rp: paul bellamy

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Language, What If?.
- Matthew Bellamy ha un sacco di paure cretine. Non che lo ossessionino, ovviamente, ma di certo non può ignorarle. Fra tutte, però, quella che sente più vicina è di sicuro la possibilità di potersi svegliare un giorno e riscoprirsi in tutto e per tutto uguale alla persona che più odia al mondo. Suo padre.
Note: Gh. Chiaramente non so che dire, perché nonostante sia stato un lavoro lungo, faticoso ed anche vagamente doloroso, non mi ha impegnato tanto intellettualmente quanto emotivamente. Ed alla fine, quando si scrive una cosa usando tanto il cuore e pochissimo il cervello, c’è poco da stare a ragionarci su.
Mi ha drenata.
E qualcuno dovrebbe fermarmi, quando mi metto in testa di marchiare nero su bianco cose che farebbero meglio ad essere dimenticate.
Comunque spero vi sia piaciuta, nonostante le ventiquattro pesantissime pagine di emoparanoia ^^
Devo creditare un mare e mezzo di canzoni dei Muse che sono il motivo preciso per cui amo Matt e per il quale ho seriamente paura di essergli per certi versi molto affine. E quando dico paura, intendo proprio paura. Io non voglio davvero essere affine alla mente di un uomo che produce musica per lucine colorate ;_; *depressa*
Comunque: la canzone che apre e chiude la storia è anche quella che le dà il titolo. Si tratta di Escape, tratta dal primo album dei Muse, Showbiz. Pare che dal vivo non l’abbiano proprio mai fatta, anche se non potrei giurarci. L’interpretazione “anti-paterna” me l’ha suggerita Stregatta, ed io mi ci sono appiccicata come una patella sullo scoglio, piangendoci su pure amarissime lacrime. Grazie gioia :* Se non me l’avessi suggerito tu, questa storia non sarebbe mai nata!
And if my wish comes true, you’ll never see me again” è un verso tratto dalla bellissima Host, una delle millemila canzoni anti-Teignmouth che Matty ha scritto mentre era palesemente depresso, e che oltretutto è anche la matrice da cui ho ripreso l’espressione “ed ammazzarli tutti, quei bastardi che l’avevano dissanguato a morte”. B-side del singolo di Cave.
You’re so happy now… burning a candle on both ends… Your self-loving soothes… and softens the blows you’ve invented…” sono invece versi tratti dall’altrettanto bellissima Fury, bonus track della versione giapponese di Absolution. Non si capisce perché i giapponesi debbano avere sempre il meglio -_- Comunque secondo me è una canzone che si adatta un casino al padre di Matt o.o Basta conoscere un attimino la storia della sua famiglia (qui ne avete un assaggio storicamente esatto, peraltro, tranne per i nomi dei fratellastri di Matt, che ho allegramente inventato io <3) per rendersene conto XD
Nel corso della narrazione cito anche Falling Down (sempre presa da Showbiz), che è la canzone in cui Matt dice che Teignmouth non l’ha mai fatto neanche “cominciare a cantare”, ed è anche lei un orgoglioso manifesto anti-patria, e Blackout, che è una canzone splendida tratta da Absolution e che mi sembrava si adattasse molto allo stato d’animo di Matt sul finale della storia. Ovviamente non c’è alcuna prova che le canzoni che io gli ho fatto scrivere in queste situazioni siano davvero state scritte proprio in questo modo. Licenza <3
Per essere totalmente sinceri, una cosa da dire su questa storia c’è: inizialmente doveva essere una BellDom o.o Ma non ce l’ho fatta XD Perdonatemi. E poi, secondo me ed anche secondo Nai, è meglio così u__u Prima o poi ne scriverò una è_____é *mente spudoratamente* Voi continuate a seguirmi, non si sa mai <3
PS: When Doves Cry è una canzone meravigliosa di Prince che parla – guarda un po’! – di divorzio, ed è una delle canzoni preferite di Matt.
PPS: Che Matt sia tifoso del Manchester United è una mia gioiosa invenzione è_é È che io amo il Manchester United. Punto <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Alla me stessa di dieci anni fa, perché proprio non se lo meritava.
Alla me stessa di cinque anni fa, perché il tempo, prima o poi, ricomincia sempre a scorrere, lo si voglia o no.
Alla me stessa di oggi, perché la rabbia potrà non essere il migliore dei sentimenti, ma come valvola di sfogo è insuperabile.
E infine, alla me stessa di domani. Perché non dimentichi. E non perdoni.

ESCAPE

You would say anything
And you would try anything
To escape your meaningless
And your insignificance
You’re uncontrollable
And we are unlovable
But I don’t want you to think that I care
I never would
I never could again

Matthew Bellamy aveva un sacco di paure cretine. Non che lo ossessionassero, chiaramente, ma c’erano, ed il più delle volte non poteva nemmeno ignorarle. Per dire, aveva una paura assurda di soffocare nel sonno – gli era rimasta attaccata addosso da quando aveva rischiato di finire davvero morto stecchito in quel modo allucinante, durante uno dei tour più folli che ricordasse, in Giappone l’anno precedente – che non riusciva a scacciare in nessun modo. Che nemmeno la prolungata sobrietà – per quanto sobrio potesse dirsi un inglese… sospettava che in realtà lui, come tutti i propri compatrioti, conservasse una quota d’alcool minima nelle vene pure quando non beveva da settimane. Giusto quanto bastava per carburare, ecco – o l’astinenza da qualsiasi tipo di droga erano riuscite a lenire. Tant’è che alla fine aveva pure smesso di privarsene.
Poi, va be’, questo lo sapevano tutti: aveva paura di restare incinto di un piccolo alieno da dover poi crescere ed accudire da solo, come figlio proprio. Ed aveva paura delle guerre, dei viaggi transatlantici, delle grandi città sconosciute, degli squali, degli orsi, di Tom quando si arrabbiava, del cane di Dom, di Chris quando si faceva crescere i baffi fino al mento e di perdersi negli aeroporti.
Soprattutto, però, Matthew aveva una paura che lo preoccupava fin nel profondo. Che sentiva molto più vicina e reale di tutte le altre, e che a volte lo tormentava proprio.
Matthew Bellamy era uguale al proprio padre. Solo fisicamente, almeno da quanto era riuscito a capire fino a quel momento della propria esistenza, ma era più che abbastanza per terrorizzarlo.
Suo padre aveva mollato sua madre – con due figli a carico – quando lui aveva appena compiuto tredici anni. Paul ne aveva tre di più. E sua madre era giovanissima, e di anni ne aveva appena trentaquattro.
Suo padre era l’uomo senza cuore che aveva lasciato tutti loro per rifugiarsi letteralmente nell’emisfero terrestre opposto a quello dove si trovavano, in Australia, per ricominciare una nuova vita con un’altra donna, altri figli e un nuovo lavoro nel quale impegnare tutto se stesso.
Suo padre era anche stato un musicista. Perfino piuttosto famoso, per quanto perennemente squattrinato.
Era un’altra somiglianza che Matthew proprio non poteva ignorare.
La sua più grande paura era questa: svegliarsi un giorno e scoprire di aver annullato tutte le differenze. Di essere diventato proprio lui.
La persona che più odiava in tutto il mondo.
*
- Io continuo a non essere d’accordo. – borbottò mestamente, accucciandosi in una posa molto emotivamente infantile sullo scomodo seggiolino della sala d’aspetto dell’aeroporto.
Dom roteò gli occhi e gli rispose con una botta neanche troppo delicata sulla spalla.
- Piantala di lamentarti, una buona volta. – lo rimproverò, - Non fai altro da quando abbiamo deciso di tornare per le vacanze!
- Non abbiamo deciso di tornare! – precisò lui, sollevando lo sguardo, - Voi avete deciso di farlo, e me ne avete parlato solo a giochi fatti!
- Probabilmente perché sapevamo che avresti reagito come un idiota isterico, non ti pare? – fu la laconica risposta di Dom.
Chris squadrò il batterista con manifesta disapprovazione e poi sedette accanto a Matthew, poggiandogli una consolatoria manona sulla spalla.
- Matt, avevamo davvero bisogno di una vacanza… - cercò di motivare, stringendogli calorosamente la nuca, come in un massaggio.
- Ma io sono d’accordo… - mugolò Matthew, lasciandosi andare contro quella mano dai balsamici poteri, - Però, a questo punto, non capisco per quale motivo non sono potuto andare in Costa Azzurra con Tom! Scommetto che mi sarei divertito di più!
Chris sospirò e gli diede qualche altra amichevole pacca sulla schiena, mentre Dom intrecciava le braccia sul petto e lo fissava astioso.
- Perché anche Tom aveva bisogno di una vacanza. – rispose, - Da te. E poi, Matthew, da quanto diavolo è che non vedi tua madre?! – riprese a rimproverarlo, - Quella poverina finirà col dimenticarsi di aver mai avuto un figlio minore!
Matthew mugugnò un qualcosa di indefinito e tornò ad accucciarsi sul seggiolino, fissandosi le ginocchia.
Nella sua ottica, sarebbe stato molto meglio che sua madre procedesse una buona volta con le “pulizie di primavera”, e si dimenticasse totalmente di lui. D’altronde, Paul era più che sufficiente, come figlio. Era responsabile ed aveva un lavoro solido e si prendeva cura di lei.

Non somiglia affatto a nostro padre.

Per di più, quando a sedici anni diceva di odiare Teignmouth al punto che avrebbe desiderato raderla al suolo – ed ammazzarli tutti, quei bastardi che l’avevano dissanguato a morte – era serio. Era dannatamente serio, perfino quando affermava che non sarebbe mai più tornato a casa se fosse riuscito a realizzare il suo sogno – diventare famoso, cantare e suonare per vivere, farsi ascoltare, una buona volta.

And if my wish comes true, you’ll never see me again.
Se ce la faccio, Dio, col cazzo che mi rivedrete più.
Cristo, ero serio davvero.


Valeva anche per Dom e Chris, allora, ma… be’, probabilmente il loro odio s’era smorzato. Considerevolmente. Forse addirittura fino a spegnersi.
Il punto era che da adolescenti erano stati tutti e tre piuttosto maltrattati dal mondo circostante. Fosse solo per il fatto che proprio non ce l’avevano fatta ad integrarsi con la parte migliore della scuola, fosse perché erano tutti piuttosto poveri – e quindi, anche volendo, altro che integrazione – fosse perché avevano comunque degli interessi che continuavano a sospingerli lontano dalla massa, o fosse, infine, perché ogni volta che mettevano mano ad uno strumento c’era sempre qualcuno pronto a dire loro che non sarebbero mai riusciti a concludere niente nella vita, non l’avevano mai capito. Non era nemmeno importante. Perché tanto il risultato era quello, no?
Le botte dei bulli, il disprezzo degli insegnanti, le prese in giro delle ragazze e la rassegnata frustrazione dei genitori. C’era poco da fare.
Crescendo, però, qualcosa era cambiato.
Di quello che era stato un comune desiderio di fuga, era rimasto molto poco.
Nel 2002, con un album universalmente adorato attualmente in cima alle classifiche di vendita di alternative praticamente in ogni stato del mondo, un tour trionfale che li aveva portati fino in Asia – in Asia, Cristo! – appena concluso ed una considerevole somma di denaro al sicuro in banca, c’era davvero poco, del loro passato, da cui valesse ancora la pena fuggire.
Perciò Chris aveva pensato di vendicarsi a modo proprio – comprando una villa in campagna per Kelly e i bambini. Proprio nei dintorni di Teignmouth – e Dom di far risalire in superficie quella vena di attaccamento mammone per la quale l’avevano sempre sfottuto perfino fra loro.
Il risultato di quella brusca virata emotiva era stato il ritorno a casa.
Era contento per i suoi amici, perché era evidente desiderassero recuperare le proprie radici, ma…

…ma cazzo. Io le mie radici le ho strappate a forza dal terreno. Ora si muovono con me. Le mie radici sono ovunque io vada.
Però il suolo del Devonshire è malato. È putrido. È saturo di ricordi che preferirei cancellare. Di fantasmi che non ho alcuna voglia di incontrare.
Se torno lì mi ammalo e muoio. Lo sento.
Se torno lì… chi mi salva da papà…?


Scosse il capo, ficcando con forza le mani fra i capelli rossissimi e disordinati sulla testa.
A sua madre sarebbe preso un colpo.
Gli avrebbe sicuramente detto che poteva anche essere d’accordo se decideva di mettersi a fare il pittore, ma che le tele da disegno esistono proprio per non dover utilizzare come tali i propri capelli, “perciò vedi di tornare al colore originario, ragazzino, che non ti ho dato quell’adorabile castano biondiccio per non godermelo!”.
Il castano biondiccio non era di sua madre, dannazione anche a lei.
Era di suo padre.
Sua madre aveva i capelli corvini ed era pallida come Biancaneve. Sua madre aveva trasferito i propri geni direttamente a Paul. Paul e lei erano identici.
Anche lui era il perfetto riflesso di qualcuno. Solo che era un qualcuno di cui neanche sopportava la vista.

Mamma, se non mi concio in questa maniera è difficile perfino guardarmi allo specchio, sai…?

Avrebbe dovuto abituarsi. E basta.
- Ehi… - mormorò Dom, scivolando spalla contro spalla su di lui, - Dai, calmati. Non sarai mica solo! – cercò di consolarlo, sorridendo dolcemente.
- Chris va a stare fuori… e tu vivi dall’altro lato della città!
- Teignmouth è un buco talmente minuscolo che se lo cerchi sulla cartina neanche lo vedi! – rise ancora Dom, omaggiandolo di una divertita pacca sulla spalla, - Non sarà difficile trovarmi, se avrai bisogno di me!
- E poi noi andremo in spiaggia praticamente ogni giorno… - aggiunse Chris, annuendo deciso, - Tu stai a due passi dal lido, vero? Potremmo andare insieme, ai bambini farebbe un enorme piacere giocare un po’ con te… devi ancora ad Alfie il più maestoso castello di sabbia di tutti i tempi, non fartelo ricordare ogni estate!
Si lasciò andare ad una risatina che aveva molto più di rassegnato che di effettivamente consolato, ma sperò che i suoi amici se la facessero bastare. Era il massimo che fosse disposto a concedere in quel frangente. Almeno in quel preciso istante.
Una voce metallica dagli altoparlanti li informò che l’imbarco del loro volo stava cominciando.
Il tour s’era concluso da meno di dodici ore. Da Leeds a Londra in volo.
E poi un treno che non sopportava, perché era già vecchio e distrutto quando lui era un bambino, e da allora non era mai cambiato.
Fino a casa.
Anche lei vecchia e distrutta da sempre.
Anche lei, da sempre identica a se stessa.
*
Il treno cigolava fastidiosamente già da una ventina di minuti. Succedeva sempre, ed era una normalità che gli portava alla mente tanti di quei ricordi agrodolci e terribili che a volte doveva necessariamente trattenere il fiato per non esplodere in singhiozzi di nostalgia pura.
Per un motivo che non aveva mai compreso – probabilmente ricercabile nel fatto Teignmouth fosse, in fondo, un florido porto di mare ed anche una produttiva cittadina industriale – dalla stazione passavano decine di treni ogni giorno. Perciò, tornare a casa significava ogni volta attendere che l’unico binario che passava per quei lidi sperduti fosse sgombro o allineato o chissà cos’altro, e l’unico modo per non pensarci era lasciare che il tempo si diluisse da solo nella noia e, se si era fortunati, nel sonno.
Quando erano ragazzini non era così. Quando erano ragazzini, il treno non lo prendevano mai. Però ne osservavano passare a dozzine per tutta la settimana. Dai prati verdissimi che circondavano quella stazione minuscola, si vedevano i binari mischiarsi con la linea dell’orizzonte fino a sparire. Era bellissimo immaginarne il tragitto fino a Londra, e poi magari ancora più in alto, fino al cuore del cielo.
Ma adesso non avevano più alcun bisogno di immaginare niente. C’erano arrivati, nel centro preciso di quel fottuto cielo. E l’avevano spaccato pure in mille pezzi, con la stessa furia grondante rabbia e frustrazione e dannato sollievo con la quale in genere spaccava le proprie chitarre o la batteria di Dom, durante i concerti.
Quel panorama – quella stupida cittadina, quella stazione spoglia da fare pietà, le esistenze grigie di coloro che non erano riusciti a sottrarsi a quella quotidianità fatta di silenzio e anonimato – non era più una cosa per loro.
Teignmouth era squallida. Squallidissima.
Il suo palcoscenico doveva essere un altro. Nel suo palcoscenico, le luci si accavallavano impetuose l’una sull’altra come le onde del mare. Sentiva il battito del basso di Chris fino in gola, come fosse stato il suo stesso cuore. Sentiva le botte delle bacchette di Dom sulla pelle dei tamburi fin dentro le viscere. Il battere simultaneo delle mani di migliaia di persone regolava il ritmo del suo respiro, e le loro voci, amalgamate in un’orgia di cacofoniche assonanze, reggevano i fili dei suoi pensieri.
Nel suo palcoscenico, lui era tutto. Era ognuno di loro ed era tutti loro.
E poteva essere qualsiasi cosa.
Un prete una puttana un padre un figlio un messia. Dio in persona.
- Recuperiamo le valigie! Siamo arrivati!
C’era troppo entusiasmo nella voce di Dom. Non riusciva proprio a capire cosa ci fosse di tanto entusiasmante.
Aveva un pessimo presentimento.
Aveva sempre pessimi presentimenti, quando tornava lì.
Arrivava fino alla porta della sua vecchia casa sempre con un’angosciante massa di pensieri cupi ad ingombrargli la testa. Poi la porta si apriva. E sua madre era sempre un po’ più vecchia. E Paul era sempre un po’ più scocciato. E dentro di lui si faceva strada, sempre più profondamente, un terrore viscido e strisciante che gli ricordava che no, non sarebbe rimasto sempre tutto bello e comodo com’era stato fino a quel momento. Prima o poi, Paul si sarebbe davvero rotto i coglioni di giocare al figlio devoto. Prima o poi, una delle numerose donne che continuavano a susseguirsi nella sua vita avrebbe preteso qualcosa di più di un eterno fidanzato.
A quel punto, davvero, sua madre avrebbe ricordato di avere un altro figlio.
O, forse, l’avrebbe dimenticato sul serio: e sarebbe rimasta sola per sempre.
Non sapeva quale delle due possibilità fosse la peggiore. In ogni caso, lo spaventavano entrambe.
Aveva salutato Dom e Chris in stazione e si era diretto stancamente all’esterno dell’edificio, lasciando cadere lo sguardo intorno a sé come un’ombra distratta, in cerca di un taxi. Ci mise effettivamente un po’ di tempo a ricordarsi che in quel buco di cesso dimenticato dalla civiltà i taxi neanche c’erano. Era inutile perfino che passassero gli anni, Teignmouth restava una fogna. Puzzava pure, di fogna: di pesce marcio e fumi di scarico e dell’aria appestata di qualche migliaio abitanti – chissà se poi era vero? Chissà con quante persone condivideva il respiro in quel momento? Erano poche e riuscivano a mangiarsi tutto l’ossigeno. Tutto.
Teignmouth era un’enorme fossa biologica a cielo aperto.
Ripiegò in favore del vecchio autobus che prendeva sempre. La solita linea.
Quella che l’avrebbe portato direttamente a casa.

Cristo. Mi sono mai mosso davvero, da quando avevo sedici anni?
Mi sento in gabbia. Dio, Dio, Dio, odio questo posto. Lo odio davvero.


Ed odiava davvero ritrovarsi coi propri parenti. Paul faceva almeno un po’ di fatica per star dietro a lui e ad i Muse, ogni tanto lo andava a vedere per qualche concerto nel circondario, e quando si fermava a Londra passava sempre a trovarlo, perciò l’impatto per lui era meno traumatico, ma sua madre, sua madre!, viveva una realtà propria fatta di antiche canzoni in gaelico e tele dipinte a metà destinate a sbiadirsi nell’incuria del tempo. Sua madre ogni volta aveva difficoltà ad abituarsi alla sua faccia, ai suoi vestiti, al suo modo di passare il tempo, ai suoi atteggiamenti, perfino all’idea di lui. Sua madre, a volte, gli dava l’impressione di non conoscerlo affatto.

