rp: kevin–prince boateng

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Malinconico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Flashfic.
- Zlatan vende la propria abitazione di Cernobbio, e si occupa personalmente di mostrarla ad un amico che, proprio in quel momento, cerca casa.
Note: Gemellina della sua omonima ad opera del mio diletto marito, scritta perché il Def ha il potere di farmi scrivere su qualsiasi cosa. *ride* E perché ci piaceva un mucchio l'idea di scrivere sul nuovo challenge di it100, e Zlatan ce ne ha dato immediatamente l'occasione. *ride*
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SAUDADE

»Paese
- Come vedi, la casa è in ottime condizioni. – dice Zlatan, attraversando il corridoio e spalancando tutte le porte perché Kevin possa dare una rapida occhiata alle stanze prima di osservarle più attentamente una per una, - Il paese è piccolo e qui sono abituati ad avere a che fare con le celebrità, non ti infastidiranno affatto. D’inverno c’è parecchio freddo, anche perché è proprio sul lago, ma i riscaldamenti sono a posto, controllati l’anno scorso, e non dovrebbero darti problemi. So che hai un bimbo piccolo, magari la cosa ti preoccupava.
Kevin si guarda intorno con aria un po’ sconvolta, accarezzando la carta da parati che ricopre le pareti. È soffice al tatto, liscia e piacevole.
- Cazzo, Ibra, questa casa è una favola. – dice con aria sognante, - Ha cinquecento stanze, e il parco, fuori…!
- Poi prendiamo la macchina e ti porto a fare un giro anche lì. – ride lui, spalancando uno dei balconi che danno sulla facciata dell’edificio ed appoggiandosi coi gomiti alla ringhiera. – Come vedi, - dice, e la sua voce, per un attimo, si fa distante, quasi antica, in un modo che Kevin non saprebbe spiegare, - anche la vista è fantastica.
Kevin si sistema al suo fianco, nella stessa posizione, e guarda dritto davanti a sé, oltre le cime degli alberi che si estendono per chilometri attorno alla villa. Si vede perfettamente il lago e tutte le splendide ville ottocentesche che lo circondano. Lo sguardo di Zlatan sembra perso in quella direzione, senza un apparente perché.
- Ibra… - lo chiama quindi, con aria un po’ incerta, - Perché vendi questo posto?

»Mondo
Zlatan non risponde. Serra le labbra, gli occhi che, senza volerlo, si fissano su Villa Ratti, in un gesto collaudato che, fino a due anni prima, lo riempiva automaticamente di un benessere inestinguibile, al punto che aveva preso ad affacciarsi in quel modo ogni mattina, e tanto gli bastava per essere di buon umore per tutto il giorno.
- Intendo, è un posto meraviglioso, - continua Kevin, aggiungendo concitatamente parole su parole su parole per cercare di seppellire l’imbarazzo con la propria voce, - e ora che anche tu sei tornato a stare a Milano mi sembra un po’ assurdo andare a stare da qualche altra parte quando si ha già tutto questo.
Zlatan si dice che è vero, è proprio assurdo. Ed è una cosa infantile e ridicola, tanto infantile e tanto ridicola che non ha avuto il coraggio di spiegarla ad Helena. Lei una donna abbastanza forte da sostenere tutto ciò che dice, ma soprattutto tutto ciò che tace, e lui le è stato grato come mai nella vita quando, alla notizia che non avrebbero più abitato lì, lei si è limitata a sorridere e a mettersi in modo per cercare un altro posto in cui alloggiare.
La verità è che non sa come riuscirebbe a venire a patti con quel posto, se dovesse tornare a viverci per forza. Con tutto ciò è stato e che ha rappresentato per lui, qualcosa di tanto forte da costringerlo a scappare, se non dall’altro lato del mondo, comunque in un luogo abbastanza lontano da permettergli di non pensare più a lui. Un luogo che adesso non serve più il suo scopo, perché era lontano ma non a sufficienza da impedirgli di raggiungerlo ancora. E ancora. E ancora.
- Vieni. – dice, interrompendo il flusso dei propri pensieri, - Ti mostro il resto.

