mi aveva curato, io le ero riconoscente, ero vivo grazie a lei ed ero felice di questo.
Ma è stato solo quando lui è entrato nella mia esistenza che ho capito davvero che fino a quel momento ero sopravvissuto. E basta.
Suona il cellulare. Mi strappa ai ricordi. Poso la macchina fotografica davanti a me sul ripiano chiaro, spingo le dita nella tasca dei jeans e riesco con difficoltà a tirar fuori il telefono. Leggo il nome sul display mentre la suoneria sveglia di nuovo Steve. Solleva la testa e mi guarda, contrariato.
-Digli che non può rompere quando qui sono le tre di notte e noi domani abbiamo un concerto!- sbotta prima di lasciarsi ricadere sui cuscini.
Sorrido. Improvvisamente mi sento meno stanco.
-Matt.- chiamo rivolto alla persona dall’altro immaginario capo dell’apparecchio.
Ridacchia e poi tira un respiro profondo. Come se avesse davvero bisogno d’aria.
…Come se quell’aria fossi io.
-Brian!- esclama alla fine.- Dove sei?- mi chiede subito dopo con urgenza.
Ridacchio anch’io.
-Da qualche parte, in un deserto “x” qualunque, in uno stato a caso degli USA.- riassumo ricominciando a fissare il paesaggio oltre il vetro.
Adesso che è veramente buio riesco a vedere quasi solo il mio profilo. O quello dei mobili, che sembrano arancione sotto la luce artificiale. Vedo il divanetto su cui Steve ha ricominciato a dormire, la bottiglia di birra che Stefan ha mollato a metà. La mia ormai vuota. La macchina fotografica con l’obiettivo serrato ed il laccio logoro che mi ricade addosso oltre il bordo del tavolo.
-Uno Stato a caso?!- ripete Matt.
Sento che ne sta combinando qualcuna. Mi arrivano il rumore dei suoi passi e poi dei suoni sordi, come se spostasse qualcosa che cadendo produce un tonfo leggero. Mi piacerebbe chiedergli cosa sta facendo, ma preferisco aspettare. Matt è un mago, sapete? Sa fare piccole magie. Riesce a fare apparire cose meravigliose dal nulla. Ma se gli chiedi ad alta voce cosa sta facendo e lui ti risponde, allora la magia non funziona più.
I rumori finiscono. Ha una voce allegra ed eccitata quasi quanto quella di un bambino, quando riprende a parlare.
-Sai cosa ho comprato oggi?- mi domanda.
-No…- rispondo io. Alzo una gamba ed incastro il ginocchio contro il tavolo posandoci sopra il gomito.
-Un atlante degli Stati Uniti d’America.- mi spiega.
-Cosa dovresti farci?- chiedo stupito.
-Beh, come cosa?!- sbotta lui, deluso.- Ci seguo le tappe del Festival!
Rido.
-Matt!- lo richiamo.
Mi vengono in mente un centinaio di cose da dirgli, suonano tutte come una sorta di rimprovero. Mi fermo a metà quando mi rendo conto che sono altrettante scuse per non ammettere quanto mi faccia piacere questa sua idea.
Sì, Matt è un mago.
“E questa è una delle sue magie”, penso mentre mi sistemo contro lo schienale della panca e lo lascio continuare senza più contraddirlo.
-Ho preso una scatola enorme di pennarelli colorati…- si ferma e ci ripensa- O.k., i pennarelli li avevo presi per altro in realtà.- precisa.
-Cosa?
-Mah. Volevo fare una specie di disegno da appendere sul palco nelle prossime date, ma è venuto una schifezza!- confessa ridendo.- Allora ho deciso che potevo utilizzarli in un altro modo e, quando ho capito che Dom non apprezzava che ci colorassi i contorni della sua batteria…
-Come diavolo hai fatto a sopravvivergli?!- sbotto ridendo anch’io.
-Semplicemente si è vendicato su una delle mie chitarre!- mi risponde lui.- Ci ha fatto i baffi, Brian! Ti rendi conto?!- mi chiede come se da questo dipendesse la sua vita.- I baffi e poi…tipo…degli occhiali da sole o qualcosa del genere. Insomma, adesso ha una faccia e…
-I pennarelli sono indelebili?- domando io, passandomi le dita sugli occhi per scacciare via quel po’ di stanchezza che rimane. Voglio parlare con lui ancora un po’…
-Ma và!- ritorce lui. Non sembra particolarmente arrabbiato, ma del resto ormai l’ho capito che lui e Dominic hanno un loro linguaggio personale per comunicare, fatto anche di piccoli dispetti da ragazzini.- Ovviamente andranno via comunque, ma chiaramente adesso passiamo tutte le prove ad insultarci vicendevolmente ed a guardarci in cagnesco. Chris e Tom ci odiano già.
-Immagino.- soffio appena, sorridendo. Mi rilassa immensamente sentirlo parlare.- Allora dimmi, quando hai capito che Dom non gradiva la tua arte, cosa hai fatto dei pennarelli?- m’informo.
-Ah sì.- Riacchiappa qualcosa, un altro rumore, probabilmente l’atlante gli era scivolato, perché quando ci batte su la mano riconosco il rumore delle pagine e del cartonato plastificato della copertina.- Ho deciso che potevo segnarci le date del vostro tour. Tipo, in rosso le date del Festival, in blu quelle del tour di “Meds” e, quando andate via da una tappa, ci metto un segno verde. Poi indico anche i giorni che passate in ogni città e…
-Matt.
Si interrompe ed aspetta.
Io prendo fiato. Una. Due volte. Prendo fiato e glielo dico.
-Non dovresti.
Il suo silenzio fa più male di quanto pensassi. Ora so cosa ha provato Helena quel giorno, lo so perché adesso sì che sono innamorato. E quindi so cosa vuol dire avere paura.
-Sei un cretino, Brian.- mi risponde lui con una serietà che gli è totalmente inusuale.
-…già.
Un altro silenzio. Nel vuoto che lascia ci si potrebbero infilare migliaia di pensieri. Ma la mia mente si ostina a non farcene entrare nemmeno uno, perché è come se ciascuno di quelli che si affacciano iniziasse con “se lui non ci fosse…”. Ed io in realtà non voglio nemmeno pensare alla possibilità che lui non ci sia.
-Sai che tra tredici giorni tornerete in Europa?- mi chiede alla fine.
“…tredici giorni…”
-E voi andrete in Australia.- rispondo io.
-No, solo ad ottobre. A settembre siamo in Europa come voi.
-Est Europa.- correggo.- E noi in sala prove.
-Beh, come noi adesso.
Respiriamo con lo stesso ritmo. Qualcosa di terribile se non fosse meraviglioso. E ridiamo nello stesso momento, come due idioti.
-Che schifo di lavoro!- commenta lui per primo.
-Non ti credi nemmeno tu quando lo dici!- ribatto io.
-L’anno prossimo vacanze insieme!- pretende.
-L’anno prossimo si vedrà.- sminuisco.
-Tu non mi ami abbastanza!- protesta lui.
-Non vedo neppure perché dovrei farlo…- ci scherzo io.
-…Vuoi andare a dormire, cretino?! Domani devi lavorare!- sbotta Matt arrabbiato.
“No, Matt. Voglio parlare ancora un po’…”
-Sì, papà, vado a dormire, promesso.- sorrido invece.
-Ecco!
Quando riattacco e guardo di nuovo fuori dal finestrino, mi dico che avrei dovuto chiedergli dove siamo - “Guarda sul tuo atlante, Matt, dimmi se mi vedi” - invece non l’ho fatto, forse per paura che lui me lo dicesse davvero. Che puntasse il dito su un deserto “x” qualunque di uno Stato a caso e mi dicesse “sei qui”. E potesse avere ragione.
-Che ne dici se ora mantieni la tua promessa?
Mi volto verso Stefan, che mi guarda e sorride. Ricambio il suo sorriso e scivolo lungo la panca per uscire da dietro il tavolino.
-A che ora arriviamo domani?
-Alle dieci.- risponde lui sbadigliando.
-Dovremmo svegliare Steve e mettere a letto anche lui.- noto distrattamente, mentre passiamo per raggiungere la zona notte.
-Io non ci provo nemmeno, l’ultima volta mi stavo beccando un cazzotto sul naso!- ricorda Stefan, gettando un’occhiata a Steve.