Mi hai cresciuto tu. Sono così per te.
Sono così perché non hai fatto che ripetermi come fosse lui. Dovevo prendere le contromisure adeguate. Dovevo essere diverso. Dovevo essere un me stesso completamente diverso da mio padre, ma siccome, in realtà, di lui non ho mai avuto un’idea così precisa, dovevo essere un me stesso completamente diverso da tutto il resto del mondo.
Non è facile, mamma.
Essere Qualcuno.
Non è facile nemmeno essere qualcuno senza maiuscola.


Casa lo accolse come al solito. Silenziosa e squallida. Era quasi ora di cena – sarebbe stato perfino giustificato aspettarsi il tintinnare metallico delle pentole contro i fornelli, che avrebbe reso tutto molto classico e molto normale – ma sua madre non sapeva cucinare ed utilizzava gli utensili da cucina giusto il minimo indispensabile per sfamare la propria prole. Avevano quasi sempre mangiato alimenti cotti al microonde o in forno.
Aprì il cancelletto d’ingresso, la cui serratura era rotta da sempre, e s’inerpicò lungo il vialetto sterrato che conduceva alla porta, strascicando faticosamente l’enorme ed anonima valigia nera che aveva riempito alla rinfusa un’ora prima di partire.
Bussò e ad aprirgli fu Paul.
Suo fratello schiuse la porta con una certa violenza, come stesse aspettando qualcuno.
Quel qualcuno non poteva essere lui, perché lui non aveva avvisato.
Paul dischiuse le labbra e modulò qualcosa che avrebbe potuto essere una parola qualsiasi. Non era importante.
Matt sorrise timidamente.
- Se stavi aspettando la tua ragazza attuale, - ironizzò, stringendosi nelle spalle magrissime, - mi dispiace ma non posso aiutarti.
Paul sembrò riscuotersi solo in quel momento. Ridacchiò, scuotendo il capo, e lo avvolse istantaneamente in uno di quegli abbracci così tipici di lui – che era robusto e altissimo e forte – che Matthew avrebbe preferito chiamare “casa” loro, piuttosto che l’ammasso di mattoni in disgregazione in cui ricordava di aver trascorso i pomeriggi più orrendi della propria adolescenza.
- Scricciolo… - borbottò suo fratello, scrollandolo rude un po’ qua e un po’ là, - Non ti aspettavamo.
- Sì, lo so. – mugugnò lui, separandosi a malincuore dal corpo caldo dell’uomo.

Dannazione. Dannazione pure ai ventiquattro anni suonati che non mi permettono di pretendere qualche coccola in più.
Mi sento stupido perfino a pensarle, certe cose.
Coccole.
Eppure ne vorrei un po’. Davvero.


- Non hai scelto un buon momento, sai? – continuò suo fratello, impossessandosi della valigia e facendogli strada in casa, - Cristo, sei magrissimo! Ma ti danno da mangiare?
- Ero così pure l’ultima volta che mi hai visto… - si lamentò lui, stringendosi ancora nelle spalle, - E comunque che vuol dire che non ho scelto un buon momento? È un modo carino per farmi sapere che sono diventato indesiderato in questa famiglia?
Paul lo fissò offeso, dandogli uno scappellotto sulla fronte.
- Bestia che non sei altro. – sbottò, - Sei sempre il benvenuto, lo sai. Solo che in questi ultimi giorni c’è stato… un piccolo imprevisto.
- Insomma, la pianti o no di fare il misterioso? – mugolò lui, lasciandosi andare con un tonfo irritato sul divano del piccolo salottino di casa, mentre Paul abbandonava la valigia in corridoio ed andava a sedersi sulla poltrona di fronte a lui.
- Non sto facendo il misterioso. – rispose Paul, con un sorriso stanco, - E comunque faresti meglio ad alzarti dal letto di papà. Non sono sicuro di che parassiti possano essere arrivati con lui dall’Australia, e preferirei non provarli sulla tua pelle.
- …come fai a dire di non stare facendo il misterioso?! Non capisco un accidenti di ciò che stai dicendo! E comunque…

…che c’entra papà…?

Il suo silenzio improvviso diede a Paul un po’ di tempo per sospirare e stirarsi meglio sulla poltrona rovinata.
- Dai. Sveglia.
- …Paul…
- Mary si è laureata.
Mary Bellamy.
Mary Bellamy era la prima figlia che suo padre aveva avuto con l’altra. L’altra non era sua madre. L’altra era una donna che lui aveva visto pochissime volte in tutta la sua vita. L’altra si chiamava Vanessa ed era tutto ciò che gli interessava sapere di lei – era, anzi, fin troppo.
Mary Bellamy era l’unica figlia femmina di suo padre. Mary Bellamy era una dei figli privilegiati: suo padre stravedeva per lei, proprio in quanto figlia unica. George Bellamy stravedeva anche per Paul: il primogenito è sempre il migliore, agli occhi di un padre. E George Bellamy stravedeva anche per Marty, l’ultimogenito. Anche lui, l’aveva avuto con l’altra. Ed era proprio piccolo piccolo, l’ultima volta che Matt l’aveva visto. Doveva avere sei o sette anni, allora. Adesso, probabilmente, era un allegro adolescente australiano.
In realtà, tutti i figli di George Bellamy avevano degli ottimi motivi per considerarsi dei privilegiati.

Tutti tranne me.
Che non sono proprio niente.
Il terzo. Che razza di posizione è “terzo”? Pure negli sport, chi prende il bronzo non è altro che uno sfigato.
E dire che io sono ricco e famoso e le masse mi adorano e…


- A Yale. – continuò suo fratello, ignorando di proposito il suo disagio, - Proprio oggi c’era la cerimonia di consegna. Insomma, papà voleva essere presente, perciò è venuto a stare qui per un po’, piuttosto che andare in albergo. E mamma è andata con lui.
Matthew deglutì prepotentemente – no, non si sarebbe fatto sconfiggere da quella gola traditrice, che decideva di chiudersi, abbandonandolo proprio adesso che aveva più bisogno d’aria in assoluto – e strinse con forza le mani attorno al tessuto sdrucito dei cuscini del divano, prima di separarsene con uno scatto isterico ed alzarsi in piedi.
- Sì. – annuì incerto, fissando il vuoto davanti a sé, - Ho scelto proprio un brutto momento.
Paul scrollò le spalle.
- Be’, camera tua è libera e pulita, come al solito. Perciò, se sei venuto per stare qui qualche giorno, si può fare.
La verità era che avrebbe preferito di gran lunga prendere e tornarsene a Londra. Come non fosse mai arrivato. Ma il solo pensiero di andarsi a rinchiudere nell’enorme appartamento vuoto che condivideva con Dom, Chris e Tom gli dava i brividi, soprattutto se sommato al fatto che l’afa tipica degli agosti della capitale in genere impediva qualsiasi movimento pure ai lombrichi, figurarsi lui, che era ancora più pigro di un lombrico, quando si metteva in vacanza.
Insomma, piuttosto che tornare indietro e morire di solitudine…

…piuttosto cosa? Preferisco morire qui?
Dio.
Non ho mai voluto morire qui.


- …ok, d’accordo, ho capito. Recupero la valigia e ti riaccompagno in stazione. – biascicò suo fratello, visibilmente deluso, alzandosi stancamente dalla poltrona.
- …no, dai. – lo fermò lui. Quel tono rassegnato gli era bastato, per decidere. – Resto. – cercò di sforzarsi di sorridere sinceramente. Avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe stato facile già dall’evidenza che la parola “sforzarsi” implicava una bugia. – È tutto a posto, tranquillo.
Paul si lasciò prendere in giro e lo strinse ruvidamente a sé ancora una volta, prima di cominciare letteralmente a trainare lui e la valigia al piano di sopra, verso la sua vecchia stanza.
Quella camera, in effetti, con gli anni era rimasta del tutto identica. Sua madre ne aveva un rispetto quasi sacrale – probabilmente perché le ricordava di un periodo sbiaditissimo nel tempo, in cui ancora capiva cosa passasse per la testa del proprio secondogenito e poteva perfino azzardare previsioni sulle sue decisioni future senza rischiare di sbagliarsi grossolanamente – e questo la portava a cercare di preservare tutto esattamente com’era rimasto nel giorno in cui Matthew – aveva poco più di sedici anni, allora – aveva sceso le scale trascinandosi dietro l’enorme valigia riempita di tutte le sue cose ed aveva annunciato che lui era pronto, perciò Paul poteva accompagnarlo in stazione.

Il primo treno della mia vita. Sedici anni, e quella valigia era piena più di speranze che di vestiti.
Esattamente il contrario rispetto ad adesso. Il mio bagaglio è pieno di stracci, ma la speranza l’ho perduta da qualche parte fra Londra e questo buco di merda.


Comunque, tornare in quella stanza era un po’ come tuffarsi nella parte migliore della propria adolescenza. Appesi alle pareti c’erano ancora i due poster dei Dream Theater che aveva comprato ad ognuno dei due concerti in cui era andato, il poster dei Metallica che aveva rubato impunemente a Jake al terzo anno delle medie e la sciarpa del Manchester United che s’era fatto comprare da Paul il giorno che, per andare allo stadio, aveva speso tutti i propri soldi e non gli era rimasto nulla neanche per una bandiera da sventolare mentre faceva il tifo.
Erano tutte cose che, da ragazzino, aveva amato con la passione di un devoto. Erano splendidi obiettivi irraggiungibili. Adesso l’autografo che aveva preteso da Heatfield in occasione del primo festival durante il quale s’erano ritrovati a condividere il palco suonava quasi una banalità, dal momento che continuava ad incontrarlo ovunque; avrebbe incontrato i Dream Theater al completo non appena fosse tornato a Londra – Petrucci, a quanto pareva era già lì: con un piede sull’acceleratore e un berrettino sulla testa, tanta era la voglia d’incontrarlo – e le partite del Manchester allo stadio erano diventate la normalità, quando non era in giro per lavoro.
- Sei stanco? – chiese suo fratello, sollevando di peso la valigia sulla scrivania, - Se vuoi puoi riposare un po’. Prima però togli dalla valigia qualsiasi oggetto strano o equivoco possa esserci. Sai che a mamma piace sistemarti la roba nell’armadio. Non voglio scene isteriche come l’anno scorso.
Scosse il capo con aria trasognata, lasciando scorrere le dita sul piumone celeste fresco di bucato che copriva il letto.
- Non ho portato niente di strano… - sussurrò assente, abbassando lo sguardo.
Paul sorrise.
- Starai mica mettendo la testa a posto? – lo prese in giro, - Guarda che non sono d’accordo. Ci tengo a mantenere il mio ruolo di figlio normale, io.
Matthew sorrise e Paul lo salutò brevemente, lasciandolo solo.
Si lasciò trascinare in un sonno leggero ed agitatissimo per le successive due ore circa. Continuò a rigirarsi nel letto in preda ad angosce di ogni tipo che non riuscivano però ad assumere una forma fisica tanto definita da permettergli di individuare il proprio nemico, fino a quando il cervello, esausto, non si arrese alle lusinghe di un sonno più profondo e desolatamente vuoto.
Quando si risvegliò, aveva del tutto perso il senso del tempo. Le tende in camera sua erano sempre state molto pesanti – in quel quartiere le case erano vicinissime, e sua madre era ossessionata dalla possibilità che i vicini si mettessero a spiare attraverso le tende troppo leggere, perciò aveva drappeggiato tutta casa con dei pesanti teli in spesso cotone dalla fibra grossolana, dei colori più impensabili. Le sue erano rosse. Un rosso talmente scuro da ricordare il colore del sangue. Contrastavano in maniera intrigante col chiarore azzurrino dell’intonaco sulle pareti, e col biancore immacolato dei pochi mobili dalle linee semplicissime che arredavano la stanza – il letto, la scrivania, un piccolo armadio ed una cassapanca da sempre sigillata della quale non aveva mai compreso l’utilità.
Quello era stato il suo mondo per una quantità d’anni che, a ripensarci, sembrava brevissima, ma nel momento in cui l’aveva vissuta era stata talmente lunga da dargli l’impressione non si sarebbe mai conclusa. Allora, il suo era un regno rosso e azzurro. Un regno in cui la luce del sole non riusciva a passare neanche al mattino, perché restava imprigionata nei nodi del tessuto della tenda, tingendola di rosso vivo. Ed anche quando riusciva a filtrare, almeno in parte, andava a scontrarsi contro le pareti e diventava solo un pallido riverbero celeste, più simile alla luce lunare che non a quella del giorno.
Aveva sempre adorato i colori di quella stanza. Forse per questo si sentiva tanto al sicuro fra quelle coperte.
Si voltò supino, decidendosi finalmente ad aprire gli occhi per cercare di capire che ore fossero. Quella lieve giravolta gli diede un sottile capogiro. Portò una mano a massaggiare la fronte e si rese conto che, in quel preciso istante, non avrebbe saputo dire neanche quanti anni avesse.
Sua madre lo guardava dolcemente dall’alto, seduta su una sponda del letto, esattamente come quando si costringeva a svegliarlo il sabato mattina verso le dieci e mezza, perché “non puoi mica dormire per sempre, anche se non hai da andare a scuola, piccolo”.
- La spazzatura l’ha portata fuori Paul ieri sera… - borbottò incerto, la voce ancora impastata dal sonno.

Ma che diavolo sto dicendo?
Che c’entra Paul, e che c’entra la spazzatura?
…che anno è? Dove sono?


Sua madre sorrise bonaria, nascondendo le labbra dietro una mano mentre sollevava l’altra in una carezza distratta lungo il profilo ossuto del suo viso.
- Ti vedo un po’ sciupato, Matty…
Lui la fissò con attenzione, mentre si sollevava pigramente a sedere. Nella penombra che invadeva la camera, sua madre non sembrava cambiata, rispetto all’anno precedente. In realtà, però, sapeva che, non appena la luce si fosse accesa, sarebbe stato inevitabile notare una nuova ruga d’espressione agli angoli della bocca o nel mezzo della fronte. Erano normali segni del tempo, ma non riusciva ad accettarli come tali. Gli sembravano solo inutili punizioni per chissà che crimine. I segni del tempo lo infastidivano.
- Sto bene… - si forzò a rispondere, scuotendo brevemente il capo, - Tu?
Marylin si strinse nelle spalle.
- Faccio del mio meglio per mandare avanti la casa. – rispose a bassa voce, - Tuo fratello mi dà una mano come può, ma come vedi l’edificio non fa che invecchiare… come tutto, più o meno.
Matthew si morse un labbro, aggrottando le sopracciglia.
- Questa stanza non cambia mai. – le fece notare, sostenendosi contro il materasso con le mani.
- Questa stanza è tutto quello che mi resta del mio bambino. – rispose lei, accarezzandolo ancora una volta dalla fronte al mento. – Ti ho disfatto la valigia. Ho messo tutto a posto nell’armadio. Hai portato tante cose…
- Sì, perché… - deglutì, - Abbiamo un po’ di tempo libero. Un bel po’. Il tour è finito e non abbiamo esattamente intenzione di infilarci immediatamente in studio, perciò… - si strinse nelle spalle, - pensavamo di restare per qualche settimana, ecco. Siamo qui tutti insieme.
- Oh! – il viso di sua madre si illuminò all’improvviso, mentre sulle sue labbra si apriva un sorriso tenero, - Anche Dom e Chris sono qui! – gioì allegramente.
Matthew non poté che rispondere a quella gioia con un altro sorriso, sistemando il cuscino dietro la schiena ed appoggiandosi contro la parete.
- Mi fa piacere. – concluse sua madre, ravviandogli indietro i capelli senza commentarne il colore, - Comunque dovresti scendere di sotto. – aggiunse poi, cautamente, - La cena è pronta.
Matt si lasciò andare ad un sorriso di scherno che aveva poco di crudele e fin troppo di nostalgico.
- Roast-beef e puré di patate in polvere, come al solito? – chiese ironico, inclinando lievemente il capo.
Sua madre non raccolse la provocazione. Evidentemente, non c’era proprio niente da ridere.
- Ha cucinato tuo padre. – sussurrò lentamente, quasi si sentisse colpevole. – Mi dispiace, Matt, non avevo idea che-
- Fa niente. – la interruppe lui, abbassando lo sguardo, - Immagino di essere comunque io in difetto.
- No. – corresse lei, fissandolo dritto negli occhi e trattenendolo lievemente per il mento, per impedire che lui distogliesse lo sguardo, - Anche se lo fossi in questa occasione, tuo padre ha raccolto talmente tanti torti nei vostri confronti, durante tutta la sua vita, che ne ha da compensare finché campa.
*
Aveva un ricordo molto preciso di suo padre, per due motivi diversi. Il primo era che, comunque, nonostante lui fosse andato via quando Matthew era ancora un bambino, tredici anni di vita non si possono cancellare. In tredici anni di vita hai tutto il tempo per imprimere nella memoria un’immagine più che precisa di tuo padre, anche se non lo vedi così spesso a causa del suo lavoro.
Il secondo motivo era invece di tipo più fisico ed immediato. Quando suo padre era andato via, Matthew l’aveva visto. Paul era andato a scuola, quel giorno, ma lui no. S’era sentito male. Era rimasto rintanato in camera, sotto le coperte, dimenticandosi perfino di avvertire, tant’è che i suoi genitori dovevano essersi convinti che fosse uscito presto, assieme a Paul, quando loro ancora dormivano. Era per quel motivo, probabilmente, che non ponevano freni al baccano che stavano facendo giù al piano di sotto. Si sentiva sua madre strillare attraverso il pavimento, e la voce bassa e grave di suo padre scuoteva l’edificio dalle fondamenta, come un terremoto.
Nonostante si sentisse debole e febbricitante, s’era alzato ed aveva arrancato lungo il corridoio, fino alle scale, e lì s’era fermato, aggrappandosi esausto al corrimano, ed aveva abbassato lo sguardo a spiare cosa stesse accadendo di sotto.
Proprio in quell’istante, suo padre era uscito dalla camera da letto e s’era diretto verso la porta, trascinandosi dietro la valigia. Non avrebbe mai dimenticato le spalle e la schiena sottili scosse da tremiti di rabbia, la mano stretta attorno al manico del bagaglio tanto violentemente da rendere le dita bianche come quelle di un morto ed i capelli, usualmente tenuti a posto da una quantità indecente di gel, scarmigliati e scomposti sul capo.
Non era riuscito a vederlo in faccia.
Ed aveva pure da ringraziare, per questo, perché era sempre stato convinto che, quel giorno, il volto di suo padre dovesse somigliare tragicamente a quello di un demonio.
Non l’avrebbe più dimenticato.
Per questo trovava quantomeno strana la figura che gli stazionava di fronte in cucina, quella sera, e che davvero era quanto di più dissimile al ricordo di suo padre avesse mai visto in tutta la sua esistenza. Quell’uomo tarchiatello, robusto, dalle spalle ampie e forti e dalle braccia muscolose, non assomigliava affatto a suo padre. Non poteva essere lui.
- …alla fine, sei proprio diventato un cantante.
Furono quelle le sue prime parole.
- Proprio quello che temevo.
Matt si morse le labbra a sangue.
- Ciao, papà.
*
Non era arrabbiato.
Gli sarebbe piaciuto poter dire di esserlo ed esserlo davvero, perché almeno sarebbe stato un sentimento chiaro cui aggrapparsi. Qualcosa di netto, di inequivocabile e, soprattutto, di abbastanza giustificato da non dare modo a nessuno di chiedergliene il motivo.
Invece si sentiva solo incredibilmente confuso.
Paul e suo padre parlavano tranquillamente della cerimonia di laurea di Mary, seduti l’uno di fronte all’altro sui due lati opposti del tavolo, e lui invece non riusciva a staccare gli occhi dal viso di sua madre, cupo e spento, che fissava intensamente il proprio piatto di pastasciutta come se la colpa della quale si sentiva responsabile fosse davvero troppo grande per pensare di sostenerla sulle spalle tese.
Il disagio di sua madre strideva fastidiosamente col tono rilassato e colloquiale della fitta conversazione di suo padre e suo fratello. Strideva al punto che, per un secondo, si sentì perfettamente in grado di odiare entrambi con la stessa intensità, perché era evidente Paul stesse tradendo anni ed anni di confessioni reciproche di disagio in favore di una tranquillità solo apparente e priva di sostanza.
Ricordava perfettamente le decine – centinaia – di volte in cui aveva fatto irruzione in camera di suo fratello, stringendo tra le mani qualcosa che era appartenuta a suo padre, che lui non aveva portato con sé e che sua madre non si decideva a gettare via. Non aveva neanche bisogno di parlare: Paul faceva una smorfia, si alzava in piedi – qualunque cosa stesse facendo – e borbottava “che ci fa questa spazzatura ancora qui?”, per poi coinvolgerlo in spericolati giochi pomeridiani in cui veniva scelto e portato a compimento il destino dell’oggetto – giù per lo scarico, sepolto nel letame di vacca delle fattorie appena fuori il circuito urbano, messo al rogo in giardino e così via.
Paul era entusiasta e triste e sollevato quanto lui, quando facevano cose simili.

