rp: mino raiola

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU, Lemon, Dub-Con.
- "Ho domato bestie più feroci di te, Zlatan."
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt Gladiatori!AU. Ogni riferimento storico reale è da intendersi come puramente casuale e non intenzionale XD Non ho fatto alcun tipo di ricerca per scrivere questa storia, non è temporalmente contestualizzata (se non per un generico "antico impero romano") ed è più che altro uno spudorato tentativo di rip-off della serie Spartacus: Blood And Sand. #sporny
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CATENE

Le assolate terre portoghesi non assomigliano in niente alle ripide e appuntite scogliere nordiche alle quali Zlatan è abituato. Non ha visto molto del Portogallo – non avrebbe potuto essere diversamente, d’altronde, dal momento che è qui da meno di tre giorni, tutti passati fra le sbarre di una cella e quelle di un carro per il trasporto degli schiavi – ma quello che ha visto non gli piace. Non c’è poesia nelle distese di terra coltivata che si estendono a perdita d’occhio, non c’è poesia nel brillio accecante del mare sulla costa, non c’è poesia nemmeno nei promontori dalle curve gentili e dalle discese dolci che si scorgono all’orizzonte e sulle quali gli alberi riescono ad arrampicarsi fin quasi in cima.
Ripensare a casa è controproducente. La grazia delle scogliere a strapiombo sull’oceano, il colore scuro e intenso dell’acqua di mare, la neve sulle cime delle montagne, le ampie distese di terra incolta battuta dagli zoccoli dei grandi pascoli di bovini di montagna, ogni cosa nella sua memoria splende di luce propria, brilla della magia del Nord, del bagliore scintillante della neve e del rosso intenso della terra sotto il ghiaccio che la custodisce.
Il sole abbagliante del Sud non può competere, non potrà mai. Eppure sarà obbligato a chiamarlo casa.
Viene introdotto all’interno della villa coi polsi legati. Lo sono anche le caviglie, anche se il nodo è abbastanza morbido da permettergli di camminare. Non di correre, però, e già da solo questo basterebbe a suggerirgli di non tentare neanche la fuga, concetto che le guardie che lo scortano non fanno che sottolineare in maniera del tutto superflua.
La casa in cui si trova non assomiglia per niente alle case della sua gente. È un edificio alto, su due piani almeno, in pietra liscia, bianca e levigata. Le pareti sono decorate da mosaici ricchissimi, più ricchi di quelli che ha visto nella casa del mercante di schiavi che l’ha comprato dopo la sua cattura. Niente di neanche lontanamente assimilabile alle basse case in legno, paglia e fango del suo popolo.
- Fa’ il bravo, - dice il mercante nell’accompagnarlo verso la stanza privata in cui il padrone della villa li attende, - Se non riesco a venderti a lui, giuro su tutti gli dei che ti faccio a pezzi e ti do in pasto ai maiali.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, le mani che tremano dalla voglia di chiudersi attorno al grasso collo del suo carceriere. Ha provato a venderlo già a quattro nuovi padroni diversi, ma tutte e quattro le volte è stato restituito al mittente con l’obbligo di restituire il denaro. Non si fa addomesticare facilmente, è scontroso e violento, un pericolo per i padroni, un sobillatore per gli altri schiavi, non è adatto a vivere in mezzo alla normale servitù, è come una tigre selvaggia in mezzo agli animali domestici.
Non sa davvero come il mercante possa credere che stavolta sarà diverso, ma quando gli viene ordinato di aspettare immobile dove viene lasciato e, dopo aver osservato il mercante scomparire dietro una porta, posa lo sguardo sugli uomini che combattono fra loro in cortile, armati di spade di legno e pesanti scudi dello stesso materiale, comincia ad intuire qualcosa.
Il mercante esce dalle stanze private del padrone della villa dopo pochi istanti, con un sorriso incredibilmente soddisfatto dipinto sul viso dalle gote già rosse di vino annacquato.
- Vuole vederti da solo, prima di acquistarti. – dice, afferrandolo per la catena che lega il collo ai polsi e alle caviglie e trascinandolo bruscamente verso la porta, - Cerca di non dare sfoggio del peggio di te, come al solito.
Zlatan non risponde, ma d’altronde raramente lo fa. Supera la porta nel clangore delle proprie stesse catene, ritrovandosi in un ambiente molto più piccolo di quello che aveva immaginato. Sembra uno studiolo, o qualcosa di simile. C’è una scrivania coperta di pergamene dietro la quale un uomo dai capelli brizzolati, avvolto in una tunica dagli eleganti decori color porpora e oro, sembra intento a leggere un documento.
- Le condizioni alle quali il tuo padrone ti vende sono particolari. – osserva con voce vagamente curiosa. Oltre lo spesso foglio di pergamena, Zlatan non riesce a scorgere il suo viso. – Qual è il tuo nome?
- Zlatan. – risponde lui seccamente, restando in piedi di fronte alla scrivania.
L’uomo abbassa la pergamena, e finalmente Zlatan riesce a vederne il volto, la pelle ambrata un po’ bruciata dal sole, le sopracciglia folte piegate in un cipiglio severo, le labbra sottili, gli occhi dallo sguardo intenso, di un colore indefinibile fra il castano e il verde.
- Zlatan. – ripete l’uomo, lasciandosi scivolare il suo nome sulla lingua e fra le labbra come una parola magica, - Vieni dalle terre del Nord. Sai dirmi il perché di condizioni simili nel tuo contratto di vendita? – domanda, sollevando nuovamente la pergamena, - Perché, se ti acquisto, non posso ridarti indietro?