»Universo
La verità, pensa Zlatan con un pizzico di rassegnazione mentre Kevin lo segue al piano di sopra, già eccitato all’idea di vedere l’attico e la terrazza, è che non esiste un solo singolo posto in tutto l’universo che potrebbe essere abbastanza lontano per tenere a distanza José. Non solo la sua persona, anche se Zlatan immagina che per lui sia davvero possibile arrivare ovunque, pianificando giusto un po’, ma soprattutto il suo ricordo, la sua essenza. Sa che questa cosa si ripete ovunque vada perché il pezzo di José che gli è rimasto conficcato come una spina nel cuore è troppo ingombrante e radicato troppo in profondità per pensare di strapparselo via di dosso, ma è comunque un pensiero che non riesce a dargli pace, perché ha sempre creduto di essere diverso, ha sempre creduto di essere abbastanza forte, forte a sufficienza per sconfiggere almeno il dolore sordo della nostalgia, e fino a prima di incontrare José gli era sempre, sempre riuscito. E ora, invece, non gli riesce più.
Dalla terrazza, Villa Ratti si vede con una chiarezza incredibilmente dolorosa. La facciata per metà bianca e per metà ricoperta di rampicanti gioca a nascondino con la folta vegetazione che la circonda, e le finestre brillano in controluce come volessero fargli l’occhiolino. Ogni riflesso lo abbaglia infastidendolo sempre più profondamente, fino a quando non sente il bisogno fisico di distogliere lo sguardo.
- È una gran bella casa, Ibra. – conclude Kevin, ammirato, sporgendosi cautamente oltre il parapetto e guardandosi intorno. – Ti prometto che ci farò un pensierino.
Zlatan annuisce brevemente, e spera solo che Kevin decida in fretta.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Jerome/Kevin.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest.
- A volte le cose semplicemente accadono.
Note: Non voglio dire perché l'ho scritta, altrimenti divento noiosa. XD Comunque loro due mi piacciono tantissimo, la loro storia è di un travagliato allucinante ed erano territorio troppo bello per mollarli senza scriverli nemmeno una volta. Amateli anche voi ♥
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THERE'S A THIN LINE 'TWEEN THE DARK SIDE AND THE LIGHT SIDE