E adesso gli parli come fosse tutto a posto. Come non avessi nulla da rimproverargli. Come fosse sempre stato un padre modello. Perché lo fai? Come diavolo ci riesci?

- Gli Stati Uniti d’America sono un bel posto, comunque. Penso che ti divertirai.
Sollevò lo sguardo dalla pasta che aveva a malapena toccato, posandolo su suo padre. Lui lo fissava a propria volta, sorridendo incerto.
- …come…? – biascicò, agitato. Non aveva la più pallida idea di quale fosse l’argomento di conversazione.
- Tuo fratello mi stava dicendo – gli spiegò lui, paziente, - che pensate di andare a Los Angeles per registrare il prossimo album.
- Oh, sì… - annuì lentamente. Ricordava di aver detto qualcosa di simile a Paul, nel delirio d’agitazione euforica che l’aveva colto quando Tom aveva ventilato l’idea, qualche settimana prima. – In realtà però stiamo aspettando di avere un po’ di materiale, prima di rimetterci a lavorare seriamente.
- Ma come? – inquisì suo fratello, stupito, - Mi avevi detto di aver scritto un sacco, in tour…
- Sì, ma…

Come dire? Non è niente di particolarmente convincente? Non sono dello stato d’animo adatto per produrre i deliri psichedelici che ho scritto mentre ero in viaggio in tutti i sensi? Sinceramente, al momento, preferirei attaccarmi al repertorio dei Cure come non faccio da quando avevo quindici anni, per lasciarmi morire in un letto di depressione?

- …posso scrivere di meglio. – concluse stringendosi nelle spalle.
Paul abbassò lo sguardo e mandò giù una forchettata di spaghetti, senza indagare oltre. Sua madre non aveva ancora detto niente.
Suo padre non mostrò segno di aver capito alcunché. Né di avere intuito il suo turbamento.
In effetti, non c’era poi molto da intuire.
Finirono di mangiare in perfetto silenzio. Sua madre sparecchiò mentre erano ancora seduti a tavola, e quello fu il segno che indicò a tutti fosse arrivato il momento di alzarsi e ritirarsi nelle proprie stanze. Che poi era esattamente ciò che aveva intenzione di fare Matthew stesso, indipendentemente da quale destino avrebbero scelto gli altri membri di quell’assurda famiglia improvvisata che si ritrovava.
Suo padre rimase in cucina ad aiutare sua madre, e Paul lo seguì in corridoio fino alla rampa di scale.
- Matt… - lo richiamò, mettendogli una mano sulla spalla, - Vuoi che salga su a farti un po’ di compagnia? Magari ti va di uscire?
Ridacchiò fra sé, scuotendo il capo.
- Per andare dove? – chiese ironico, - Cos’è, Teignmouth è improvvisamente diventata il paradiso inglese della movida, nell’anno in cui sono stato via?
Paul aggrottò le sopracciglia, infastidito.
- Be’, no. – borbottò, - Però magari potresti apprezzare le buone intenzioni.
- Ma le apprezzo. – sorrise lui, - Sono solo stanco. Usciremo domani sera.
- …e le buone intenzioni di papà? – chiese suo fratello a bruciapelo, senza guardarlo negli occhi.
Matthew ebbe un sussulto.
- Quali buone intenzioni? – sibilò ansioso.
- Ecco… - Paul si strinse nelle spalle, - Non sapeva che saresti venuto anche tu, ma indubbiamente venire a stare qui per un po’ è stato un passo avanti per cercare di ritornare non dico ad essere una famiglia unita, ma quanto meno a coesistere nello stesso universo senza sentire il profondo desiderio di sbranarci a vicenda…
- Tentativo un po’ tardivo. – rise amaramente lui, - Strano che gli sia venuto in mente proprio adesso, no? Adesso che i Muse stanno cominciando ad avere il successo che meritano, intendo…
- Ma non c’entra niente! – sbottò Paul, spalancando gli occhi, - Ti ho detto che è venuto per la laurea di Mary!
- Certo. – digrignò i denti, - Per quelli smuoverebbe i mari e i monti. Ed anche per te, ovvio. È venuto anche per la tua, di laurea.
- Se ti fossi laureato anche tu-
- L’equivalente della mia laurea avrebbe potuto essere il fottuto Leeds due anni fa! – precisò Matt, stringendo i pugni e smettendo di preoccuparsi per il tono della sua voce. – E invece no, tutto quello che ho ricevuto è stata una telefonata, e vuoi sapere cosa mi disse in quell’occasione? “Goditela finché dura e scopa”! Godermela e scopare, i suoi migliori auguri! Non un complimento, non un parere sulla mia musica, se n’è sempre fottuto alla grande, ed io adesso dovrei apprezzare le sue buone intenzioni?! Col cazzo!
Si voltò e risalì le scale a passo di carica, notando solo con la coda dell’occhio sua madre e suo padre affacciarsi dalla porta della cucina ed affiancarsi a suo fratello per fissarlo allucinati come fosse stato completamente folle.
Ed i folli erano loro, invece.

Fate passare me per pazzo, ma io so esattamente cos’è successo negli ultimi dieci anni. So perfettamente cos’è successo, perché il peso di quello che ho provato me lo porto ancora addosso.
Siete voi gli ipocriti, siete voi gli stronzi, siete voi che non avete capito un cazzo.


Decisamente tornare era stato un errore.
*
Ovviamente non era riuscito a dormire. I pochi ma intensi anni che aveva dedicato alla sperimentazione coatta di qualsiasi tipo di droga uscisse sul mercato – ma ricordati di non parlare mai di cocaina ed eroina, Matthew, va tutto bene fino a quando non si sniffa e non ci si buca – l’avevano convinto, per un certo periodo, di poter esercitare un controllo pressoché assoluto sulle proprie funzioni corporee. Quando prendeva qualcosa, gli bastava pensare intensamente “ho un mucchio di cose da fare, non posso assolutamente dormire!” per tornare in meno di un secondo vispo e sveglio come un grillo. Allo stesso modo, gli bastava pensare “bene, adesso voglio sognare un po’” per cadere in uno stato di sonno profondissimo dal quale, in genere, non riusciva a svegliarlo nessuno – almeno fino a quando non era lui stesso a decidere fosse arrivato il momento.
Aveva cercato di riprendere quel tipo di ritmo. Era dal Giappone non toccasse più alcuna sostanza stupefacente, perciò era ragionevolmente sicuro di non conservarne tracce nel sangue. Ciononostante, aveva davvero bisogno di annullarsi, almeno per il resto di quella notte.
Non c’era riuscito.
Alle due del mattino, sfiancato ed irritato, s’era rassegnato ad una notte insonne ed era uscito dalla stanza, dirigendosi al piano di sotto. L’intera casa era avvolta in una pesantissima cappa di silenzio. Riusciva a sentire il familiare russare di Paul solo se accostava l’orecchio alla porta della sua camera, e l’unico altro suono che, in qualche modo, riusciva a spezzare l’aria quieta dell’appartamento, era il respiro pesante e sommesso di suo padre, dal salotto.
Si diresse cautamente in cucina. Preparò un celere spuntino di mezzanotte – latte e cioccolato. In genere lo aiutava a dormire – e si piazzò davanti al piccolo televisore con antennina incorporata vecchio di millenni, che sua madre non riusciva proprio a buttare via.
Vagò brevemente fra i pochi canali che l’antenna riusciva a captare, prima di rendersi conto che a quell’ora non avrebbe trovato niente di interessante e perciò, a meno che non intendesse farsi beccare da qualcuno mentre fissava con aria incuriosita un porno soft da canale regionale, avrebbe fatto meglio a lasciare perdere.
Sintonizzò l’apparecchio su un canale che l’antenna non riusciva a captare, e rimase fermo a sorseggiare il latte, in ammirata contemplazione delle striscioline nere, grigie e bianche che invadevano confusamente lo schermo, perdendosi nello scratch fastidioso e straniante che veniva fuori dalle casse poste ai lati dell’apparecchio.
- Che stai facendo?
La voce di suo padre risuonò prepotente nell’ambiente isolato della cucina, infastidendolo. Si lasciò andare ad una smorfia e non si voltò a guardarlo, stendendosi più comodamente sulla sedia. Probabilmente era davvero troppo magro: a volte stare seduto sulle cose dure gli faceva dolere spaventosamente le gambe.
- Fisso l’origine dell’universo. – rispose seccamente, senza staccare gli occhi dallo schermo della tv.
Poté sentire sulla schiena l’occhiata perplessa di suo padre. Una sensazione fisica almeno quanto quella delle sue parole, poco più tardi.
- …è solo la televisione. – gli fece notare l’uomo, piuttosto confusamente.
Si lasciò andare ad un sospiro di compatimento.
- Quando non sono sintonizzate su nessuna stazione particolare, le antenne catturano anche una piccola percentuale di radiazione cosmica di fondo.
- …sarebbe?
- L’eco del big-bang. Una traccia di microonde che è tutto ciò che sia rimasto dell’esplosione che ha creato l’universo. È solo una minuscola quantità, ma-
- Minuscola quanto?
- …direi… il cinque per cento. Più o meno.
Suo padre si lasciò andare ad una mezza risatina, trascinando una sedia al suo fianco ed accomodandosi a propria volta di fronte alla televisione.
- Sei davvero cambiato, sai?
Matthew girò lo sguardo su di lui, fissandolo glaciale.
- Ma va’? Ricordi?, avevo tredici anni quando sei andato via.
- Allora non ti interessavi dello spazio… - continuò George, come se neanche l’avesse sentito, - Ti piacevano i cowboy ed i vecchi film con John Wayne…
Matthew sospirò, rotando lo sguardo.
- Ti prego. – sbottò lamentoso, - Quello era Paul. A dieci anni io volevo già fare l’astronauta.
L’uomo abbassò lo sguardo, colpevole.
- È vero… - mormorò, come stesse effettivamente rendendosene conto solo in quel momento, - Ed io ne ero pure felice, perché quantomeno se avessi fatto l’astronauta non saresti diventato un cantante.
Matthew ghignò e sbuffò una risata infastidita, distogliendo lo sguardo.
- E invece, guarda un po’.
George annuì e raccolse le mani in grembo.
- A te, comunque, pare stia andando meglio di come sia andata a me.

Ma tu, dannazione a te, sei andato in tour coi Beatles, cazzo. Fino alla fottuta Australia che è stato l’inizio di tutti i nostri guai.
Non è stata neanche colpa della tua incompetenza, se sei rimasto povero in canna. Avevi tutte le carte in regola per restare negli annali della storia della musica. Avevi fra le mani il primo singolo inglese avesse mai debuttato nelle classifiche americane al primo posto, Dio, sarebbe bastato solo perseverare un po’ e non dividerti fra due famiglie simultanee nelle due parti opposte del globo, e forse…


Scosse il capo.
- Be’, se permetti, questo era scontato!
- Sì. – rise lui, scuotendo il capo, - In effetti hai sempre avuto un talento straordinario. È incredibile la quantità di cose che hai imparato a fare tutto da solo.
Matthew pensò distrattamente che c’erano anche un sacco di cose che avrebbe decisamente preferito gli fossero insegnate, come per tutti i ragazzi normali. Andare in bicicletta, giocare a calcio, radersi. Le prime due non le aveva imparate affatto, tant’è che dalle bici cadeva sempre ed a giocare a calcio era una schiappa. Alla terza aveva dovuto pensare il padre di Dom, che, quando suo figlio aveva cominciato a dire di “voler portare la barba come Matt”, era corso ai ripari, indagando sulle sue intenzioni e scoprendo che lui non è che gradisse particolarmente quell’improvviso fiorire di peli molesti sulla sua faccia, semplicemente non aveva la più pallida idea di come prendere un rasoio in mano senza sfregiarsi, e non poteva certo chiedere aiuto a Paul, che in quel momento stava cercando disperatamente di accedere al Trinity College di Birmingham e quel benedetto rasoio avrebbe decisamente preferito usarlo per sgozzarsi piuttosto che per aiutare il proprio fratellino preadolescente a rendersi quantomeno guardabile.
- Comunque sono contento. – lo sentì aggiungere, quasi trasognato, - Scommetto che non ti sarebbe piaciuto granché ereditare la mia ditta.
Matt gli spostò addosso un’occhiata allucinata.
- …diciamo che non avrei accettato di farmene carico neanche se fossi stata l’ultima persona al mondo che potesse. È più corretto.
George sorrise ancora, più amaramente.
- In effetti è proprio così. Paul ha la sua vita qui, Mary ha altre ambizioni e Marty… - sospirò incerto, - Be’, Marty probabilmente non crescerà mai. Dovresti vederlo, va in giro vantandosi di essere un Bellamy… il fratello del cantante dei Muse… e tutti i suoi amici lo idolatrano…
Avrebbe voluto strillare che quello non era davvero suo fratello, ma sembrò troppo cattivo perfino a lui stesso, perciò si trattenne.
- E quindi che intendi fare?
George scrollò le spalle.
- Lascerò la ditta ad uno dei miei impiegati di fiducia. Ma sono comunque ancora troppo giovane per andare in pensione! – rise poi, stringendosi nelle spalle, - Quando accadrà, probabilmente mi ritirerò da qualche parte ad allevare vombati…
- …voche?
- Vombati. – rise George, divertito, - Enormi roditori carnivori tipici dell’Australia. Scommetto che ti piacerebbero.
Matthew scosse le spalle.
- Non li ho mai sentiti nominare.
Si sollevò dalla sedia e si sporse verso il televisore, spegnendolo dall’enorme pulsante rosso appena sotto lo schermo, e poi si diresse con noncuranza verso il corridoio, richiamando alla mente una memoria bambina di passeggiate notturne su quello stesso percorso, alla ricerca di qualche merendina da rubare in credenza e trangugiare in fretta e furia di fronte a un libro di Poe trafugato in libreria e letto sotto le coperte alla luce di una torcia elettrica.
- Matthew. – lo chiamò atono suo padre.
E istintivamente lui seppe che il momento che aveva sempre voluto evitare, e per il quale era scappato di fronte a qualsiasi possibilità di incontrare suo padre, in tutti quegli anni, era finalmente arrivato.
- Mi dispiace di essere andato via.
Matthew si bloccò sulla porta e strinse i denti.
- Non dirlo nemmeno per scherzo. – sibilò.
- Non sto scherzando… - si giustificò suo padre, a bassa voce.
- Be’, dovresti, cazzo! – ringhiò lui, voltandosi repentinamente, - Non ti è dispiaciuto, vent’anni fa, tenere il piede in due scarpe! Quindi vaffanculo, se speri che mi beva le tue scuse adesso, hai sbagliato persona!
- …gli esseri umani possono anche cambiare, Matt. – sussurrò suo padre, la voce rotta, - E pentirsi.
Matthew grugnì rabbioso e gli tornò davanti, fronteggiandolo a muso duro.
- Certo che possono. Ma aspettarsi un perdono a tutti i costi è da stronzi egoisti. – poi ghignò, allontanandosi di qualche passo. – In fondo, cos’altro avrei dovuto aspettarmi da te? – domandò retorico, prima di ripartire a passo di carica verso camera propria.

E Dio.
Guardami.
Siamo così uguali che mi faccio schifo da solo.
Sei sempre stato piuttosto impietoso ed assoluto tu, eh? Volevi delle cose e te le sei prese. Tutto ciò che desideravi, l’hai avuto.
Ed io, in fondo, sono così diverso?
Volevo la mia vendetta. Pare proprio che me la stia guadagnando.

*
You’re so happy now… burning a candle on both ends…
Your self-loving soothes… and softens the blows you’ve invented…


