webcomic: john egbert

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Gen, AU, Spoiler per l'Act6.
- Dopo svariati anni di relazione e troppo dolore nascosto, Dirk abbandona la propria famiglia. E Dave resta solo a cercare di rimettere a posto le macerie.
Note: Ci sono degli argomenti dei quali io non dovrei mai discutere, ed uno di questi è palesemente il divorzio XD Che poi alla fine divorzio nemmeno è. Comunque, per qualche strano motivo, proprio gli argomenti che dovrei rifuggire come la peste sono quelli dei quali mi interessa di più parlare, motivo per il quale, appena ho "conosciuto" Dirk e Roxy, la particolare condizione di entrambi e l'altrettanto particolare relazione con Dave e Rose, non ho potuto fare altro che immaginare una situazione come questa XD Diciamocelo, anche fomentata dallo stesso Hussie con tutto quel discorso di Roxy che chiede a Dirk di immaginare i loro possibili figli e lui che le va dietro nella fantasia. *cuore stretto* Omg, perché ogni volta che mi innamoro di personaggi vari ed eventuali sento il bisogno di devastare le loro esistenze? What is my problem? *sigh*
Comunque, è un'AU ma in realtà è talmente piena di riferimenti alla storia originale - tipo il rapporto particolare di Dave col tempo, nonché, be', praticamente tutto il resto della caratterizzazione XD - che, per quanto non sia impossibile da leggere senza conoscere Homestuck, in realtà si perde metà del divertimento a leggerla senza avere quella base da seguire. E se si toglie il divertimento, da questa storia, resta solo la disperazione /O\ Quindi non leggetela mai.
Scritta per la sesta settimana del COW-T @ maridichallenge (Missione 1, prompt: anno).
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IT SEEMS WORSE THAN IT IS
(but mostly the view is accurate)

Quella mattina, Dave apre gli occhi senza aver dormito. Non che restare sveglio gli sia stato in qualche modo utile, non che abbia captato chissà che particolare suono provenire da chissà che particolare angolo di quella enorme, ridicola casa, non che – in sostanza – abbia fatto poi molto più che perdere ore di sonno prezioso che rimpiangerà sicuramente più tardi durante matematica, ma in qualche modo gli sarebbe sembrato stupido dormire proprio quella notte.
Non sa perché, ma non voleva perdersi il momento. Non se n’è accorto, mentre accadeva, ma sa che era sveglio durante, che era vigile mentre le valigie venivano spostate dalla camera da letto all’ingresso, mentre lui indossava la giacca e il cappello ed usciva. Che sia stato a mezzanotte, alle due, alle tre o alle sei del mattino, Dave era sveglio, può dire di esserci stato. Forse i suoi occhi non l’hanno visto, ma tutti gli altri suoi sensi l’hanno percepito. E probabilmente è stato molto meglio così, perché Dave non è un piagnone ma, forse, se l’avesse visto coi propri occhi non sarebbe riuscito a sopportarlo. Invece così il passaggio è stato molto meno traumatico, quasi naturale, per quanto naturale possa essere una cosa simile, considerato che non ha mai visto neanche uno di quei corvi bastardi che hanno preso dimora sul suo balcone abbandonare il loro nido, mentre invece sembra che sia proprio questo che è successo, stavolta.
È stato meglio così, comunque, per una svariata serie di ragioni. È stato meglio che sia finita ed è stato meglio che, mentre finiva, Dave fosse sveglio ma non presente. È consolante pensare di non conoscere il momento esatto in cui non ci sono state più speranze, è consolante pensare che possa essere successo in un momento qualsiasi, in tutti i momenti, in un momento privo di importanza. Tipo mentre lui stava pensando all’unica equazione chimica che non è riuscito a bilanciare mentre faceva i compiti quel pomeriggio. Mentre lui ripercorreva i passaggi ad uno ad uno, ecco, fra un passaggio e l’altro, quella porta si è aperta e poi si è richiusa senza un suono, e lui stava pensando ad altro, mentre accadeva, ai fatti suoi, sostanzialmente.
È una sensazione liberatoria, lo fa sentire più leggero. Come se lui non avesse tempo da perdere dietro questioni di un’importanza talmente irrisoria. Ed è vero, perché lui ha le sue cose, i suoi problemi, la sua merda a cui badare. Non può star dietro anche a quella dei suoi genitori.
Mettendosi a sedere sul letto e cercando a tentoni le pantofole sul pavimento, stando attento a non toccarlo coi piedi perché quella casa enorme, anche coi riscaldamenti a palla, non diventa mai neanche lontanamente tiepida, neanche sbadiglia. Non ha sonno, non è stanco. Ha gli occhi spalancati, tanto svegli da bruciare, come se improvvisamente fossero diventati la parte più sensibile del suo corpo. Vede ogni cosa ed ogni dettaglio è come uno spillo che gli si conficca nella retina, è surreale. La parete grigiastra e tappezzata di poster è talmente chiassosa da dargli quasi la nausea.
Si mette in piedi, si passa una mano fra i capelli e si stiracchia pigramente, scrollandosi via di dosso il torpore in cui l’ha gettato l’immobilità notturna. Si sente come se si fosse appena risvegliato da una specie di letargo vigile. Vorrebbe poter pensare che si tratti solo dell’effetto della notte insonne sul suo sistema nervoso, ma in realtà sa che non è così. In realtà sa che sono mesi che ha l’impressione di vivere in letargo vigile. Quelle che si sta scrollando di dosso adesso non sono poche ore di immobilità. Sono giorni, settimane, mesi interi che gli scivolano giù dalle spalle e si schiantano contro il pavimento con un fracasso che può sentire solo lui nella propria testa.
Sarebbe un’apertura niente male per uno dei suoi beat, ma non è questo il momento di pensarci. Questo è il momento di uscire da camera propria, riprendersi, cazzo, ed affrontare qualsiasi cosa ci sia fuori dalla sua stanza, perché è perfettamente preparato per farlo.
Sono mesi che non pensa ad altro, cazzo. Mesi.
In corridoio è tutto abbastanza silenzioso. Dave lo percorre in passi lunghi e silenziosi, soffermandosi davanti alla porta di sua sorella e bussando un paio di volte.
- Rose? – la chiama. Lei non risponde. – Rose, andiamo. – sospira lui.
- Non sto bene. – si degna di rispondere finalmente lei, con uno sbuffo contrariato. Dave inarca un sopracciglio, perplesso.
- Cos’hai? – domanda schiettamente. Non le crede.
- Vuoi il programma esatto degli avvenimenti che avranno luogo fra le mie gambe durante il Festival del Ciclo Mestruale, Dave? – ritorce lei, aspra. – Lasciami in pace, - aggiunge poi, la voce attutita dal cuscino, - oggi non vengo a scuola.
Dave conosce a sufficienza Rose – e d’altronde, non potrebbe essere altrimenti – per sapere che si tratta dell’unico essere umano sulla terra più cocciuto di quanto lui stesso non sia. Sa quindi altrettanto bene che, se ha preso la decisione di non tirare fuori il naso da camera propria per tutto il giorno, niente riuscirà a convincerla a fare il contrario, ma mentre si allontana lungo il corridoio verso la cucina Dave sa che, anche se ci fosse stata una possibilità di farle cambiare idea, probabilmente oggi avrebbe lasciato perdere subito lo stesso. In qualsiasi altro giorno avrebbe insistito. Oggi no.
Sua madre è seduta a tavola. Dave ne scruta il profilo, lo sguardo assente, i capelli un po’ scomposti. Fa colazione con un fottuto martini.
Suo padre è appena andato via di casa.