- Sono già stato restituito parecchie volte. – risponde lui, guardando altrove con aria quasi annoiata.
- E i motivi?
- Non sono stato un buon servitore.
Le labbra dell’uomo si piegano in un sorriso quasi divertito, e Zlatan lo osserva sollevarsi in piedi con esasperante lentezza, girare attorno alla scrivania e poi sedersi sul ripiano proprio di fronte a lui, per niente intimorito dalla loro differenza d’altezza o di possanza fisica.
- Qui non avrai alcun bisogno di esserlo. – dice, - Sai cos’è un ludus?
Zlatan aggrotta le sopracciglia. Cerca un significato da ricondurre a quella parola, ma non ne trova uno, e dopo pochi istanti lascia perdere.
- Il mio latino non è tanto buono. – risponde con una scrollata di spalle. L’uomo sorride ancora, quasi compiaciuto dalla sua ignoranza.
- Gli uomini che hai visto combattere nel cortile sono gladiatori. O meglio, - aggiunge con un sorriso che non ha nulla di modesto, - alcuni lo sono. Altri sognano di diventarlo. Altri non hanno alternative. Tutti, comunque, servono un solo scopo: rendere me più ricco. E sarà quello che farai anche tu. – dice, lasciandogli scorrere addosso uno sguardo fra il suggestivo e il giudicante, - Combattendo per me.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, infastidito.
- E se mi rifiuto? – domanda. L’uomo ride, una risata piena, allegra, genuinamente divertita. Si solleva dal ripiano della scrivania, lisciandosi addosso la tunica e girandogli intorno per osservarlo più attentamente.
- Siete tutti uguali, voi guerrieri. – commenta distrattamente mentre sembra prendere le misure di ogni singolo muscolo visibile sottopelle, - Tutti così sicuri di avere una voce in capitolo. Tutti così convinti della vostra forza, del vostro onore. Tutti rigidi come il più prezioso dei metalli, infrangibili, indistruttibili. – l’uomo afferra la catena che lo imprigiona e gliela gira attorno al collo in un movimento improvviso, tirando con forza. Zlatan porta entrambe le mani alla gola, ma è troppo tardi: la catena è già stretta abbastanza da mozzargli il respiro, e mentre lui gorgoglia disperatamente sente le gambe cedere senza possibilità di appello, e le ginocchia gli si piegano senza che lui possa fare niente per impedirglielo.
Si appoggia al ripiano della scrivania, cercando di concentrarsi per inspirare quanta più aria possibile, ma non ne passa e sufficienza, e i polmoni bruciano come un incendio.
- Ho domato bestie più feroci di te, Zlatan. – gli ringhia l’uomo all’orecchio, poggiandogli una mano sulla schiena ed obbligandolo a piegarsi ancora di più, - Pensi di poter avere la meglio su di me perché sei più giovane? Più forte? Perché hai maggiore esperienza in combattimento? – Zlatan si sente addosso il suo ghigno incattivito, e trema, trema davvero per la prima volta nella sua vita quando lo sente premersi ostinatamente contro di sé, libero dalla tunica e pronto a marchiarlo nel peggiore dei modi. – Non puoi, - prosegue l’uomo, lasciandolo finalmente libero di respirare, ma solo per costringerlo a guardare la catena che ora stringe fra le mani, - Perché niente di tutto questo importa, Zlatan. Questa è la tua unica verità, adesso. – spiega con voce quasi paziente mentre le catene diffondono la loro sinfonia di cattività senza speranza nell’aria ormai satura dei loro respiri affaticati, - Questa è l’unica vita che ti resta.
Secondi, minuti o ore dopo, Zlatan, in ginocchio, guarderà il volto impassibile del suo nuovo padrone. Ancora sconvolto dai tremori del dolore e dell’orgasmo più violento che abbia mai provato nella sua intera esistenza, avvicinerà il volto al suo inguine e sentirà sulla lingua il sapore di un uomo, per la prima volta da quando è al mondo. Lo farà tenendo gli occhi chiusi, imprimendo bene la memoria precisa di quel sapore assieme a tutte le altre, e sentirà qualcosa annodarsi dolorosamente e poi altrettanto dolorosamente disfarsi all’altezza del suo stomaco quando lo sentirà venire senza freni dentro di sé.
- Da adesso mi appartieni. – dirà il suo padrone, e Zlatan, abbassando lo sguardo annuirà.
- Sì. – dirà senza neanche provare vergogna, - Sì, dominus.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash.
- Ennesima rivisitazione dell'addio più famoso del fandom =P
Note: Premesso che il maglioncino esiste davvero e nel momento in cui l’ho visto atterrare a Barcellona vestito in quel modo il mio cervello è esploso senza più possibilità di ricomporsi, ho da dire solo tre cose. Primo: non so come sia possibile che io abbia ancora qualcosa da dire su questo addio, ma così è. Ogni tanto rileggo le storie che ho già scritto sul momento in cui Zlatan è andato via, e mi sembra sempre che manchi qualcosa. Sospetto che non arriverà mai il momento in cui potrò dire serenamente “ecco, adesso ho detto tutto”. Non so se sia un bene o un male XD Secondo: è palese che It100 e i suoi Challenge mi uccideranno, perché senza il Challenge #27: Triade #1 niente di tutto ciò sarebbe mai venuto alla luce. Terzo: i Muse sono divini e Resistance è una canzone meravigliosa adattabilissima ad una quantità spropositata di pairing – tra i quali anche il Jobra. Il titolo è rubato ad uno dei versi della canzone, con tanto affetto <3
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Love Is Our Resistance