Dischiuse gli occhi nell’oscurità tipica della propria camera e l’unica cosa che pensò fu che quei versi non erano poi tanto male. Sarebbe probabilmente finita come con Escape, che non aveva ancora mai avuto il coraggio di cantare dal vivo, ma probabilmente sarebbe riuscito a tirarne fuori qualcosa di buono. Magari avrebbe potuto proporla per il nuovo album. Alla faccia di Dom che era convinto che dai periodi di riposo non venisse mai fuori niente di buono.
Suo fratello fece irruzione nella stanza senza bussare, agitato come se lo stessero inseguendo con un cannone carico.
- Matt! – strillò, varcando la soglia e richiudendosi la porta alle spalle con uno scatto secco, - Dio mio! – borbottò quindi, saltando a piè pari sul suo letto e sedendosi ai piedi del materasso a gambe incrociate.
Matthew, vagamente interdetto, lo fissò da sotto le coperte, spalancando gli occhi.
- Paul! – strillò quindi a propria volta, scattando a sedere, - Che diavolo ti sei messo in testa?! Ma sei mai cresciuto?!
- Senti chi parla! – lo rimbrottò suo fratello, afferrandolo per i capelli e strattonandolo rudemente verso di sé, per fissarlo negli occhi, - Che diavolo hai combinato stanotte?!
- …eh? – balbettò lui, incerto, tirandosi lievemente indietro.
- Eh. – sbottò Paul, lasciandolo andare, - Ieri sera ho lasciato papà tranquillo pronto a sprofondare nei propri universi onirici fatti solo di allevamenti di strani animali australiani, e stamattina lo ritrovo sulla soglia di casa con la valigia pronta per andare in albergo, chissà dove, poi, visto che qui notoriamente alberghi non ne esistono… cos’è, stai cercando di farlo scappare di nuovo?
Matthew smise di respirare con un singhiozzo strozzato, ed afferrò violentemente le coperte, inarcando le sopracciglia.
- …cioè. Non volevo insinuare che la prima volta fosse andato via a causa tua. – riparò suo fratello, mettendo le mani avanti, - Via, Matt, sai cosa intendevo.
- Non ho fatto niente! – ansimò lui, ancora turbato dalle sue parole, - Ha fatto tutto da solo!
- Ah-ha! – lo indicò Paul, come avesse appena verbalizzato la formula della quadratura del cerchio, - Allora è successo qualcosa!
Matt si strinse nelle spalle, sentendosi sotto attacco.
- Si è… messo a dire cose… - cercò di spiegarsi.
- Cose? – inquisì Paul, sollevando un sopracciglio curioso.
- Cose! – ribadì lui, palesemente infastidito, - Che gli dispiaceva, che non avrebbe voluto farci del male, cose così!
Suo fratello prese atto, annuendo pensoso.
- Quindi s’è scusato anche con te. Solo che a quanto pare tu non hai ritenuto opportuno reagire da persona assennata come me e mamma, chinando il capo e mettendoci una pietra sopra, e ti sei messo a litigare. – suo fratello lo squadrò con manifesta pietà, - Tipico.
- Piantala. – ringhiò Matt, sentendo montare la rabbia, - Fare le brave pecorelle remissive sarebbe agire da persone assennate?!
- Pecorelle remissive! – rise Paul, spintonandolo poco delicatamente verso il cuscino, - Hai una visione del mondo che s’è fermata all’adolescenza! Matthew, probabilmente non te ne sei accorto, ma nostro padre è invecchiato parecchio, e la vita familiare l’ha anche costretto a maturare considerevolmente…
- È maturato con la famiglia sbagliata. – ritorse lui, acido.
- Ah, sì? – chiese Paul, ghignando ironico e cattivo, - Ed è per questo che noi siamo stati abbandonati ed invece con loro sta da più di quindici anni?
- …questo è un colpo basso. – deglutì Matthew, stringendo la presa attorno al lenzuolo fino a sentire le dita perdere sensibilità, - E tu sei uno stronzo!
- Sto solo cercando – spiegò Paul, incrociando le braccia sul petto, - di costringere questo tuo cervellino bacato a lavorare come un cervello normale. Matthew, ognuno ha la vita che si sceglie. Lui avrebbe potuto restare per tenere fede ad un patto che non sentiva più di condividere, e rendere le nostre vite un inferno, tra litigi, incomprensioni e tradimenti. Non se l’è sentita di fare questa scelta.
- Adesso non farlo passare per un fottuto filantropo. – sibilò lui, - Ha solo inseguito la propria felicità, da egoista qual è!
- Non ho mica detto che il suo obiettivo primario fosse la nostra, di felicità. – precisò Paul, stringendosi nelle spalle, - Ho solo detto che la conseguenza del suo rimanere qui sarebbe stata causare a questa famiglia un disastro emotivo di molto superiore a quello che è stata costretta a subire.
- Senti, parla per il tuo disastro emotivo. – sbottò Matt, furioso, - Perché delle proporzioni del mio, a quanto pare, non hai la più pallida idea.
- Certamente. – cinguettò ironico Paul, in una moina che era una presa in giro pure piuttosto pesante, - Matty è stato quello che ha sofferto più di tutti. Quello che è stato peggio. Quello che ha subito le conseguenze peggiori. Non sai quante volte mamma mi ha ripetuto una cosa del genere, dicendo di andarci piano, con te, di assecondarti, di non farti mancare nulla. – sorrise sarcastico, inclinando il capo, - Sai cosa penso io, invece? Che probabilmente era vero, avevi sofferto più di tutti noi, perché tu e lui eravate così dannatamente identici da sembrare fratelli, a volte. Ma quello che è successo dopo, Matt, l’hai scelto solo tu. Tutta la sofferenza che hai continuato a provare in seguito a quello che è successo, te la sei andata a cercare. Ci sguazzi dentro da dieci anni. Cerchi di sublimarla in canzoni arrabbiate e stanche che non riesci nemmeno a cantare, ma cosa fai per essere felice? Eh? Te lo dico io: un bel niente. – sospirò, scuotendo il capo, - Che poi è anche colpa mia. Ti ho palesemente viziato.
- …hai finito? – si forzò ad interromperlo, la voce rotta e contratta di chi cerca di impedire a tutti i costi ai singhiozzi di trovare la via per fuggire dalle labbra.
Paul sollevò un braccio e gli posò una mano sul collo, accarezzandolo premuroso.
- Matthew, non mi fa piacere dirti queste cose. – ammise, inarcando le sopracciglia, - Ma qualcuno deve pur farlo. Mamma e papà si sentono prevedibilmente troppo in colpa per farlo, ma almeno a me, ti prego, dai un minimo di ascolto. Devi deciderti a venire fuori da questa cosa che ti trascini dietro, o non combinerai mai niente nella tua vita.
- Io sto combinando qualcosa! Lavoro come un mulo da quando avevo sedici fottutissimi anni, ho combinato più io di quanto non riuscirai a combinare tu in tutto ciò che ti resta da vivere!
Paul si scostò da lui, sorridendo tristemente.
- Davvero, ragioni ancora come un ragazzino. Le cose sono come le descrivi tu, oppure non sono affatto. Sono a tuo favore, oppure ti sono contro. Vedi tutto in bianco o in nero, malgrado i colori assurdi dei tuoi capelli.
Matthew abbassò lo sguardo. Era una battuta che, in qualsiasi altro momento, avrebbe trovato divertente.
In quel momento, però, no. Non c’era proprio un bel niente da ridere.
- Scricciolo. Mi fai un favore personale?
Sollevò appena lo sguardo, per fargli capire che lo stava ascoltando.
- Dagli una possibilità. Una sola. Non devi per forza volergli bene. Prova solo a non odiarlo.
Serrò le labbra, perché se non l’avesse fatto sarebbe davvero scoppiato a piangere. E poi scosse il capo.
- Non ci riesco. – biascicò sommessamente, - Non voglio. Lui non l’ha fatto, con noi. Dici che eravamo noi, la famiglia sbagliata, ma lui non ha mai davvero provato a verificarlo. Ha fatto solo ciò che era meglio per se stesso, e a noi non ha mai pensato. Tu riesci ad essere tanto buono da guardare avanti. O tanto adulto, non lo so. Non mi interessa. So solo che per me non è lo stesso. Io non ci riesco. – sollevò il capo, sorridendo tristemente, - Forse hai ragione tu. – ammise infine, sospirando stancamente, - Forse io e lui siamo proprio identici.
*
Era una giornata davvero splendida. Il cielo era terso ed il sole caldissimo. La spiaggia, affollatissima, si stendeva per chilometri di fronte a lui. Una striscia biancheggiante e luminosa, puntellata qua e là dalle macchie colorate dei costumi dei turisti.
Sorrise lievemente, sbottonando la chiassosa camicia hawaiana che indossava sul costume da bagno rosso e bianco, mentre scendeva la pedana che, dal marciapiede, portava alla sabbia caldissima rimestata da centinaia di piedi ogni giorno.
Chris lo individuò istantaneamente e sollevò un braccio, agitandolo in aria per farsi riconoscere. Matthew rispose con un breve saluto, affrettando il passo per raggiungere lui e la sua famiglia, accampati con tanto di ombrellone, sedie a sdraio, tavolino richiudibile e frigoborsa, in un angolino del bagnasciuga abbastanza lontano dalla riva per non essere soggetto agli assalti fragorosi e discontinui delle onde che si abbattevano ora rabbiose ora più quiete sulla costa.
- Cominciavo a credere che non saresti più venuto! – lo rimproverò scherzosamente il bassista, salutandolo con un mezzo abbraccio appiccicoso e sudaticcio che lo riempì di una strana contentezza nostalgica.
- Ho avuto qualche problema a svegliarmi. – si scusò lui, grattandosi nervosamente la nuca. – Kelly. – salutò poi, chinandosi a baciare la moglie di Chris, sdraiata su una sedia ed impegnata nella complicata operazione di visionare le vettovaglie che aveva portato da casa, in cerca di qualcosa di leggero da mangiare come spuntino di mezzogiorno, in attesa del pranzo.
- Matt, ciao. – lo salutò cordialmente lei, ricambiando il bacio, - I bambini impazziranno, appena ti vedranno.
- Ho cercato di prepararli ai tuoi capelli, ma parlare con dei topini di quell’età è del tutto impossibile, ho scoperto. – mugugnò Chris, vagamente agitato, - Vai a capire cosa gli gira per la testa. Alfie comincia pure a capire un po’ di come va il mondo, ma ha solo tre anni, in fondo, non posso mica pretendere la luna. Di Frankie non parlo nemmeno, si esprime per vagiti. Non so se mi capisce, ad ogni modo sono io che non capisco lui!
Matt si lasciò andare ad una risata divertita, lasciandosi andare sulla sabbia accanto a loro, riparandosi sotto l’ombrellone dalla luce bruciante del sole di mezzogiorno.
- Ma dove sono adesso? – chiese curioso, guardandosi intorno.
- Dom li ha portati a prendere un gelato. – rivelò Chris, con un ghigno ironico, - Il che vuol dire che, sintetizzando, Dom è andato a mangiare tre gelati di seguito. Alfie si annoia presto, coi cibi, soprattutto se sfuggono al suo controllo. Ed il gelato sfugge decisamente al suo controllo. Avresti dovuto vederlo ieri, poi magari ti racconto. E Frankie… voglio dire. Non sono neanche davvero sicuro sia un essere umano!
- Chris! – lo rimproverò Kelly, fissandolo come fosse un mostro.
- Senti, non è colpa mia! – borbottò scherzosamente lui, stringendosi nelle spalle, - Quando lo vedrai, capirai. Sembra un pupazzo! È bellissimo, ma…
- Piantala immediatamente, o ti sopprimo. – lo minacciò impietosa sua moglie, mentre Matthew si lasciava andare all’ennesima risata divertita.
Chris sogghignò e si chinò verso di lui.
- Adoro farla imbestialire così. – gli rivelò in un sussurro, - D’altronde, se non la faccio sfogare in questo modo, finirà per cominciare ad odiarmi davvero.
- Cosa stai borbottando lì in gran segreto?! – strepitò ancora la donna, tirandogli un panino avvolto in carta trasparente sulla testa.
- Niente, tesoro. – cinguettò lui, tirandosi dritto, - Commentavo con Matt quanto sia evidente e palese il tuo amore per me. – inventò, guadagnando in cambio un secondo panino, stavolta direttamente sul naso.
- E non ti azzardare a mangiarli! Sono i miei panini con l’insalata di pollo. – sbottò ancora Kelly, chinandosi a recuperarli per rimetterli nella frigoborsa.
Kelly e Chris erano la prova provata che l’amore potesse durare per sempre. Si conoscevano da quando avevano quindici anni. Non erano mai stati con nessun altro a parte loro stessi, e non avevano mai nemmeno sentito il bisogno di verificare se era proprio vero fossero fatti l’uno per l’altra o meno. Evidentemente, era una cosa che sentivano a pelle. E tanto bastava.

Vedi, Paul? Non sono io che vedo tutto bianco o tutto nero.
Il mondo è così.
Poi ci sono gli individui come nostro padre, che lo forzano a scoprire nuove tonalità di grigio. Ma sono loro quelli sbagliati.
La verità è unica. Ed inequivocabile.
Le mezze verità sono solo menzogne.


Il ritorno di Dom e della prole di casa Wolstenholme fu annunciato da uno strepitare euforico di bambini urlacchianti che miagolavano gioia saltellando qua e là come ranocchietti, battendo le mani e i piedini.
- Matt!!! – strillò Alfie, liberandosi dalla stretta della mano di Dom quando furono a qualche metro dall’ombrellone, per fiondarsi direttamente fra le sue braccia, - Aaah! Sei diventato un fungo!!! – commentò poi, indicando emozionato i suoi capelli.
- Un fungo? – biascicò Matthew, spalancando gli occhi, - Ah! Un fungo. Tuo figlio è diabolico!
Alfie rise con Chris, mentre il piccolo Frankie sghignazzava felice lasciandosi passare come un peluche dalle braccia di Dom a quelle della propria madre.
- Mamma, mamma, ho fame! – annunciò il primogenito del bassista, attaccandosi al prendisole della madre, - Tu non andare via, Matt! Dobbiamo fare il castello di sabbia!
Matthew annuì e sorrise, mentre Dom sospirava sfiancato e si abbandonava sulla sabbia al suo fianco, facendosi aria con una mano.
- I bambini sono un impegno troppo grande. – annunciò pomposamente il batterista, - Matthew, se mai dovesse venirmi qualche strana idea, ricordami che non ne voglio.
- Ah-ha. – annuì lui, sollevando sarcastico un sopracciglio, - Pulisciti il gelato alla fragola dal naso, però. Sembri la versione gay estiva di Rudolf.
- …che razza di immagine perversa. – commentò il biondo, sgranando gli occhi, - Ma ti ascolti, quando parli?! Ci sono dei bambini! E tu stai qui ad immaginare sodomie tra Babbo Natale e le sue renne…
- Ma io non ho mai parlato di niente di simile!!! – inorridì Matthew, tirandogli addosso una manciata di sabbia.
- Dom! – protestò a propria volta Chris, accigliandosi, - Alfie ripete le parole! Non è proprio il caso di-
- Che significa sodomia, papà? – indagò il bambino, tenendo evidentemente molto a dar ragione al proprio genitore – genitore, peraltro, che Kelly squadrò malissimo, e che non poté fare altro che sospirare e mugolare una richiesta di perdono indistinta, afflosciandosi sulla sedia a sdraio ed incassando a capo chino i rimbrotti esasperati di una moglie ciecamente convinta del fatto lui fosse davvero un pessimo padre.
- Sparite per un po’. – mugolò il bassista, prendendo entrambi i figli in braccio, - Mi tocca fare un po’ di coccole riparatrici, qui.
Matt e Dom sorrisero brevemente, tirandosi in piedi e scrollandosi svelti la sabbia di dosso, prima di indossare le scarpe e dirigersi nuovamente verso la pensilina in legno che, tramite le scale, li portò prima sul marciapiedi interno al lido e poi in strada.
- Andiamo a prendere un gelato! – esordì Dom, indicando un chioschetto variopinto e piuttosto folcloristico all’angolo in fondo alla strada che costeggiava la spiaggia.
- Ma sarà il millesimo… - lo rimbrottò Matthew, lanciandogli un’occhiata perplessa.
- Nah. – negò il batterista, scuotendo il capo e cominciando a contare sulle dita, - Ho mangiato solo metà di quello di Alfie. Naturalmente, ho dovuto mangiare tutto quello di Frankie. Gli ha appena dato una leccatina e poi ha cominciato a gorgogliare! – descrisse, gesticolando animatamente, - Sembrava un piccione. Glugluglu! E faceva le bollicine. Non ero mica sicuro che fosse normale. Perciò gliel’ho tolto di mano e l’ho mangiato io. Lui pare aver gradito. Chiaramente però dovevo anche mangiare il mio, quindi, alla fine-
- Alla fine, - lo interruppe Matt, sospirando e stringendosi nelle spalle, - meno male che hai uno stomaco di ferro. Altrimenti potevamo andare raccogliendo i tuoi resti per strada, davvero. E non sarebbero stati in una forma piacevole!
Dom fece una smorfia disgustata.
- Dio santo, oggi la tua mente è prodiga di immagini delle quali potremmo fare tutti a meno. – commentò, - C’è qualche problema?
Matt si lasciò andare ad un mezzo sorriso triste, stringendosi nelle spalle.
- Faccio prima a dirti i problemi che non ho.
Dom roteò gli occhi e cominciò a trainarlo con più decisione verso il chioschetto, prendendo posto su uno degli enormi sgabelli che ne fronteggiavano il bancone e sbuffando rumorosamente.
- Quando ti comporti così da ragazzina sei proprio intollerabile! – lo rimproverò, sollevando un braccio, - Cameriere! Due coppette al cioccolato!
- Ehi, aspetta! – cercò di fermarlo lui, agitandogli una mano di fronte al viso mentre “cameriere” lo squadrava con manifesta preoccupazione, visto che, evidentemente, anche lui aveva tenuto il conto dei gelati, - Io volevo un altro gusto!
- Quindi non lo mangi? Oh, be’, allora ho fatto bene a prenderlo di un gusto che piace a me! – concluse spiccio il batterista, stringendosi nelle spalle.
Matthew spalancò la bocca e gli occhi, e lasciò ricadere il braccio sul bancone, prima di rassegnarsi e scuotere il capo.
- Tutto questo non ha senso… - mugugnò, osservando la coppetta al cioccolato che prendeva forma davanti ai suoi occhi e poi si posava proprio di fronte a lui.
- Non siamo venuti qui per discutere del senso del gelato. – precisò Dom, rubandogli la coppa e prendendo a divorare avidamente la propria ordinazione, - Quindi, forza. Dimmi cos’è successo.
Matthew prese un respiro enorme e poi poggiò il viso contro una mano, incastrando il gomito spigoloso in una rientranza del bancone.
- Quando sono tornato a casa, ieri, ho trovato un ospite che non mi aspettavo e che, sinceramente, avrei pure fatto volentieri a meno di rivedere. – cominciò a raccontare, sollevando appena lo sguardo per registrare la curiosità di Dom, prima di proseguire. – Mio padre. – rivelò atono, - Mary, la mia sorellastra, s’è laureata a Yale, e lui è venuto ad assistere alla cerimonia.
- …e tua madre se l’è preso in casa? – inquisì Dom, giocando con il cucchiaino in plastica colorata fra le labbra, - Perdonami se te lo faccio notare, ma la tua famiglia è parecchio strana.
- Non mi dici niente di nuovo. – sospirò lui, stringendosi nelle spalle e lasciando ricadere le mani in grembo, - Fatto sta che lui è lì. E a quanto pare, mentre ero via, non è stato con le mani in mano.
- Spiegati?
- Be’, - borbottò evasivo lui, - sai tutto il repertorio di “mi dispiace avervi fatto soffrire” e “possiamo ancora volerci bene, nonostante tutto”? Ecco. E mia madre e mio fratello sembrano esserci cascati in pieno.
- Come si vede che siete geneticamente collegati! – rise Dom, mescolando il gelato con la palettina, - Ho avuto un lampo di te che parli coi giornalisti della fine del mondo e dell’importanza dei buchi neri mentre loro annuiscono interessati e devoti come se gli stessi sciorinando il Vangelo del nuovo millennio davanti!
Matthew aggrottò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, torturando con le dita il bordo dei boxer.
- …e questo è esattamente il problema, vedo. – commentò Dom quindi, chinandosi su di lui per cercare di intercettare il suo sguardo. – Ho detto qualcosa di sbagliato, anche se non sono ancora riuscito ad afferrare cosa. Risolvi tu, prima che la mia seconda coppetta si sciolga?
Matt si strinse nelle spalle, mordicchiandosi le labbra.
- …il fatto del collegamento genetico… - biascicò ansioso.
- Be’, è comunque tuo padre. – giustificò Dom, atono, - Mi sembra normale.
- Sì, ma – riprese il cantante, sempre più agitato, - non è questo il punto. È che lui a me fa veramente… - abbassò nuovamente lo sguardo, - veramente schifo. Dico sul serio. Mi ha fatto schifo quello che ha fatto vent’anni fa, mi ha fatto schifo quello che ha fatto dieci anni fa, e mi sta facendo schifo quello che sta facendo ora. Tornare indietro strisciando e chiedendo scusa… è disgustoso, Dom. E per di più è solo una farsa, perché comunque appena questo soggiorno terminerà lui tornerà in Australia e-
Dom lo zittì ficcandogli una cucchiaiata di gelato in bocca. Senza avvisarlo e senza smorzare l’impeto della propria decisione in previsione dell’impatto coi suoi denti. Matthew sussultò, mentre i suoi incisivi gelavano istantaneamente, ma il sapore che si diffuse sulla sua lingua era così inaspettatamente e piacevolmente dolce che dimenticò non solo di protestare, ma anche il filo del discorso che stava seguendo.
Sollevò lo sguardo e lo perse in quello chiarissimo di Dom, che lo fissava cupo, con un broncio familiare, uno di quelli con cui amava rimproverarlo tacitamente quando erano ancora due ragazzini e lui faceva o diceva qualcosa di platealmente stupido.
- D’accordo, Matt. – disse il batterista, - Questo l’ho capito. Ma tu che c’entri?
Matthew deglutì e fece per rispondere, ma Dom non gli tolse il cucchiaio di bocca, ed anzi, lo spinse più a fondo, come se volesse evitare a tutti i costi di farlo parlare.
- Tu non sei lui. – continuò infatti, lasciando il cucchiaino dov’era e procedendo all’assalto della seconda coppetta, - E non c’è neanche il rischio che ci diventi. Tu sei una brava persona, Matt.
*
Tu sei una brava persona. Sì. Proprio una brava persona.

Bellamy è sempre così disponibile. Così aperto. Gentile coi fan. Loquace con i giornalisti. Educato con i detrattori. Ha una buona parola per tutti, è proprio bravo, sì. Proprio una brava persona.

Me lo dicono tutti. Ho perso il conto delle volte in cui me l’hanno detto. Che sono gentile, che sono sensibile, che sono intelligente, che ho talento, che sono proprio proprio bravo, accidenti, in quello che sono ed in quello che faccio, proprio bravissimo.
Ha cominciato mio fratello. È stato lui, il primo. Mi ha preso, piazzato di fronte ad un pianoforte ed utilizzato come una marionetta per replicare sui tasti la sigla di Dallas. Io avevo cinque anni. Non capivo un accidenti di cosa stesse succedendo, lui era eccitatissimo e mi stava pure facendo male ai polsi. Sollevai gli occhi, lo fissai, lui mi sorrise e mi disse “Sei bravissimo!”, e da quel fottuto momento io non mi sono mai più staccato dal pianoforte.
Anche mia madre mi diceva sempre che ero bravo. Quando ho cominciato a portare i capelli lunghi, s’è accigliata come non l’avevo mai vista prima. “Sei così un bravo ragazzo”, ripeteva, “non capisco perché dovresti voler andare in giro conciato come un barbone”.
Per quanto riguarda Dom, mi disse che ero bravo ancora prima di sapere come mi chiamavo. Alle medie sembravo già patologicamente asociale. Quando lui mi si avvicinò, stavo seduto in un angolo del cortile e masticavo svogliatamente il panino al tonno che mi aveva preparato mia madre. Lui saltò giù dal muretto che stava disinvoltamente scalando alle mie spalle, piantò le mani sui fianchi, mi guardò sprezzante dall’alto per una quantità infinita di secondi e quando io, terrorizzato, mi azzardai a muovere un muscolo con l’intenzione di fuggire oltreoceano, mi sorrise e mi disse “Mi sembri una brava persona. Diventiamo amici?”.
Chris fu il primo a dirmi che ero talmente bravo che per me avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Non la mise esattamente in questi termini, ma il risultato delle sue decisioni, in fondo, non era che questo. M’invaghii totalmente di lui come musicista quando lo vidi passare dalla chitarra alla batteria nel giro di un anno, al liceo. Sembrava che nulla potesse sconvolgerlo davvero, era solido come una roccia ed a proprio agio di fronte a qualsiasi cosa. A me e Dom serviva un bassista. Lo avvicinai e gli chiesi di suonare con noi. Lui mi guardò un po’ diffidente, ma accettò di sentire almeno di cosa eravamo capaci, perciò costrinsi Dom a rinunciare ad un pomeriggio di – comunque infruttuosa – caccia alle donne per chiuderci nel garage di suo padre e suonare un po’ davanti a lui, e quando finimmo lui sorrise e disse “Però! A suonare il basso non sono proprio granché, ma tu sei veramente bravissimo! Accetto!”. A tutt’oggi, è il parere musicale di cui mi sia più importato in assoluto. Ancora più del giudizio dei fan.