-Questo perché lui ha aperto gli occhi e si è ritrovato il tuo brutto muso davanti. Invece, se lo sveglio io…- comincio ad argomentare con saccenteria, ma badando a tenermi lontano dal nostro batterista.
Stefan mi manda cortesemente a cagare e si infila risoluto nella propria cuccetta. Mi stendo anch’io e fisso il tettuccio del tour bus.
-Stefan.- chiamo. Lui brontola qualcosa per farmi capire che mi ascolta.- Che cazzo ci facevi ancora sveglio?- domando.
-Mi assicuravo che non cercassi di strozzarti con il laccio della macchina fotografica.- sospira girandosi verso la parete- Ed ora dormi, Brian! Dannazione a te!
Ridacchio e lo imito, arrotolandomi nelle coperte.
-‘Notte, Stef.
-‘Notte, insopportabile scocciatore dell’esistenza altrui.- mi risponde, prendendosi immediatamente una cuscinata addosso.
-Stronzo!- gli strillo contro.
-Fanculo!- ritorce lui restituendomi il favore.
-Volete dormire?!- strepita Steve, svegliandosi di botto e ripiombando nell’incoscienza quasi nello stesso momento.
-Come accidenti ci riesce secondo te?!- protesto fissando sconvolto Steve riprendere a russare come se niente fosse.
-Non è umano, è evidente.- afferma Stefan, annuendo convinto.- Ora, però, ti prego, Brian, dormiamo davvero!- m’implora, lasciandosi ricadere sul materasso.
-Sì sì.- borbotto stendendomi di nuovo anch’io.
-E dì a Bellamy di chiamarti di giorno, se ci riesce.
-Mi chiama quando vuole.
-Sei una ragazzina.
-E tu sei stronzo.
-Lo hai già detto.
-Beh, volevo ribadirlo.
-Se non dormite, giuro che vengo lì e vi “addormento” io.- s’intromette Steve.

***

Sedevo sul fondo del backstage. Avevamo appena finito di esibirci, ero felice di come fosse andata, ancora assordato dalle urla dei fan sotto il palco, sereno dopo che la mia storia con Helena era finita appena quattro giorni prima.
Stefan e Steve erano spariti da qualche parte. Dopo i concerti hanno ognuno il proprio rituale. Stefan ama continuare il bagno di folla, raggiungendo i fan per le foto, gli autografi, i complimenti a voce e tutto quanto ne consegue. Steve doveva essere corso a chiamare la moglie e la figlia.
Io non avevo niente da fare. Quattro giorni prima sarei stato attaccato ad un cellulare anch’io, ma in quel momento potevo starmene seduto a terra, contro le casse della strumentazione, con il cellulare effettivamente in mano e nessuno da chiamare.
Helena mi aveva fatto un regalo enorme. Fino a prima di lei questa mia condizione mi avrebbe gettato nello sconforto… in quel momento dentro di me c’era invece solo una luminosità calda e profonda.
Mi venne incontro direttamente dalla zona del palco. Aveva le mani in tasca e sorrideva, teneva gli occhi fissi su di me, quasi volesse farmi capire che mi cercava, che era proprio me che voleva. M’incuriosì, fino a quel momento non ci eravamo mai nemmeno scambiati due parole. Ero convinto che ci stessimo evitando, una di quelle convinzioni silenziose che si creano e che ci portano a parlare di “taciti accordi”. Il nostro accordo avrebbe dovuto prevedere che ognuno di noi due ignorasse l’altro. Lui lo stava per violare.
Si fermò davanti a me e mi guardò senza sfilare le mani dalle tasche dei pantaloni. Io ricambiai il suo sguardo ed attesi.
Quando parlò non mi sembrò davvero che avesse violato alcunché.
-Complimenti.- mi disse.
-Grazie.
-È stata un’ottima performance.
Mi strinsi nelle spalle, ripetere “grazie” era privo di senso. Non c’era ironia nella sua voce, non provavo alcuna avversione o fastidio nel rimanere seduto a parlare con lui. Già questo mi stupì.
-Noi ci esibiamo tra poco.- Lo sapevo, annuii.- Resti a guardarmi?
Rimasi sbigottito. Aprii la bocca annaspando. Lui mi fissava con un candore tale da darmi il capogiro e nemmeno si rendeva conto – credo – di quanto assurdo fosse quello che mi aveva appena domandato.
Sarebbe stato già tanto se lui mi avesse chiesto di rimanere per sentire loro. Ma mi aveva appena chiesto di rimanere a guardare lui. E nel farlo mi aveva fissato con la stessa espressione che io usavo da bambino, quando correvo da mio padre a mostrargli i voti presi a scuola, in cerca della sua approvazione.
In quel momento capii che, tutte le volte che Matthew Bellamy aveva detto di stimare me e la mia band, non aveva mentito. A differenza mia.
Che, quando gli avevo consegnato il premio agli EMA del 2004 e lui mi aveva abbracciato per ringraziarmi, non aveva mentito. A differenza mia.
…che, quando mi aveva fatto i complimenti poco prima, non aveva mentito.
Ma lì nemmeno io nel dirgli “grazie”.
Fu il senso di colpa a farmi accettare di restare. Provavo una vergogna terribile al pensiero di quanto ero stato meschino fino a quel momento. Guardai la sua esibizione, mi fermai anche dopo, quando mi invitò ad andare con lui al party che si teneva dopo il concerto; mi fermai con lui anche al party, mentre tutti gli altri intorno ci guardavano come se fossimo impazziti. E forse lo eravamo. Io rimanevo al suo fianco, lo ascoltavo parlare a raffica come il suo solito, e per una volta – la prima in questa assurda storia – non ne trovavo la voce sgradevole, il tono spiacevole, le parole stizzenti. Trovavo la sua presenza confortante.
So che non fu l’alcool – come mi giustificai il giorno dopo con Steve e Stefan – a farmi accettare il suo invito a casa. So che ero perfettamente padrone di me, mentre lo guardavo balbettare qualche scusa ridicola sul fatto che voleva il mio parere su alcuni lavori incompiuti. E so che ero perfettamente padrone di me anche quando acconsentii, ben sapendo che si stava nascondendo, ed anche male, e che i suoi occhi azzurri finivano per tradirlo più della sua incapacità di mentire.
Per questo, e per rendergli più facile il resto, fui io a baciarlo quando arrivammo a casa sua e lui ebbe richiuso la porta dietro di noi.
Ricordo che mi disse impacciato che non aveva mai fatto sesso con un uomo. Lo disse subito, ed io risi divertito da questa sua sincerità e dal fatto che riuscisse a mettere nero su bianco quello che voleva senza esserne veramente imbarazzato. In fondo a parte il mio bacio non avevo ancora ammesso di avere voglia di lui. Potevo tranquillamente prenderlo in giro, mollarlo lì ed andarmene. Lui non ne aveva paura. O più semplicemente, a differenza della maggior parte delle persone comuni, lui era disposto a rischiare di essere sincero.
Non posso davvero negare che fu questo a conquistarmi. Se lui fosse stato appena meno sincero, appena più interessato, quella notte sarebbe rimasta solo un episodio della mia vita, come negli anni se ne erano succeduti tanti. Ma Matthew Bellamy era quello che io vedevo e quello che vedevo mi aveva già strappato l’anima.
Mi si avvicinò quasi con timore, guardandomi attentamente, come non sapesse neanche cosa aspettarsi da me. Continuò a guardarmi a quel modo anche quando cademmo con un tonfo pesante sul letto – senza spingerci, senza fretta, sfiorammo il materasso con le gambe dopo aver vagato alla cieca lungo tutto il corridoio e buona parte della camera da letto, e semplicemente ci lasciammo cadere lì come foglie – continuò a guardarmi a quel modo sbottonando la mia camicia, scivolandomi addosso con i polpastrelli, sfilando la cintura dai jeans dopo averla sfibbiata. Continuò a guardarmi a quel modo anche quando rimasi completamente nudo fra le sue mani, come avesse paura che potessi improvvisamente trasformarmi in qualcos’altro o scomparire in una nuvola di vapore.