Le dinamiche della sua famiglia non erano mai state semplici, né normali. Avrebbe imparato col tempo, crescendo, che quello della normalità era un concetto vago e sfuggente, quel tipo di concetto che per essere determinato aveva bisogno di riflessioni lunghe, complesse, articolate – riflessioni che lui non avrebbe mai avuto il tempo, la voglia e la necessità di fare – ma quando era un bambino l’interesse per le varie sfumature della definizione per la parola normale era scarso, se non del tutto assente. L’unica cosa che sapeva con certezza era che il colore della sua pelle era differente da quello della maggior parte dei suoi compagni di classe e che dove avrebbe dovuto esserci un padre a tempo pieno – perché così era per quasi tutti gli altri – lui invece non aveva nessuno. Non era qualcosa che lo facesse soffrire, lui un padre ce l’aveva, anche se era un padre part-time, ma trovava in qualche modo disturbante tornare a casa e sapere che un papà avrebbe dovuto esserci, quando invece non c’era.
Suo padre era andato via subito dopo la sua nascita. Come sua madre gli aveva detto quando s’era fatto grande abbastanza da poter capire, tra i suoi genitori non era mai stata una cosa seria. Era stata semplicemente una cosa che era accaduta. Avrebbe dovuto impararlo presto, Kevin, e sua madre glielo ripeteva spesso. A volte le cose semplicemente accadono, e non puoi impedirglielo. A volte non le vedi in tempo, a volte le vedi ma non sei abbastanza forte da interrompere il flusso prima che mandi tutto a puttane, e alle volte semplicemente non vuoi.
Sua madre non aveva voluto – con l’uomo con cui aveva procreato non aveva nient’altro in comune che un paio d’ore di divertimento – e suo padre non aveva mai vissuto con loro. Non che la cosa l’avesse sconvolto più di tanto, dopotutto, dal momento che aveva fatto presto a trovare qualcun altro con cui condividere qualcosa di più profondo e reale. A Kevin non dava fastidio, non gli dava fastidio il fatto di avere un fratello, o il fatto che Jérôme fosse stato abbastanza fortunato da rientrare in un’anormalità solo un po’ meno normale della sua, e in realtà non gli dava fastidio neanche tutto il resto, lo spostarsi per i weekend, l’andare in vacanza con un mucchio di sconosciuti, la solitudine e la noia e il sentirsi sempre distrattamente fuori posto ogni volta che per qualche motivo si ritrovava coinvolto in qualsiasi cosa avesse a che fare con la nuova famiglia di suo padre, semplicemente riconosceva della stranezza nelle dinamiche della sua famiglia. Una specie di distorsione nell’immagine di quello che avrebbero dovuto essere e che non sarebbero mai stati.
Forse era anche per questo che era stato svelto a mettere su famiglia. Non è che si fosse innamorato ed avesse deciso di mettere al mondo un figlio solo per far vedere al mondo che anche uno come lui era in grado di gestire una famiglia perfettamente normale, però trovava rassicurante la consapevolezza di esserci riuscito – di amare la propria donna, la madre di suo figlio, e di adorare il sangue del proprio sangue con la cecità assoluta tipica di chi non molla la presa neanche sotto tortura – ecco, lo trovava giusto, una specie di riequilibrio del karma, l’immagine distorta che tornava pulita, e nitida, come alla fine di un cerchio perfetto. Essere partiti da un punto ed essere tornati a quello stesso punto, ma più completi, più definiti, più precisi.
In realtà, l’unica cosa che davvero gli faceva rabbia era che per un cerchio chiuso ne rimaneva un altro disegnato solo a metà. Uno che era partito un’estate di più di venti anni prima, quando suo padre l’aveva portato nella sua casa nuova, gli aveva presentato la sua nuova moglie, poi l’aveva fatto sedere sul divano e gli aveva messo fra le braccia un fagotto immobile e addormentato, presentandoglielo come suo fratello e dicendogli di averne cura.
*

- …tu. – dice a bassa voce. Jérôme si volta a guardarlo e schiude le labbra per dirgli qualcosa, ma Kevin è più svelto ad allontanarsi. – Me ne vado. – dice, agitando un braccio come a voler scacciare via la sua stessa esistenza.
- Aspetta! – prova a fermarlo Jérôme, andandogli dietro, - Aspetta— Kev.
- Non chiamarmi così! – ringhia Kevin, voltandosi di scatto e fissandolo con rabbia.
- E come dovrei chiamarti?! – ribatte Jérôme, allargando le braccia ai lati del corpo in un gesto esasperato e incredulo, - Prince? Come tutti gli altri? Come un cazzo di stupido telecronista, come il nome che mettono negli elenchi delle formazioni?!
- Perché, cosa cazzo pensi di avere di diverso rispetto a tutti gli altri?! – grida lui, avvicinandoglisi solo per piantargli entrambe le mani sul petto e spintonarlo all’indietro, mandandolo a sbattere contro la balaustra della terrazza. Prende un respiro profondo, osservandolo serrare le mani attorno alla ringhiera per mantenersi in equilibrio. – Senti, volevo solo starmene un po’ tranquillo. – dice quindi, massaggiandosi le tempie, - Pensavo che non ci fosse nessuno. Me ne vado.
Jérôme aggrotta le sopracciglia, fissandolo astioso per qualche secondo, prima di dargli le spalle.
- Fai come cazzo vuoi. – grugnisce atono. E Kevin lo fa, come ha sempre fatto.
*

