rp: esteban cambiasso

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Davide, Davide/Zlatan, Zlatan/José più varie assortite.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU.
- La Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, si occupa di identificare, mettere in sicurezza, conservare e procedere alla classificazione e allo studio approfondito di tutti quei fenomeni e soggetti paranormali/sovrannaturali che comunemente interagiscono, più o meno evidentemente, con la realtà di tutti i giorni. Davide Santon è un Agente alle dipendenze di José Mourinho, direttore generale del distaccamento milanese della Fondazione, nonché suo padre adottivo. Sta ancora riprendendosi dall'addio forzato al suo partner precedente, Zlatan Ibrahimovic, trasferitosi recentemente al distaccamento parigino, quando suo padre gli affida un novizio, Mario Balotelli. E i due danno inavvertitamente inizio all'Apocalisse.
Note: Il mondo è un posto bello in cui io posso scrivere anche di queste cose non solo senza sentirmi in colpa, ma anche gloriandomene e divertendomi un casino XD Dunque, breve storia di questa storia: l'idea di base, il fulcro su cui tutto si sviluppa, l'idea di scrivere una storia sovrannaturale "a episodi", divisa in stagioni come una serie tv, nasce un paio d'anni fa, quando incappo per caso nella community LJ paranormal25, che decido di utilizzare come una traccia generica, seguendo i vari prompt proposti dalle varie tabelle. Ho subito capito che sarebbe stata una storia sul Soccerdom, perché la tipologia del racconto richiedeva tipo un fottio di personaggi, che solo il Soccerdom poteva darmi con l'adeguata abbondanza, ma per il resto un enorme velo nero è calato sulla storia e sui modi, finché Julie non ha inventato il Genetics Fest. Sono rimasta a brancolare nel buio chiedendomi cosa avrei potuto scrivere a riguardo, visto che avevo già deciso di prendere piume come prompt, quand'ecco che il progetto di questa storia è tornato a bussare alle porte della mia memoria, e giù a cascata tutto l'headcanon che in due anni non mi era mai passato per la testa XD
Dunque, in sostanza, per i primi quattro episodi dovresti essere abbastanza sicuri di poterli ricevere per tempo, uno a settimana, in coincidenza con le scadenze del Genetics Fest. Per i successivi, chissà! XD Mi conoscete, sapete che scrivo a cazzo di cane, ma prometto che cercherò di essere se non puntuale almeno dignitosa con le consegne e i postaggi ♥
Ciò detto, aspettatevi una storia potenzialmente infinita -- Supernatural ci fa una sega. E buon divertimento XD
L'ispirazione per la SCP Foundation viene da qui.
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THE UNSPEAKABLES
1x01 – Pilot

Avrebbe potuto voler diventare un avvocato, riflette fra sé, le gambe accavallate, le braccia incrociate sul petto, un piede che sbatte nervosamente contro il pavimento in resina lucida e bianca, il culo poggiato controvoglia sulla seggiolina in plastica grigia più scomoda mai concepita da mente umana. Avrebbe potuto diventare un avvocato, o chissà, un medico. Avrebbe potuto voler essere un poliziotto, o un professore. O un pilota automobilistico. Perfino un calciatore.
Ma no. Lui voleva seguire le orme paterne. Paterne, poi. Un blocco di cemento attaccato a una caviglia e in caduta libera giù da un ponte verso il mare sarebbe stato più paterno di quanto José Mourinho era stato nei confronti di Davide per tutta la sua intera esistenza, da che era stato adottato in poi, cosa che, davvero, aveva del crudelmente ironico. Se la natura non ti ha dato dei figli, perché disturbarti ad andartene a cercare uno fino in Italia per poi non stare mai con lui? Sempre lontano, suo padre, sempre immerso nel suo lavoro, sempre chiuso in ufficio, sempre impegnato ad incontrare gente che inevitabilmente finiva per non essere Davide. Un padre assente, per voler usare un eufemismo ancora gentile. Un trascurante figlio di puttana, a volere invece descrivere in termini più propri la realtà dei fatti.
Forse è per questo motivo che, posto di fronte alla scelta della vita, non appena concluso il liceo, Davide ha scelto la pillola rossa. Ha scelto di aprire gli occhi e guardare, uscire dalla realtà per cui “papà è il direttore generale di un’importante organizzazione che lo tiene molto, molto occupato, tesoro” per tuffarsi di testa nella verità che ha continuato a sfuggirgli per tutti gli anni della sua infanzia.
Una verità che ora vive quotidianamente, che gli piace più di quanto non ammetterà mai, e che a fasi alterne gli regala quanto di meglio la vita abbia da offrirgli, e subito dopo quanto di peggio.