Continuò a guardarmi e lo guardai anch’io. E quando i suoi occhi incontrarono i miei, lui sorrise appena, imbarazzato, chiedendomi se mi stesse dando fastidio, se fosse troppo lento o troppo veloce. Capii che voleva essere rassicurato, ma non potevo realmente dirgli che nonostante i movimenti maldestri era così perfetto da farmi pensare avesse studiato quei momenti nel dettaglio per fare in modo che si adattassero perfettamente ai miei desideri.
Adoravo che mi guardasse in quel modo, adoravo che i suoi occhi irradiassero quel tipo di venerazione che riservi alle cose nuove che trovi stupende al punto da toglierti il fiato. Adoravo che mi toccasse piano, lievemente, come fosse spaventato.
…adoravo che mi toccasse.
E no, non potevo dirglielo, perché erano solo dieci ore e qualcosa che ci conoscevamo. Ed anche se per lui non sembrava passato troppo poco tempo per mettersi nelle mie mani in quel modo, per me era ancora troppo, troppopresto.
Mi limitai a sollevarmi sui gomiti e baciarlo, attirandolo a me con una mano sulla nuca, sperando che decidesse di lasciare da parte le insicurezze e si lasciasse un po’ andare.
Lo fece.
Affondò con un sospiro sollevato il viso nell’incavo fra il mio collo e la mia spalla, baciandomi lievemente in una scia bagnata e morbida che viaggiava verso il petto. Sembrava stesse seguendo una mappa ideale, toccando tutti i punti più sensibili del mio corpo, come volesse registrare le mie reazioni e imparare a muoversi nel modo giusto.
Come si stesse preparando ad altre milioni di volte.
E nessuno dei sospiri che mi sfuggirono dalle labbra, nessun ansito, nessun gemito, nessun movimento improvviso del mio corpo, nessun accenno di spinta verso di lui, niente fu falso, non simulai niente, non forzai nulla solo per compiacerlo; e quando mi morsi le labbra per non urlare, fu solo perché se non l’avessi fatto avrei urlato davvero; e quando mi aggrappai alle sue spalle per non cadere, fu solo perché se non l’avessi fatto sarei caduto davvero; e quando lui mi si strinse addosso, e chiamò il mio nome mentre veniva, io chiamai il suo. E non fu perché durante il sesso sono cose che si fanno. Fu perché lui era lì. E stava godendo per me, con me, dentro di me. Ed io facevo lo stesso. E ringraziarlo – per tutto, tutto – era davvero il minimo che potessi fare.

***

Vedevo i suoi occhi. Erano limpidi al punto da risplendere anche al buio. La luce della luna filtrava dalla finestra spalancata e lui mi guardava, perché quell’azzurro chiaro e brillante era fisso su di me. Mi guardava, appoggiato con i gomiti al cuscino, il busto sollevato, mi studiava come se fossi stato un’insolita opera d’arte caduta sul suo letto…
-…cosa?- mormorai alla fine.
Sorrise, penso, perché il suo sorriso fece un rumore divertente, come uno sbuffo leggero di fiato. Per un momento gli occhi si chiusero e poi tornarono a guardarmi.
Ma non mi ripose.
-Matt.- chiamai a bassa voce, sorpreso io per primo di come fosse stato facile prendere confidenza con un diminuitivo. Come se fossimo amici da sempre. Amanti da tutta la vita. Respirai e sollevai lo sguardo a ricambiare il suo attraverso la penombra. Mi chiesi se anche i miei occhi riuscivano ad essere così limpidi al buio- Che intenzioni hai adesso?
Non so perché glielo chiesi, ma immagino avesse a che fare con la consapevolezza che lui non sarebbe mai riuscito a rivolgermi quella domanda. La mia risposta la conoscevo già, volevo che tutto quello fosse più di una notte. La sua mi rigirava in testa dandomi un leggero capogiro, come se avessi le vertigini e rischiassi da un momento all’altro di cadere giù.
-Serie.- mi rispose lui come se stessimo discutendo di una cosa perfettamente ordinaria. Del tempo. Del tour. Dei progetti per il giorno dopo. Poggiò la guancia su una mano e mi fissò con il viso inclinato, aspettando.
Divenne urgente assicurarmi che avesse capito davvero.
-Sai di cosa sto parlando, Matthew?- ribadii, sentendo il mio tono alzarsi impercettibilmente, dandomi l’esatta misura dell’ansia che mi agitava. Annuì per interrompermi, ma non lo feci lo stesso.- Sto parlando di stare insieme. Sto parlando di sopportarci l’un l’altro ogni volta che uno di noi due starà male, che avrà voglia di urlare, di rendersi impossibile ed insopportabile. Sto parlando di dormire assieme e svegliarsi assieme la mattina dopo, sto parlando di imparare a capirsi anche quando non si parla, di riuscire ad intendere i silenzi anche quando si fanno pesanti, di superarli nonostante non se ne abbia la voglia. Sto parlando di dire al mondo che tu sei me ed io sono te, di ammetterlo davanti ai nostri amici, di farlo accettare a loro ed a chiunque altro e…
-Stai parlando troppo.- mi mormorò lui, piano.
Lo disse in un modo tanto quieto da zittirmi. Un tono fioco e sottile, che non perse di forza per essere così labile, ma acquistò di gentilezza e di delicatezza nell’infilarsi tra le mie paure ed i miei dubbi.
Sentii un nodo serrarmi la gola comunque, e somigliava fin troppo ad un pianto trattenuto.
-Tu mi hai chiesto che intenzioni io abbia, ed io posso risponderti solo su questo.- mi spiegò pacatamente lui- E ti rispondo che le mie intenzioni hanno a che fare con il non lasciarti uscire da qui per non tornare più.- ammise stringendosi nelle spalle- Il resto non lo so, Brian, e nemmeno me lo chiedo ora come ora.
Vorrei chiedermelo io per tutti e due…
Ed invece rimasi a fissarlo, le labbra schiuse su una frase che non ho mai detto. E, invece di chiedermelo per entrambi, ho smesso del tutto di farlo.
Ricordo che il mattino dopo quando mi svegliai ancora tra le sue coperte, lui era già uscito. Lo scoprii dopo un po’, quando tornò in camera da letto, vestito di tutto punto, con un vassoio e con i croissant appena sfornati ancora in un pacchetto. Risi, perché mi sentivo idiota nel ritrovarmi ad avere un uomo che mi portava la colazione a letto. Lui rise con me, rendendosi conto che era davvero ridicolo. Ma poi c’era una confusione terribile su quel vassoio, le tazze del caffè rischiarono almeno un paio di volte di cadere e Matt aveva dimenticato – grazie al cielo – sia i fiori, sia la spremuta d’arancia o la marmellata con le fette biscottate, e tutto questo bastò a rimettere le cose in ordine, mentre mi tiravo a sedere e lui si metteva di fianco a me, incrociando le gambe come un bambino e posando il vassoio tra noi.
Non ricordo, invece, di cosa parlammo. Sciocchezze, penso. E già pensare questo mi basta, e non riesco a ricordare altro. Mi basta perché era l’inizio della nostra abitudinarietà, la confidenza che si crea nelle coppie un pezzo alla volta e che è fatta anche di discorsi futili dimenticati subito dopo che si esce dalla porta di casa.
Quando uscii dalla porta di casa sua quel mattino, lui era con me.
Doveva andare agli Studi della Universal, ci salutammo sul portone ed io presi un taxi per farmi riaccompagnare. Sorridevo ancora quando scesi dall’auto ed attraversai la strada.
-Brian!
Sollevai lo sguardo, abbastanza stupito. E se già dovevo trovare assurdo sentire la voce di Stefan a quell’ora del mattino davanti casa mia, fui ancora più stupito quando me li ritrovai lì entrambi. Stef a braccia conserte sul petto e con un’espressione tutt’altro che amichevole in faccia e Steve che mi guardava divertito.
-Che accidenti ci fate qui?- chiesi d’istinto.
-Che accidenti ci facevi tu fuori casa?!- strillò Stefan furioso- E perché diamine sei vestito come ieri?! E soprattutto, dove accidenti sei finito ieri?!
Sbattei le palpebre, realizzando che era palesemente preoccupato per me.
-Stef, ho trentacinque anni…- feci notare.
-E non sei capace di badare a te stesso, è evidente!- strepitò lui senza neppure ascoltarmi.- Ti abbiamo cercato tutta la notte! Eravamo in pensiero per te! Potevi almeno…che so! fare una telefonata! O quanto meno rispondere al telefono!