*
Esce presto. Non fa colazione – non ha fame. Sua madre si offre di preparargliela, si alza perfino in piedi, puntellandosi con entrambe le mani al tavolo, ma quando la vede barcollare Dave le volta le spalle e le dice di lasciar perdere. Butta giù un sorso di caffè, fa una smorfia – non l’aveva mai preso amaro; suo padre, invece, non l’aveva mai preso zuccherato – e poi scappa in bagno, si sciacqua il viso e, pur non sentendosi ancora completamente sveglio, si affretta a tornare in camera propria, vestendosi velocemente ed afferrando lo zaino.
Sa che non è così, ma si sente come se stesse scappando di casa. Ovviamente sa che tornerà, ma più si allontana da casa, un passo dopo l’altro, più si pente di essere uscito e vorrebbe tornare indietro. È ancora in tempo, forse. Può tornare, mettere a letto la mamma, chiamare a scuola e spiegare la situazione, loro capirebbero, lo lascerebbero restare a casa almeno fino a che non fosse riuscito a trovare un modo per risolvere questa situazione, sempre che un modo esista.
Ma è solo un pensiero con cui si consola, una possibilità che concede solo ad uno dei mille se stessi immaginari che immagina popolino tutte le varie realtà alternative in cui la sua vita avrebbe potuto trasformarsi se avesse preso una decisione piuttosto che un’altra. Gli piace considerare il tempo un ciclo infinito di attimi che si ripetono continuamente, gli piace l’idea di poter scivolare di attimo in attimo, sapendo di lasciarsi alle spalle qualcosa che continuerà ad accadere all’infinito anche quando lui non potrà più vederla. Gli piace perché lo spinge a pensare che possa esserci un modo per risolvere ogni problema, uno stratagemma per rimediare ad ogni errore, una via per tornare indietro e rimettere le cose a posto. Farle funzionare.
Gli piace pensarlo, ma sa che non è vero. E quando pensa di poter tornare a casa, è già a metà strada fra il suo palazzo e la scuola, ed è troppo tardi per i ripensamenti.
Il sole è ancora basso, e lui riesce a vederlo solo di rado, quando gli capita di fare capolino fra un enorme edificio e l’altro, ma anche quando non è la luce ad abbagliarlo, quel dolore sordo che gli fa bruciare gli occhi è sempre lì. Il mondo, oggi, non sta facendo nessuno sforzo per risultare gradevole, e con una mezza smorfia Dave indossa gli occhiali da sole, e progetta di non sfilarli più fino a quando non dovrà per forza, all’inizio delle lezioni.
Dietro le lenti scure, si concede un paio di lacrime.
*
Rientra a casa quasi sette ore più tardi. La prima metà del tragitto per rientrare l’ha attraversata senza fretta, le mani in tasca e gli occhi a scrutare diffidenti ma disinteressati qualsiasi cosa intorno a lui, ma man mano che ha cominciato a scorgere il profilo slanciato del palazzo in cui abita, in fondo alla strada, ha distintamente percepito i propri passi farsi più veloci, quasi impazienti. Ne ha seguito il ritmo, lasciando che lo conducessero lungo il marciapiede, oltre il pesante portone in legno e vetro all’ingresso, all’interno dell’ascensore e fino all’ultimo piano.
L’appartamento è silenzioso, ma d’altronde lo è quasi sempre. E lo era prima come adesso, non è certo stato il fatto che ora suo padre non sia più qui a renderlo tale.
Non ha voglia di fare niente. Si guarda intorno e gli sembra tutto così stupido. Cos’è che dovrebbe fare lui adesso? Cos’è che può fare? Gli oggetti, i mobili, ogni cosa gli sembra irreale. Ha quasi paura ad allungare una mano perché non ha idea di cosa succederebbe se provasse a toccare qualcosa e finisse per non sentire nient’altro che aria sotto le dita. Probabilmente scoppierebbe a piangere, sì, gli cederebbero le gambe, si accascerebbe sul pavimento e scoppierebbe a piangere come un bambino, singhiozzando e lamentandosi senza neanche provare a fare piano.
È solo un momento. I mobili, gli oggetti, le pareti, le finestre, è tutto ancora lì. L’unica cosa che manca è suo padre, ma andandosene lui non s’è portato via niente, a parte – Dave immagina – le proprie cose. Tutto il resto, tutto ciò che Dave ha sempre chiamato casa, è tutto ancora qui. Non è cambiato nulla, niente a parte l’insignificante dettaglio che prima papà c’era, e ora non c’è più.
Non può essere così drammatico.
Dave inspira ed espira, e per convincersi una volta per tutte che ogni cosa sia ancora al suo posto si mette a preparare il pranzo. Non è mai stato granché bravo in cucina – anche lui, come Rose, ha preso da mamma, in questo: lei non è mai stata capace di preparare niente che non coinvolgesse l’utilizzo di uno shaker, è sempre stato papà ad occuparsi di pranzi e cene, fin da quando Dave riesce a ricordare – ma da adesso in poi dovrà imparare. Ed è comunque perfettamente in grado di preparare uno o due sandwich, se vuole.
Lo fa, e ci mette delle ore. Si muove al rallentatore, è come non riconoscesse più casa propria. Il frigorifero, ciò che contiene, lo sportello dietro il quale si trovano i piatti di plastica, fatica a trovare qualsiasi cosa. Ci mette una vita ad affastellare strati di salumi, lattuga e pomodoro, ce ne mette due a tagliare i sandwich quadrati in due sandwich triangolari, e poi gli sembra di metterci dei secoli a ripetere le operazioni con altre due fette di pane.
Quando finisce, si volta a guardare l’orologio appeso in alto sopra il tavolo addossato alla parete. È tornato a casa intorno alle due e mezza, e non sono ancora neanche le tre. Il tempo lo prende in giro.
Sospirando, recupera i due piatti in cui ha messo i sandwich e, reggendone uno sul palmo di una mano ed uno sul palmo dell’altra, percorre il corridoio fino alla porta chiusa dietro la quale si trova la camera di sua sorella. Sistema un piatto in equilibrio sull’interno del gomito e bussa piano, cercando di non far cadere niente per terra.
- Rose? – la chiama, - Come stai?
Rose, naturalmente, non risponde.
- Ti ho portato il pranzo. – annuncia. Prova ad aprire la porta, ma è chiusa a chiave dall’interno. – Seriamente, Rose, - borbotta con uno sbuffo contrariato, - ma cosa ti chiudi dentro a fare? Dai, ho fatto i sandwich senza maionese come piacciono a te. Ero talmente concentrato che non ho messo la maionese neanche nel mio. Ti va di mangiarli insieme?
Dave resta in attesa di una risposta per un paio di minuti, ma non ne arriva nessuna. Sospirando, si rassegna. Si siede per terra a gambe incrociate, spalle alla porta, e poggia sul pavimento il piatto coi sandwich di Rose, mentre sistema il proprio in equilibrio sulle ginocchia, e comincia a mangiare.
- Non potrai restare chiusa lì dentro per sempre. – cerca di convincerla nel frattempo, fra un morso e l’altro, - Prima o poi dovrai venire fuori, e quel giorno ti costringerò a mangiare sandwich che colano maionese per ore e ore. Puoi giurarci. – Rose continua a non dire niente, e Dave comincia a perdere la pazienza. – Che due coglioni, Rose. – sbotta, strappando un morso quasi violento al panino e masticandolo con furia, - Cazzo, ho capito che è tutto una merda, lo so che lo sai anche tu, ma a cosa cazzo pensi che possa servire chiuderti là dentro e non parlarne? – la rimprovera, dimenticando che non dovrebbe parlare con la bocca piena, - Così mi tagli fuori e basta, e non ho voglia di sentirmi tagliato fuori, Rose, non ne ho proprio voglia, perché come sensazione, lascia che te lo dica, fa schifo al cazzo.
Lancia nel piatto ciò che resta del proprio panino – un morso o due, ma non ne ha più voglia – e resta in silenzio, la testa fra le mani, gli occhi bassi. Non ha ancora nemmeno tolto gli occhiali da sole. Non vuole farlo, non sa cosa cazzo vedrebbe se li togliesse. Il mondo ha cominciato a fargli paura da quando ha capito cosa vuol dire vederlo cambiare in un attimo, per un dettaglio insignificante.