I suoi pensieri si soffermano distrattamente sul profilo di Zlatan che si staglia contro il tramonto, in spiaggia, la tenda da campeggio appoggiata sulla sabbia qualche metro più in là, il carbone che scoppietta ed arde allegro nel braciere fra di loro mentre nell’aria si diffonde l’aroma invitante delle puntine di maiale annaffiate nel salmoriglio. “Andrà tutto bene, Dade,” la sua voce sempre così ruvida, dai semitoni così improvvisamente soffici, “Non hai davvero bisogno di me.” Il sapore di sale, chissà se dovuto alle lacrime o all’acqua di mare.
Scaccia via il pensiero con forza, chiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia. È arrabbiato, con se stesso, principalmente, per essere nonostante tutti gli anni di servizio che ha ormai alle spalle ancora così ridicolmente debole. Ricorda ancora le parole di suo padre il giorno in cui, completato l’addestramento, gli ha consegnato il suo nuovo tesserino di Agente, e la sua arma. “Ti affido a Zlatan,” ha detto, e poi ha sorriso, “Anche se so che sto facendo un errore.” Davide si rivede, infinitamente più piccolo, la faccia ancora brufolosa tipica degli adolescenti ed una massa confusa di capelli castani sulla testa, l’uniforme ancora da riempire che gli cadeva addosso sformata come un sacco di patate, chiedere perché. E rivede di nuovo quel sorriso a piegare le labbra di suo padre, e quel suo “Non crescerai mai, attaccato al culo di Zlatan, ti proteggerà sempre. Ma sei mio figlio, e non posso mandarti lì fuori con nessun altro.” La prima volta che s’è sentito vagamente amato da lui.
Si decide a deviare nettamente dal viale dei ricordi quando sente le lacrime cominciare a pungere sotto le ciglia, ed in quel momento la porta metallica accanto alla quale era seduto in attesa si apre con un clic discreto, mostrando la mano abbronzata e dalle dita lunghe di Pep, che si affaccia dallo spiraglio e gli posa addosso un’occhiata che non presagisce nulla di buono.
- Tuo padre può riceverti, adesso. – dice con un breve cenno del capo, aprendo la porta per lui.
Davide si solleva con un sospiro ed entra nell’anticamera di medie dimensioni che funge da ufficio di Pep Guardiola, fedele segretario tuttofare e primo consigliere di suo padre da ormai più di dieci anni.
In quell’edificio, ed anche al di fuori dei suoi confini, tutti sanno che è il figlio adottivo di José Mourinho. Lui s’è premurato di spargere la voce non appena ha saputo della decisione di Davide di entrare nella Fondazione. Un misto di orgoglio paterno e desiderio di buttare giù qualche paletto per tenergli lontano qualche Agente anziano in vena di scherzi di cattivo gusto. Quelli della Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, sono quanto di più simile ai ranghi di un esercito sia possibile trovare all’infuori di un esercito, e che qualcuno potesse voler mettere le mani sul nuovo arrivato senza conoscerne l’origine era un’eventualità che andava necessariamente presa in considerazione.
- Qualsiasi cosa accada lì dentro, - gli dice Pep, accompagnandolo di fronte alla porta chiusa dell’ufficio di suo padre e poi aprendola per lui, - Sappi che ho provato in ogni modo a fargli cambiare idea, ma non ha voluto ascoltarmi.
Davide gli lancia un’occhiata dubbiosa, ma è troppo tardi per indagare oltre. La porta è aperta e suo padre è seduto dietro la sua scrivania, tutto intento ad apporre il proprio timbro e la propria firma su una pila di documenti la cui altezza sfiora i venti centimetri. Un foglio via l’altro, ogni tanto scambia qualche parola con un tizio alto, scuro di pelle e coi capelli rasati secondo un pattern assolutamente ridicolo, seduto scompostamente su una delle due sedie metalliche di fronte al tavolo.
Davide decide di ignorarlo ed entra, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
- Papà. – lo saluta quindi, alzando un po’ la voce per costringerlo a guardarlo.
- Ah!, Davide. – annuisce José, invitandolo ad avvicinarsi con un breve cenno della mano, - Vieni, vieni. Sei perfettamente in orario, come al solito.
- Non avevamo un appuntamento. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia.
- Questo è del tutto irrilevante. – sorride José, - Vieni, dai, siediti. Di cosa volevi parlarmi? – Davide lancia un’occhiata al tizio, che gliela ricambia con aria un po’ stupita, e sta per dire che vorrebbe parlargli in privato quando la fragorosa risata di José lo interrompe. – Non preoccuparti, puoi parlare di fronte a lui. Dimmi.
Davide prende posto sull’unica altra sedia libera di fronte alla scrivania, serra le mani sulle ginocchia e prende un respiro profondo.
- Non voglio essere assegnato a nessun altro partner. – dice quindi, - Voglio lavorare da solo.
José inarca le sopracciglia, sollevando gli occhi su di lui ed interrompendo la propria interminabile trafila di apposizione di timbri e firme.
- Impossibile. – dice quindi, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Non è vero. – insiste Davide, - Non sarei il primo.
- I casi si contano sulle dita di una mano. – gli fa presente José, riprendendo a siglare documenti.