Questa fottuta città. E mio padre. Solo loro due non mi hanno mai detto che sono bravo. Neanche hanno mai mostrato di capirlo. O di crederci.

Non avete mai compreso la mia voce. Non avete mai ascoltato davvero cosa c’era dietro. Non avete mai sfiorato il mio talento.
E come avreste potuto, d’altronde, se non mi avete mai nemmeno lasciato cominciare a cantare? Come avreste potuto, se non vi è mai interessato?

Quand’ero piccolo non facevo che strillare. Fino a sedici anni, fino a che non ho capito che per veicolare un messaggio dovevo anche farmi capire, per me la musica è stata solo uno sfogo. Sul palco io non cantavo, io sputavo i polmoni a furia di strepitare. E non suonavo, picchiavo la chitarra perché era l’unica cosa che potessi davvero tenere fra le mani e stritolare a morte. Lei miagolava la propria sofferenza ed io mi inebriavo della sensazione di potenza e di pienezza che mi dava. La trattenevo tutta dentro di me, fino a gonfiarmene, e quando diventava troppa ricominciavo a urlare e tiravo tutto fuori. C’erano certi concerti al termine dei quali rimanevo senza voce anche per una settimana intera. Erano i periodi migliori: perché la mia gola era esausta e la mia mente pure, e non avevo altro da dire. Avevo spazzato via tutto il veleno.
Poi la rabbia ricominciava a montare. Ed io ricominciavo ad urlare. Urlavo contro qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa.
Fortunatamente, poi, è arrivato Dennis Smith. Anche lui mi ha detto che ero bravo. Ci ha presi tutti e tre da parte, ci ha guardati estasiato, come fossimo dei messia, esattamente ciò che l’Inghilterra stava aspettando, ed in effetti poi ci disse proprio questo, “L’Inghilterra sta aspettando solo voi, siete delle gemme grezze perfette, avete solo bisogno di qualcuno che vi renda riconoscibili, perché per essere preziosi, quello lo siete già”.
Probabilmente, se non fosse arrivato lui, io avrei semplicemente continuato ad urlare. Ed a furia di urlare mi sarei fottuto la voce. E l’esistenza.
Ma cazzo. Contrariamente a Teignmouth e contrariamente a mio padre, io sapevo di avere talento. Ringrazio ogni giorno di essere sempre stato circondato da persone che mi hanno impedito di dimenticarlo.

Però adesso sto comunque dimenticando qualcosa. Lo sento, nello stomaco, nelle ossa e sul fondo confuso del mio cervello.
Io ero una persona.
Cazzo.
Io ero una brava persona.
Io lo sono ancora.
Io non ho proprio nulla a che vedere con mio padre.
Io sono onesto.
Ed è vero, cazzo.
Io sono onesto.
Con me stesso e con gli altri.

Io non ti assomiglio, maledetto stronzo.
Io non sono nemmeno tuo figlio.
Io sono figlio di mia madre, di mio fratello, dei miei migliori amici. Sono figlio della villa dei nonni e dei nonni stessi, sono figlio delle notti insonni passate ad ascoltare When Doves Cry e sono figlio di Jimi Hendrix. Sono figlio di Londra, sono figlio di Tom Waits e sono figlio di Tom, della Mushroom, dei funghetti allucinogeni e della mia musica.
Io non sono tuo figlio.
Io non sono il tuo fottuto figlio.
Io non sono te.

*
Suo fratello lo aspettava acquattato sugli scalini antistanti l’ingresso di casa, esattamente come si era aspettato. Sorrise divertito, nell’osservarlo sollevargli addosso uno sguardo terrorizzato ed ansioso, ed alzarsi in piedi per corrergli incontro.
- Peste! – lo rimproverò, avvolgendolo in un abbraccio caldissimo e sollevato, - Mi hai fatto preoccupare a morte. Potevi almeno avvertire che non tornavi per pranzo!
- Dom mi ha imbottito di gelato e ci siamo addormentati in spiaggia… - si giustificò lui, senza neanche provare a sottrarsi alla sua stretta, ed anzi godendosi il più possibile il tepore del suo corpo, nonostante l’arsura umida ed afosa del pomeriggio tipico dell’agosto marittimo.
- Spero almeno che non ti sia scottato come l’ultima volta. – borbottò suo fratello, trascinandolo in casa, - Non ci tengo a ripetere l’esperienza cui mi hai sottoposto tre anni fa. Dio, che schifo, al solo pensiero di passare addosso al tuo corpicino scheletrico tutta quella crema…
- E piantala! – borbottò lui, dandogli una debole quanto inutile manata sulla schiena, - Non mi sono scottato. C’era Chris con l’ombrellone.
- Ricordami di ringraziarlo per aver salvato il mio stomaco dalla nausea! – aggiunse Paul, ricevendo in cambio un maldestro tentativo di calcio allo stinco, degenerato poi in un mezzo autosgambetto con annessa pseudocaduta. – Sei un disastro umano. – commentò suo fratello, ridacchiando della sua goffaggine, - Mamma ti ha lasciato un po’ di pizza in forno. Entriamo e te la scaldo?
Annuì entusiasta e seguì Paul all’interno della casa. Sentì immediatamente l’eco attutita del televisore in camera da letto che annunciava che sua madre si stava sottoponendo alla visione dell’episodio odierno della telenovela che seguiva da ancora prima che loro nascessero, e sorrise ancora. Improvvisamente, tutte quelle piccole e monotone abitudini che l’avevano tanto infastidito, riuscivano soltanto ad intenerirlo.
In cucina, di fronte al televisore sintonizzato sulla radiazione cosmica di fondo, suo padre sgranocchiava oziosamente una mela. Paul ristette un po’ sulla soglia e lo guardò interrogativo, prima di entrare. Matthew gli sorrise rassicurante e gli chiese sottovoce se poteva lasciarli un po’ da soli. Suo fratello non sembrava molto convinto dalla possibilità, ma alla fine sorrise e salì in camera propria, dopo avergli ricordato di mangiare la sua pizza, se non voleva svanire nel nulla o volare via col prossimo soffio di vento.
George non ebbe bisogno di sentire la sua voce, per accorgersi che era entrato. Spense il televisore e scosse sconsolato il capo, incurvando le spalle.
- Stavo cercando di capire… - sussurrò, mentre Matthew si avvicinava al forno ed impostava la temperatura ed il timer per scaldare il proprio pranzo tardivo, - Ma proprio non ci riesco. Non ci sono mai riuscito, vero Matt?
- Temo di no. – rispose sommessamente lui, trascinando una sedia fino al suo fianco e sedendoglisi accanto. – Papà, ci ho pensato su. – annunciò quindi, osservandolo sollevare lo sguardo su di lui. Suo padre non mostrava nemmeno una scintilla di speranza, sul volto spento e sbiadito dagli anni. Probabilmente si aspettava già la sua risposta.

Perché probabilmente è vero. Ci assomigliamo molto.
Ma io sono cresciuto meglio.


- Io non posso perdonarti. – ammise, mantenendosi calmo esteriormente quanto interiormente, - Lo so che per te è dura. In qualche modo riesco a sentire… che per te è davvero pesante vivere con questo carico di rimorso. Però io non posso proprio perdonarti. Anche se ti dicessi che l’ho fatto, mentirei. E non sono bravo a mentire. Faccio casino con le varie versioni delle storie che invento e poi non faccio che contraddirmi da solo. Quindi, credimi, è meglio che ti dica la verità.
George abbassò nuovamente lo sguardo, annuendo tristemente.
- Va bene. – disse a bassa voce, - Lo apprezzo, Matt.
- Però, papà… - continuò lui, sollevando una mano a sfiorargli un braccio, - non devi più sentirti in colpa. Perché io non ti odio. – sorrise, - Odiarti significherebbe ammettere che mi fai ancora male. Ed anche questa sarebbe una menzogna, sai? Perché non mi ferisci più. Puoi stare tranquillo.
Suo padre tornò a guardarlo. I suoi occhi erano colmi di lacrime che lui non aveva intenzione di guardare, e George fu bravissimo e molto gentile a ricacciarle indietro e limitarsi ad annuire, sorridendo e ringraziandolo.

È il primo gesto veramente paterno che ti vedo compiere nei miei riguardi.
Non lo saprai mai, ma te ne sono grato. Solo un po’. Ma te ne sono grato.


Il campanellino del forno gli annunciò che la pizza era pronta. Lui si tirò in piedi e la recuperò, salendo poi di corsa in camera propria cercando di trangugiare l’intera fetta lungo il tragitto dal piano di sotto a quello di sopra.
Una volta al sicuro in quel paradiso rosso e azzurro che, grazie a sua madre, la sua stanza non aveva mai cessato di essere, si sedette alla scrivania ed aprì il cassetto che, quand’era ragazzino, utilizzava per conservare i fogli di carta sui quali finivano appuntati i versi delle canzoni che non voleva assolutamente dimenticare.
Negli anni, il contenuto di quel cassetto era stato evidentemente razziato da Paul. Non sopravvivevano che una matita mezza spuntata ed un paio di foglietti rosa.
Ridacchiò a bassa voce, posò ciò che restava della pizza al proprio fianco e cominciò a scrivere.
*
- Dio mio! – borbottò Dom, sobbalzando al ritmo del treno diretto a Londra, mentre lasciava scorrere lo sguardo sul foglietto scarabocchiato che Matt gli aveva passato, - Avresti dovuto dirmi che eri così depresso! Sarei stato più gentile nei tuoi confronti!
Matt incrociò le braccia sul petto, offeso.
- Ti ho chiesto un parere sul testo, non un’analisi psicologica della mia persona!
- Spiegami come potrei fare a scindere le due cose! – borbottò il batterista in risposta, agitandogli il foglio davanti al viso, - Vuoi un parere? È depressa e deprimente! Ecco il mio parere.
- Questa è bella… - mugugnò Chris, ripassandogli il foglietto che aveva dato a lui, - È triste, ma in qualche modo è anche intrisa di speranza… ce l’ha già un titolo?
Matthew annuì, dedicando la propria attenzione al bassista, evidentemente più ricettivo di Dom.
- Blackout. – rispose, - Piace un sacco anche a me. Però mi sa che dovrò insegnarti a suonare la tastiera, altrimenti non riusciremo mai a farla live…
Chris lo omaggiò di un sorrisetto sarcastico, incrociando le braccia sul petto.
- Dì la verità, stai cercando di trasformarmi in una one-man band, Bells?
Matthew rise con lui, mentre Dom gli strappava di mano l’altro foglio, consegnando il proprio a Chris.
- …be’, - commentò il bassista, scorrendo il testo con lo sguardo, - Dom non ha tutti i torti. È veramente triste. Però è anche bella incazzata. Mi piace.
- Tu salverai la mia anima, Chris. – cinguettò Matthew, battendo le ciglia come una liceale innamorata, - Si intitola Fury. Ti piace il titolo?
- Piantala di fargli le moine! – lo rimproverò Dom, dandogli una manata sulla testa, - È sposato, e comunque sareste disgustosi! Comunque il titolo mi piace, e pure la canzone. Ho detto che è depressa e deprimente, mica che fa cagare.
Matthew si lasciò andare ad un sorriso sollevato.
- Allora appena torniamo a casa proviamo ad inciderle e vedere se possono andare bene per il prossimo album?
I due lo guardarono esterrefatti per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere. E la loro era una risata divertita, sollevata e complice. Esattamente ciò di cui Matt aveva bisogno per sentirsi di nuovo bene.
- Ma non avevamo promesso a Tom che questo sarebbe stato un album allegro? – lo prese in giro Dom, stringendosi nelle spalle.
- Avanti, Dom. – ironizzò Chris, agitando in aria un dito supponente, - Lo sai che “allegro” e “Matt” non sono due concetti destinati ad incontrarsi.
Ridacchiò a bassa voce, estraniandosi presto dal coro di motteggi che continuava a sollevarsi dai due, e lasciandosi andare stancamente contro il finestrino del treno, osservando lo spettacolo grandioso delle campagne inglesi che sembravano diventare sempre più belle, sempre più fresche e sempre più pure man mano che ci si allontanava dagli stabilimenti industriali di Teignmouth.
Prima di andare via, due giorni dopo il loro chiarimento, suo padre gli aveva fatto promettere di passare da lui, se fossero riusciti ad arrivare in Australia col prossimo tour. “Devo assolutamente farti vedere i vombati”, gli aveva detto salutandolo. “D’accordo”, aveva risposto lui, “Sono curioso”. Sua madre si era commossa neanche gli avesse appena detto che stava per renderla nonna. Valla a capire.
Si sentiva bene.
Bene davvero.
Magari quella canzone, Fury, sarebbe perfino riuscito a suonarla, dal vivo.

But I’ll still take all the blame
‘cause you and me are both
one and the same
And it’s driving me mad
And it’s driving me mad
I’ll take back all the things that I said
I didn’t realise I was talking to the living dead
But I don’t want you to think that I care
I never would
I never could again
Genere: Romantico, Malinconico, Triste.
Pairing: MatthewxBrian. Oh, sì.
Rating: R
AVVISI: Boy's Love, RPS.
- "A guardare la tv tutto il giorno si diventa stupidi", si dice. Matthew non sa se questo sia vero. Ma imparerà a sue spese che la televisione può essere pericolosa per l’intelligenza tanto quanto per la sanità mentale…
Commento dell'autrice: Ho milioni di cose da dire. Come minimo parlerò per eoni X’D Voi non state qui a badarmi troppo, quando vi rompete uccidete le note finali e tornate alla vostra vita di sempre XD
Questa fanfiction nasce a… uhm, febbraio di quest’anno. Stavo parlando in chat con la Nai (la conoscevo da pochissimo, eravamo appena al secondo archivio di MSN XD) e all’improvviso sono stata folgorata da quest’illuminazione, perché avevo letto un bel manga one-shot di non mi ricordo più chi, e si intitolava appunto “Hotaru” (questo è l’unico motivo per il quale anche questa storia si chiama così XD) e parlava di questa ragazzina in vacanza dai nonni che si infila in questa foresta fatata e incontra quest’essere che non può essere toccato da nessun essere umano perché altrimenti scomparirebbe. Ho pensato che rivisitandola un po’, aggiungendo delle caratteristiche mie e un background differente potesse essere una fic interessante da raccontare, e poi c’erano gli ippoponzoli… XD Sì, è da qui che sono partiti gli ippoponzoli che poi avete visto proliferare in giro per il mondo XD
Anyway, poi tra una cosa e l’altra il progetto è rimasto progetto fino all’altro ieri è_é Dopo una serie di casini che mi sono capitati XD grazie al gentile supporto della Nai ho capito che avevo bisogno di scrivere una cosina più disimpegnata, qualcosa di romantico, una mezza favola, e Hotaru era già lì che scalciava per essere scritta XD
Scriverla, oltretutto, è stato veramente bellissimo <3 Intanto mi ha permesso di passare qualcosa come due ore a viaggiare per la MuseWiki (che per chi non lo sapesse è la Wikipedia dei Muse… ovvero una cosa amabile che dimostra quanto i fan dei Muse siano generalmente dei tati) alla ricerca di dettagli sull’infanzia/adolescenza di Matty che mi permettessero di rendere vagamente esatta questa fic… scoprendo oltretutto che era Matt stesso a chiedere che la scrivessi, dal momento che la sua infanzia si abbina perfettamente a questa storia <3 Davvero, non ho affatto faticato a conciliare le due cose, tutto combacia °_° È stato anche abbastanza inquietante scoprirlo, ma molto piacevole, dopotutto <3
Assieme agli avvenimenti dell’infanzia di Matt, purtroppo o per fortuna, sono venute fuori anche delle PERSONE X’D Che hanno cominciato ad affollarsi nella mia testolina e ora mi piacciono così tanto che penso le userò per altre fic in futuro XD Andy, per esempio <3 Andy è amore <3 XD Tra l’altro è vero che Matt ha convissuto con uno spacciatore, quando aveva diciott’anni. *panico* Molly Wainthrop XD E Margareth Calloway X’DDDD e Roger Teabing, come dimenticare!!! Sono tutti frutto della mia palese idiozia XD Li ho messi lì perché stavano bene e adesso hanno una vita loro. Non all’interno di questa storia, bene inteso, qui sono appena dei nomi, ma… be’, vedrete XD Lol. E poi c’è Paul <3 Paul è il fratellone di Matty <3 La storia della sigla di Dallas è vera <3 E io lo amo anche se non l’ho mai visto in faccia XD Comunque tratto troppo bene i fratelli nelle mie storie. Dovrei fare dei fratelli più bastardi >.<
Per inciso, la roba della Ford Escort… È VERA. *muor*
Doverosi credit ai Pretenders e alla splendida “I’ll Stand By You”, ascoltata a ripetizione durante la stesura, assieme a un tocco di “Sing For Absolution” dei Muse (che mi ha letteralmente uccisa, perché l’ascoltavo durante la confessione di Brian XD).
Non starò qui a nascondermi dietro a un dito o a una modestia che non possiedo XD Amo questa storia e adoro com’è venuta fuori, ne sono soddisfatta davvero come non mi capitava da tempo, anche perché ultimamente qualsiasi cosa scrivessi mi sembrava brutta. Maaah <3 Evviva, anche io merito un po’ d’amore, ecco è_é
Dedicata con amore ai futuri figli della Nai. Perché quando avranno l’età per leggerla da soli ricordino che la loro mamma gliela leggeva in versione edulcorata quando erano piccini (lo farai, vero?) e capiscano che mamma splendida hanno. Baci :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
HOTARU
Melody #2. We ran through hills and forests as two under a spell
Song #29. Last kiss

Let me see you through
‘Cause I’ve seen the dark side too
When the night falls on you
You don’t know what to do
Nothing you confess
Could make me love you less

“I’ll Stand By You” – Pretenders

In principio fu Sarah Michelle Gellar.
Furono gli inediti capelli castani e le conosciutissime splendide labbra rosse, già amate a lungo e con passione durante tuuuutta la prima serie di Buffy. Furono i vestitini falsamente castigati del suo personaggio in Cruel Intentions e fu la canzoncina orecchiabile che aveva sentito come BGM all’inizio del film.
Matthew si lasciò andare con un tonfo sul divano e rimase affascinato ad osservare le immagini della pellicola scorrere veloci sul teleschermo, intervallate da spezzoni di concerto di un gruppo che non aveva mai visto né sentito nominare prima di quel momento.
- Placebo… - sussurrò fra le labbra, mentre registrava mentalmente il titolo della canzone e stralci del testo per poter chiedere a Dom se per caso ne sapesse qualcosa, più tardi.
E poi lo vide.
Inizialmente non ci aveva fatto caso.
Troppa Gellar.
Ma c’era effettivamente anche qualcuno che suonava, su quel palco, e quel qualcuno, nonostante la voce acuta e nasale e la pettinatura quasi riccia da ragazzina – e il trucco, come dimenticare il trucco? – quel qualcuno era un uomo.
Si sedette in punta sul cuscino, piegandosi verso il televisore e stringendo le palpebre per focalizzare più chiaramente.
Quell’uomo aveva una maglietta dal taglio femminile.
E una gonna.
Il che, sommato a tutte le caratteristiche sopraelencate, faceva di lui una donna.
Senza mezze misure.
- Che diamine stai guardando? – borbottò Andy, suo coinquilino ormai da più di un anno, apparendo in soggiorno con le braccia traboccanti di pacchettini di plastica ripieni di polvere bianca.
- Ecco qua lo spacciatore che chiede al musicista cosa diamine sta guardando. – borbottò Matt irritato, - Cosa diamine stai facendo tu, semmai, in casa mia!
- Ehi, ehi! – si lamentò Andy, rovesciando i pacchetti sul tavolo, - Sei tu che ti sei trasferito qui! Questa era casa mia!
- Sì, ma dal momento che adesso pago metà dell’affitto è anche casa mia, se permetti! E gradirei che non portassi qui la droga!
- Va bene, Bellamy. – concesse Andy con un sorriso ironico, - Affitterò al più presto un magazzino in cui lavorare.
- Be’, io non vengo qui a spaccarti i timpani, quando devo suonare! Quindi sarebbe il minimo!
Andy lo guardò a lungo, una mano sul fianco e le sopracciglia inarcate verso l’alto.
- Ma sei scemo?! – strillò infine, - Lo sai cos’è questa, Bellamy! – disse, indicando la roba sul tavolo con un ampio gesto del braccio, - Se non la lavoro qui dove pensi che dovrei andare?!
- Non lo so e non mi interessa! – ritorse Matthew, fissandolo con astio, - Cos’è, ti aspetti anche che ti giustifichi?!
- È il mio lavoro! Non lo faccio mica perché mi piace! Lo faccio per guadagnare i soldi che mi permettono di vivere!
- È denaro sporco!
- Ah, be’! Non ti sei lamentato troppo quando con questo denaro sporco ti ho prestato i soldi che ti mancavano per comprare il cappottino rosso dietro al quale sbavavi da mesi come una sedicenne impazzita!
Con un grugnito di disapprovazione – mascherante in realtà un’offesa ma sottomessa rassegnazione, dal momento che Andy non aveva detto altro che la verità – Matt tornò a fissare lo schermo, solo per decidere che sì, era il momento di spegnere la tv, perché quel donna stava abbracciando la sua povera chitarra – dopo averle fatto del male fino a pochi secondi prima fingendo di suonarla quando stava palesemente cercando di ucciderla. Come se un abbraccio potesse farlo perdonare! – e stava lanciando uno sguardo al cielo così coreografico e così stucchevole che lui pensò si sarebbe sciolto nei cliché.
- Vado a farmi una dormita. – annunciò con tono grave, sollevandosi dal divano e muovendosi celermente verso la camera da letto.
- Ricordati che alle sette abbiamo appuntamento con gli altri. – borbottò appena Andy fra i denti, ma non si premurò di farsi effettivamente sentire. Non era il caso di ricordare a Matthew cose che avrebbe tranquillamente potuto ricordargli più tardi.