Sua sorella, oltre la porta, piange sommessamente. Chissà da quanto.
- Rose, Cristo. – quasi mugola, piegando indietro il capo e battendolo appena contro il legno, - Lasciami entrare. Non devi stare sola, adesso. Nessuno di noi deve.
- Vattene via. – singhiozza Rose, la voce spezzata. Dave chiude gli occhi, inspira ed espira. Non vuole piangere. Non può piangere. Si alza in piedi.
- I panini… li lascio qui. – mormora, recuperando il proprio piatto e riportandolo in cucina. Getta tutto nel cestino dell’immondizia e poi lancia un’altra occhiata all’orologio. Non sono nemmeno le tre e un quarto. Dio, questa giornata non finirà mai.
Non ha voglia di chiudersi in camera e fare i compiti. Non ha voglia di fare niente, per cui immagina di aver voglia di guardare la tv. Attraversa il corridoio un’altra volta, cercando di ignorare il piatto coi panini di Rose ancora per terra davanti alla porta chiusa, ed entra in salotto. Cristo, questa casa è enorme, e lui la odia. L’ha sempre amata, ma ora la odia.
Riesce a vedere il caschetto biondo ed elegante di sua madre fare capolino da sopra lo schienale del divano, rivolto verso il televisore appeso alla parete. Non si muove.
- Mamma? – la chiama piano. Lei non risponde. Dave sospira. – Sai cosa, mi sto rompendo le palle di parlare coi sordi, ma’. – sbuffa, avvicinandosi piano.
Sua madre sembra prendere un sospiro eterno.
- Non dire parolacce, Dave. – esala quindi. La sua voce è debole, roca, sembra quasi finta. Dave sospira un’altra volta e gira attorno al divano, lo stomaco stretto in una morsa di terrore perché non sa cosa aspettarsi. Non sa più niente di niente, sua madre potrebbe essersi trasformata in un fantasma, mentre lui non c’era, e lui potrebbe dire di non esserne stupito.
Non si è trasformata in un fantasma, però. Ci assomiglia, ma no. È sempre lei, gli occhi confusi e stanchi, il vestito bianco, le calze nere, la sciarpa rosa perennemente annodata attorno al collo, unico tocco di colore. Stringe quell’orribile pupazzo da ventriloquo al quale papà teneva tanto. Non l’ha portato via con sé. Questo è strano.
Ci sono un bicchiere ed una bottiglia di vino vuoti, sul tavolino da caffè. Dave li osserva con disappunto per qualche secondo.
- Ti dispiacerebbe prendermi un’altra bottiglia dal ripostiglio, tesoro? – domanda sua madre, un sorriso lievissimo a increspare le labbra secche, ma coperte di rossetto, come sempre.
- Sì, mi dispiacerebbe. – risponde lui, sinceramente, sedendosi al suo fianco, - E infatti non lo farò.
Sua madre si concede un mezzo sorriso e poi si allunga ad accarezzargli i capelli, ravviandogliene una ciocca più lunga dietro un orecchio.
- Sono così fortunata ad avere te, ad occuparti di me. – sussurra, la voce ridotta ad un fiato tremulo ma incomprensibilmente dolce, - Sono sempre stata fortunata ad avere qualcuno che si occupasse di me. Sono senza speranza, io. Da sola, non servo a niente. Tu e tuo padre siete… - singhiozza appena, una mano che si chiude attorno ad una delle sottilissime braccia del pupazzo, - Siete così simili. Siete buoni.
- Basta. – la interrompe lui, voltando lo sguardo. Non capisce come possa dire una cosa simile dell’uomo che l’ha appena lasciata, soprattutto non accetta che lei possa pensarli simili. Non adesso. – E getta via quella roba.
Sua madre abbassa lo sguardo sul pupazzo, accarezzandone una guancia rossa.
- Cal? Penso che lo terrò con me per un po’. – annuisce lentamente, - Sì, penso proprio che lo terrò con me per un po’.
Dave sospira, scalciando via le scarpe e sedendosi più comodamente sul divano, dopo aver recuperato il telecomando della tv. La accende, fa zapping. Non c’è niente di interessante da vedere.
Continua a fare zapping, mentre sua madre, lentamente, si addormenta al suo fianco.
*
Quando apre gli occhi, l’indomani mattina, lo fa dopo aver dormito, e in realtà si sente bene. Anche troppo bene, nota nello spostare lo sguardo sulla sveglia sopra il comodino. Non è ancora tardi, ma decisamente non è presto, e lui non è abituato a dormire così a lungo, ecco perché si sente così intorpidito.
Scalcia via le coperte, si stiracchia con una serie di mugolii compiaciuti e poi esce in corridoio. Già da dove si trova può vedere che il piatto che ha lasciato ieri per Rose è vuoto, e si avvicina con un sorriso alla sua porta per recuperarlo da terra. Bussa piano, Rose non risponde, ma lui può sentirla respirare piano, profondamente addormentata, e decide di lasciarla in pace, per oggi.
Anche sua madre dorme, tutta rannicchiata in metà del divano, stretta a quell’orribile pupazzo. Dave ricorda di averlo trovato figo, un tempo. Suo padre non faceva che farglielo dondolare davanti agli occhi, quando era piccolo, e così, forse per abitudine, forse perché era suo, era diventato il suo giocattolo preferito.
Adesso, se potesse, gli darebbe fuoco.
- Mamma? – la chiama, scuotendola delicatamente per una spalla, - Mamma, forse è meglio se vai a letto, se hai sonno.
Sua madre scuote il capo, sulle sue labbra aleggia l’ombra di un sorriso. Chissà cosa sta sognando. Dave la guarda e per un secondo gli sembra così piccola e indifesa, come fosse tornata ragazzina. È giovane, sua madre, lei e papà hanno avuto lui e Rose molto presto, ed anche adesso, guardandola, non le darebbe più di trent’anni. Ha potenzialmente tutta la vita, davanti. E sta rannicchiata su un divano scomodo, abbracciata ad un pupazzo orrendo, e sorride nel sonno perché ha ancora troppo alcool in circolo per rendersi conto di quanta tristezza la aspetta quando si sarà risvegliata.
Dave sospira, uscendo dal salotto ed allontanandosi verso l’enorme armadio a muro a scomparsa che copre quasi l’intera parete del corridoio. Ne apre un’anta a colpo sicuro, i cappotti di suo padre sono ancora lì. D’altronde, non li usava quasi mai. Non hanno nemmeno l’odore del suo dopobarba addosso.
Si piega sulle ginocchia, aprendo uno dei cassetti in fondo e recuperando una coperta di lana. Poi si rimette in piedi, chiude tutto e torna in salotto. Sua madre è ancora lì, le gambe piegate, le ginocchia strette al petto, come non volesse occupare troppo spazio. Le avvolge la coperta attorno al corpo e poi torna in camera per prepararsi ad uscire. Non prima di aver bevuto un sorso di caffè amaro.
Sono passate solo ventiquattro ore da quando suo padre è andato via.
*
A John non dice niente. È il suo migliore amico, e suppone che lui capirebbe cosa vuol dire ritrovarsi da un giorno all’altro con un solo genitore anziché due, considerato il fatto che vive solo con suo padre e la nonna, ma la verità è che Dave non ha alcuna voglia di parlare di cosa è successo, cosa sta succedendo e cosa succederà. Da un lato ne è quasi geloso, perché sono fatti suoi e della sua famiglia; dall’altro lato conosce abbastanza John da sapere che, di fronte a una notizia del genere, farebbe quella faccia, quella che fa sempre quando è molto, molto preoccupato per lui, gli si siederebbe di fronte e probabilmente allungherebbe perfino una mano a battergli un paio di pacche amichevolmente consolatorie sulla spalla, e gli chiederebbe “e tu come ti senti, Dave?”, e lui non avrebbe idea di cosa dirgli. Per cui meglio evitare di parlarne del tutto, piuttosto che dover star lì ad occhi bassi chiedendosi “e io come mi sento?”, senza sapere neanche che valore dare ad una domanda simile.