Tirai fuori dalla tasca del cappotto il cellulare e mi accorsi che effettivamente mi avevano chiamato più volte.
-Ahah- registrai indifferente.- Sono vivo. Posso andare a dormire?- chiesi educatamente.
-Avresti già dovuto essere a dormire!- ci tenne a specificare lui.- Avresti dovuto aprire la porta in pigiama, urlare contro di noi che le dieci del mattino non sono un orario accettabile per essere svegliati e poi invitarci ad affogarci in un caffè!
-Hai di me una visione orribile.- notai perplesso.
-Non c’entra!
Scrollai le spalle, infastidito dal protrarsi inutile di quella discussione.
-Comunque io sono già affogato in un caffè per stamattina.- ammisi semplicemente, tirando fuori dalla tasca anche le chiavi per aprire il portone.- A casa di Matt.- specificai.
Stefan mi fissò come se non potesse credere che fossi proprio io, vivo, vegeto ed in carne ed ossa, davanti a lui. Steve si accodò a lui per un momento. Poi scoppiò a ridacchiare come un ragazzino – ed io lo seguii praticamente subito – e commentò.
-Allora era vero…
Stefan si voltò verso di lui, continuando a mantenere la stessa espressione sconvolta.
-Non dire “allora è vero” come se fosse una cosa normale…- lo pregò in un soffio strozzato.- Brian!- chiamò poi, voltandosi. Sbuffai e mi feci spazio per andare ad aprire- Cos’è questa storia? Vi hanno visti tutti al party ieri sera, ma io non posso credere che davvero tu e Bellamy…- non finì la frase, come se la sola idea fosse inconcepibile. Aprii il portone appoggiandomici con la schiena e li guardai, invitandoli silenziosamente ad entrare- Insomma, voi due vi odiavate fino a ieri!-mi ricordò alla fine.
Ci pensai su, spingendo il portone finché non urtò contro il muro, e rimasi lì appoggiato aspettando che loro sfilassero davanti a me.
-No, ci sbagliavamo tutti su quello.- spiegai quindi.
Steve rise di nuovo, facendo risuonare tutto l’atrio del palazzo, provai a dirgli di piantarla, ma siccome lo feci ridendo anch’io non servì a molto. Stefan invece mi guardò. Mi guardò attentamente per un bel po’ di tempo. Poi non disse più nulla e seguì Steve fino all’ascensore.
 

***

 
Nota di fine capitolo della Nai:

…bah.
E’ il concetto che credo renda meglio il perché di questa storia.
Giusto per dovere di cronaca, comunque, dico subito che il titolo è rubato a parte del titolo – chilometrico – con cui il Sig. Molko ha identificato una “graziosa” rassegna fotografica da lui realizzata durante il tour.
Il titolo completo è perfino più deprimente del pezzetto scelto! ^_^
Al momento l’unico “perché” della scelta è dato dal fatto che mi piacesse l’idea di un Brian Molko che dichiara al mondo di essere stato preso in trappola in una bottiglia. Come un genio o un folletto.
Ma sto divagando e, siccome devo lasciare spazio alla Liz per la sua nota di fine capitolo, mi interrompo qui.
Spero che vi sia piaciuto, avevo bisogno di zucchero e questa storiella a capitoli – leggera ed inconsistente – è zucchero e poco altro. Un po’ di sano romanticismo ogni tanto fa bene al cuore *_*
Inoltre sono così felice che la Liz abbia deciso di assecondare questa follia e collaborare alla sua realizzazione che penso piangerò di gioia (ç_ç) e desidero dichiararle pubblicamente il mio eterno amore!!!
Detto questo. Un bacio ed al prossimo capitolo!

Nota di fine capitolo della liz:

…amore a parte è___é Anche io sono molto felice di aver assecondato questa follia e…
…anzi, no, amore a parte il cavolo: questa storia È amore <3 È tipo la personificazione dell’amore romantico come lo intendo io nei miei sogni di gloria *.* Ed è fantastico che la Nai sia riuscita a partorire una cosa simile… peraltro tutta da sola <_< Non credetele, quando mi dà i meriti: la maggior parte delle volte mi arrogo meriti non miei perché lei scrive cose talmente belle che poi mi ispirano a scriverci su dando il massimo ù.ù *sì, in questo consiste il mio aiuto*
Comunque, comunque. Anche se ancora non si vede, per i capitoli futuri avrete di che odiarmi *-* *risata malvagia*
*scompare in dissolvenza*

Genere: Introspettivo, Erotico, Romantico, Triste.
Pairing: Mikey/Gerard, Mikey/Alicia.
Rating: NC-17
AVVISI: Angst, Slash, Lemon, Incest, What If?, (lieve) Underage.
- Alla fine del Big Day Out in Australia, Mikey dice a Gerard che intende sposare Alicia. E Gerard decide di prendersi una vacanza. Con lui.
Note: Sono felicissima di aver finalmente concluso questa fic, perché si parla di una storia nata almeno un paio d'anni fa, che non avevo mai avuto modo (dove per "modo" si intende la concomitanza di tempo, voglia e ispirazione) buttare giù decentemente, se non per il primo paio di pagine che risale più o meno a poco dopo il plottaggio, per il quale devo ringraziare tantissimo la Fae, che ha colmato le mie lacune e ha coccolato la trama con me fino a che non è stata finalmente definita e, più avanti, conclusa ♥
Che dire, le sono incredibilmente affezionata, perché a questi due io vu bi in modi che fino a qualche tempo fa non avrei mai creduto possibili XD Miracles happen, di tanto in tanto. E soprattutto grazie alla Maritombola @ maridichallenge, che ha fornito il prompt attorno al quale la storia è riuscita a girare.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE LAND DOWN UNDER
"But it's time to face the truth, I will never be with you." (You're Beautiful, James Blunt)

Il villino è la costruzione più squallida su cui Mikey abbia posato gli occhi da che è in vita. È bianco e quadrato e anonimo e sembra così spaventosamente triste, a guardarlo dal vialetto che sta percorrendo con sommo disinteresse, che la già poca voglia che ha di passare lì dieci giorni si annulla del tutto, e nemmeno la presenza di Gerard – che si muove nervoso e confusionario come sempre quando è di fronte ad una prospettiva che lo esalta – riesce in qualche modo a consolarlo per aiutarlo a non lasciarsi prendere da quella botta di tristezza che lo sta assalendo.
- Hai visto? – chiede Gerard affiancandoglisi, sommerso di borsoni, - Si vede il mare anche da qui!
Mikey risponde con un sorriso un po’ smorzato. Non che il mare non gli piaccia, non che Gerard non gli piaccia, non che l’idea di passare un po’ di tempo con lui da solo lo irriti, è solo che si sente inquieto, soprattutto se ripensa al modo in cui Gerard ha preso la notizia del fidanzamento con Alicia. Cioè come se la cosa non l’avesse minimamente turbato.
Sa perfettamente che una cosa simile non dovrebbe disturbarlo. Quando vai da tuo fratello e gli dici che intendi sposare la donna di cui ti sei innamorato, ciò che vuoi sentirti dire somiglia più o meno ad un “congratulazioni”. Magari ti aspetti una bella pacca sulla spalla, un abbraccio sincero, pure una birra offerta al prossimo giro, se siete in un locale.
Da Gerard lui non si aspettava niente del genere, perché Gerard è la persona che non ha fatto che trascinarselo dietro ovunque per tutti i ventisei anni della sua esistenza, Gerard è la persona con la quale ha condiviso tutti i momenti più importanti della sua vita, Gerard è – soprattutto e sfortunatamente – la persona con la quale ha condiviso perfino il letto. Almeno fino ad Alicia.
È difficile trovare un punto d’inizio alla sua storia con suo fratello, e questo è abbastanza ovvio contando che, tanto per cominciare, le storie coi fratelli non dovrebbero mai averne, di inizi. Tanto per continuare, comunque, la sua storia con Gerard è stata una storia fatta di attimi sparsi nel tempo – troppo sparsi per poter trovare loro una coerenza temporale, in effetti. Mikey fa fatica per questo: può considerare l’inizio la prima scopata, la prima volta che suo fratello l’ha toccato fra le gambe, il loro primo bacio, ma l’inizio potrebbe tranquillamente essere stato la prima volta che si sono sfiorati nel lettino, quand’erano due minuscole pallotte di ciccia e guance, o ancora prima, la prima volta che Gerard ha accostato l’orecchio al ventre di sua madre e l’ha sentito scalciare.