***************

Quattordici anni.
Un divorzio appena superato – nelle mai troppo piacevoli vesti di figlio minore.
Un fratello maggiore abbastanza scazzato dalla propria vita da adolescente insoddisfatto da non aver tempo per badare alle paturnie del suo povero fratellino maltrattato dalla crudeltà del mondo.
E un’intera estate da passare nello chalet dei nonni, ad ascoltare noiosissimi ricordi della guerra da nonno Pat o altrettanto noiosissimi resoconti delle sessioni pomeridiane di briscola in cinque da nonna Julie.
Non c’era da meravigliarsi se Matthew Bellamy in quel periodo della propria vita non facesse altro che chiedersi “perché?” ogni volta che la suddetta vita gli concedeva un attimo di tregua per farlo.
Era evidentemente uno sfigato.
A parte Dom nessuno sembrava cagarlo anche solo lontanamente di striscio. Non era ancora riuscito a convincere quel figo di Wolstenholme a entrare nei Carnage Mayhem. Le ragazze a scuola lo snobbavano come fosse stato un appestato – neanche fossero stati colpa sua quell’allucinante magrezza e i capelli assurdi che si ritrovava! E a questo c’erano da aggiungere i già citati problemi con la sua famiglia.
Oh, sì.
Soprattutto quell’idiota di suo fratello Paul.
A volte avrebbe voluto prenderlo per le spalle, scuoterlo e dire “senti, guarda che ci sto passando anche io in questo casino! Ci sto dentro quanto te! Cavolo, ricordo che un tempo eravamo vicini! Sei stato tu a farmi iniziare a suonare, ricordi? Avevo tipo cinque anni e tu mi hai messo davanti al pianoforte e mi hai fatto schiacciare con l’indice i tasti giusti per comporre la sigla di Dallas! E adesso com’è che mi ignori?!”.
In realtà sapeva bene perché non faceva niente del genere.
Primo perché scuotere Paul – l’ex capitano della squadra di football Paul – sarebbe stato decisamente impossibile per lui.
E secondo perché diamine, lo capiva. Nella situazione in cui si trovavano, poteva immaginare che suo fratello non avesse esattamente bisogno di un fratellino rompiballe che andasse ciondolando per casa in preda alla depressione perché gli era comparso un nuovo brufolo sul mento e perché, in virtù di ciò, Molly Wainthrop si era sentita in diritto di ridergli in faccia quando lui le aveva chiesto di uscire – senza neanche riuscire a guardarla negli occhi per l’imbarazzo, oltretutto.
Alla luce di tutto questo enorme ammontare di sfighe inenarrabili, sì, Matthew Bellamy era un ragazzino solitario. Di più, a Matthew Bellamy piaceva la solitudine. Si era adattato al silenzio e all’isolamento prendendoli come enormi cuscini di lana morbida. Aderivano perfettamente al suo corpo e, in caso di impatto contro oggetti particolarmente veloci o duri, ammortizzavano più che efficacemente.
E infatti, se c’era una cosa, una sola, per la quale amava lo chalet dei nonni, era la grandissima foresta che si estendeva placida e verdissima a pochi chilometri da lì. Un posto splendido, che aveva imparato a conoscere a menadito durante l’infanzia, grazie alle lunghe esplorazioni che suo padre e suo fratello gli concedevano quando insisteva abbastanza a lungo da diventare esasperante.
Era lì che si rifugiava, quando nonno Pat erompeva in un sonoro “HA! Ai miei tempi, giovanotto…”, o nonna Julie gli si avvicinava con fare civettuolo – scambiandolo probabilmente per una sua coetanea, dal momento che non ci vedeva più tanto bene – e lo arpionava per un braccio bisbigliando “Hai sentito della figlia dei Calloway…? Che indecenza!”, e per inciso, Margareth Calloway era tutto meno che indecente, in ogni sua forma e manifestazione.
Ed era lì che si trovava anche quel giorno di mezz’agosto, quando lo incontrò.
Dovevano essere ormai le otto passate, perché il sole stava tramontando, e tutte le foglie, che pendessero dagli alberi, si diramassero in mucchi rigogliosi dai cespugli o fossero già per terra, risplendevano d’arancione dorato, mescolandosi con l’aria tutta intorno. Anche Matthew sembrava arancione, constatò, abbassando lo sguardo su una mano e poi sollevando quest’ultima all’altezza del viso, per poterla osservare meglio da ogni angolazione.
- Hai le dita lunghe. – disse una voce acuta e nasale all’improvviso, e terrorizzato Matt serrò il pugno e si voltò, sperando di individuare immediatamente chiunque avesse parlato.
Ma non vide nessuno.
Piuttosto, sentì una risatina allegra e vagamente smorfiosa raggiungerlo alle spalle, e si voltò ancora.
Ma anche lì non c’era niente.
- Chi diavolo sei?! – chiese all’aria arancione, continuando a voltarsi in giro in preda al panico.
Gli rispose un’altra risatina divertita.
E allora Matt cominciò veramente ad avere paura. E si mosse celermente sulla via del ritorno.
Ma la voce parlò ancora, ed aveva un’altra intonazione. Era più… vicina. Meno riecheggiante. Più concreta. E veniva chiaramente da qualche parte alla sua sinistra.
- Dove vai? – chiese dolcemente, e quando Matt si voltò al posto del nulla c’era un uomo.
…o almeno quello che avrebbe dovuto essere un uomo, in teoria.
Era indubbiamente piatto, era indubbiamente maschile quanto a corporatura e lineamenti del viso, ma… a parte il fatto che indossava abiti femminili ed era, be’, sì, truccato… c’era qualcosa di ambiguo in lui, qualcosa di completamente indefinito. Qualcosa di attraente, in una maniera del tutto inesplicabile.
- A… a casa mia. – rispose in un soffio, muovendosi a ritroso sul sentiero sterrato che conduceva all’uscita della foresta.
- Mmmh. – mugugnò l’uomo, incrociando le braccia sul petto – aveva le unghia corte e dipinte di nero – e sporgendo i fianchi, - Tu non vuoi veramente tornare a casa.
- …cosa? – azzardò Matt, stupito, fermandosi a metà di un passo e irrigidendosi, - Che intendi?
L’uomo mugugnò ancora.
- Nonno Patrick ha visto che non ti si trovava da nessuna parte e ha afferrato Paul per la collottola. Adesso l’ha costretto a sedersi sul divano accanto a lui e gli sta raccontando qualche episodio di cameratismo durante la guerra del Vietnam.
- …mio nonno non ha fatto la guerra del Vietnam…
L’uomo ridacchiò, coprendosi la bocca con una mano.
- Questo dovresti dirlo a lui, non a me. – commentò con un sorriso angelico, muovendo qualche passo verso Matt.
Matthew non sentì il bisogno di indietreggiare ancora, e perciò rimase ad osservare lo sconosciuto tendergli la destra e presentarsi, sempre sorridendo amabilmente come, be’, come fosse normale.
- Mi chiamo Brian. E tu sei carino. – disse.
E Matthew capì che forse avrebbe fatto meglio ad indietreggiare quando ne aveva avuto la possibilità.
Insomma, era un idiota e non era neanche un tipino tanto splendido, ma sapeva interpretare un… un forse-uomo forse-trentenne, quando gli diceva “sei carino”. Era successo anche a lui, in passato, nonostante l’apparenza smunta.
- Ho quattordici anni! – si affrettò a precisare, mettendo le mani avanti, per quanto si rendesse perfettamente conto del fatto che un adulto che abborda un ragazzino in un bosco avrebbe potuto tranquillamente disinteressarsi della sua età.
Ma ciò non avvenne.
Tutt’altro.
Brian si tirò indietro come l’avesse scottato, guardandolo inorridito.
- Non ti azzardare a toccarmi mai! – gli strillò contro, così acuto che Matt sentì le orecchie rimbombare.
- Ma… sei… sei tu che ci hai provato con me!
Brian tornò a sorridere, come non fosse successo niente.
- Sì, è vero. – disse malizioso, stringendosi nelle spalle, - Ma non sapevo che avevi quattordici anni. Adesso che lo so, non toccarmi mai, per favore.
Be’.
Forse non era un maniaco, allora.
Magari l’aveva preso per un ragazzo più grande, all’inizio – per quanto non vedeva come qualcosa del genere fosse possibile. Magari era perfino benintenzionato.
Accidenti a te, Matt, si disse, quasi con rabbia, va bene che sei uno sfigato, ma perché devi vedere il Male ovunque ti volti? Potresti essere un po’ più morbido, con le persone!
Ebbene lo sarebbe stato.
Sarebbe stato morbido.
Sorrise cordialmente, incrociando le braccia dietro la schiena.
- Mi dispiace non poterti stringere la mano, Brian. – disse, con un’ombra di disappunto nella voce, - Comunque mi chiamo Matthew, piacere di conoscerti!
- Matthew… - disse Brian, facendo scivolare il suo nome sulla lingua quasi fosse una caramella, cantilenandolo, - Mi piace. È dolce. Di sicuro più di Paul.
Matthew ridacchiò lievemente.
- Davvero! – continuò Brian, muovendo un paio di passi verso il folto del bosco, con Matt che gli si affiancava per una passeggiata, - Cos’avevano in testa i tuoi genitori quando l’hanno battezzato? È un nome così… insulso! Fortunatamente poi sono rinsaviti. Matthew è… - lo guardò dritto negli occhi, e per la prima volta Matthew ne notò il colore inusuale, senza riuscire neanche a definirlo, - …è veramente carino. Come te.
- Ah! – ridacchiò Matt, stranamente a proprio agio, fingendo di offendersi, - Non dovevi smetterla di provarci con me?
- Ho detto che non ti toccherò! – disse Brian, ridendo apertamente, - Non ti basta?
Anche Matthew rise, socchiudendo appena gli occhi nel puntare lo sguardo sul sole che ormai svaniva dietro le colline in lontananza.
- Me lo farò bastare. – disse condiscendente, - Ma purtroppo per oggi devo andare via.
Le labbra di Brian, rosa confetto e lucide come fossero ricoperte di lipstick, si arricciarono in una smorfia di delusione.
- È ancora presto! – rispose, lagnandosi come un bambino, - Non è ancora del tutto sera!
Matthew cominciò a dubitare dell’età che gli aveva affibbiato all’inizio, per quanto la sua apparenza fosse smaccatamente quella di un trentenne o giù di lì.
- Sì, ma noi siamo ancora nel bel mezzo del bosco. – spiegò pazientemente, - E ci vorrà almeno mezz’ora prima di raggiungere la campagna. E poi devo ancora tornare a casa. – ridacchiò, - Se conosci nonno Pat al punto di sapere cosa sta raccontando a mio fratello, lo conoscerai altrettanto da ricordare che non gli piace cenare tardi.
Brian sorrise, avviandosi tranquillamente dal lato opposto, verso il punto della foresta in cui gli alberi si facevano più radi e cominciavano le enormi distese di campi coltivati.
- Io non conosco tuo nonno, Matthew.
Lui lo fissò, stupito, inclinando appena il capo e seguendolo nel cammino.
- Come no? E quel discorso…
- Io lo vedo. – spiegò Brian, prim’ancora che lui potesse terminare la sua domanda, - Io non sono una persona normale. Anzi, a dire la verità non sono affatto una persona.
Matthew ridacchiò nervosamente, allontanandosi di qualche centimetro.
- E allora cosa sei? – chiese, cercando di mascherare l’imbarazzo.
Brian arricciò il naso, stringendo le palpebre.
- Sono un folletto. – disse con naturalezza.
E Matt scoppiò a ridere.
- Ma dai! – disse, tenendosi la pancia fra le mani, - Un folletto?!
Brian sorrise assieme a lui, affatto offeso dalla sua reazione – anche perché probabilmente se la aspettava.
- Un folletto. – disse invece, con più convinzione, - Uno spiritello, un elfetto, un diavoletto. Cose così. Lo Spirito del Bosco non mi ha mai detto “Brian, adesso sei questo”. Mi ci ha semplicemente trasformato.
Matthew si fermò.
E lo guardò con un misto di paura e sgomento.
- Be’? – chiese Brian, sempre sorridendo, - Siamo quasi alla campagna. Non puoi mica fermarti adesso.
- No, è che… cioè, ma dici sul serio…? – chiese titubante, incapace di staccare lo sguardo da lui.
Brian annuì lentamente.
- Solo che non posso darti nessuna prova. Sono solo un folletto, mica un dio. E anche lì, spesso si hanno difficoltà coi miracoli dimostrativi.
Rimase in silenzio, ripetendosi che doveva essere pazzo.
Che altro avrebbe dovuto pensare?
- Be’, è ora che tu vada. – concluse Brian qualche secondo dopo, voltandogli le spalle e riprendendo a camminare verso il cuore della foresta, - Io sarò qui. Se avrai voglia di parlare.
Lo osservò sparire nel buio, mentre lentamente si rendeva conto che dovevano essere quasi le dieci, e che di sicuro a casa si stavano preoccupando come i pazzi. Decise di non pensare più a Brian e corse a perdifiato lungo i campi, tagliando per le coltivazioni quando poteva, per arrivare allo chalet il prima possibile. E lì lo accolsero le ramanzine dei nonni e di Paul, che quasi gli tirò in testa il piatto di pasta ormai immangiabile, che “con tanto amore nonna Julie aveva preparato appositamente per lui, condendolo solo coi piselli e la cipolla e omettendo la carne che tanto lo disgustava!”.
- Ma si può capire dove diavolo sei stato?! – strillò suo fratello dopo che l’ebbe costretto a ingurgitare l’immangiabile ammasso di pasta congelata e insapore, - Eravamo tutti preoccupati!
Matthew scosse le spalle, pulendosi col tovagliolo.
- In giro. – rispose. Poi un lampo, una domanda a vorticare nel cervello, e l’impossibilità di ignorarla. – Paul, che avete fatto tu e il nonno nel pomeriggio?
Suo fratello roteò gli occhi, prendendo il piatto e ficcandolo assieme agli altri nel lavello, sotto uno scrostante getto d’acqua calda.
- Per carità! Mi ha costretto ad ascoltarlo vaneggiare sui suoi presunti ricordi della guerra del Vietnam. È delirante! Lui non ha fatto la guerra del Vietnam!
*
- C’è qualcosa che non so e dovrei sapere?
Matthew guardò suo fratello, disteso sulla sedia a sdraio accanto alla propria, come fosse stato ebete.
- No. – rispose poi, tornando a prendere il sole e ignorando l’accaduto.
Paul non demorse.
- Allora c’è qualcosa che non so e che non dovrei sapere?
Matthew lo guardò ancora.
- Se non lo sai e non dovresti saperlo, perché dovrei dirtelo? E comunque no.
Questa risposta sembrò soddisfare il suo fratellone preoccupato. Almeno per quattro secondi.
- Allora… - tornò alla carica una volta che i quattro secondi si furono esauriti, - C’è qualcosa che magari so ma di cui non mi rendo conto e che invece farei bene a notare prima che fosse troppo tardi?
Matt sbuffò e decise che era il momento di porre fine a quello strazio.
- No Paul, non è successo niente di devastante nella mia vita dall’ultima catastrofe naturale che l’ha colpita, sto bene e vorrei cercare di dare alla mia pelle un colore meno mozzarellistico senza dover sopportare le tue domande angoscianti! D’accordo?
Paul si mise a sedere sulla sdraio, e Matthew lo seguì nel movimento.
- Tu hai una ragazza. – disse poi con estrema naturalezza, incrociando le mani sotto il mento, - È la Calloway, vero? Le sbavi dietro da quando sei nato.
Matt sgranò gli occhi e semplicemente lo fissò.
Così suo fratello si sentì in diritto di continuare a fantasticare.
- Ricordo quando avevi due anni! I nostri genitori vi “presentarono”. Mamma delirò per tutto il tempo, era convinta che foste fatti l’uno per l’altra.
Matthew sospirò e tornò a distendersi, calando sugli occhi la visiera del cappellino che indossava.
- Peccato che la Calloway non fosse d’accordo! – continuò Paul senza alcuna pietà, - Praticamente ti rovesciò il secchiello pieno di terra sulla testa, e tu per poco non moristi soffocato…
- Sì, Paul, - sbottò infine il ragazzo, irritato, - mi hai raccontato questa scena qualcosa come tremila volte, la so a memoria! Mi spieghi perché la stai tirando fuori di nuovo adesso?!
- Perché! – spiegò Paul, gesticolando ossessivamente, - Visto quello che quella mocciosa è stata in grado di farti, non riesco a capire come sia possibile che tu le vada ancora dietro e che ti ci sia messo insieme!
- Non mi ci sono messo insieme!!! – strillò Matt, scattando in piedi, - Non sto con nessuno!
- Balle! – protestò Paul, - Ogni pomeriggio fuggi nel bosco e torni quasi sempre dopo cena! Non dici mai cos’hai fatto o con chi ti sei visto! E quando torni sei sempre felice come se avessi scopato!
- Paul!
- Non dire Paul!!! È vero!!! È logico che hai una ragazza!!!
- Oddio…! – mormorò Matthew, sconvolto, allontanandosi da lui con un paio di passi nervosi, - Non posso credere che tu mi stia facendo un discorso simile adesso!
- Che vuol dire che non puoi crederci?! Sono tuo fratello maggiore! È logico che mi preoccupi per te!
Lo fissò.
Sembrava serio.
E sembrava anche non rendersi minimamente conto di quanto la sua lontananza l’avesse ferito, negli ultimi mesi. E sembrava ignorare completamente il fatto che vederlo interessarsi a lui così d’improvviso, senza un motivo, andando a toccare con le sue domande l’unica oasi di pace che Matt fosse stato in grado di trovare fuggendo dal casino che aveva nella testa, era fastidioso da morire, assurdo e insopportabile.
Gli voltò le spalle e semplicemente prese a correre come un ossesso verso il bosco, senza curarsi delle sue urla e sperando che non si mettesse in testa di seguirlo.
*
Brian lo aspettava al limitare del bosco.
E questo era strano.
Generalmente doveva andare cercandolo per intere mezz’ore prima di riuscire a trovarlo, magari appollaiato su qualche ramo tutto intento a gorgheggiare canzoncine sciocche, o a dondolare a testa in giù come un pipistrello.
Ma quel giorno Brian aveva anche un’espressione preoccupata sul viso.
E questo non era strano, questo significava semplicemente che aveva visto.
Si fermò ansante davanti a lui, poggiando le mani sulle ginocchia e guardando per terra, aspettando di riprendere fiato.
- Matthew…? – lo chiamò Brian, agitato, chinandosi su di lui, - Matt, ma che ti è preso…?
- Lui… - cercò di dire, ma il respiro non era ancora tornato al suo posto, e continuare fu impossibile. Brian se ne rese conto.
- Va bene, va bene. – disse tranquillamente, - Riprenditi. Dai, facciamo una passeggiata.
Matthew annuì e lo seguì all’interno del bosco, incapace di sollevare lo sguardo.
- Non devi per forza parlarmi dei tuoi casini, eh. – lo sentì dire col solito tono dolce e rilassato, - Solo che mi sono un attimino preoccupato. Tuo fratello sembrava avere buone intenzioni. Voglio dire, mi rendo conto che per un ragazzino dev’essere angosciante subire discorsi simili, ma sarebbe bastato che dicessi “incontro un amico e passiamo il tempo a parlare” e al limite lui se ne sarebbe uscito con un “ah” e non avrebbe chiesto più niente.
- Cos’è che te lo fa pensare? – sospirò Matt, finalmente in grado di parlare, - Avrebbe di sicuro messo su un altro terzo grado chiedendomi chi fosse, dove l’avessi conosciuto e cosa intendessi fare con la sua amicizia da qui ai prossimi trent’anni più o meno.
- Mmmh. No, Matt.
- …no?
- No. Avrebbe capito che sei gay, e se c’è una cosa che i fratelli maggiori non vogliono conoscere nei dettagli è esattamente questa.
- Io non sono gay! – strillò, sollevando lo sguardo e fissandolo spaventato.
- Oh, sì che lo sei. – ridacchiò Brian, scrollando appena le spalle, - Sei troppo carino per non esserlo. Vedrai, un giorno di questi ti renderai conto che né la Wainthrop né la Calloway possono valere l’occhiata che rubi a Roger Teabing negli spogliatoi quando lo guardi infilarsi dentro la doccia.
Arrossì d’improvviso.
Come diavolo faceva a saperlo?!
- Non è così! – si difese, agitato, - Non è che io voglio guardarlo!
- Mmmh, sì, mi rendo conto. – continuò Brian, picchiettandosi sul mento con l’indice, - Dev’essere un movimento compulsivo. Devo ammettere che il ragazzo in effetti ha un sederino che implora di essere divorato con gli occhi.
- …tu sei un pervertito! Ed io non sono gay e meno che mai mi piace quel fighettino tutto muscoli di Roger Teabing! Se e solo se fossi gay mi piacerebbero tipi più… più come Dom!
- Matty, tesoro, i tipi come Dom sono i migliori amici. I migliori amici restano migliori amici per sempre. Non ti porteresti mai a letto Dom!
- Ma questo è perché non sono gay!
Brian ridacchiò ancora e scrollò le spalle, come a dargli ragione senza credere a una parola di ciò che stava dicendo.
Matthew decise che andava bene così e continuò a camminargli a fianco, godendo della frescura ombrosa del bosco.
Era passata una settimana, sì. Aveva visto Brian tutti i giorni. Ed era incredibile come, in definitiva, anche se non avevano parlato di niente, Matthew si sentisse come se di lui sapesse tutto, e viceversa. Non era come sapere lo stretto indispensabile e dire di conoscerlo, no – anche perché di lui non sapeva neanche quello – era come non sapere assolutamente nulla e poter dire di conoscerlo lo stesso. Era come se Brian fosse tutto lì. Come fosse solo quel corpo che si muoveva allegro e a suo agio fra gli alberi e i cespugli. Come se oltre non ci fosse niente, come non avesse un passato, dei ricordi, dei pensieri.
Era estremamente semplice.
E divertente.
Era tutto ciò di cui Matt aveva bisogno in quel momento.
Stando con lui poteva illudersi a sua volta di essere solo un corpo. Di essere in armonia col mondo. Di non avere niente nella testa a parte un po’ di sana voglia di non pensare.
Era una sensazione talmente piacevole, talmente esclusiva, che davvero l’aveva infastidito troppo che Paul ci avesse allungato sopra le mani.
Era una cosa sua.
Una cosa segreta.
Nessuno avrebbe dovuto sentirsi in diritto di toccarla, era il suo piccolo tesoro estivo.
- Visto che sei depresso, - disse Brian in un soffio, riscuotendolo dai suoi pensieri, - oggi ti porterò a fare un giro un po’ diverso dal solito.
- Diverso dal solito? – chiese Matt incuriosito, - Guarda che questa foresta la conosco meglio di te. Vengo qui da quando ero piccolissimo.
- Ora, a parte il fatto che io vivo in questa foresta da molto prima della tua nascita, Matty caro, ormai avresti dovuto capire che ci sono cose che puoi vedere con me… cose che non puoi vedere da solo.
- Mh? Tipo?
- Parti della foresta nascoste alla vista dei normali esseri umani… cose speciali, cose magiche…
Matthew rise sbuffando, incrociando le braccia sul petto.
- Ti direi che non ti credo. – ridacchiò, - Ma dopo che ieri sei riuscito a farmi vedere la danza d’amore delle lumache, ti crederei anche se mi dicessi che sei in grado di far tramontare il sole al contrario.
Brian rise assieme a lui, scuotendosi come una ragazzina.
- La danza d’amore delle lumache non è una cosa magica, bisogna solo conoscere i posti ed essere fortunati. E no, mi dispiace, non sono in grado di far tramontare il sole al contrario. Ma ci sono altre cose, veramente speciali, che potrei mostrarti…
- Ok, ok, ho capito! – si arrese il ragazzo, agitando le mani, - Portami dove vuoi, ti seguo.
Brian sorrise vittorioso e si allontanò saltellando, così felice e veloce che Matt dovette cominciare a correre per inseguirlo.
E poi d’improvviso si fermò.
E Matthew si rese conto di trovarsi in una parte della foresta che non aveva mai visto prima. Era tutto brillante, era tutto verde e lucido, non era niente di diverso dal resto della foresta, ma al contempo era qualcosa di completamente nuovo. Ogni cosa sembrava ricoperta di brina. Era tutto talmente luccicante che per un secondo pensò che il lipstick di Brian si fosse trasferito dalla sue labbra a tutto il resto, per quanto un pensiero simile fosse stupido.
- Che posto è questo…? – chiese con voce sognante, guardandosi intorno con aria ammirata.
- Questo è un posto segreto nel cuore della foresta. Ma non al centro, non nel folto degli alberi. Il cuore vero.
- Il cuore vero…?
- Sì. È qui che dimora lo Spirito del Bosco. Da qui osserva tutto e tiene tutto sotto controllo. Ed è qui che vivono e si nutrono le sue creature favorite.
- Quali sono le sue creature favorite?
Brian gli lanciò un sorriso enigmatico e poi gli indicò con un cenno del capo un laghetto al limitare dello spiazzo erboso in cui si trovavano. Il laghetto era chiaramente apparso nel momento in cui lui l’aveva indicato, perché prima Matt non l’aveva notato, e decisamente avrebbe notato cinquanta metri di diametro di acqua cristallina e apparentemente freschissima, brillante nella luce del sole che filtrava fra le fronde degli alberi.
Matthew fissò lo specchio d’acqua, rapito, per qualche secondo, e poi cominciò a vedere del movimento fra i cespugli che lo circondavano. Fu questione di un attimo. Subito dopo cominciarono ad apparire degli strani animali.
- Guarda. – disse Brian, ridacchiando infantilmente, - Quelle sono gironzole.
Erano… giraffe.
Lilla.
E con le alucce.
Ma inequivocabilmente giraffe.
Colli lunghi, piccole corna arrotondate in punta sulla testa, grandi occhioni castani con ciglia lunghissime e mantello pezzato.
Gironzole.
- E quelli leonzoli. – proseguì, indicando un paio di… leoni, sì, dovevano essere leoni. Criniera. Muso felino. Grandi zampe forti. Celesti e alati, ma leoni.
Leonzoli.
Si abbeveravano tranquillamente, accanto alle gironzole, in pace col mondo. Non producevano alcun rumore.
Erano angelici.
Totalmente assurdi, ma angelici.
- E se siamo abbastanza fortunati… - continuò Brian, chinandosi su di lui fino a raggiungere l’altezza del suo viso e sussurrargli direttamente all’orecchio, - Se siamo fortunati vediamo anche i migliori.
- Cosa… cosa sono i migliori…? – esalò Matt, ancora affascinato e inebetito dallo spettacolo che stava osservando.
- I migliori sono gli ippoponzoli. – spiegò Brian dolcemente, - Non esiste creatura che lo Spirito del Bosco ami più degli ippoponzoli.
E gli ippoponzoli apparvero.
Ne apparvero tanti. Una decina, almeno. Dal folto della foresta in processione lenta verso il laghetto.
Ippopotami dorati con minuscole alucce biancastre e semitrasparenti fra le scapole. Enormi. Stupendi.
- Gli ippoponzoli… - mormorò Matthew, come volesse memorizzare il termine, - Ma volano…?
- Certo che volano! – disse Brian come fosse stata un’ovvietà, - Le ali sono piccole perché erano più carini così, ma lo Spirito del Bosco non li avrebbe mai privati della capacità di volare, visto che li ama tanto.
Matthew annuì lentamente, osservando il gruppo immergersi nelle acque del lago, facendole sembrare dorate come la loro pelle.
Poi si voltò verso Brian. E vide la luce riflettersi nei suoi occhi, sulle sue labbra, nel biancore della sua pelle, e pensò che era così bello che lo Spirito del Bosco doveva avere organizzato quello spettacolo stupendo solo per lui.
- Lo Spirito del Bosco ama anche te, vero? – chiese innocentemente, continuando a guardalo ammaliato, - Voglio dire, ti permette di venire qui. E se è vero che rende belli tutti coloro che ama… - s’interruppe appena, arrossendo e smettendo di fissarlo nel momento in cui incontrò il suo sguardo stupito, - …allora deve amarti proprio tanto.
Brian sorrise appena.
Stiracchiò l’orlo della manica della maglia nera che indossava fino a coprire tutto il pugno e gli diede un lieve buffetto sulla guancia.