Lui come si sente? Che importa? Non gli importa davvero. Sua madre dorme sul divano. Sua sorella non è mai uscita da camera propria dal giorno prima. Suo padre è andato via. Cosa importa come può sentirsi lui?
Quando John gli chiede se gli va di pranzare a casa sua e passare il pomeriggio insieme, comunque, accetta. Il pensiero di sua sorella e sua madre a casa da sole lo tormenta per un po’, sa che il suo dovere sarebbe quello di tornare a casa, prendersi cura di loro, preparare il pranzo, passare un po’ di tempo con mamma, cercare ancora di convincere Rose a venire fuori dalla sua stanza, ma già nel momento in cui fa l’elenco di tutto ciò che lo aspetterebbe una volta varcata la soglia dell’appartamento, si rende conto che non ha nessuna voglia di farlo. Si sente in colpa, ma non riesce a convincersi che sarebbe meglio declinare e tornare a casa. Si sente soffocare al solo pensiero. Perciò accetta. Senza ripensamenti, accetta.
- Grande. – sorride John, - Mio padre ha preparato un’altra di quelle sue stupide torte. Mi servirà una mano per finirla. Magari se vuoi puoi portarne un po’ ai tuoi, stasera, tanto quello ne prepara una nuova ogni giorno. La quantità di avanzi che buttiamo via ogni giorno è surreale, stiamo ingrassando tutti i gatti del quartiere. Ormai, quando scendo a buttare la spazzatura mi circondano e mi si strusciano sulle gambe come se fossi una specie di messia, è ridicolo.
Dave si concede una risata, e anche di dimenticare tutto per un po’. Ferma anche il conto delle ore, tanto sa già che possono solo aumentare, e che quando guarderà nuovamente l’orologio sarà passato ancora troppo poco tempo.
*
Torna a casa dopo cena, portando con sé due fette di torta alla panna accuratamente protette da un guscio di piatti di plastica avvolti nella pellicola trasparente, in modo che non potessero aprirsi e rovesciare il loro contenuto per terra in nessun caso.
L’appartamento è così silenzioso che potrebbe non esserci nessuno. Sono le dieci passate quando Dave entra in cucina, posa i piatti sul tavolo e solleva gli occhi sull’orologio. Ricorda senza nessuna difficoltà che, solo fino ad una settimana prima, ogni sera a quest’ora lui era sempre in salotto, attaccato al televisore grande, a farsi massacrare da sua sorella a Tekken 7, mentre sua madre sorseggiava vino rosso da uno di quei bicchieri a coppa che le piaceva tanto tenere in mano, rileggendo per l’ennesima volta tutta la saga de La soddisfazione dell’Erudito fin dal principio, e dal computer di suo padre posto in un angolo arrivavano i suoni più disparati mentre le sue dita battevano veloci sulla tastiera.
Era solo una settimana fa. Prima che le cose cominciassero ad andare a puttane, prima che la casa piombasse nel silenzio.
Sospira e recupera due piatti di plastica puliti da uno stipetto. Una fetta per piatto. Poi due forchette.
Prende il piatto di Rose e bussa alla porta di camera sua. La sente sospirare pesantemente.
- Non ti arrendi mai? – dice. Dave aggrotta le sopracciglia.
- Non fare la stronza. – la rimprovera, - Ti ho portato una fetta di torta. L’ha fatta il signor Egbert. È buona.
- Non mi va.
- Dovrai pur mangiare qualcosa.
Rose sospira ancora, Dave le sente girare una pagina di qualcosa.
- Lasciala lì per terra.
Obbedisce senza averne voglia, perché non ha voglia neanche di litigare con lei. Non in generale, tantomeno attraverso una porta. È tardi, è stanco, non ne può già più.
- Fai come vuoi. – borbotta, allontanandosi verso la cucina e poi tornando a percorrere il corridoio con l’altro piatto. La luce in salotto è spenta, ma l’abat-jour sul tavolino accanto al divano è accesa. Sua madre è ancora seduta lì, e finché non la vede Dave può illudersi di pensare che abbia passato il pomeriggio a leggere, come ha sempre fatto.
Invece poggia il piatto sul tavolino da caffè, si volta e mamma è ancora rannicchiata e addormentata, nella stessa posizione in cui era stamattina. Perfino la coperta sembra che non le si sia spostata di dosso neanche di un centimetro.
- Mamma… - sospira, - Hai dormito tutto il giorno?
Sua madre schiude le palpebre, gli occhi velati di sonno, le labbra che si piegano in un sorriso evanescente.
- Cos’altro avrei dovuto fare, tesoro mio? – domanda con una vocina trasparente, stringendosi nelle spalle, - Cal mi ha tenuto compagnia.
- Devi buttarlo via. – quasi ringhia Dave, - Andiamo, ti porto a letto. – sospira poi, scostandole la coperta di dosso e passandole un braccio attorno alla vita, spingendola a sollevarsi in piedi. Lei lo fa, in una sinfonia di lamenti e piagnucolii che Dave cerca con tutte le proprie forze di ignorare. Sua madre è ancora più alta di lui, anche se di poco, e lui non riesce a non ripensare alle innumerevoli volte in cui ha visto suo padre riaccompagnarla in camera dopo averla trovata brilla sul divano. “Sei incorreggibile, Lalonde,” le diceva, e lei rideva, e la sua risata non suonava sgradevole come quelle degli ubriachi. Era un tintinnio dolce, gentile. E suo padre sorrideva, e tutto sembrava perfetto e giusto, e adesso è rotto, da qualche parte un ingranaggio s’è scheggiato, e Dave non sa come ripararlo. E forse, anche se lo sapesse, non riuscirebbe comunque.
Aiuta sua madre a mettersi a letto, così vestita per com’è, le rimbocca le coperte e, alla luce giallastra della lampada sul comodino, la vede piangere. Non se ne sarebbe mai accorto se non fosse stato per come le brillano addosso le lacrime. Non emette un suono, e sulle sue labbra c’è un sorriso ridicolmente dolce.
- Mamma… - sussurra, sentendosi stringere il cuore mentre si siede sulla sponda del letto e le asciuga le lacrime dalle guance, - Per favore, non piangere.
Lei apre gli occhi, lo guarda con affetto, gli accarezza una guancia.
- Credo che sia la cosa che tuo padre mi ha ripetuto più spesso da quando eravamo ragazzi. – dice a mezza voce, - Siete davvero identici.
Dave distoglie lo sguardo, ferito. Si alza in piedi.
- Cerca di dormire. – le dice. Una mano di sua madre scivola fuori dalle coperte e si chiude attorno al suo polso sottile.
- Vuoi restare ancora un po’ con la mamma, tesoro? – domanda. Dave si volta a guardarla ed è abbastanza sicuro che gli stia chiedendo soltanto di sedersi lì e parlare con lei ancora un po’. Forse per darle l’illusione che papà sia ancora lì, a prendersi cura di lei.
Dave ci pensa. Pensa a tutte le ore che ha passato fuori casa, lasciandola in balia di se stessa, disinteressandosi di lei, dimenticando perfino la sua esistenza.
Poi spegne la luce, gira attorno al letto, sfila le scarpe e scivola sotto le coperte, stendendosi su un fianco. Sua madre resta immobile, fissa il soffitto, sorride.
- Allora, tesoro, com’è andata oggi a scuola? – domanda.