È difficile trovare un inizio alle storie infinite, ed è per questo che Mikey nemmeno ci prova – non c’ha mai provato, a dare un senso a ciò che c’è, c’è stato, ci sarà, chissà, fra lui e suo fratello. È un dato di fatto, ne prendi nota, resta lì in sottofondo per tutto il resto della tua esistenza e come ogni situazione ha i suoi momenti caldi, i momenti in cui non vedi altro, e i suoi momenti freddi, i momenti in cui preferiresti vedere qualsiasi altra cosa, e perciò quel particolare lo ignori a prescindere.
Credeva di essere finalmente entrato in un periodo freddo, ma non aveva fatto i conti con la possibilità che invece Gerard fosse ancora caldo. Più che caldo, caldissimo. Caldo almeno come l’afa che attanaglia questo paesino di mare dal nome stupido che Mikey non vuole ricordare – Australia, cazzo, chi l’avrebbe mai detto. Australia. Quando erano arrivati in gennaio, tutto aveva pensato meno che poi sarebbe stato costretto a restare lì fino a fine febbraio. All’inizio del mese avevano già concluso il mini-tour, a lui era sembrato un ottimo momento per andare da Gerard e, semplicemente, dirglielo. Anche per evitare drammi una volta tornati a casa, poteva lasciarlo passare come una notizia poco importante, insomma, qualsiasi cosa. Era andato da lui e gliel’aveva detto. “Io e Alicia ci amiamo. Vorrei sposarla. Lo vorrei davvero.”
La reazione di Gerard era stata a metà fra assurda e insopportabile, perfino irritante. “Aha,” aveva detto, con aria disinteressata, “D’accordo”. E poi aveva semplicemente aggiunto “Ce li facciamo dieci giorni al mare? Solo tu ed io, in memoria dei vecchi tempi,” come non c’entrasse niente con tutto quello che aveva detto fino a quel momento. Fermo restando che Mikey non ricordava dei “vecchi tempi” che comprendessero lui e suo fratello da soli in una qualsivoglia località balneare, sul momento era rimasto troppo stupito da quella richiesta per mettersi anche a contestarla. E d’altronde non era mai davvero capitato che lui riuscisse a dire “no” a Gerard – non l’aveva mai nemmeno voluto – perciò il vederli restare in Australia mentre tutti gli altri tornavano negli Stati Uniti non aveva stupito nessuno.
Non riesce a stupire nemmeno lui, per quanto – a rigirarsi il concetto nella testa: lui, Gerard, mare, dieci giorni, da soli, checcazzo? – si renda perfettamente conto dell’assurdo. Lui, Gerard, mare. Tutto il resto. Checcazzo.
- Be’, non è così male. – commenta Gerard, sbirciando dalla soglia l’interno della casa. Non è così male, dice lui. Mikey si avvicina e sbircia a propria volta, posando lo sguardo su uno spazio ampio e drammaticamente vuoto, occupato a stento da un paio di divani coperti da teli bianchi, un tavolino senza teli ma ugualmente coperto da uno strado di polvere spesso chissà quanti cazzo di millimetri, e una specie di totem di teli – sempre bianchi, o almeno di quel colore opaco che è il bianco quando bianco non è più – sotto al quale probabilmente riposa un televisore che chissà da quanto tempo non viene acceso ed è per questo motivo quasi sicuramente inutilizzabile. Perfetto, ottimo inizio. Non è così male, dice Gerard, e Mikey soffia un po’, insoddisfatto, come un dannato gatto.
- Gee… - si lagna, stringendo fra le mani i manici dell’unico borsone che s’è preso la briga di trascinare stancamente fino a lì, - È sporco!
- Possiamo pulire. – scrolla le spalle sbrigativo lui. Entra risolutamente in casa e tira via la copertura ad uno dei divani, salvo poi rischiare di morire soffocato per la quantità semplicemente illegale di polvere sollevata nell’aria. Mikey lo osserva inarcando un sopracciglio, senza riuscire a trovare il coraggio di oltrepassare la soglia. – Oppure! – propone Gerard, gettando sul pavimento il telo dopo essersi ripreso, - Possiamo chiamare una squadra di artificieri che lo rendano di nuovo un posto vivibile. – prova ad ironizzare, cercando un sorriso sulle labbra di Mikey. Il sorriso non arriva, e Gerard abbassa lo sguardo.
- Gerard… - lo chiama in un mugolio insoddisfatto, - Perché siamo qui? Potevamo tornarcene a casa e-
- E io non volevo. – taglia corto lui, abbandonando tutti i borsoni lì per terra dove sono e cominciando ad esplorare l’appartamento. Che è pure piccolo, in fondo, e non è neanche veramente malconcio, è solo che si nota così tanto che non è mai stato utilizzato, o che comunque non lo è da molto tempo, che sembra davvero inquietante. Non ci sono crepe nell’intonaco, né macchie di umidità alle pareti, solo polvere, polvere ovunque, qualche ragnatela, è un posto perfino affascinante a volerlo vedere da una certa angolazione che – Mikey ne è sicuro – Gerard apprezzerebbe moltissimo. Solo che non è quella l’angolazione dalla quale vuole vederlo lui in quel momento, e di fare lo sforzo per infilarsi nei panni sempre scomodi di Gerard non ha la minima voglia, al momento. Perciò niente, è irritato, si sente appiccicoso e in generale molto poco amato. E non può nemmeno dirlo a Gerard.
- Ho… - comincia un po’ incerto, posando il borsone all’ingresso e tirandosi la porta alle spalle, seguendo Gerard in cucina, o almeno nell’ambiente semivuoto dotato di fornelli che dovrebbe essere la cucina, - ho rovinato tutto, vero? Eri felice, prima che-
- Guarda che sto benissimo anche adesso. – lo interrompe sbrigativo Gerard, dimostrando di non essere felice per niente.
- Gee… - lo richiama lui, massaggiandosi stancamente le tempie, - Se c’è qualcosa che non ti va giù riguardo a… ad Alicia e a tutto il resto, possiamo parlarne, sai? Venirne fuori. Sei mio fratello e-
- E non ho la minima voglia di parlare di quest’argomento. – conclude Gerard con un mezzo sorriso, spalancando il frigorifero e ficcando la testa all’interno per verificare che sia funzionante, cosa che ovviamente non è. – Cerchiamo la spina, dev’essere da queste parti. – aggiunge poi, con una certa curiosità scientifica. A Mikey viene voglia di chiedergli se ne sia proprio certo, ma lascia perdere, preferendo concentrarsi su un’attività meno stancante del cercare il dialogo con un fratello che non vuole parlare, fosse anche mettersi alla ricerca di una stupida spina per accendere uno stupido frigorifero.
La trovano abbandonata sul pavimento, lateralmente. È Gerard a infilarla nella presa, senza neanche pensarci un paio di volte. Potrebbe essere rovinata, sporca, bagnata, qualsiasi cosa, potrebbe esplodere tutto nel momento esatto in cui la corrente passerà nel tentativo di accendere il frigo, e della cosa Gerard non si cura minimamente, così come in genere non si cura delle devastazioni che impone nelle vite degli altri per il solo fatto di essere com’è – un casino ambulante incapace di gestirsi e gestire gli altri quando dipendono da un suo gesto. Mikey sospira mentre il frigorifero si accende e Gerard batte le mani, soddisfatto.
- Recupera la frigoborsa! – dice entusiasta, - Mettiamo in fresco panini e birre per la sera e domani scendiamo in paese a fare la spesa, che ne dici?
- Dico – sospira Mikey, ubbidendo, - che anche se ti dicessi di no troveresti il modo di trascinarmici, giù in paese. Perciò okay. – conclude con un sorriso che è il primo sincero della giornata, e che Gerard ricambia con sincerità gemella.
Il momento di euforia dura dieci minuti, perché dieci sono i minuti che servono per prendere la frigoborsa dall’ingresso, svuotarla senza un ordine preciso all’interno del frigorifero e poi stabilire che comunque, per quella giornata, non c’è molto altro da fare, perciò tanto vale svaccarsi sul divano e cercare di capire se il televisore possa servire a qualcosa o stia lì solo per bellezza.