Lui e Jérôme avevano un bel rapporto, prima. Non che fossero migliori amici, o che si vedessero spesso, dopotutto, ma c’erano l’uno per l’altro, e le volte in cui Kevin si sentiva troppo oppresso dalle situazioni e da quelle dinamiche che lo mandavano fuori di testa, Jérôme c’era.
Jérôme non capiva perché lui non stesse bene, e d’altronde non avrebbe mai potuto, dal momento che non l’aveva provato sulla propria pelle, ma questo non era davvero importante, perché Jérôme non aveva bisogno di comprenderlo, per farlo stare meglio. Per la verità non aveva nemmeno bisogno di parlare, o di fare qualcosa in senso generico. Il più delle volte, bastava che ci fosse. E non era nemmeno necessario che fosse un buon ascoltatore – cosa che non era, comunque, dato che si distraeva con ogni minimo disturbo – dal momento che a Kevin non è che parlare piacesse poi così tanto. Parlare di cosa, poi? Non ce n’era bisogno, tutto quello che avevano necessità di scambiarsi era un po’ di calore umano e la consapevolezza di esserci, lì, entrambi.
Quando Kevin aveva compiuto tredici anni, per la prima volta suo padre l’aveva portato in vacanza lontano da Berlino. Erano partiti tutti assieme – lui, suo padre, sua moglie e Jérôme, naturalmente – ed erano andati in un paesino di montagna di cui non aveva mai fatto in tempo a memorizzare il nome. Avevano preso una villetta in affitto, niente di così grande, solo per una settimana. Il piano avrebbe dovuto essere quello di sciare, ma il primo giorno suo padre era caduto facendosi male, la qual cosa naturalmente aveva costretto tutti a cambiare programmi, ma la cosa che preoccupava di più in assoluto Kevin era l’incapacità di addormentarsi.
La villetta non era enorme, ma aveva sufficienti camere da letto perché Kevin e Jérôme non dovessero dividerne una. La cosa non avrebbe dovuto infastidirlo, dal momento che a casa propria, con mamma, era abituato a dormire in camera da solo, ed anche a casa di papà aveva il suo divano-letto in una stanza a parte, ma per qualche ragione stare così tanto lontano da casa, da mamma, da tutto ciò che conosceva, lo indisponeva oltre ogni limite.
La prima e la seconda notte non aveva chiuso occhio, e quando alla terza Jérôme, andando in bagno verso le tre del mattino, l’aveva trovato seduto al tavolo della cucina a fissare un bicchiere di latte semivuoto con aria persa e assente, lui non aveva perso tempo a chiedergli se gli dava fastidio dormire insieme. Era strano che il pensiero di dividere il letto con qualcuno con cui non l’aveva mai diviso fosse così confortante, ma era stanco, assonnato, impaurito e triste, e non gli era sembrato il caso di porsi troppe domande.
Non lo aveva fatto neanche Jérôme.
*

- Non ci siamo visti quasi per niente per un anno intero, - commenta Kevin in un ringhio sommesso quando, dopo aver aperto la porta, trova Jérôme appena oltre la soglia, - ed ora improvvisamente ovunque mi giro tu ci sei.
- Ti stavo cercando. – ribatte seccamente Jérôme, incrociando le braccia sul petto, - Posso entrare?
- No. – risponde Kevin, - Puoi sparire, però. – suggerisce, provando a chiudergli la porta in faccia. Il tonfo con cui la mano di Jérôme si abbatte contro la superficie della porta, per impedirle di chiudersi, è talmente forte che alcuni dei ragazzi che perdono tempo affacciati al balcone del corridoio si voltano a guardare verso di loro, incuriositi e forse anche parzialmente preoccupati.
- Prima o poi dovremo parlare. – dice Jérôme in un sospiro triste.
- Non necessariamente. – osserva lui, - Possiamo anche solo aspettare che i Mondiali finiscano, e arrivederci e grazie per almeno altri quattro anni.
- Kevin—
- Non mi interessa. – insiste Kevin, spingendolo discretamente lontano dalla soglia, - Hai avuto la tua occasione per parlare. E hai detto tu di non voler avere più niente a che fare con me. La vita non ti offre sempre una seconda chance— o per lo meno, io non intendo dartela. – sospira pesantemente, distogliendo lo sguardo. – Vattene, Jérôme. – dice, chiudendo la porta ed appoggiandovisi di schiena, chiudendo gli occhi e rilasciando in un solo respiro tutta l’aria che ha in corpo, come a volersene svuotare del tutto. – Sparisci.
*