Dave ha sonno, è stanco e ha voglia di piangere. In più, né a scuola né a casa di John è successo niente di particolarmente eclatante, perciò non è neanche sicuro di sapere cos’è che dovrebbe raccontare adesso a sua madre. Ma parte comunque dal principio, fin da quando s’è svegliato, omettendo il conto delle ore anche se sa che ormai ne sono passate almeno trentasei da quando suo padre è andato via di casa.
*
Dave non ha mai creduto a tutte quelle storie riguardo una supposta connessione telepatica fra gemelli. Lui, della testa di Rose, non sa niente. I suoi pensieri, le sue emozioni, le sue sensazioni, agli occhi di Dave sono sempre state insondabili. Sua sorella è l’enigma che non sarà mai in grado di risolvere, il quesito sospeso a cui non riuscirà mai a trovare una risposta. Per la maggior parte del tempo non la capisce, per la restante parte del tempo non vuole nemmeno provarci. La accetta così per com’è, con le sue arie da stronza e le sue reazioni passivo-aggressive e le occhiate colme di presuntuoso sdegno con le quali osserva quasi sempre tutto il mondo circostante.
È passata una settimana da quando ha cominciato a dormire con sua madre. Lei non ha più chiesto, ma lui ha continuato a farlo, e adesso sta semplicemente prendendo l’abitudine di stare con lei, la notte, perché gli sembra che ne abbia bisogno.
Suo padre è andato via da otto giorni. Lui non vede Rose esattamente dalla stessa quantità di tempo.
Sono le nove del mattino di domenica. Sua madre è ancora a letto, profondamente addormentata. Non fa che dormire, quando lascia il letto è solo per trascinarsi sul divano, dove Cal viene immancabilmente abbandonato ogni sera. Fa qualcosa solo quando Dave è con lei, che sia guardare la tv o fingere di aiutarlo a fare i compiti. Per il resto del tempo, fissa il vuoto, e Dave può leggerle negli occhi che non sa cosa fare di se stessa, e questa cosa lo terrorizza.
Non quanto, comunque, lo terrorizzi il fatto di non aver mai visto sua sorella in più di una settimana.
La domenica gli permette di prendere le cose con più calma, forse perché tutto sembra girare ad un ritmo più normale. Durante tutto il resto della settimana c’è quest’incongruenza che Dave non riesce a spiegare, per cui i minuti sembrano scorrere via velocissimi, nella sua mente, ma non è così. Quando gli sembra che siano già passate due o tre ore, in realtà a stento ne è passata una.
La domenica, questo divario fra tempo percepito e tempo effettivamente passato sembra ridursi. Le ore sono sempre interminabili, ma almeno quando Dave crede che ne sia passata una sola poi la supposizione si dimostra vera. Forse perché di domenica non c’è davvero niente da fare, per cui in qualche modo ha senso che ogni minuto sia davvero lungo un’eternità.
Lui s’è svegliato presto anche oggi, perché dormire a lungo nel letto grande non gli riesce. C’è ancora il profumo di suo padre attaccato a tutto, anche se le lenzuola sono state cambiate. Forse è trattenuto nelle molecole d’aria, Dave non saprebbe spiegarlo, sa solo che non si sente mai completamente a suo agio in quella stanza. Di solito, verso le sei sgattaiola via, prima che mamma possa accorgersene. Oggi s’è costretto a restare al suo fianco fino alle otto, ma poi non c’è l’ha più fatta. S’è alzato in piedi, ha pulito la cucina da cima a fondo, ha preparato il caffè, ne ha bevuto un sorso e ha fatto una smorfia chiedendosi se gli riuscirà mai di abituarsi a questo saporaccio amaro.
Ora guarda l’orologio e si chiede se sia il caso di andare a chiedere a Rose se, almeno oggi, le va di uscire da camera sua. Mamma resterà probabilmente a letto tutto il giorno, lui non ha in programma di vedere John né nessun altro e l’idea di passare l’intera giornata in giro per casa o chiuso in camera propria da solo lo fa sentire sull’orlo di una crisi di nervi.
Attraversa il corridoio e si ferma davanti alla porta chiusa di Rose. È quasi sicuro che, se bussasse, lei gli direbbe di sparire, perciò, anche se non è corretto e lo sa, dopo essersi assicurato di sentirla respirare lentamente e profondamente, prova ad aprire la porta.
Sorprendentemente, non è chiusa a chiave. Deve aver smesso di chiudersi dentro quando ha visto che lui non passava più così spesso a bussare.
Sbircia all’interno. La finestra è chiusa, le tende tirate, ma di fuori il sole è alto e passa attraverso gli scuri, illuminando appena l’ambiente. Abbastanza da vedere Rose seminascosta sotto le coperte, almeno, il caschetto biondo tutto scompigliato e gli occhi chiusi, un’espressione incredibilmente serena a distenderle i tratti del volto. Sembra che sia lei che mamma stiano meglio quando dormono, da quando papà è andato via. Dave non riesce, tutti i suoi sonni sono agitati. Dormire non gli piace più. In realtà non gli è mai piaciuto granché. È sempre stato abbastanza insonne. Anche papà lo era. Ogni tanto gli capitava di uscire dalla propria camera ad orari improbabili della notte per andare a bere un po’ d’acqua, e di trovarlo sveglio e seduto davanti al computer, oppure in cucina, intento a prepararsi un panino.
Parlavano sempre un sacco, in quelle occasioni. Quando erano soli. In qualche modo, Dave lo sentiva più rilassato. Era più facile avere a che fare con lui.
Si siede per terra, spalle contro la parete, accanto al letto di sua sorella. La guarda dormire per un po’, sorridendo appena, e poi scorge l’angolo di uno dei suoi quaderni fare capolino da sotto il letto. Rose è gelosissima di questi diari, li nasconde sempre nei posti più improbabili. È strano trovarne uno abbandonato con tanta incuria sotto il suo letto.
Si allunga a recuperarlo, stringendolo fra le dita ed appoggiandoselo sulle ginocchia per sfogliarlo. La prima pagina è divertente, perché comincia con tre “caro diario” che sono stati poi impietosamente cancellati per far spazio a qualche racconto breve, o stralci di racconti più lunghi magari continuati altrove. Dave ridacchia, accarezzando la pagina con due dita prima di girarla. I racconti proseguono per un po’, lui neanche li legge, in realtà, lascia solo scorrere gli occhi addosso alle lettere, cogliendone il senso generale, pensando che gli piacerebbe che Rose scrivesse il testo di una canzone, perché lui impazzirebbe alla sola idea di musicargliela.
- È divertente? – chiede Rose. Dave solleva lo sguardo e trova i suoi occhi vigili e attenti. Non è arrabbiata. Anzi, sorride appena.
- Scusa. – dice, richiudendo il quaderno e posandolo esattamente dove l’ha trovato, - Era lì.
- E tu non hai potuto fare a meno di leggerlo. – sospira, stiracchiandosi appena sotto le coperte, - Sei fortunato che è roba vecchia, altrimenti non avresti vissuto abbastanza per raccontarne il contenuto. – ridacchiano insieme per qualche secondo, e quando le risate tornano silenzio Dave guarda sua sorella e si sente stringere il cuore, perché il suo sorriso è identico a quello di sua madre. – Perché sei qui, Dave? – domanda lei a bassa voce, e lui si stringe nelle spalle.
- Mi mancavi. – risponde sinceramente, - E volevo chiederti se ti andava di uscire da qui, almeno oggi.
Lei sospira, lanciando uno sguardo alla porta che Dave si è richiuso alle spalle dopo essere entrato.
- È ancora presto. – risponde. Dave segue il suo sguardo, e nota il violino abbandonato sul ripiano del mobile ad angolo.
- Non te l’ho sentito suonare, ultimamente. – dice, rendendosene conto solo in quell’istante, - Non hai smesso, vero?
Rose sorride appena, allungando una mano a scompigliargli i capelli.
- Non ho smesso, - lo rassicura, - è solo troppo presto anche per quello.