Liberandolo dai teli, scoprono che, anche se non funziona, è impossibile dire di quel catorcio risalente all’anteguerra che sia lì per riequilibrare i livelli di bellezza del mondo. Mikey scruta con attenzione il divano che, telo a parte, non sembra in condizioni veramente pietose, e vi si lascia cadere sopra con un tonfo mentre Gerard litiga col televisore, picchiandolo sulla testa o sui fianchi e maneggiando l’antenna enorme che lo sovrasta prima di pigiare tasti a caso sul controller appena sotto lo schermo, nel tentativo di sviluppare della vita nel catorcio per, boh, sfregamento o chissà che altro.
La spina è a posto, attaccata e tutto. Il catorcio non funziona perché è vecchio, e Mikey non riesce a trovare divertente suo fratello che continua a picchiarlo nel tentativo di risvegliarlo a cazzotti, perché è troppo irritato da tutto il resto. Gerard è carino, continua a fare battute stupide e parla col televisore come se quello potesse sentirlo, e in una qualsiasi altra situazione Mikey riderebbe e gli andrebbe accanto e lo trascinerebbe lontano dal problema e poi miagolerebbe per farsi offrire un gelato – salvo poi doverlo comunque pagare lui perché Gerard ha dimenticato il portafogli negli altri jeans e Gerard generalmente dimenticherebbe pure di respirare, se non fosse un gesto automatico – ma in questo momento non ci riesce. In questo momento, Mikey guarda suo fratello litigare con una scatola vuota che ha almeno il doppio dei suoi anni e non può fare a meno di odiarli entrambi, e di sentire il bisogno fisico di scappare via il più lontano possibile.
Si alza dal divano con un gesto irritato e repentino, scrollandosi un po’ di polvere di dosso non perché ce ne sia ma perché la sente, e questo è ancora più fastidioso.
- Mi sono rotto le palle. – ringhia furioso, - Vado a farmi un giro.
Gerard lo guarda come fosse pazzo.
- Ma non conosci il posto. – obietta. Mikey reprime a stento il desiderio di mandarlo a fanculo.
- Sono maggiorenne, parlo inglese, posso sopravvivere in questa landa desolata senza che un canguro mi rapisca o un coccodrillo mi mangi le scarpe, Gee, ti pare? – risponde senza nascondere l’astio, e Gerard aggrotta le sopracciglia, mentre torna a colpire il televisore come se la causa di tutti i suoi mali fosse quella.
- Fai un po’ come vuoi. – sibila fra i denti.
- È esattamente quello che intendo fare. – risponde seccamente Mikey, ed è fuori di casa due secondi dopo, anche se tutto quello che riesce a fare per i primi cinque minuti è guardarsi intorno con aria persa, chiedendosi da che lato debba scappare uno quando il problema è che sta scappando da se stesso, prima ancora che da qualcun altro.
Prende una direzione qualsiasi, supponendo che l’una valga l’altra. Gira attorno al villino ed osserva aprirsi davanti ai suoi occhi una distesa di scogli gettati lì disordinatamente in un pendio piuttosto ripido verso il mare. Sono tutti enormi, più chiari in prossimità dell’inizio della pendenza e poi via via sempre più scuri man mano che vanno avvicinandosi al mare. Le onde li accarezzano con gentilezza, l’acqua canta passando fra le fessure frastagliate fra una roccia e l’altra, e Mikey sente immediatamente il proprio spirito placarsi. Si sente quasi fisicamente raffreddarsi, ed è una sensazione rassicurante sia perché fino a pochi secondi fa era tanto caldo da essere a un passo da un’esplosione, e sia perché lo tranquillizza rendersi conto di quanto poco gli basti, ancora, per tornare sereno.
Si inerpica agilmente giù lungo il sentiero stretto e inospitale che porta verso quella paurosa imitazione di riva che formano gli scogli ammassandosi l’uno sull’altro in prossimità dell’acqua, e tasta la superficie di ogni roccia per trovarne qualcuna che possa essere vagamente comoda. Quando la trova, si siede, raccogliendo le ginocchia al petto e guardando l’orizzonte senza riuscire a distinguerlo da tutto il resto. Il cielo è grigio, carico di nubi basse e pesanti formate dall’umidità che per tutto il giorno è salita dal terreno, ed il mare ha preso lo stesso colore, riflettendolo sulla propria superficie trasparente. Si diverte a prenderlo in giro. In questo momento, il mondo non ha confini. In questo momento, non esistono regole e nessuno può infrangerle. Nessuno può sbagliare.
Chiude gli occhi e sente il profumo di Gerard. Pensa che sia scorretto ad arrivare proprio adesso che non riuscirebbe ad appigliarsi a nulla per mandarlo via. Lo sa che non l’ha mica fatto apposta, ma allo stesso tempo invece è convinto che il suo apparire proprio adesso sia stato premeditato, perché suo fratello intuisce i suoi stati d’animo anche a distanza, quasi se li sente addosso, per cui non poteva non sapere che presentandosi proprio ora non sarebbe mai stato rifiutato.
Apre gli occhi e si volta a guardarlo con stizza, le sopracciglia aggrottate e le labbra arricciate in una smorfia infastidita, ma tutta la sua rabbia svanisce in un soffio quando vede Gerard e il suo sorriso piccolo, quasi timido, a solo un passo da lui. Ha in mano una bottiglia di birra e gliela tende come un’offerta di pace. Mikey sospira e gli fa posto sullo scoglio, accettando l’offerta e bevendone qualche sorso mentre suo fratello rotola al suo fianco, cercando goffamente di trovare una posizione comoda in una profusione di lagne e “ma cazzo, quanti spigoli ha questo coso?” che riesce quasi a farlo ridere. Quasi.
- Non voglio rovinare la vacanza. – dice Gerard, avvicinandosi quasi di soppiatto, come avesse paura di farlo fuggire via in un balzo come fanno i gatti quando si sentono minacciati. – Avevo solo voglia di stare un po’ con te.
- Perché? – chiede lui di rimando, e quando vede un’ombra di tristezza calare sul volto di suo fratello si affretta a riformulare la frase, stringendosi imbarazzato nelle spalle. – Intendo, non è che non ci rivedremo più, quando saremo a casa. O quando… sarò sposato, Gee. – sospira stancamente, - Cristo, lavoriamo insieme. Abbiamo una band insieme, è la cosa più grande e importante che ho. Non puoi davvero pensare che non ci vedremo più, non andrà così.
Gerard sorride appena, la tristezza non abbandona il suo volto nonostante tutte le rassicurazioni. Allunga una mano ad accarezzargli il viso, le sue dita sono ancora fredde e umide per aver tenuto la bottiglia di birra che ora e stretta nella sua mano.
- Non vuoi proprio capire, eh? – scuote il capo, allungandosi a poggiare le proprie labbra sulle sue. È il contatto più ravvicinato che hanno avuto da quando Mikey gli ha detto che lui ed Alicia si sposeranno, e gli basta questo per andare a fuoco di nuovo. Gli basta, per sentirsi di nuovo sul punto di esplodere.
Gerard se lo tira addosso in un gesto spiccio, schiudendo le labbra sulle sue ed accarezzando la sua lingua con la propria, mentre allunga le gambe in cerca di un appiglio qualsiasi per alzarsi in piedi, o semplicemente muoversi con più agilità nonostante il terreno accidentato. Impreca, perché naturalmente di appigli simili non ce ne sono, non lì, non abbastanza vicini da poterli sfruttare in questo momento, perciò è costretto ad arrangiarsi, sollevandosi sulle ginocchia per avvicinarglisi il più possibile, premersi contro di lui e stringerlo alla vita. Mikey ride senza fiato, facendogli posto fra le gambe. Attraverso il velo di voglia che gli offusca la vista, tutto sembra ancora più sfocato di quanto non fosse prima. Il paesaggio è ancora più uniformemente grigio, senza spigoli nonostante quelli che sente premere dolorosamente sotto il sedere mentre Gerard lo sdraia fra uno scoglio e l’altro e lo spoglia sommariamente, per non esporlo troppo agli aspri rilievi della roccia, e all’improvviso è come se non fossero solo i confini ad essere spariti, ma il mondo stesso. Non c’è altro che un’infinita, morbida distesa di grigio, è come essere adagiati sulle nuvole. Non può essere la birra a farlo sentire così, ne ha bevuta troppo poca. È Gerard. È Gerard che gli dà tutto questo. Gerard è l’unica persona al mondo in grado di regalargli l’universo toccandolo, un universo in cui il dolore non esiste, e lui è sul punto di rinunciare consapevolmente a questa cosa, per amore di una donna.