Matthew sollevò lo sguardo.
- Mi hai toccato…
- No che non ti ho toccato. – disse Brian, tirando fuori la lingua, - Ti ha toccato la mia maglietta. Questo possiamo farlo.
Gli venne da sorridere. E lo fece.
- Grazie per i complimenti. – continuò Brian, sorridendo a sua volta. – Adesso devo premiarti. Vuoi fare un giro su un ippoponzolo?
- …cioè… - abbozzò Matt, gli occhi brillanti, - …volare…?
Brian annuì, strizzando le palpebre.
- Sì! – disse Matt con entusiasmo, - Sì! Certo che sì! Grazie a te!
L’altro ridacchiò, e portò le dita alla bocca per fischiare. Quando il suono si diffuse nell’aria, uno degli ippoponzoli – il più grande, il più dorato di tutti – voltò appena il capo, e poi cominciò a muoversi celermente nell’acqua per uscirne, e quando posò le zampe sull’erba si mosse goffo e lento sul terriccio umido, per raggiungerli.
Quando Matt lo osservò da vicino si rese veramente conto della sua enormità, e si commosse.
- È bellissimo! Brian, è stupendo!!! – gridacchiò, in preda all’emozione, arrampicandosi agilmente sulla schiena dell’animale, incurante dei propri vestiti che si andavano inumidendo per il contatto con la pelle fredda e bagnata, - Dove andiamo?
- Facciamo un giro fino a casa tua, ti va? – chiese a sua volta Brian, salendo sull’ippoponzolo di fronte a lui ed afferrandogli le orecchie come fossero un timone.
- Sì! – rispose Matt entusiasta.
- Perfetto! – ridacchiò l’uomo, scuotendo appena le spalle, - Allora mi sa che devi tenerti.
Matt si guardò intorno, alla ricerca di un qualche appiglio, ma la groppa liscia dell’ippoponzolo non forniva niente del genere. Perciò si avvicinò a Brian, sussurrando titubante “Posso… posso aggrapparmi a te?”.
Vide Brian rabbrividire. E lo poté sentire teso.
Ma quando lui si voltò a guardarlo sorrideva come sempre, e il suo era un sorriso al quale Matt non poteva resistere, e perciò sciolse ogni dubbio e allungò le mani verso il suo petto, aderendo alla sua schiena e stringendolo forte da dietro.
- Attento a non toccarmi la pelle. – gli ricordò Brian, apprensivo, - Ma a parte questo, stringimi pure.
E Matt lo strinse.
Chiuse gli occhi.
E quando li riaprì stavano già volando sopra il bosco, sulle campagne, sui campi coltivati.
- Brian… - mormorò, quasi commosso, - È stupendo… non pensavo che mi sarebbe mai successa una cosa simile…
Lui ridacchiò, costringendo l’ippoponzolo a virare con una dolce ma decisa strizzata alle orecchiette dorate.
- Lo Spirito del Bosco è buono e sa tutto. Deve aver pensato che ti meritavi una magia. Tu pensi di meritartela, Matt?
Il ragazzo abbassò lo sguardo, perdendosi nell’azzurro brillante del fiume che attraversava le colline.
- Non molto, sai? – disse infine, quasi soprapensiero, - Sono successe tante cose nella mia vita, di recente… e io non mi sono sempre comportato bene…
- Di cosa stai parlando? – chiese Brian, e il suo tono era così dolce, così incoraggiante, così generoso che Matt non riuscì a continuare a tenersi tutto dentro, e decise di parlare.
- I miei genitori hanno divorziato… - accennò, giocando con le dita con gli sbuffi sulla scollatura della maglietta di Brian, - E… io so che cose simili succedono a un sacco di ragazzini in giro per il mondo… voglio dire, non sono mica l’unico che sta male. Non ho l’esclusiva della sofferenza. Anche Paul… cioè, perfino lui, nonostante sia forte e nonostante sembri disinteressato a un mucchio di cose… scommetto che anche lui è stato male.
- Certo che è stato male, Matt. Puoi immaginare un altro motivo per il quale potesse smettere di dedicare la sua completa e totale attenzione a te?
Matthew arrossì, agitato.
- N-Non è che Paul abbia passato la sua intera vita solo a prendersi cura di me, eh?!
Brian gli lanciò uno sguardo di sottecchi, inarcando le sopracciglia.
- Matty, tesoro, da chi sei andato a piangere quando quell’idiota del tuo amichetto Jake all’asilo ti ha rotto il trenino?
- …da Paul, ma-
- E quando sei stato scaricato dalla splendida Simone, alle medie, chi ha passato tutta la notte con te a divorare gelato al cioccolato guardando le registrazioni di Starsky and Hutch?
- …
- E quindi non pensi che tuo fratello Paul sarebbe stato più che felice di, non so, teletrasportarti in un universo pieno di unicorni di zucchero e bigné alla panna, mentre i tuoi genitori divorziavano, solo ed esclusivamente per non farti stare male?
- Ecco, io…
- E non pensi che se non l’ha fatto è stato solo perché evidentemente il problema l’ha investito con una tale sconvolgente potenza che per la prima volta lui s’è sentito sopraffatto e incapace di trovare una soluzione?
Matthew si lasciò andare contro la schiena di Brian, sfregandovi contro la fronte e socchiudendo gli occhi.
- Perché mi dici queste cose…? – chiese piano, spaventato dall’eventualità che Brian potesse percepire le lacrime nei suoi occhi dal tremito nella sua voce.
- Perché stai male, Matthew. E quando si sta male fa bene vedere le cose nella giusta prospettiva. Tuo fratello non ha smesso di amarti. Nemmeno i tuoi genitori hanno smesso. Solo che arrivano momenti nella vita in cui una persona deve per forza smettere di pensare a chi ama per dedicare qualche attimo a sé stesso. Per decidere cosa fare della propria vita. Per riportarla in carreggiata.
- …
- Tu oggi ti sei sentito offeso, ferito e tradito, quando tuo fratello ha cercato di strapparti a forza una confessione dalle labbra. Ma in questa settimana Paul ha semplicemente ricominciato a vedere le cose dall’angolazione giusta. S’è come risvegliato da un sonno. E svegliandosi ha visto che il suo adorato fratellino scappa il pomeriggio e torna a sera inoltrata perché non gli va di affrontare tutte le cose orribili che gli stanno capitando. E questo l’ha fatto sentire inutile e colpevole. Ecco tutto.
Matthew sospirò, scivolando con le mani verso la vita di Brian e stringendolo lì, appoggiando una guancia contro di lui per lanciare un’occhiata al meraviglioso paesaggio che scorreva sotto di lui.
- Non sono solo. – disse, sfiorando con le labbra la maglia dell’uomo davanti a lui, - È questo che mi stai dicendo. Che non sono solo.
Brian ridacchiò, e il suono della sua voce si propagò attraverso la schiena, raggiungendo le orecchie di Matt e facendolo rabbrividire.
- Esatto Matt. Non sei solo. Nonno Patrick sta giusto rovistando nello sgabuzzino per recuperare il modellino di caccia bombardiere che suo padre gli ha regalato per il quindicesimo compleanno, e regalarlo a te. E anche stasera nonna Juliet si piegherà a conservare l’amato ragù per preparare qualcosa che tu possa mangiare senza vomitare. E Paul resterà seduto sulla sdraio, fingendo di leggere un libro mentre non riesce a fare a meno di lanciare occhiate nella direzione verso la quale sei sparito qualche ora fa, aspettandosi di vederti tornare correndo da un momento all’altro. E a casa tua mamma sta meditando di portare te e tuo fratello in qualche bel posto prima che ricominci la scuola. E papà sta sistemando casa in vista del primo weekend che passerete con lui.
Matt si accorse di non poter trattenere un singhiozzo. E questo gli fece capire che stava piangendo. Nascose il viso tra le pieghe della maglia di Brian, mugugnando di vergogna e di gioia.
Era commosso.
Era tristissimo.
Ed era felice.
- Le persone a volte sono egoiste, Matt. Ma questo è normale. Sono persone.
Annuì con forza, sentendo che in quel preciso istante avrebbe potuto perdonare a chiunque anche la peggiore delle nefandezze.
E lo fece.
E si augurò che a tutti nel mondo capitasse di avere un Brian che diceva cose stupende a bordo di un ippoponzolo volante sulle campagne inglesi, per provare almeno una volta nella vita quella splendida sensazione di gioia, e libertà, e pienezza che stava provando lui così intensamente.
- E quindi non dire più che ti pare di non meritare le magie. – concluse Brian, scrollando lievemente le spalle come a volerlo accarezzare con quel gesto, - Sei una persona anche tu. Anche tu hai diritto ai tuoi attimi di egoismo nero e sofferenza ottusa.
Sollevò lo sguardo.
Brian s’era voltato e lo guardava col più indulgente dei sorrisi sul volto.
- Stare male non ti rende cattivo. Fa di te ciò che sei. E sei un ragazzo adorabile.
Era tutto ciò che aveva bisogno di sentirsi dire.
Gli sarebbe bastato anche molto meno, anche un semplice “non sei poi così male, non fai poi così terribilmente schifo, hai giusto qualche speranza di diventare un essere umano accettabile”. Ma Brian era stato generoso. Brian non aveva risparmiato sulle parole. Brian gli aveva detto proprio tutto.
In quel breve volo nel tramonto inglese gli aveva praticamente salvato la vita.
Discesero nello stesso punto dal quale si erano sollevati, e dopo aver salutato l’ippoponzolo e lanciato un ultimo sguardo ai buffi animali ancora a riposo attorno al lago, ricominciarono la loro passeggiata verso il limitare del bosco.
- Ohiohi, povero me. – disse Brian con una smorfia delusa, stiracchiandosi, - Adesso tu ti sei aperto con me, e in teoria io dovrei trovare un altro modo per ripagarti della fiducia. Ma ti ho già fatto volare e non so se riuscirò a trovare qualcosa di meglio!
Matt ci rifletté su un paio di secondi, e poi capì che in effetti c’era qualcosa che Brian potesse fare.
- Parlami di te. – disse, guardandolo dritto negli occhi, - Tu sai tutto di me, anche quello che non ti ho detto. Ma io di te non so proprio nulla. Sei sempre stato così?
Brian ridacchiò.
- Non so se la storia della mia vita possa essere un premio, sai Matty?
Matt scosse il capo con decisione.
- Nemmeno la mia è stata tutto questo piacere! Ma mi interessa, quindi non puoi farmi contento…?
Lui sorrise, dandogli una lieve gomitata su una spalla.
- Ma sì, certo. E no, non sono sempre stato così. Anche io ero una persona come tante, prima.
- Che tu fossi una persona come tante, scusami se te lo dico, mi sembra impossibile…
- Sì, sì. – confermò Brian con l’ennesima risatina, - Mi truccavo e mi vestivo da donna già allora, se è questo che intendi.
Lo sguardo di Matt si adombrò d’improvviso, mentre le sue labbra prendevano una piega imbarazzata e delusa.
- Ma non mi riferivo a questo…
Brian spalancò gli occhi, confuso e imbarazzato a sua volta.
- Oh. – borbottò, - Comunque, ero un essere umano come te.
- E perché adesso sei così?
- Mmmh. Questa è la parte poco carina del racconto. – confessò con un sorriso triste, - E non so se mi va di raccontartela.
Sembrò tentennare davvero fra la possibilità di vuotare il sacco e quella di non dire niente, ma Matthew non era disposto a osservarlo ritirarsi. Il loro rapporto era stato vago e leggero come l’aria, fino a quel momento, ma da quel giorno in poi tutto sarebbe cambiato. Non poteva più ignorare che Brian era qualcos’altro oltre a un corpo, semplicemente perché adesso riusciva a sentire anche tutto il resto. La dolcezza, e la gentilezza, e le premure, e il desiderio di dare una mano…
…come poteva continuare a pensare a lui come a un passatempo?
Si tese verso di lui, afferrando un lembo della sua maglia fra le mani, e il semplice contatto gli riportò alla mente le sensazioni provate mentre volavano sull’ippoponzolo, riempiendolo di nuova forza.
- Ti prego… - biascicò, fissandosi i piedi, - Raccontamelo.
Brian sorrise, e lo condusse verso una pietra piatta sotto una quercia, abbastanza grande da poter fornire un posto dove sedersi a entrambi. Lì lo fece accomodare, e poi si posizionò al suo fianco, accavallando le gambe e puntellandosi sulla superficie liscia del masso con le mani dietro la schiena.
- Vediamo… avevo trent’anni allora. Il giorno in cui lo Spirito del Bosco mi trasformò in quello che sono adesso. Stavo passeggiando per questa stessa foresta. Era un luogo che amavo veramente tanto. – si voltò a guardare Matthew, sorridendo debolmente, - Mi piaceva la solitudine.
Matthew annuì, abbozzando anche lui un sorriso e incrociando le mani in grembo.
- Mentre passeggiavo però successe qualcosa. Vidi un ragazzo.
E a Matthew sembrò di capire.
Gli sembrò di cogliere qualcosa, nello sguardo sfuggente di Brian, ed ebbe voglia di tornare indietro e dirgli “se non ti va di parlarne per me fa lo stesso”, così come aveva fatto lui prima.
Ma era tardi.
- Era veramente bellissimo. Veramente triste. E veramente solo.
- Tu… - accennò, incapace di guardarlo, - tu ti sei…
- Sì. Mi sono innamorato di lui. Non avrei dovuto, perché era sbagliato, perché era indecente, perché stavo chiaramente approfittando della sua debolezza in quel momento e perché… - gli lanciò uno sguardo veloce e colpevole, per poi tornare a fissare un punto lontano nel niente, - e perché aveva la tua età.
Un ragazzino…
- Un ragazzino come te.
Matthew si morse un labbro fino a farsi male, contorcendo le dita per il nervosismo.
- Tu l’hai…
- Sì. Ho… - sospirò, incurvando le spalle e rilasciando il fiato come fosse stato doloroso trattenerlo, - Ho avuto dei rapporti sessuali con lui.
- …
- E lui non era completamente consenziente.
- …che… come sarebbe a dire…?
- Lui… - sospirò ancora, guardandosi intorno nervosamente e cercando le parole, - Io non l’ho preso con la forza. Mi si è concesso. Ma ho approfittato di lui. Ho lasciato che si fidasse di me, ho lasciato che mi considerasse un amico, una persona fidata, e poi gli ho detto di ricambiare il favore. E lui l’ha ricambiato. Perché era troppo piccolo e perché aveva troppa paura che avrei potuto lasciarlo solo se non l’avesse fatto.
- …ed era veramente così? – riuscì a chiedere, tirando fuori la voce da chissà dove.
Brian sospirò ancora.
- Non lo so. Non lo saprò mai. La sera stessa, quando lui andò via, lo Spirito del Bosco mi intrappolò nella foresta, maledicendomi. Avrei vissuto per sempre imprigionato qui, fino a quando non fosse arrivato qualcuno in grado di sciogliere la mia maledizione.
Troppe, troppe informazioni.
Troppe cose a cui pensare.
Non era così che avrebbe dovuto essere la sua relazione con Brian. Non così pesante, non così difficile.
- Come?
Brian lo guardò stupito, senza capire.
- Come si scioglie la tua maledizione? – precisò lui, senza guardarlo.
- Non vuoi davvero saperlo. – ridacchiò amaramente Brian.
- Te l’ho chiesto! – strillò lui, sentendo nuovamente le lacrime punzecchiargli gli occhi, - Se te l’ho chiesto vuol dire che voglio saperlo! Perciò dimmelo!
Brian sorrise dolcemente. Nascose il pugno sotto la manica e lo sfiorò appena sulla testa, ma Matthew si ritrasse.
- Un altro quattordicenne. – spiegò Brian, quando si fu ripreso dalla delusione, - Deve innamorarsi di me. E quando mi toccherà riuscirà ad esorcizzarmi. Se un quattordicenne che non mi ama dovesse toccarmi, invece, la mia condanna si protrarrebbe per l’eternità, senza possibilità d’appello.
Ed era troppo davvero.
Scattò in piedi, stringendo convulsamente i pugni.
- Matthew, - tentò di dire Brian, - io non ci penso nemmeno a costringerti a-
- Non dire niente. – mormorò fra le labbra, - Non dire niente.
Dopodichè si mosse lentamente, allontanandosi da lui.
E uscendo dalla foresta pensò che probabilmente non l’avrebbe più rivisto.
*
Era impattato contro suo fratello appena uscito da un campo di granturco in pieno rigoglio. Era riemerso dall’erba altissima ricoperto di spighe, con le guance rigate di lacrime, e Paul era lì. Stava guardando un punto completamente opposto a lui, verso la foresta, ma non aveva impiegato più di tre secondi per accorgersi del suo arrivo, e più o meno un altro per spalancare le braccia e stringerlo un attimo prima che crollasse a terra, esausto, sconvolto dai singhiozzi.
S’era abbandonato lì, sul terriccio ghiaioso del sentiero, e Paul l’aveva sorretto e poi caricato in spalla e riaccompagnato a casa, senza chiedere nulla, senza dire una parola, tenendogli semplicemente una mano sulla schiena, cercando di rassicurarlo con carezze brevi e decise.
Era servito.
A poco – non aveva smesso di piangere, purtroppo – ma era servito.
A rischiarargli il cervello, più che altro.
A fargli capire che Brian aveva preso la propria anima e gliel’aveva messa fra le mani, e che lui per tutta risposta l’aveva buttata nel fango e poi c’era passato sopra coi piedi. Nonostante tutto l’aiuto che quell’uomo era stato in grado di dargli nell’ultima settimana, la paura, e lo sconvolgimento, e l’angoscia, e lo stupore, erano stati in grado di fargli perdere la testa al punto che non gli era più importato niente dei suoi sentimenti, e aveva badato solo a scappare.
Ed aveva continuato a fuggire da quel pensiero, dal suo ricordo, per tre dannatissimi e infiniti giorni. Passati a vagare per la casa, sfuggendo gli sguardi di chiunque e ignorando qualsiasi richiamo. Quando il nonno era apparso sulla soglia della sua cameretta, portando fra le mani una scatola apparentemente antica, Matthew sapeva che dentro c’era il famoso modellino di caccia bombardiere. E sapeva che il sorriso smagliante e mezzo sdentato di suo nonno significava “tirati su, che ti faccio un bel regalo”. Ma si era limitato a rispondere un “non mi va” appena udibile, e a rintanarsi nuovamente fra le coperte, fingendo che niente stesse succedendo, fingendo di avere solo sonno.
Così come fingeva di essere semplicemente senza appetito quando nonna Julie si avvicinava con una crostata.
Così come fingeva di essere semplicemente stanco quando qualsiasi persona gli proponeva qualcosa.
Mentre in realtà non era stanco. In realtà era ricolmo fino all’orlo di rabbia cieca e violento senso di colpa. Avrebbe voluto avere Brian fra le mani, avrebbe voluto la facoltà di poterlo picchiare per dirgli “hai fatto lo stesso anche con me! Hai lasciato che mi fidassi, che ti considerassi splendido, e poi hai distrutto tutto senza pietà!”. E allo stesso tempo avrebbe voluto crollare ai suoi piedi, aggrapparsi alle sue gambe e stringerlo, e dirgli di non preoccuparsi, che lo capiva, che continuava comunque a trovarlo splendido, che non c’era niente che potesse fare perché Matthew lo rimuovesse dal trono ideale che occupava al centro dei suoi pensieri.
E sapeva che non sarebbe stato in grado di fare nulla del genere.
E questo faceva di lui un essere insulso. E ridicolo.
E stava giusto pensando qualcosa di simile quando Paul irruppe in camera sua, lo privò delle coperte come se stesse scoperchiando una bara e letteralmente lo sollevò dal materasso, prendendolo in braccio e costringendolo ad appollaiarsi sulla scrivania, dove lo posò come fosse stato un oggetto inanimato.
Per molti secondi, Matthew lo osservò con sguardo vacuo, chiedendosi dove volesse andare a parare con quella sceneggiata.
Poi capì, e fece per scendere dal tavolo con uno sbuffo annoiato, ma Paul lo tenne stretto per le spalle, obbligandolo a rimanere immobile.
- Tu hai un problema. – gli disse deciso.
Matt lo fissò di sbieco.
- L’ultima volta che mi hai parlato in maniera così diretta hai detto che avevo una ragazza. E non era vero. Quindi per quale motivo la tua supposizione adesso dovrebbe essere esatta?
Paul ghignò, osservandolo dall’alto come fosse stato un moccioso.
- Perché è vero. Quindi parla.
Semplice ed efficace.
Era così che suo fratello l’aveva sempre costretto ad aprirsi.
Era… decisamente tornato il fratellone di sempre.
E la cosa piacque tanto a Matthew che non riuscì neanche a inventare una scusa qualsiasi per svicolare e chiudere un argomento del quale comunque non voleva parlare.
Si limitò a cercare di mettere su un teatrino assurdo, per fare contento Paul senza dargli necessariamente tutte le chiavi per arrivare a capire cosa gli girasse per la testa.
- Ecco… - abbozzò, guardandosi intorno, - c’è questo mio amico che per ora ha dei problemi con la sua ragazza. Lei gli ha tipo confessato di aver fatto qualcosa di veramente orribile nel suo passato, e lui non riesce più a guardarla con gli stessi occhi, e… insomma, dopo che lei ha confessato è scappato via come se lei fosse stata un’appestata o qualcosa di simile… - lanciò un breve sguardo a Paul, per verificare se avesse capito qualcosa, ma suo fratello lo fissava con occhi attenti e completamente vuoti, e Matt non riuscì a capirne un accidenti. – E perciò adesso questo mio amico ha decisamente un problema e non sa come uscirne…
- Okay. – disse Paul, incrociando le braccia sul petto, dopo qualche secondo di silenzio, - Perciò in questi giorni hai conosciuto questo tipo e credevi fosse un figo e basta. Poi ti ha confessato di essere una persona che sbaglia come tutte, e di avere fatto anche lui le sue brave vaccate, e adesso sei tutto confuso e non riesci a venirci a patti.
Okay.
Dove aveva sbagliato?
- Co-Come diavolo hai fatto-
- Allora. A capire che si parlava di te? Non ci voleva un genio. A capire che era un uomo? Le donne non confessano gli orrori che combinano, anche perché generalmente non combinano mai cose che un altro uomo considererebbe orribili. No, la capacità di stupire una persona innamorata con qualcosa di veramente brutto è esclusiva del genere maschile.
- …
- Ora ascoltami. Lo dirò solo una volta, perché eeew, non voglio parlare dei casini di mio fratello con l’omosessualità.
- …Paul…
- Taci, moccioso. Se trovi una persona che ti piace, e ti rendi conto che ti piace anche sapendo che non è perfetta, che ha fatto cazzate nella sua vita e che come tutti, Matt, non è uno stinco di santo, hai poco da stare lì a rimuginare. Tanto per quanto rimugini ti piace ancora. – spiegò, scrollando le spalle come stesse dicendo ovvietà, - E a te questo tipo piace ancora, no?
Matthew abbassò lo sguardo, arrossendo furiosamente.
- Ecco, appunto, ti piace ancora. – concluse, annuendo convinto, - Ora, Matthew, il problema è il seguente. Fra un paio di giorni noi torneremo a Londra, e non rivedremo questo posto fino all’estate prossima, se siamo abbastanza fortunati. – si prese un secondo di pausa, squadrandolo da capo a piedi e realizzando che così raggomitolato sulla scrivania sembrava davvero ma davvero piccino, - Tu cos’è che pensi di fare?
E Matthew allungò le gambe e semplicemente saltò giù dalla scrivania.
Prima ancora di capire che tutto il suo corpo stava strillando “corri a cercarlo”, lui stava già correndo a cercarlo. Correva come un disperato. Sul sentiero, fra i campi, fra le scorciatoie tra le colline, costeggiando il fiume e attraversandolo sul ponticello pericolante che ormai neanche i pastori, disperati per le infinite migliaia di viaggi che erano costretti a fare, utilizzavano più, e finalmente giunse alla foresta. E ancora correva quando si immerse nel folto degli alberi, e ancora correva, il naso per aria, cercando Brian ovunque gli sembrasse di ricordare di averlo visto.
E correndo correndo raggiunse il lago.
E seppe con certezza che se ci era arrivato era solo perché anche Brian voleva vederlo.
E infatti lui era lì, davanti alle acque cristalline, vestito di nero da capo a piedi – come al solito, come sempre – e badava agli animali della foresta come se fosse davvero stato un pastore alle dipendenze dello Spirito del Bosco.
Matthew si fermò ad osservarlo da lontano, ancora ansante.
Brian si voltò, lentissimo.
E quando si fu completamente girato, Matthew scattò sulle gambe e gli saltò addosso. Lo abbracciò strettissimo, stando attento a toccare solo i vestiti, affondando negli sbuffi della maglia e ansimando e piangendo come un disperato, mentre Brian sollevava spaventato le braccia per evitare di toccarlo a mani nude.
- Matt… - mormorò l’uomo, stupito quanto lui stesso del movimento improvviso e inaspettato.
Ma si ripresero entrambi in fretta. E mentre Matt prendeva a piangere più sommessamente, come volesse scusarsi per tutto, Brian riuscì in qualche modo a far scivolare le maniche della maglietta perché gli coprissero le mani, e afferrando i lembi coi pugni chiusi li fece poi scivolare sulla schiena del ragazzo, con movimenti lenti, pazienti e affettuosi, cercando di calmarlo.
- Avanti, avanti… - sorrise rassicurante, stringendolo forte fra le braccia, - È tutto a posto. Non hai combinato niente di disastroso.
- Sì che l’ho fatto! – protestò Matthew sollevando lo sguardo e arrossendo nello stesso istante, - Mi… mi sono innamorato di te! – disse tutto d’un fiato, strizzando gli occhi, - Voglio essere io a liberarti! – continuò, con lo stesso impeto. Poi sembrò realizzare, e rallentare il ritmo, - …sempre se a te va bene…
Brian lo guardò a lungo, sforzandosi di non scoppiare a ridere.
- Sei così carino… - commentò infine, sorridendo dolcemente, - Sai, se non mi amassi davvero e mi toccassi comunque, io rimarrei imprigionato qui per sempre.
Matthew si morse un labbro, sostenendo il suo sguardo ma inarcando le sopracciglia verso il basso.
- E a me andrebbe bene. – continuò Brian, lo stesso splendido sorriso sul volto, - Purché tu mi promettessi di tornare a trovarmi ogni estate.
Matt continuò a guardarlo, chiedendosi per quale motivo Brian stesse tirando fuori un discorso simile in quel momento.
E poi capì.
E sorrise.
- Tu stai solo cercando un modo per continuare a punirti per quello che hai fatto. – disse teneramente, sfiorandogli il petto attraverso il tessuto della camicia, - Ma non devi preoccuparti. Perché io riuscirò sicuramente a liberarti.
E Matthew glielo lesse negli occhi.
Gli lesse negli occhi “va bene”. Gli lesse negli occhi “ti credo”. Gli lesse negli occhi “ti affido la mia anima”.
Si sollevò sulle punte e lo baciò.
E mentre lo baciava, assieme alla morbidissima sensazione delle sue labbra a premere contro le proprie, e della sua lingua a infiltrarsi nella bocca, umida e calda, si sentì come se gli stessero strappando qualcosa dal petto. E capì che Brian stava svanendo. Che si stava come cristallizzando in minuscole goccioline d’aria, che si stava facendo inconsistente sotto le sue mani, che stava facendosi via via sempre più trasparente e impalpabile.
Si separò da lui e riaprì gli occhi, pensando che non si sarebbe mai perdonato se non fosse riuscito a guardarlo un’ultima volta prima che fosse sparito.
Brian sorrideva ed era bello come mai prima.
Lo vide allungare le mani verso di lui, lo vide stringere con forza le sue dita fra le proprie, lo vide commosso e luminoso.
- Adesso posso toccarti, Matt! Lo senti? Ti posso toccare!
Fu l’ultima cosa che disse.
Ma rimasero lì a stringersi, come fossero immobili nel tempo, fino a che Brian non fu svanito del tutto.