Dave annuisce come se capisse cosa intende, ma la verità è che non lo capisce affatto. Che vuol dire troppo presto? A lui sembra già tardi. Anche se il tempo non passa mai, gli sembra che ne sia già passato a sufficienza. Che lo stato di immobilità in cui sono sia già durato fin troppo a lungo. Rose non può fermare lo scorrere del tempo chiudendosi in camera propria, ma lui non riesce a dirglielo.
- Speravo che potessi tenermi un po’ compagnia, oggi. – le dice però, abbassando lo sguardo.
Rose non risponde per molti secondi, ma poi si solleva sui gomiti e lo guarda.
- Io non voglio uscire, - dice, - ma forse tu puoi restare.
Dave gli ricambia l’occhiata, inarcando le sopracciglia.
- Qui? – domanda. Rose annuisce.
- Possiamo tenerci compagnia qui. – suggerisce. Il suo sguardo si fa indagatore, per un attimo. – Sembri stanco.
Dave guarda altrove, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Non dormo bene, ultimamente.
Rose sospira e scivola più in là sul proprio materasso.
- Vieni qui, dai. – lo invita con un sorriso.
Dave ride, scuotendo il capo.
- Scherzi? – domanda, - Questo letto è minuscolo.
- Ci stringeremo. – risponde lei seria, battendo la mano sulla porzione di materasso libero al suo fianco. – Dai.
Dave la guarda per un po’, chiedendosi se stia facendo la cosa giusta. Ma sente gli occhi pesanti, e dopo un po’ non gli importa più di quale potrebbe essere la cosa giusta. Si alza in piedi e scivola sotto le coperte accanto a sua sorella. Lei se lo stringe contro, accarezzandogli i capelli.
- Hai pianto, da quando è andato via? – gli domanda. Dave pensa alle due lacrime che s’è lasciato sfuggire, e stabilisce che quello non è piangere, perciò scuote il capo. – Io sì. – confessa Rose, annuendo, - E dovresti anche tu.
Dave chiude gli occhi, le stringe le braccia attorno alla vita, nasconde il viso contro il suo petto, e piange fino ad addormentarsi.
*
Rose ci mette un mese a riprendere in mano il violino. Dave sa perché suonare le costa tanta fatica: è sempre stato papà ad incoraggiarli a cominciare qualcosa. Mamma è sempre stata brava a spronarli a continuare per la strada che avevano intrapreso, ma la scintilla iniziale, quella che è sempre servita ad accendere il fuoco, è sempre stata una parola di papà, un suo suggerimento, una sua proposta. È stato così per i suoi beat, ed è stato così anche per il violino e per Rose. Papà adorava ascoltarla suonare.
Succede in un momento qualsiasi, ed ancora una volta Dave è felice che sia così. È contento che sia un momento qualunque, perché fra vent’anni non ricorderà che in quel momento era sul divano a ripassare storia mentre teneva d’occhio sua madre e in sottofondo la tv tenuta a volume bassissimo raccontava qualche stupida storia d’amore da soap opera sudamericana, no. Fra vent’anni ricorderà soltanto che era lì a fare qualcosa di assolutamente non importante e poi improvvisamente ha sentito il lamento nervoso e straziante del violino farsi strada fino a lui, ed il cuore si è messo a battere più in fretta.
Scatta in piedi, e non ha neanche il tempo di notare che sua madre, silenziosamente, comincia a piangere. Corre per il corridoio a piedi nudi, rischiando di scivolare e schiantarsi contro ogni singola parete, raggiunge la porta – come sempre chiusa – della camera di Rose e la spalanca senza neanche pensare che forse sarebbe il caso di bussare.
Rose è in piedi e, col suo pigiama rosa sgargiante addosso, i piedi fasciati in quei suoi ridicoli calzini antiscivolo con le dita e i capelli scompigliati, malamente tenuti indietro da una fascia nera, è probabilmente l’immagine meno poetica dell’universo, ma al solo vederla lì, il capo ripiegato, le dita di una mano elegantemente strette attorno all’archetto e le dita dell’altra che scivolano veloci sulle corde, a Dave viene da piangere, e per una volta – per la prima volta in trenta giorni e qualche ora e troppi minuti e una quantità infinita di secondi – non è una sensazione spiacevole.
Rose si interrompe e si volta a guardarlo, le lunghe ciglia chiare che tremano appena.
- Mi fanno un po’ male le dita. – dice a bassa voce.
- È perché non sei più abituata. – annuisce lui, fermo sulla soglia della porta, una mano ancora stretta attorno alla maniglia, come volesse restarci aggrappato per non cadere. Rose lo nota e sorride, e lui sorride stupidamente a propria volta, sentendo una scintilla di irrazionale felicità bruciargli nello stomaco e poi diffondersi ovunque. – Vuoi fermarti? – le domanda, e dentro la propria testa prega che risponda di no. E come se una fatina buona avesse deciso di accogliere le preghiere di Dave, Rose scuote il capo.
- Vuoi restare mentre mi esercito? – domanda quindi. Dave annuisce entusiasta, ed obbedisce quando lei gli chiede di entrare e chiudere la porta.
Sul divano, in salotto, sua madre continua a piangere. Dave non la sente, anche se sa che lo sta facendo. Sa che probabilmente dovrebbe tornare di là, sedersi al suo fianco e tenerle la mano mentre si sfoga, perché Rose adesso sta meglio e ha molto meno bisogno di lui di quanto possa averne bisogno lei, ma il canto del violino è una piccola vittoria, anche per lui, e Dave decide di godersela.
*
Quattro mesi dopo, Dave dorme ancora con sua madre, e sta lentamente ma inesorabilmente cominciando a diventare un’abitudine priva di lati negativi. Sono scivolati in una specie di confusa routine che – Dave ne è abbastanza convinto – qualsiasi psicoterapeuta al mondo non esiterebbe a descrivere come malsana – Rose, peraltro, non è (ancora) una psicoterapeuta, ma già lo fa – ma in fin dei conti Dave è arrivato perfino a trovarla comoda.
Un letto è solo un letto, alla fine. Non è che passi tutta la sua vita in camera con sua madre, anzi. Se non è a scuola, o da John, per lo più la camera in cui sta chiuso è la propria, solo che preferisce dormire con lei. Per non farla sentire sola, probabilmente, per non lasciare vacante quel posto al suo fianco.
Sua madre non lo abbraccia, non è eccessiva nelle sue effusioni – non lo è mai stata, d’altronde – non lo ha mai scambiato per suo padre, né per una bambola addosso alla quale piangere tutta la notte. Semplicemente, si sente più tranquilla quando non c’è una voragine vuota al proprio fianco, e Dave non vede per quale motivo dovrebbe privarla di un sonno sereno per rifiutarsi di fare qualcosa che – peraltro – nessuno gli ha mai chiesto, e che non gli costa alcuna fatica.
Ogni tanto, comunque, fatica ad addormentarsi, forse perché negli ultimi mesi non ha fatto altro che dormire, e in queste occasioni può passare ore a scrutare intensamente il soffitto, come cercando di identificare i contorni di una qualche macchia che solo lei è in grado di vedere.
Passa la quasi totalità delle proprie giornate in uno stato di ubriachezza costante, ma Dave è convinto che, per la maggior parte del tempo, finga, o esageri la propria condizione, per non dover affrontare necessariamente la realtà con le responsabilità di una persona lucida. Dev’essere per forza così, non c’è modo in cui, se fosse davvero ubriaca come dice, potrebbe poi ridursi alla sera così presente a se stessa.
- Che c’è, ma’? – le chiede Dave, voltandosi su un fianco e scrutando il suo profilo pallido ed elegante nell’ombra. È bella, sua madre, è una specie di copia più adulta e matura di Rose, e Rose è bella da morire, per cui Dave riesce ad immaginare con molta facilità quanto potesse essere bella mamma alla sua età. Ogni tanto immagina Rose da grande, e non può fare a meno di sorridere orgoglioso pensando a quanto le somiglierà.