Si stringe con forza attorno a lui e Gerard geme sul suo collo. Mikey sente le sue dita serrate attorno alla propria erezione e sa che questi sono solo attimi. In gioco, con Alicia, c’è una vita intera. Non potrebbe averla con Gerard, e non può pensare di trascinare per anni una vita vuota solo per gli istanti di paradiso che suo fratello gli mostra quando gli mette le mani addosso. Apre gli occhi e lo guarda, Gerard è altrove, perso dentro di lui, il luogo che gli piace di più al mondo. Chissà cosa vede lui quando lo tocca, chissà cosa gli mostra. Deve valerne la pena, se si aggrappa a lui con tutta questa forza.
Mikey trattiene il respiro venendo fra le sue dita e continuando ad andargli incontro in movimenti dapprima lunghi e lenti, poi sempre più veloci, fino a che Gerard non si riversa con un gemito strozzato dentro di lui, mordendo la pelle tenera appena sotto l’orecchio. Mikey lo sente singhiozzare ma non vuole vederlo piangere. Lo tiene stretto contro di sé per nasconderlo fino a quando non ha finito.
*
«Dobbiamo stare attenti» gli dice Gerard, premendoglisi addosso nel lettino. Ha diciassette anni. Mikey ne ha tre di meno. Si sente febbricitante e già da dieci minuti – da quando, cioè, le mani di suo fratello si sono infilate discretamente oltre l’orlo dei pantaloni del suo pigiama – che non capisce più un accidenti. La stanza è immersa nell’oscurità, e Mikey non vede a un palmo dal proprio naso. Non riesce neanche a distinguere l’ombra più scura della sagoma di suo fratello. Tutto ciò che sente è il suo profumo, e il calore del suo corpo. «Se ci sentono, sono guai.»
«Gee…» lo chiama in un gemito lamentoso, senza riuscire ad impedirsi di spingersi in gesti bruschi e concitati nel pugno stretto attorno alla propria erezione, «Non si fa» mugola, e si sente così infantile nel dirlo che si pente di non essersi limitato semplicemente a pensarlo.
Gerard si ferma solo per un attimo, e lo guarda. Mikey capisce che lui riesce a vederlo, perché è un’operazione che dura secondi interi e Mikey non può davvero pensare che suo fratello stia fissando così a lungo il buio.
«E chi l’ha detto?» chiede Gerard, anche se la sua, più che una domanda, è una dichiarazione d’intenti. Mikey ha l’impressione di intuire che c’è qualcosa che non va, in questa frase, un errore di base, un meccanismo che s’inceppa, che suo fratello ignora e che invece nella sua testa stride fastidiosamente. Ma due secondi dopo Gerard ha già ripreso ad accarezzarlo, e Mikey non riesce più a pensare.


Apre gli occhi sul soffitto sopra al letto. È una distesa di bianco uniforme. Suo fratello gli sta premuto addosso contro un fianco ed ha un braccio stretto attorno alla sua vita. È un po’ più in basso rispetto a lui, il cuscino riesce a raggiungerlo solo con la sommità della testa e per lo più sta appoggiato sulla curva rotonda ma palesemente scomoda della sua spalla. Comunque, non si lamenta, ed è sveglio. Mikey sente freddo ovunque, tranne che sulla superficie che lui copre. Nota che non c’è neanche il balcone aperto. Si volta su un fianco, raggomitolandosi contro di lui, e Gerard lo avvolge immediatamente in un abbraccio gigante, riscaldandolo tutto.
- Fuori piove. – lo informa dolcemente, posandogli un bacio morbido sulla fronte.
- Ecco da dove arriva il freddo. – si lagna Mikey, stringendoglisi contro.
- Mh? Non c’è freddo. – dice Gerard, frizionandogli comunque le braccia e la schiena con le mani, - Non ti senti bene?
- …non lo so. – risponde sinceramente Mikey, voltandosi sulla schiena e tornando a fissare il soffitto. Suo fratello gli si arrotola nuovamente addosso come non fosse cambiato niente. – Tu come stai?
- Bene. – ride Gerard, premendogli il naso, - Sei strano.
- Lo so. – annuisce lui, sospirando pesantemente. – Gerard, quando torniamo a casa? – chiede, girandogli addosso un’occhiata supplice. Gerard sbuffa, nascondendo il volto nell’incavo del suo collo.
- Mikey, me l’hai chiesto tre ore fa… - si lamenta, - Manca ancora una settimana. Non ti stai divertendo?
- Non stiamo facendo niente, Gee. – gli fa presente, sfiorandogli una tempia con le labbra, - Come si fa a divertirsi così? Non facciamo niente dalla mattina alla sera.
- Io non voglio fare niente. – ribatte Gerard, cupo, - Voglio solo stare con te.
Mikey si morde un labbro per impedirsi di dirgli che è esattamente questo il problema. Non ce n’è nessun altro. È solo per questo che Gerard è così terrorizzato dall’idea – folle – di perderlo. Perché non gli interessa nient’altro. Perché se gl’interessasse una qualsiasi altra cosa, l’idea di poterlo perdere lo preoccuperebbe, lo renderebbe triste, lo ferirebbe addirittura, ma non lo manderebbe fuori di sé dal dolore, non lo costringerebbe a chiudersi a riccio attorno al suo corpo per impedire di lasciarselo sfuggire dalle dita se non dopo una lotta lunga ed estenuante. Per entrambi.
- Gee… - prova a chiamarlo, ma lui reagisce subito tirandosi a sedere repentinamente, stizzito.
- Ho capito. – borbotta scivolando giù dal letto e mettendosi addosso un paio di pantaloni presi a caso dal mucchio di vestiti aggrovigliati sulla sedia accanto al letto, - Ti lascio un po’ da solo.
Mikey lo osserva avvicinarsi al balcone e spalancarne le imposte, guardando di fuori per qualche secondo con aria cupa e incerta prima di avventurarsi all’esterno. Adesso il rumore della pioggia è molto più forte, scrosciante. Il vento che invade la stanza è forte, ma tiepido. Mikey non s’è mai sentito addosso una carezza simile.
Si alza a propria volta, cercando un paio di pantaloni anche per sé. Non ne trova di propri, perciò ne prende in prestito un paio di Gerard. Gli vanno talmente larghi che gli tocca perfino mettersi una cintura, prima di potersi permettere di uscire.
Gerard è immobile, appoggiato alla balaustra della terrazza, i capelli corti appiccicati al viso e i pantaloni già fradici. La pioggia non sembra infastidirlo minimamente. Mikey deglutisce perché sa che, quando sarà bagnato da capo a piedi come lui, sentirà tanto di quel freddo che comincerà a battere i denti, ma questa consapevolezza non è abbastanza per convincerlo a fermarsi, e un paio di secondi dopo è appoggiato alla balaustra accanto a suo fratello, e guarda il mare agitato a qualche metro di distanza con gli stessi occhi oscurati dal disagio.
- Gee, mi dispiace. – dice a mezza voce, appoggiando il capo contro la sua spalla, - Non volevo irritarti.
- Non sono irritato. – risponde seccamente lui, ma non si muove. Sta mentendo.
- Va bene. – annuisce Mikey, per non farlo arrabbiare ulteriormente. – Che ti va di fare, allora? – tenta incerto, e Gerard si allontana da lui con uno scatto secco, voltandosi a guardarlo. Mikey gli pianta addosso un paio d’occhi enormi e vagamente terrorizzati. Gerard trabocca di rabbia.
- Non capisci! – strilla gesticolando, - Non capisci un cazzo! Vaffanculo, Mikey. – taglia corto esasperato, rientrando in casa. Mikey resta sotto la pioggia, allibito. Lo sente attraversare tutto l’appartamento imprecando ad alta voce, e quando la porta all’ingresso sbatte sa che è perché è uscito.