.Buio.
La stanza è avvolta nella più totale oscurità, e l’unico suono percettibile in quella calma buia e un po’ ovattata è il respiro sereno di José. Scandisce regolare lo scorrere del tempo – il suo petto si solleva e con lui la mano che Zlatan vi ha poggiato sopra – e Zlatan sa che, se sta sentendo avvicinarsi l’alba, non è perché quella stia arrivando davvero, ma perché ha già contato decine centinaia migliaia di respiri di José, e allora davvero non può mancare così tanto al nuovo giorno.
Non sa perché gli abbia chiesto di dormire insieme un’ultima volta – non ne aveva il diritto – e non sa perché José abbia accettato – non ne aveva il dovere – ma nel momento in cui lo sente rigirarsi sul materasso ed avvolgerlo fra le braccia con un sospiro più profondo degli altri, che gli impedisce di capire se dorma ancora o se alla fine si sia svegliato, non gli importa nemmeno così tanto.
 
.Grigio.
Il maglioncino è lì fra le sue mani. È morbido e piuttosto leggero, è Armani. Stava dentro una scatola rettangolare bassa ed elegante, di un colore molto simile a quello del tessuto – un grigio chiaro, brillante, semplice, il classico capo d’abbigliamento che puoi mettere in ogni occasione e con qualsiasi altro colore senza mai sfigurare. Zlatan lo accarezza con devozione per molti secondi, e sorride nell’immaginare José scivolare di nascosto in camera sua ed infilare quel pacchetto nella sua valigia senza che lui se ne accorga.
Guarda la lettera ancora chiusa sul letto – pensa all’improvviso che in Svezia fa fresco, quindi può già indossarlo quel maglioncino, per partire, ma a Barcellona, quando sarà arrivato, probabilmente morirà di caldo. Dovrà trovare un modo per toglierlo, quando sarà lì, suppone, ma nel momento in cui lo indossa sopra la camicia bianca e si siede sul materasso, prendendo fra le mani il biglietto di José e preparandosi a leggerlo, non gli importa nemmeno così tanto.
 
.Mattino.
Il sole picchia. È tutto quello cui riesce a pensare. Il sole picchia e si rifrange sulla sua nuova maglietta da allenamento, che è una maglietta gialla fosforescente davvero assurda. Quando Mino gliel’ha vista addosso è scoppiato a ridere, gli ha fatto notare che quel colore gli riempiva la pelle di riflessi verdognoli vagamente malsani e poi, con un sorriso appena più mesto che l’ha stupito più di tutto il resto, ha aggiunto che probabilmente stava meglio in azzurro. Zlatan non ha risposto – in compenso ha stretto con forza le dita attorno al bigliettino di José, accartocciandolo tutto. Ha sciolto la presa subito dopo, non voleva spiegazzarlo così. S’è morso un labbro con forza per resistere alla tentazione di tirarlo fuori e rimetterlo a posto anche lì davanti al suo agente.
Poi ha sospirato ed è tornato a sedersi al proprio posto, osservando l’allenamento dei suoi nuovi compagni senza potervi prendere parte. Il polso sinistro fa male e si sente fuori luogo in maniera fastidiosa, probabilmente è anche vero che stava meglio in azzurro, ma il biglietto di José dice “chiamami quando vuoi”, e quindi Zlatan sorride, e di tutto il resto non gli importa davvero un cazzo.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan, accenni miiiiinimi di Davide/Mario, se proprio li si vuole vedere.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, (Serie di) Drabble, Slash.
- Los Angeles, ritiro della squadra nerazzurra negli Stati Uniti d'America. Giunge una notizia inaspettata, e questo è ciò che ne consegue.
Note: È palese che io mi diverto a farmi del maleeeee XD *cerca di recuperare una qualche compostezza* Uhm, dunque. Serie di drabble che in realtà tutte assieme formano una oneshot (pure piuttosto corposa) ispirata ognuna ad un proverbio fra quelli forniti dal Challenge Speciale #5 indetto da It100. Il punto di tutto questo è che probabilmente Zlatan se ne andrà, d’accordo?, e io volevo – ancora – scriverci su. Ho della tristezza da buttare fuori a riguardo, quindi volevo farlo. Poi, fra capo e collo, m’è arrivata la notizia del probabile passaggio di Eto’o al Chelsea, e allora ho cominciato a vedere rosa (la vecchia zia sarebbe qualche dirigente di là XD). Motivo per il quale ho deciso che questa è una fan fiction e me ne sbatto se alla fine non andrà davvero così. È così che vorrei andasse, e le fan fiction esistono per questo. E poi conto molto sui miei poteri di P(l)izia. *accadiaccadiaccadi* ç_ç
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After Wisdom Comes Wit


Al povero mancano tante cose, all'avaro tutte.
Zlatan si guarda intorno – l’immenso campetto dell’UCLA, i compagni intorno che saltano, corrono e fanno stretching, José nel mezzo che impartisce ordini, somministra consigli, stila elenchi e compila programmi – e poi pensa a casa – Milano, Milano sa ancora di casa, la villa, Helena, i bambini, una città che si prostra ai suoi piedi, i tifosi che lo amano ed è amore vero, i tifosi che lo odiano ed è amore anche quello – e poi pensa alla Champions, lui la voleva in nerazzurro, e pensa al campionato, vincerne un altro sarebbe epico – e pensa alla faccia che farebbe José se lui gli dicesse “voglio restare, fammi restare”. E ci pensa, e ci pensa. E non è abbastanza. Non è abbastanza.