In un primo momento, sua madre non sembra neanche sentirlo, ma Dave la conosce abbastanza da sapere che non è così. Sua madre ascolta sempre tutto, solo che a volte ha bisogno di qualche secondo per mettere le parole ordinatamente una dietro l’altra, e Dave, paziente, le lascia il tempo di farlo.
- Pensavo. – risponde infine, sospirando pesantemente.
- A cosa? – chiede Dave, e poi aggiunge, - Dovresti dormire, invece di pensare.
Sua madre sbuffa una mezza risata, allungando una mano alla propria destra per scompigliargli i capelli, un altro gesto tipico che lei e Rose hanno in comune.
- No, dovrei proprio pensare, invece. – lo corregge, gli occhi sempre fissi sul soffitto, lo sguardo che si tinge di una sfumatura più seria, quasi grave. – Dovremo parlarne, prima o poi. – dice, e Dave abbassa lo sguardo e si sente stringere lo stomaco in una smorfia che gli dà la nausea.
Non ha alcuna voglia di parlarne. Ha voglia soltanto di lasciarsi tutto alle spalle. Cinque mesi non sono stati sufficiente, ma forse lo saranno sei. Forse devono solo tenere duro ancora un pochino, e tutto tornerà al suo posto, anche se un ingranaggio resterà mancante.
- Cosa c’è da dire? – domanda controvoglia, stringendo le dita attorno al cuscino, quasi aggrappandovisi. Ogni volta che sente qualcosa scuotere la scombinata normalità che sta lentamente ricreando attorno a sé, ha bisogno di sentire sotto le dita qualcosa di presente, reale, fisico. Immagina che questo sia un segno di debolezza, ma al momento non può ancora farne a meno.
Sua madre sorride tristemente.
- Un sacco di cose. – risponde, - Davvero un sacco. Ma non è ancora il momento. – dice, scuotendo il capo. Poi si volta a guardarlo, gli scosta la frangetta dal viso e lo bacia piano sulla fronte. – Dormi, tesoro mio. – dice a voce bassa, quasi cullandolo.
Dave annuisce, e chiude gli occhi.
*
Altri quattro mesi, e Dave è tornato a dormire in camera propria. Non è stato un cambiamento voluto, ma d’altronde non lo era stato neanche trasferirsi da mamma, per cui la cosa non lo stupisce. Semplicemente, una sera si è fermato a lavorare ad alcuni beat fino a tardi e poi è crollato addormentato nel proprio letto. Non ha neanche avuto bisogno di un po’ di tempo per riabituarsi alle differenze, è stato molto naturale, per cui Dave immagina che fosse semplicemente il momento giusto.
Sono passati esattamente nove mesi – o forse poco più, o forse poco meno, alla fine non è che importi – da quando papà è andato via. Non c’è più il suo profumo da nessuna parte, molte altre delle sue cose sono sparite col passare del tempo – segno chiaro che mamma deve averlo rivisto, di tanto in tanto, o che lui deve comunque essere tornato a casa per riprendersele – e la vita è ricominciata monotona e dolce com’era prima che lui se ne andasse, con la differenza che lo spazio vuoto non si è colmato, e dopo nove mesi Dave sta cominciando a pensare che non si colmerà mai.
Pensava che questo potesse essere un tempo sufficiente perché qualcosa in questo senso potesse cambiare, una cifra quasi simbolica – nove mesi, il tempo che una vita impiega per formarsi, sperava potesse essere anche il tempo che ci avrebbe messo la sua a ricostruirsi identica a prima – ma ha imparato che non c’è niente di simbolico nella normalità, le cose non accadono mai in tempi prestabiliti, non ci sono tempistiche che puoi darti per qualcosa che non dipende neanche da te stesso.
Semplicemente a un certo punto succede, o non succede.
Suo padre non è più lì, e Dave vorrebbe poterci venire a patti, ma non crede che succederà.
Succede invece che sua madre ricomincia a lavorare, a leggere, a fingere di saper cucinare, a sbronzarsi regolarmente perché è una vita che si porta dietro il vizio – e che se lo tolga è un’altra di quelle cose che non accadrà mai – e una sera, mentre lui e sua sorella sono lì che si prendono a botte perché lei vuole giocare a Tekken e lui a Final Fantasy, improvvisamente chiude il terzo volume delle avventure di Calmasis e dice ad entrambi che è il momento di parlare.
Dave ha atteso questo momento con terrore per mesi, ormai, certo che sarebbe arrivato ed altrettanto certo che non avrebbe saputo come affrontarlo. È rimasto da solo a combattere la solitudine per settimane, s’è tenuto dentro il segreto anche con John, al quale continua a non aver detto niente anche adesso, ha tenuto in piedi una casa con le sue sole forze quando nessuno sembrava interessato o preparato o forte abbastanza da aiutarlo, ed ora che non c’è assolutamente niente che lui debba fare, ora che ci si aspetta da lui soltanto che resti calmo, ascolti ed accetti, non si sente in grado.
Rose ruota su se stessa, restando seduta sul pavimento a gambe incrociate ma voltandosi verso la mamma, seduta sul divano, le gambe raccolte sotto il corpo. Dave la imita, inspirando ed espirando profondamente. Nessuno dei due dice una parola mentre la mamma racconta di lei e papà da ragazzini, dell’amicizia profonda che li legava, di come – da parte di mamma – ci fosse ben più che solo questo, di quell’amico comune di nome Jake del quale poi hanno perso le tracce. Di quello che papà provava per lui. Del modo in cui fra loro non è mai nato niente. Di quello che papà ha provato in seguito al rifiuto, di come mamma gli sia rimasta vicina, di quello che hanno provato a fare, convinti che fosse meglio così, che fosse meglio restare uniti che soli. Dei fantasmi che papà non è mai riuscito a scacciare, perché sarebbe stato impossibile per lui farlo. Delle menzogne che ha raccontato solo ed esclusivamente a se stesso, perché neanche per un minuto, neanche per un secondo mamma si è illusa di non sapere perfettamente che lui le restava accanto per obbligo, per affetto, per abitudine. Mai per amore.
Mamma parla lentamente, senza rabbia. L’imitazione di sorriso che le arriccia le labbra rende il tutto ancora più triste di quanto già non sia.
*
Quando papà si fa sentire, è passato un anno da quando è andato via. Non è abbastanza da stentare a riconoscere la sua voce, naturalmente, ma è decisamente abbastanza da non credere a ciò che sente per una quantità infinita di secondi.
Anche stavolta, è un momento senza importanza. Dave sta lavando i piatti dopo pranzo quando il cellulare squilla, ed a lui tocca prodursi in acrobazie non indifferenti per recuperare il telefono senza che si bagni troppo e poi tenerlo in equilibrio fra la testa e la spalla dopo aver risposto.
E poi sente la voce di suo padre e il telefono quasi scivola per terra. Perché, si domanda, perché adesso, perché in assoluto, perché, è tutto ciò che vorrebbe sapere, ma non chiede. Ascolta e basta, ed è suo padre a chiedere. Chiede di vedersi più tardi, e Dave accetta. Vorrebbe strillargli addosso che col cazzo che si incontreranno, col cazzo che vorrà mai più rivederlo o anche solo risentirlo per tutto il resto della sua vita, dopo un intero anno di fottutissimo e ingiustificato silenzio, e invece accetta, e non si lamenta nemmeno, mentre lo fa. Accetta e basta.
Passa le ore che lo separano dall’incontro fissando il vuoto ed immaginando i mille possibili modi in cui potrebbe andare, le mille possibili cose che potrebbe dire a suo padre, e lo fa sapendo che non gliene dirà neanche una, che oltre tutti i mille modi che ha ipotizzato ce n’è sicuramente un milleunesimo che non ha considerato, e sarà quella la direzione che il loro incontro prenderà, proprio l’unica che non ha neanche preso in considerazione.