I tuoni, sopra – e dentro – la sua testa, si moltiplicano. Le nuvole collidono, il cielo diventa nero anche se non è ancora sera – chissà che ora è – e Mikey sospira, rassegnandosi ad entrare in casa a propria volta. Non ha niente da fare, e se Gerard non c’è non può neanche stare con lui. In un istante, mentre si guarda intorno e vede solo vuoto vuoto vuoto, ha l’impressione di poter cogliere un frammento di ciò che passa per la testa di suo fratello, e gli viene da piangere. Non gli piace. Un tempo, Gerard era pieno di interessi, pieno di cose da fare. A stargli accanto non ti annoiavi mai, e per la verità è questo il motivo di base per il quale, da piccini, passavano tanto tempo insieme. A Mikey faceva paura la solitudine della propria stanzetta tappezzata di poster di gente troppo distante da lui per poter contare realmente qualcosa nella sua vita, ma Gerard lo portava fuori, Gerard gli faceva vedere gente. Un tempo era lui quello che non aveva altro, oltre a suo fratello. Questi ruoli adesso si sono invertiti e Mikey non è sicuro di ritrovarcisi a proprio agio.
Si acciambella sul divano, afferra il telecomando abbandonato su un bracciolo e preme il pulsante d’accensione della televisione sapendo che non funzionerà.
Invece funziona. In tv c’è un gioco a premi, gente che ride, tutti i loro vestiti sono colorati e il volume smorza il suono della pioggia rendendolo distante, quasi irreale.
Si addormenta in quella stessa posizione meno di mezz’ora dopo.
*
«Mikey, smettila» dice Gerard, la voce carica di sofferenza quasi fisica che gli stringe il cuore. Ha vent’anni. Mikey ne ha sempre tre di meno. Scopano ormai da più tempo di quanto non riescano a ricordare.
«Scusa» geme lui, muovendosi svelto sotto di lui, «Non riesco a fermarmi.»


- Mikey. – lo chiama Gerard. Mikey spalanca gli occhi. La stanza è immersa nel buio, la tv è ancora accesa. Suo fratello è bagnato dalla testa ai piedi. – Hai bagnato tutto il divano e poi ci hai dormito sopra fino ad ora? – gli chiede, sconvolto, poggiandogli una mano sulla spalla e ritraendola subito quando si accorge che così non fa altro che peggiorare la situazione. – Ti prenderai un malanno.
- Tu sei stato sotto la pioggia fino ad adesso. – protesta Mikey, aggrottando le sopracciglia, le labbra che si arricciano in un broncio infastidito. Gerard sorride teneramente.
- Se io mi comporto da stupido, non vuol dire che devi farlo anche tu. – gli dice. – Hai bisogno di una doccia.
Mikey lo guarda da sotto le ciglia, le labbra che tremano. Non vuole dire quello che sta per dire. Però forse sì. In definitiva, lo dice comunque.
- Anche tu. – sussurra, mordicchiandosi l’interno di una guancia, - La facciamo insieme?
Gerard sorride ancora, aiutandolo ad alzarsi. Mikey insegue il ricordo che gli stava facendo compagnia nei suoi sogni ancora per un po’ – cos’è che doveva smettere di fare? Perché Gerard ne soffriva? Perché, pur sapendolo, lui non riusciva a fermarsi? – ma quando le labbra di suo fratello si posano sulla sua nuca in una carezza perfino più calda di quella del getto d’acqua che piove loro addosso dalla doccia, chiude gli occhi e si concede di smettere di pensare.
*
«Non riesco a fermarmi» dice in un singhiozzo strozzato. È per questo che si ferma Gerard. Smette di spingersi dentro di lui e, quando succede, Mikey si sente mancare il fiato, e prende a dimenarsi violentemente sotto il suo corpo.
«Fermo» dice Gerard, afferrandogli i fianchi e scivolando fuori dal suo corpo con un gemito annegato di desiderio insoddisfatto, «Mikey, che cosa c’è?»
«Non lo so» biascica lui, passandosi una mano sugli occhi e sulle guance inondate di lacrime, costringendo gli occhiali a sollevarglisi sulla fronte. Prova a risistemarli poco dopo e geme di dolore. Gli si sono incastrati nella frangetta. Non che faccia poi così incredibilmente male, ma per qualche motivo questa sofferenza infantile lo porta a piangere con più forza, come un bambino infebbrato che trova tutto, anche le più piccole cose, incredibilmente più fastidiose, solo a causa del proprio malessere.
«Mikey!» lo chiama suo fratello, preoccupato, aiutandolo a liberare i capelli incastrati nella montatura, «Mikey, che cos’hai?» e Mikey lo guarda, le luci sono spente anche stavolta, sono spente come sempre, e riesce appena a intuire le sue forme nel buio, oltre il velo di lacrime che lo confonde e lo infastidisce, e—


—quando apre gli occhi sta ancora piangendo. E suo fratello gli sta ancora chiedendo di smetterla. Solo che da quella volta sono passati anni, e Mikey non ne può più.
- Ti scongiuro, dimmi che cos’hai. – geme Gerard, stringendolo nell’abbraccio più caldo e protettivo del mondo. Respira a fatica contro la sua spalla, gli occhi serrati perché non vuole vederlo, non ce la fa. – Mikey, ti prego. Non fare così. Smettila di fare così. Perché fai così? – la sua voce è un sussurro via via sempre più debole. Mikey allarga le braccia e poi le richiude attorno a lui, singhiozzando con forza.
- Perché l’ho sempre voluto anch’io. – gli sussurra sulla pelle, strizzando gli occhi e strusciando il viso contro il suo petto come stesse scavando alla ricerca di un nascondiglio sicuro, - L’ho sempre voluto anch’io e ne ho sempre avuto una paura matta, Gerard. Del modo in cui ti volevo.
Gerard lo stringe a sé, tenendolo così vicino da confonderlo. Il paradiso è lì, fra le sue braccia. Un posto dove tutto è possibile, dove le leggi fisiche – o genetiche – non hanno più alcun valore. Il posto perfetto per loro. E lui non lo vuole.
- Ma ora non più? – chiede dolcemente, con rassegnazione. Il cuore di Mikey si spezza. Fa più male di qualsiasi altra cosa non l’abbia mai ferito in tutto il resto della sua vita. Si spezza in un milione di frammenti appuntiti e taglienti che entrano in circolo e vagano per tutto il suo corpo. Il suo cuore non si spezza e basta. Si spezza e si perde.
- Mi dispiace così tanto. – sussurra disperatamente, appoggiandosi a lui e premendo le dita nelle sue spalle fino a lasciargli addosso i segni, - Mi dispiace, Gee. Ti amo da morire. Ti amo da morire. Ma non lo voglio più. Devi—
- Lasciarti andare. – conclude Gerard per lui, accarezzandogli i capelli. Ora la sua stretta è meno convulsa, meno spaventata. Non lo imprigiona. Lo racchiude e basta. – Devo lasciarti andare.
Mikey annuisce, le labbra che sfiorano la sua pelle ad ogni movimento. Lo bacia ovunque, la spalla, il collo, il viso, la fronte, il naso, le labbra. Gerard non piange. Il suo sorriso fa più male di tutto il resto.
- Ti prego… - singhiozza Mikey dopo un po’, - Vuoi essere il mio testimone di nozze?
Gerard si mette a ridere, ma è ancora senza fiato. Lo stringe ancora fra le braccia, quasi cullandolo.
- Mi vuoi uccidere, Mikey? – gli chiede a mezza voce, e Mikey stringe i pugni attorno alla sua maglietta.
- No. – risponde in un lamento, e non riesce a parlare come se non facesse male ogni singolo minuto più di quanto non è sicuro di riuscire a sopportare. – Ho solo bisogno che sia tu a darmi via. Ne ho bisogno davvero.
- Ma non è vero. – dice Gerard in un sussurro tenero, come stesse spiegando un concetto complicato ad un bambino un po’ scemo, - Sei tu che te ne stai andando.
- Non ho detto che è vero. – insiste lui, appoggiando la fronte contro la sua e tenendo gli occhi chiusi mentre prova a rilassarsi per impedire ai propri stessi muscoli di schiacciargli lo stomaco come se volessero rivoltaglielo al contrario, - Ho detto solo che ne ho bisogno.
Gerard si prende qualche secondo, più che per decidere, per trovare la forza di comunicargli la propria decisione. O di comunicarla a se stesso.
Alla fine, comunque, annuisce.
*
Ripartono l’indomani. Quella notte, Mikey non sogna.