Il difficile sta nel cominciare.
La mensa ormai s’è quasi svuotata del tutto. Le signore delle pulizie passano pezze umide sui tavoli più distanti dal loro e l’unico suono che si sente è quello tintinnante delle stoviglie che vengono accatastate e portate via poco a poco. E la forchetta di Zlatan che ancora gioca a rincorrere le patate al forno nel suo piatto.
- Non dovremmo mangiare dell’insalata, con questo caldo? – chiede annoiato, lasciando rotolare una patata fino al bordo del piatto, - A me neanche piacciono le patate al forno.
José, seduto al suo fianco, consulta il proprio taccuino, e quando parla lo fa senza sollevare gli occhi su di lui.
- Hai lamentele, Zlatan? – chiede con un pizzico di fastidio, - Se sono serie, dimmi pure.
Zlatan schiude le labbra e quasi lo dice. Quasi lo dice davvero. Ma alla fine non ci riesce, e José, dopo qualche secondo, si alza e se ne va.

Il sonno della ragione genera mostri.
- Non è per farmi i fatti tuoi… - mormora appena Davide, mordicchiandosi distrattamente una pellicina del pollice, gli occhi fissi sul pallone che rotola pigro da un piede all’altro, - È solo che non capisco perché dovresti volerlo fare. Voglio dire, hai tutto. Le persone… - azzarda incerto, - intendo, già il fatto che pagherebbero così tanto per averti dovrebbe lusingarti abbastanza. Perché hai bisogno anche di andartene?
- Non è ancora deciso. – scolla lui, senza guardarlo.
- E allora! – sorride entusiasta Davide, chinandosi a recuperare la palla e stringendola fra le braccia in un gesto infantile, - È tutto a posto, no? Resta e basta!
Zlatan lo guarda. Aggrotta le sopracciglia, tende le labbra in un sorriso sarcastico e i suoi lineamenti diventano in un colpo se possibile ancora più sgradevoli.
- Hai ragione, Dà, sai? – sospira, e gli occhi di Davide brillano. Solo per un attimo. – Non farti i fatti miei.

La miglior vendetta è il perdono.
C’è una sola persona alla quale Zlatan sente il dovere di chiedere scusa, e quella persona è Mario. Non ha tenuto il conto delle numerose cose che gli ha insegnato nel corso dell’anno scorso e di quello in atto, ma è quasi sicuro che da qualche parte, purtroppo, ci sia stato anche un qualche discorso circa l’attaccamento alla maglia e quanto sia importante avere cura non tanto dei rapporti con la tifoseria quanto di quelli nello spogliatoio. È un discorso che sa di aver fatto e sa anche perché l’ha fatto – perché gli piacerebbe vederlo importante, quel ragazzino, un giorno, ed è una cosa che all’Inter possono garantirgli, è per questo che gli conviene restare – ma al momento non può che pentirsene, per certi versi.
Si avvicina a Mario che lui sta palleggiando distrattamente – testa testa ginocchio testa – e lo chiama a bassa voce. Lui risponde con un mezzo grugnito, senza guardarlo, continuando a palleggiare.
- Senti… - mormora Zlatan, grattandosi nervosamente la fronte, - Mi dispiace per tutto il casino che sta succedendo.
Mario si ferma, posa in terra la palla e sospira.
- Fa niente. – sorride appena, - È tutto ok. – e ricomincia a palleggiare.

Chi semina vento raccoglie tempesta.
Le urla di Helena, dall’altro lato dell’oceano e della cornetta, sono tanto forti che sono perfettamente comprensibili anche se Zlatan cerca di schiacciarsi il telefono contro l’orecchio con tutta la forza che possiede, sperando che il contatto con la sua pelle e la tenda di capelli che vi lascia scivolare addosso siano abbastanza per arginare quell’incredibile schiamazzo.
Non è abbastanza, a giudicare dalle risatine dei più giovani, che si allenano saltellando sul posto all’ombra di una pensilina e non hanno la più pallida idea di quanto tutto ciò che sta accadendo sia devastante.
- Io non intendo muovermi ancora, Zlatan! – urla Helena, furibonda, - Io ci sto bene qua! I bambini stanno bene qua! Cristo santo! Zlatan! – e la conversazione si interrompe che Zlatan non ha avuto neanche il tempo di parlare, di dirle qualcosa di Barcellona, del bel tempo che c’è sempre lì e tutto il resto. Nelle sue orecchie risuona il monotono tuu tuu della linea libera, e Zlatan non può che riporre il telefono nella borsa, restando un po’ fermo all’ombra a massaggiarsi le tempie, prima di tornare dagli altri a cercare di fare finta che sia ancora tutto perfettamente a posto.

Di buone intenzioni è lastricato l'inferno.
- Io volevo solo- - e la voce gli si spezza in gola, non sa nemmeno perché. Javier lo guarda con una certa curiosità, Zlatan non ha la minima idea del motivo che l’abbia spinto a parlare proprio con lui di tutto quello che gli sta girando per la testa. Forse perché Javi è sempre stato un punto di riferimento, una presenza rassicurante, una sorta di fratello maggiore cui chiedere consiglio nei momenti più confusi. Per lui non è mai stato niente del genere, Zlatan ce l’ha sempre fatta da solo, ovviamente – tutto da solo, sempre da solo – e non ha mai sentito bisogno di riferimenti né di rassicurazioni né tantomeno di consigli, ma in questo momento, il primo veramente confuso della sua intera esistenza, in questo momento sì, ne sente il bisogno, e forse è per questo che ne sta parlando con lui. – Credimi. – aggiunge in un lamento strozzato, - Non volevo che le cose andassero così.
Javier si allunga a tirargli una pacca contro la spalla.
- Deciderai per il meglio, Ibra. – sorride rassicurante. Zlatan non ne è così certo. Però spera che il capitano abbia ragione.