***************

- Bellamy! Accidenti a te!!!
La voce di Andy lo riportò bruscamente dal sogno alla realtà, e Matt scattò a sedere sul letto ripetendosi ossessivamente “Dio! Non guarderò mai più MTv!!!”.
Aveva sognato robe allucinanti.
Assieme a cose effettivamente accadute nella sua infanzia – Margareth Calloway! Erano millenni che non pensava più a Margareth Calloway! – erano spuntate da… da dove, poi? Dal suo inconscio?, scene completamente inventate. E quel tizio, quel coso che nel sogno si faceva chiamare Brian, era dannatamente simile allo pseudo-cantante che aveva visto cantare quella pseudo-canzone che aveva fatto da colonna sonora a Cruel Intentions!
Santo cielo!
- Lo dico sempre io che guardare troppa tv fa male! – commentò Andy, sbraitandogli ancora nell’orecchio, - Guardati, sei completamente rincoglionito! Guarda che stasera mi servi sveglio!
- Stasera…? – mormorò Matt, sollevando lo sguardo sull’esagitata figura del coinquilino.
- Sì, stasera. – puntualizzò Andy afferrandolo per la maglietta e costringendolo a tirarsi in piedi, - Te l’ho detto prima che andassi a dormire, che avevamo appuntamento alle sette con gli altri.
- …ma per fare che, esattamente?
Andy mise le mani sui fianchi, guardando il soffitto con aria falsamente pensosa.
- Uhm. Ricordi la Ford Escort che abbiamo visto posteggiata accanto al molo, ieri sera? Ebbene, pare che abbiamo trovato un compratore.
- …Andy, quella macchina non è nostra. Non possiamo venderla.
Andy sembrò pensarci su per qualche secondo.
Poi si limitò ad afferrarlo per la collottola e cominciare a tirarlo verso la porta dell’appartamento.
- A tutto c’è rimedio, Bellamy! – annunciò candidamente mentre lo infilava nel cappotto come fosse stato un sacco della pattumiera e si affrettava a trascinarlo fuori.