Non è che fra loro avesse cominciato ad andare male per un qualche motivo specifico, in realtà. Semplicemente lui s’era fatto più grande – entrambi lo erano, per dirla tutta – suo padre s’era fatto più vecchio, la vita era cambiata, così come gli impegni, le priorità. Si erano semplicemente allontanati, era accaduto, come tutte quelle cose che accadono e basta, come gli aveva sempre detto mamma.
Quando si erano ritrovati a giocare insieme in Under 21, era stata una sorpresa solo perché, fra una cosa e l’altra, nessuno dei due aveva davvero trovato il tempo – o la voglia? O semplicemente il motivo – di sollevare la cornetta ed avvisare l’altro.
- I Boateng in camera insieme. – aveva detto l’allenatore, e non c’era stato motivo di protestare, perciò era accaduto.
Era semplicemente accaduto.
Jérôme gli era mancato.
Era semplicemente accaduto.
Il calore umano.
Era semplicemente accaduto.
Il paesino di montagna.
Era semplicemente accaduto.
Guardarlo e trovarlo diverso.
Era semplicemente accaduto.
E non riuscire a dormire.
Era semplicemente accaduto.
Il calore umano. Solo il calore umano.
Era semplicemente accaduto.
Era accaduto e basta.
*

- Ma non ti stanchi mai di provarci?
Jérôme si lascia sfuggire un sorriso piccolissimo, stringendosi nelle spalle.
- Mi sembri di umore migliore, oggi. – dice, una punta di curiosità nella voce. Kevin fa un cenno col capo, come a non dare troppa importanza a quest’ultimo commento.
- Ho pensato tanto.
- E hai deciso che ora posso entrare?
Lo guarda a lungo, chiedendosi se davvero abbia deciso qualcosa. O ci sia qualcosa da decidere in generale.
- Forse. – risponde vago. Jérôme sospira profondamente, grattandosi la fronte e poi massaggiandosi la nuca con aria stanca.
- Voglio solo parlare. – lo rassicura, mettendo anche le mani avanti. – Solo questo. Poi me ne vado, giuro.
Kevin si scosta dall’uscio senza pensare, e lo lascia entrare.
*

Avevano entrambi dovuto prendere atto del fatto che ci sono distanze che un abbraccio non può colmare. Un abbraccio o qualsiasi altra cosa. Il calore umano lega gli individui solo se l’esposizione è costante. Se il legame si raffredda, anche lui si dissolve.
Quella notte, Jérôme e Kevin, nello stesso letto, ancora ansanti e sudati, s’erano guardati a lungo, e s’erano sentiti colpevoli e sporchi, e vuoti.
Avevano chiesto di cambiare stanza il giorno dopo.
Quando poi avevano litigato, per tutta la faccenda di Ballack, e Jérôme non aveva voluto restare al suo fianco mentre la stampa tedesca se lo mangiava viva, in molti s’erano mostrati stupiti di questa sua decisione. Erano fratelli, d’altronde. I legami di sangue passano sopra a queste cose, in fondo. No?
No. In molti s’erano chiesti perché e non avevano saputo rispondersi. Kevin, invece, non aveva nemmeno avuto bisogno di porsi la domanda, per conoscere la risposta.
*

Il respiro di Jérôme è caldo, incerto e troppo vicino. Kevin chiude gli occhi, sfiora il profilo del suo viso con le dita. Jérôme solleva le braccia, lo stringe al collo, gli accarezza la nuca. L’intera superficie dei loro corpi si tocca, e nonostante i vestiti riescono a sentirsi l’uno contro l’altro con la stessa intensità di quando erano due bambini prima e due ragazzi poi.
Semplicemente accade. Ed anche se questo non è esattamente parlare, Kevin non protesta.
*

Quando Jérôme e Kevin non si stringono la mano sul campo, dopo Germania-Ghana, Il mondo si domanda ancora una volta perché. Loro, invece, no.