Buon sangue non mente.
- E poi zio Mino mi ha portato un pallone nuovo! – racconta Max, la mente che va più veloce della lingua, attorcigliandosi su se stesso mentre cerca di dire a papà tutto tutto tutto quello che ha fatto nella giornata di oggi, - E poi Vinny ha pianto perché voleva il pallone e io gliel’ho dato ma lui è caduto subito. Pa’, secondo me è scemo, un poco!
- È solo piccolo! – ride Zlatan, mentre la risata di Helena gli fa eco, un po’ attutita, e lui la sente appena.
- Comunque siamo stati al parco! – continua Max, e Zlatan può quasi vederlo scrollare le spalle con aria disinteressata prima di entusiasmarsi di nuovo pensando agli alberi e alle fontane e alla palla che rotola fra le aiuole, - È un parco bellissimo, è nuovo! Quando torni a casa ti ci porto, te lo faccio vedere! E anche la casa è un sacco bella, devi vederla perché mamma ha ri-… ha ri-…
- Ha ridipinto. – suggerisce Helena, incredibilmente lontana.
- Ha ridipinto! – conclude Maximilian, una risata nella voce.
Zlatan sorride e non sa se le vedrà mai, tutte queste cose di cui Max gli parla con tanta gioia. Il sangue buono, è evidente, dev’essere quello di Helena.

Il mattino ha l'oro in bocca.
Zlatan si tira in piedi, il sole entra attraverso le tende tirate disturbandogli gli occhi e lui li stropiccia, sbadigliando rumorosamente. Il cellulare squilla, rompendo il silenzio che ancora grava, pesantissimo, tutto intorno a lui. Si allunga a recuperarlo, stiracchiandosi pigramente e schiacciando il tasto di accettazione della chiamata senza neanche guardare il nome sul display.
- Sei in ritardo. – dice la voce di José, vagamente roca e resa fastidiosamente metallica dal cellulare, - Datti una mossa, non hai sentito le belle notizie?
La chiamata si interrompe, Zlatan guarda il cellulare con una certa curiosità e poi nota il segnale di un messaggio non letto. Smanetta un po’ sulla tastiera, legge il messaggio, rabbrividisce. Mino dice che l’Inter e il Barça hanno trovato un accordo. Improvvisamente, l’idea di uscire e andare ad allenarsi sembra assurda.
 Il più conosce il meno.
L’asciugamano che gli piomba sulla testa all’improvviso è umido e fresco, e per questo Zlatan ringrazia una buona quantità di dei – tanto la sua religione dovrebbe comprenderne un bel po’, o almeno crede, oltre quel dio che è l’unico che dovrebbe poterlo giudicare, anche se Zlatan, molto spesso, non gli lascia né quest’onore né quest’onere.
- Fa caldo, mh? – chiede José, sedendoglisi accanto e giocando distrattamente con quel suo dannato onnipresente taccuino per gli appunti, - Dovresti bere qualcosa.
- Sono a posto così. – borbotta Zlatan, burbero, bagnandosi il viso con l’asciugamano. – Grazie per questo.
José scrolla le spalle.
- Nulla. – sorride, - Sei stressato?
Zlatan ride amaramente.
- Non che a qualcuno importi. – sbotta sarcastico.
José ride a propria volta, decisamente meno cattivo.
- Be’, è vero. – ammette, - Barcellona non è poi tanto bella, sai?
- Ci sei stato?
- Sono portoghese! – ride ancora José, e Zlatan non può che ridere assieme a lui.
- Non è così bella, dici?
José scuote il capo.
- C’è tutto. Ma non è detto che questo la renda migliore del resto del mondo.

La fame è il miglior condimento.
Se fosse solo una questione di soldi, Zlatan al Barça non ci andrebbe mai. Non possono dargli più di quanto gli dia Moratti – nessuno può farlo, forse lui stesso sa di non valerli nemmeno, tutti i soldi che riceve – e per la verità non possono neanche offrirgli condizioni di gioco ottimali. La tifoseria lì già lo odia, parlano di lui come di un mercenario – e lui probabilmente lo è davvero, perciò non ha che smentire. Se “mercenario” è il nuovo nome di chi cerca il meglio per sé stesso, allora d’accordo, è un mercenario. Credeva di essere solo un bastardo egoista ed egocentrico, ma aggiungere l’ennesimo aggettivo a quelli già esistenti e attaccati al suo nome senza possibilità di scampo non sarà poi così traumatico.
Il punto del Barcellona forse è proprio quello. L’Inter non può dargli altro, oltre quello che già gli dà. Il Barça sì, però. Non può dargli di più, ma altro, oh quello è sicuro. E lui ormai ne è quasi convinto. Ne è quasi convinto davvero. È altro ciò che vuole. È altro ciò che vuole?