Sono quasi le sei quando comincia a muoversi. L’appuntamento è per mezz’ora dopo. Indossa una maglietta pulita, un paio di pantaloni casuali, gli occhiali da sole, e quando passa dal salotto, senza neanche pensarci, prende Cal per un braccio e lo infila in un vecchio zainetto vuoto per portarlo con sé.
Rose lo intercetta un attimo prima che esca di casa.
- Dove vai? – gli chiede, il tono tetro, l’aria di una che non accetterà una bugia come risposta.
- Da John. – risponde lui. Lei lo guarda come se volesse ucciderlo e poi si chiude in camera sbattendo la porta. Lui si chiede perché abbia mentito nonostante sapesse che lei si sarebbe arrabbiata, perché era chiaro che, evidentemente, doveva averlo ascoltato mentre parlava con papà, o quella scena non si sarebbe mai nemmeno verificata. Si risponde che l’ha fatto per proteggerla, che dirle una bugia ha significato poter evitare di parlarne, di dirle “sì, sto andando a incontrare papà, ma ha chiesto di vedere solo me”, ma in realtà sa che, più che proteggere Rose, mentendo stava proteggendo se stesso dal confronto. Dal dover dire la verità.
Quando lo realizza è già a metà strada e quasi si ferma in mezzo al marciapiede, lo stomaco schiacciato in una morsa tanto dolorosa da impedirgli di respirare, le dita strette attorno agli spallacci dello zaino. Gli tornano in mente le parole di sua madre – siete davvero identici – e lui non vuole, Dio, non vuole essere identico a papà, ma forse non c’è niente che può fare per evitarlo. Forse è un’altra di quelle cose che succedono o non succedono. O forse lui sta lasciando che succeda.
Arriva al luogo dell’appuntamento senza neanche accorgersene. È un piccolo diner aperto quasi ventiquattro ore al giorno, ad angolo fra la via residenziale in cui è situato il suo palazzo e la via più trafficata, quella che conduce verso il centro. Dave ci passa davanti ogni mattina quando va a scuola, ed ogni volta rallenta il passo per godersi più a lungo il profumo delle ciambelle appena sfornate. Ne compra una giusto per togliersi lo sfizio, mentre aspetta che suo padre si faccia vivo. Non è appena sfornata, e forse è un po’ troppo unta, ma è buona lo stesso. La granella di zucchero multicolore gli scricchiola fra i denti e gli solletica il palato, ed a lui viene voglia di comprarne una scatola intera da portare a casa, per dividerle con mamma e Rose. Forse lo farà. A Rose piacciono le ciambelle. Potrebbe essere un buon modo per chiederle scusa e fare pace.
Sta giusto cercando di ricordare se ha portato con sé soldi a sufficienza quando suo padre appare sulla porta. Si guarda brevemente intorno, ma non deve notarlo, perché si dirige verso un tavolo vuoto e prende posto, e solo allora, quando solleva lo sguardo, finalmente lo vede, gli sorride e gli fa cenno di avvicinarsi.
Dave si muove meccanicamente, un passo dopo l’altro. Sfila lo zaino dalle spalle e lo appoggia sulla metà della panca che non occupa quando si siede di fronte a lui. Resta in silenzio quando la cameriera passa a prendere la loro ordinazione. Ascolta la voce di suo padre scandire attentamente ciò che vuole – un caffè amaro ed una pasta alla crema, per il bambino un caffè zuccherato e un’altra ciambella – e poi continua a restare in silenzio per il lungo lasso di tempo che passa da quando la cameriera si allontana verso la cucina a quando torna indietro con ciò che hanno ordinato su un vassoio.
Neanche suo padre parla. Aspetta di aver visto la cameriera allontanarsi verso un altro tavolo, poi sorseggia un po’ del proprio caffè, e solo allora lo guarda.
- Come stai? – gli chiede. Dave sente già le lacrime pungere sotto le ciglia.
- Bene. – risponde.
- Rose? – domanda lui, - La mamma?
- Bene anche loro. – annuisce. Poi si interrompe, ma suo padre aspetta pazientemente, perché sa già cosa aspettarsi. – Mamma dice che non l’hai mai amata.
Suo padre sorride appena, guardando in basso e stringendo la tazza ancora calda fra le dita.
- Lei ne è sempre stata convinta.
- Ma ha ragione. – dice Dave, sporgendosi in avanti verso di lui, cercando il suo sguardo per fronteggiarlo da pari, - L’hai lasciata. Quindi non la amavi.
- Le due cose non sono quasi per niente in relazione. – obietta suo padre, sorseggiando un altro po’ di caffè, - Anzi, direi proprio il contrario.
- Stronzate. – protesta Dave, tornando ad appoggiarsi allo schienale della panca e guardando in basso, - Non prendermi in giro. Non puoi permetterti di farlo. Sono cresciuto, papà, non sono più come mi ricordi. È passato un anno intero, cazzo, e tu non ti sei più neanche fatto sentire. Ho visto che hai portato via tutte le tue cose, sei entrato in casa mentre non c’eravamo? Ridammi le tue chiavi. – quasi ringhia, porgendogli il palmo della mano aperta.
Suo padre lo osserva serio, ma alla fine infila le chiavi in tasca e recupera il proprio mazzo di chiavi, passandoglielo senza una protesta. Dave le stringe con forza fra le dita, fin quasi a farsi male col bordo seghettato.
- È vero, - annuisce suo padre, terminando il proprio caffè, - sei cresciuto. Sei un uomo, ormai. Dovrai prenderti tu cura di Rose e della mamma, lo sai, no?
- No. – ribatte lui, guardandolo freddamente, - No, ci prenderemo cura l’uno dell’altro, perché è così che funziona. Anche se cerchi di fare tutto da solo, non sei l’eroe di nessuno. Sei solo un egoista che vuole che ogni cosa giri esattamente come lui ha deciso di farla girare. – abbassa lo sguardo, le mani che tremano. – Tu forse ti senti un grande eroe perché hai liberato mamma dal pensiero di stare con un uomo che non la amava. Magari sei qui e stai pensando che quando saremo grandi capiremo e ti saremo grati e chissà che altra stronzata. Sono tutte cazzate, papà. – sospira, - Piantala di prenderti in giro.
Suo padre gli concede un sorriso stanco, annuendo ed alzandosi in piedi.
- Sei un ragazzo intelligente, Dave. – dice, - Sai già che non ci rivedremo più, vero?
- E non me ne frega niente. – ribatte lui, allunando una mano a recuperare lo zaino e tirandoglielo quasi addosso, - Ma questo portatelo via con te, io non lo voglio più vedere.
Suo padre sbircia appena all’interno dello zaino, e quando scorge la grande faccia lucida di Cal quasi gli viene da ridere. Dave gli è grato perché non lo fa – è l’unica cosa della quale lo ringrazia, in realtà.
Lo osserva avvicinarsi alla cassa, pagare e andare via senza neanche un saluto, e resta lì, seduto su quella panca, sentendosi svuotato di tutto e, allo stesso tempo, incredibilmente pesante. Gli si avvicina una cameriera poco dopo, chiedendogli se ci sia qualcosa che non va. Forse vuole che gli incartino la pasta alla crema e la ciambella, forse vuole portarle via? Dave guarda la ragazza distrattamente e ci pensa, ma poi scuote il capo. Piuttosto, le dice, mi dia una confezione di ciambelle da portare via, quella la prendo. La ragazza annuisce e si allontana, e Dave resta seduto fino a quando non riporta indietro le ciambelle chiuse in una graziosa confezione rettangolare in cartoncino bianco.
Somiglia a un regalo, e Dave sorride. Sarà un modo perfetto per fare pace.