Mai tardò chi venne.
- Oh, Cristo.
Il sospiro di Marco è un po’ esasperato e un po’ sollevato, quando Zlatan entra in palestra, stringendo i manici del borsone fra le dita di una mano, mentre il borsone stesso pende dietro la sua schiena, ondeggiando ad ogni passo.
- Che c’è? – chiede Zlatan, poggiando il borsone per terra e prendendo dalle mani di un assistente il suo programma di oggi, - Che hai?
Marco si siede su un tappetino con uno sbuffo spazientito, riprendendo quasi subito coi propri addominali.
- Sei sempre in ritardo, ultimamente. – gli fa notare in un mezzo ringhio affaticato.
- Dormo male la notte. – risponde stancamente Zlatan, cominciando a sollevare pesi con le gambe.
Marco ride appena, fermandosi a guardarlo da seduto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le braccia pendenti nello spazio vuoto fra le gambe.
- Anche se ci preoccupiamo, è bello vederti arrivare, poi. – commenta con leggerezza, prima di riprendere ad allenarsi.

Nel fiume che grida puoi passare sicuro.
Quando si trova imprigionato fra le braccia di José e il muro, Zlatan non può dire di non esserselo aspettato. Anzi, probabilmente è vero il contrario – che non solo se lo aspettava, ma lo aspettava e basta, come una specie di giudizio universale. Quello di quel dio lì. José dovrebbe venire dopo, qualsiasi sia la divinità di cui si stia parlando, ma forse non è vero. Forse José viene prima. Prima di… prima e basta.
- Se vuoi farlo, - gli sibila freddo sulle labbra, - è questo il momento. Quando se lo aspettano. Non posso permetterti di giocare a pallone con tutto, Zlatan, perciò se vuoi andartene fallo adesso. Non fra due mesi, non fra un anno, non la prossima volta che ti girano le palle. Adesso puoi farlo, hai il modo, hai la scusa, fallo, se devi.
Zlatan deglutisce incerto, gli occhi fissi nei suoi e brividi di paura a rincorrersi confusamente sulla sua pelle.
- …non so ancora se è quello che voglio.
José lo lascia andare senza toccarlo ancora, ravviandosi i capelli su una tempia.
- Be’, scoprilo in fretta, stronzo.

A combatter con il fango, che si vinca o che si perda, sempre ci si infanga.
- È che comunque, se vuoi il mio parere, ormai il danno è fatto.
Zlatan sospira pesantemente, incrociando le braccia sul petto mentre cerca di lasciare che i muscoli si rilassino nel bagno di acqua e ghiaccio dentro la piscinetta ai margini del campo.
- Non te l’ho chiesto, Deki. – borbotta scontento, mentre si massaggia le cosce per impedire che s’intorpidiscano.
- Sì, lo so. – risponde lui, vagamente offeso, - Stavo solo cercando di parlarne, visto che non ne parli con nessuno.
- Ma che differenza vuoi che faccia se ne parlo o meno?! – scatta Zlatan, irritato, - Qualsiasi cosa io possa dire adesso, non conta un cazzo! Nessuno vuole davvero ascoltarmi, e io probabilmente non ho nulla da dire, quello che doveva essere fatto magari è già stato fatto, proprio mentre noi stiamo qui a discutere del niente, ti rendi conto?! Cosa dovrei dirti?! Il danno è fatto! Okay! Hai ragione! E ora vaffanculo!
Abbandona la piscina senza una parola di più, e Deki, vagamente stupito ma neanche poi così tanto, invece resta lì.

Chi si è scottato con l'acqua calda ha paura anche dell'acqua fredda.
- Dà. – lo chiama a bassa voce Zlatan, quando se lo vede passare davanti, fresco di doccia e accompagnato dall’onnipresente Mario, sempre al suo fianco nemmeno fosse una specie di cavalier servente. In realtà, Zlatan lo sa, non sono davvero sempre appiccicati. Lo sono ogni volta che c’è nei paraggi lui, però, e questo non può fare a meno di fargli pensare che i due ragazzini abbiano stretto una sorta di tacito patto per cui cercano di evitarsi incontri ravvicinanti di tipo non meglio identificato, per risparmiare a tutti silenzi imbarazzanti e momenti eccessivamente dolorosi. Zlatan non saprebbe dire se questo sia un atteggiamento adulto o infantile. Di solito giudica gli atteggiamenti degli altri usando i propri come metro, ma sta cominciando a pensare di sbagliarsi, e di tanto anche.
Davide non si volta a guardarlo, lui e Mario stanno parlando, e neanche stavolta Zlatan può chiedergli scusa per come s’è comportato con lui qualche giorno prima. Poco da fare. Forse ha ragione Deki, ormai il danno è fatto davvero.

Con le mani di un altro è facile toccare il fuoco.
La risata di Maxwell, al telefono, suona davvero allegra e felice e soddisfatta.
- E quindi arrivi anche tu! – commenta divertito, - Ma sai che non ci speravo? Con tutta la storia del dieci sembrava una follia…
- Sì, eh? – annuisce Zlatan, appoggiandosi esausto alla parete. Non ne può più di sentire parlare di questa cosa. Non ne può più dell’Inter, non ne può più del Barcellona, non ne può più del calcio e non ne può già più nemmeno del numero dieci. Mai ricevute tante responsabilità in così poco tempo. E dire che l’anno prima si sentiva disposto perfino a diventare capitano.
Si chiede se sia davvero cambiato tanto, o se sia cambiato il mondo intorno a lui. Maxwell ride ancora, da quella che forse presto diventerà la sua nuova casa.
- Ehi, Max. – sussurra piano Zlatan, - Com’è lì, bello?
- Bellissimo. – conferma subito lui, - C’è un clima di aspettativa fantastico. Dovresti venire e vedere di persona.
Zlatan ride a propria volta, dell’eccitazione di cui Maxwell parla non riesce a provare nemmeno una briciola.

Errare è umano, perseverare è diabolico.
- Tu continui a non capire il punto.
- Il punto è che tu mi attacchi senza un cazzo di motivo.
- Il punto è che io ti attacco con un motivo ben preciso e tu, forse perché sei stupido, forse perché sei troppo impegnato a pretendere, ioioio! e tutto il resto, Zlatan, ti rifiuti di capirlo!
Zlatan lo guarda, un ringhio inespresso fra le labbra, le sopracciglia aggrottate in un’espressione di furia che in genere gli si vede addosso solo quando gioca e le cose non vanno come dovrebbero.
José lo fronteggia senza fare una piega. A Zlatan viene voglia di odiarlo, perché sembra a suo agio anche se non lo è, mentre lui non riesce a non sentirsi a disagio, anche se non dovrebbe. Forse è una situazione troppo complicata, perché lui possa gestirla tutto da solo lì in America. Mino saprebbe come aiutarlo. O forse peggiorerebbe solo le cose.
- Ho bisogno di te. – dice José, duro, - Prendi questa cazzo di frase nel senso che preferisci, è comunque quello giusto. Poi, fa’ ciò che credi.

Taci tu per primo ciò che vuoi sia taciuto da altri.
Zlatan ha ancora gli occhi chiusi e sente ancora nelle orecchie il respiro un po’ affaticato di José. È piacevole, è così piacevole che, se si concentra solo su quello, gli sembra di poter vivere solo di quel suono. Pensa a Barcellona, pensa che lì questo suono non c’è, e si chiede come riuscirebbe a sopravvivere senza. Ci sono momenti in cui gli sembra una prospettiva inaccettabile, ce ne sono altri in cui invece la voglia di partire è così forte che gli pizzica la pelle.
Quando torna a guardare il mondo, la vista un po’ appannata perché ha tenuto le palpebre serrate troppo a lungo e con troppa forza, José è lì al suo fianco che lo guarda, privo di espressione. È così normale, da parte sua, non lasciare affiorare al viso nulla di ciò che lo sconvolge dentro, che Zlatan ha quasi voglia di sorridere.
Una delle sue mani sale ad accarezzargli uno zigomo, scendendo poi lungo la mascella e fermandosi sul collo, per attirarlo in un bacio umido e stanco.
- Io- - prova a parlare Zlatan, ma José lo ferma.
- Non dirlo. – sospira, sollevandosi in piedi e cercando i propri vestiti in giro per la stanza, - Rendi tutto più facile a entrambi.

In amore e in guerra tutto è lecito.
- Senti, io ci ho pensato, e- - si interrompe quando lo vede parlare al telefono, dopo aver praticamente sfondato la porta di camera sua per entrare senza permesso.
- Aha, - annuisce José, chiunque sia la persona con la quale sta parlando con tanta serietà, - Yeah, thank you. It’s always a pleasure. Bye.
Zlatan inarca un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Con chi parlavi? – chiede dubbioso, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Una vecchia zia. – risponde José con una risatina evasiva.
In inglese? – insiste Zlatan, arricciando le labbra in un mezzo broncio.
- Zia poliglotta. – ride ancora José, - Ti va un caffè?
- No, mi va-
- Un bacio. – e poi José lo zittisce. E sì, un bacio gli va, perciò sta bene così.

La goccia scava la pietra.
Non è che sappia esattamente come tutto ciò sia accaduto. Non è che nemmeno voglia starci granché a pensare, in realtà. Ha sempre pensato che la vita fosse un percorso unitario, una cosa che cominci e poi manovri piano piano, mani sempre sul timone, per indirizzarla dove vuoi. Insomma, una cosa in cui tutto ha una conseguenza, ogni cosa è concatenata, non c’è niente che sbavi.
Si trova a ricredersi, e deve per forza, perché in questo momento della sua esistenza è così palese che la fina è fatta di istanti casuali che non potrebbe contrastare quest’asserto neanche volendo. Ci sono cose che decisamente non puoi prevedere, ci sono cose che non puoi manovrare, ci sono cose che non si lasciano manovrare, punto.
- Dici davvero? – chiede Helena al telefono, una punta di sconcerto nella voce. Forse davvero non se l’aspettava. – Zlatan, ne sei sicuro?
Lui annuisce. Poi ricorda che lei non può vederlo, e quindi parla.
- Sì.

Non puoi vedere il bosco se sei tra gli alberi.
Mino annuisce, Zlatan lo sa perché lo sente mormorare tutta una serie di “mh-hm” che sono tipici suoi, quando ti sta ascoltando ma non ti sta davvero dando attenzione, visto che ha tutto un altro milione di importantissime cose da fare e tu sei esattamente l’ultimo della sua lista, ed anzi si sta chiedendo cosa esattamente sia questo ronzio tremendo che lo infastidisce, interrompendo i suoi prodigiosi calcoli.
- Di’, mi stai ascoltando o no? – borbotta Zlatan, infastidito, picchiettando con la punta del piede sul parquet del campo da basket, - Hai capito quello che ti ho detto?
- Mh? – chiede Mino, un po’ confuso, interrompendo un attimo il frusciare convulso di fogli attorno a sé, - Sì, certo che ti ho sentito, Ibra. Ma sono un tantino impegnato, - sbotta infastidito, - Cristo, che caldo. Si può capire perché mi hai chiamato per dirmi qualcosa che era palese da secoli?
Zlatan fa una mezza smorfia, guardandosi riflesso nello specchio dell’armadio di fronte a sé.
- Volevo dirlo a qualcuno! – biascica lamentoso, adesso che tutto è più chiaro ha voglia di urlarlo, perfino.
- L’hai già detto a Helena?
- Qualcun altro! – insiste. Mino non capisce. Nemmeno lui, s’è per questo. Comunque il suo procuratore sospira esasperato.
- Senti, Ibra. Come immaginerai, ho altro da fare. perciò vai a parlarne con chi devi ancora avvisare, su. Non sono nemmeno pochi.
Zlatan annuisce. Interrompe la conversazione subito dopo.

Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'anima.
- Al Chelsea?! – spalanca gli occhi Zlatan. Ha fatto irruzione in palestra perché voleva essere lui a parlare, non certo perché voleva sentirsi dire una cosa simile dai suoi compagni, ed invece è esattamente quello che sta succedendo: Eto’o, principale pedina di scambio fra l’Inter e il Barcellona, è stato appena acquistato dal Chelsea, su pressante richiesta di Ancelotti congiuntamente al suo presidente, per uno sproposito di denaro.
- Insomma, non hai più dove andare, pare. – ridacchia Marco, mentre Mario, qualche attrezzo più in là, sgomita con una certa forza fra le costole di Davide.
- Bella fiducia. – borbotta Zlatan, offeso, - E io che ero venuto fino a qui per dirvi che avevo deciso di restare.
I suoi compagni di squadra si congelano ai loro posti, guardandolo sgomenti.
- Prima di saperlo? – chiede Deki, titubante.
- Me l’avete appena detto voi! – risponde Zlatan, sempre offeso, - Certo che l’ho deciso prima. – sospira e volta loro le spalle, lasciandoli lì a mormorare incerti. José lo sta guardando dalla soglia della palestra, un sorriso sornione a increspare le labbra sottili.
- …tu. – lo indica Zlatan, sconvolto, - La vecchia zia!
E José scoppia a ridere.

Uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia.
- Insomma, cos’è che devo dirti ancora? – borbotta Zlatan, stretto fra le sue braccia, - Non ti dirò che non lo farò più, sarebbe da ragazzini. Non sono un ragazzino, te lo ricordi ancora questo, giusto? Anche se chiami le mamme degli altri bambini per impedirmi di fare cose.
José ride, stampandogli un bacio stupido su una guancia. Zlatan resiste appena all’istinto di mugolare compiaciuto, limitandosi a rigirarsi contro di lui, aderendo perfettamente al suo corpo.
- Lo sai che è assurdo? – chiede con aria sinceramente stupita, - Io sono rimasto per te.
- Per me nel senso che io ti ho impedito di andartene o-
- Per te e basta. – sbotta, pizzicandogli risentito un fianco, - Fattelo bastare, una volta tanto.
José annuisce.
- E tutta la voglia di andare via?
Zlatan lo pizzica ancora, più forte.
- Ahi! – si lagna José, massaggiandosi il punto dolente, - Ma la pianti?
Zlatan sbuffa e si sistema contro il cuscino. E poi la pianta, sì.

Tocca sempre agli scalzi andare sulle spine.
- Ma cosa, quindi sono stato di merda per niente! – piagnucola Davide, tirandogli addosso un asciugamano nel tentativo di fargli del male, - Che stronzo, Dio mio! Ma almeno hai pensato di andare via, almeno per un secondo da quando tiri avanti questa pagliacciata?
Zlatan gli scompiglia i capelli bagnati, mentre Mario ride e si affretta a risistemarglieli sulla fronte e sulle tempie non appena lui lo lascia andare.
- Per più di un secondo, Dà. Non vi ho mandato al manicomio per niente, non le faccio queste cose.
- Sì, sì, certo. – continua a lagnarsi il ragazzo, infilandosi svogliatamente i calzini, - Come se non fossimo già abbastanza sfigati così.
Zlatan si chiede cosa ci sia di sfigato al momento nell’Inter, ma poi sorge spontanea una domanda ben più interessante, perciò pone quella.
- Dà, ma perché ti fai sistemare i capelli da Mario?
Davide scrolla le spalle, mentre Mario, dietro di lui, si lascia andare ad un sorriso vagamente idiota.
- È bravo a maneggiarli. – risponde tranquillo, allacciando attentamente gli scarpini.
- Ah. – risponde Zlatan. Aaaah, si dice poi, annuendo fra sé.
 La rabbia di oggi serbala a domani.
C’è un bel venticello fresco, a Palo Alto. La partita sarà verso le quattro e mezza del pomeriggio, è quasi ora di pranzo, Zlatan ha fame e, in verità, non vede l’ora di sedersi a tavola per chiacchierare e scherzare con gli altri mentre José cerca per l’ennesima volta di rifilargli patate al forno. Però il venticello è davvero fresco e piacevole e un po’ gli secca rientrare in albergo, perciò resta lì, le mani in tasca e l’ampia maglietta smanicata che si gonfia e si sgonfia ad ogni capriccio del vento, a camminare tranquillo per il cortile, canticchiando fra sé. La voglia d’altro c’è ancora, non è scomparsa, è solo sopita, lì, da qualche parte nel fondo del suo stomaco. Zlatan lo sa che un giorno si risveglierà. Ma quel giorno non è adesso, a quel giorno penserà quando sarà il caso.
- Senti, te la dai una mossa? – lo rimbrotta José, affacciandosi dalla soglia dell’albergo e fissandolo con aria accigliata, - Stiamo aspettando solo te!
- Arrivo, un secondo! – sospira lui, simulando una noia che non gli appartiene neanche parzialmente. José torna dentro mormorando qualcosa sulle primedonne, e Zlatan sopprime la voglia di fargli una linguaccia alle spalle. Poi, ridendo a bassa voce, rientra.