- Vuol dire che si conteranno sulle dita di due, da oggi in poi. – ribatte Davide, appoggiando una mano sulla scrivania. – Non intendo essere assegnato a nessun altro. Non voglio qualche stronzetto nuovo arrivato attaccato al culo, e non voglio nemmeno fingere di dover portare rispetto a qualche stronzo più navigato che si sente più bravo o più intelligente di me solo perché ha all’attivo qualche anno di servizio in più. Non voglio, lo rifiuto. Posso lavorare da solo, sono pronto.
José lo guarda senza cambiare espressione, appoggia la penna sul tavolo e scambia una rapida occhiata col tizio seduto accanto a Davide. Poi sospira, congiunge le mani a qualche centimetro dal viso ed appoggia i gomiti sul tavolo, tornando a guardare Davide con aria seria.
- Ti sei mai chiesto il motivo per cui gli agenti sono obbligati a lavorare in coppia? – domanda. Davide si irrigidisce sulla sedia, ma scuote il capo con fare orgoglioso, come fosse fiero del fatto che, in realtà, della risposta non gli interessa niente. – Ovviamente. – sorride José, e poi prosegue. – È necessaria una grande quantità di forza spirituale e psicologica, oltre che fisica, per portare a termine gli incarichi che la Fondazione affida ai suoi Agenti. Non tutti gli individui sono in grado di fornire quello che serve da soli. Anzi, si tratta di casi estremamente rari ed estremamente preziosi. – si interrompe per qualche secondo, il suo sguardo è duro, severo, proprio come quello di un padre intento a rimproverare il figlio, a dargli una lezione che non sarà in grado di dimenticare facilmente. – Tu non sei uno di quei casi, Davide.
A giudicare dal bruciore che sente sottopelle, suo padre ha fatto centro.
Davide abbassa gli occhi, ritraendosi come una lumaca nel suo guscio, velocemente. Si ripiega su se stesso, sconfitto, e non dice una parola.
- Mi dispiace, Dade. – aggiunge José, il tono di voce improvvisamente tenero. Tutto quello a cui Davide riesce a pensare al momento è quanto lo irrita non essere solo con lui in questa stanza. Sente lo sguardo dell’altro ragazzo addosso ed è imbarazzante, è degradante, è mortificante. – Sapevo che avevi intenzione di chiedermi una cosa come questa. L’avevo intuito. Ecco perché ho ritenuto opportuno essere molto chiaro, con te, di modo che ti convincessi a lasciar perdere. Ed ecco anche perché ho scelto di farlo di fronte a Mario. – dice, e Davide gli solleva immediatamente lo sguardo addosso. Sentire chiamato l’altro ragazzo per nome suona come una nota stonata, per quale motivo dovrebbe volerlo includere nella conversazione al punto da riferirsi direttamente a lui col suo nome di battesimo?
Davide si volta a guardarlo, e il tipo lo sta ancora fissando di rimando, le iridi nere piantate sul bianco abbagliante dell’occhio e, sullo sfondo, l’uniformità scurissima della sua pelle.
Sta per domandare chi sia, ma José lo precede.
- Lui è Mario, appunto, - spiega con un sorriso, - E da oggi è il tuo nuovo partner.
Sull’ufficio cala un silenzio nervoso e imbarazzato. Mario non spiccica una parola e Davide, gli occhi fissi sulle proprie mani, serrate strette attorno alle ginocchia, non si azzarda nemmeno a sollevare lo sguardo.
Lo odia, lo odia come non l’ha mai odiato prima di quel momento, e di motivi, e ragioni, e occasioni, ne ha avute parecchie, nella sua vita. Ma questo momento, ora come mai prima d’ora, riassume tutta la loro relazione. Non è mai stato un figlio, per lui, quanto più un prodotto. Qualcosa da crescere, instradare, indirizzare. Qualcosa da concimare ed osservare alzarsi robusta verso il cielo. Avrebbe potuto diventare un giardiniere, con una vocazione simile, ed invece è diventato il direttore generale di un’organizzazione segreta per la protezione della stabilità del mondo conosciuto. Due occupazioni solo in apparenza totalmente dissimili, che si riducono in realtà allo stesso nocciolo, perché niente di quello che José gli ha mai detto è mai stato qualcosa in più che banale fertilizzante. Lezioni da imparare per rendere più dura la sua corteccia.
- D’accordo, ho capito. – si alza in piedi senza degnare suo padre di un altro sguardo. Per quello che gl’importa, un SCP potrebbe emergere dalle pareti e staccargli la testa a morsi in questo esatto istante, e lui non muoverebbe un muscolo per salvarlo. Si volta verso il ragazzo e gli fa un cenno col capo. – Muoviti.
Il ragazzo inarca un sopracciglio e non muove un muscolo. José piega le labbra in un sorriso amaro.
- Bene. – dice, - È così che vuoi farlo, dunque. BÈ, è una tua prerogativa. L’Agente anziano sei tu, adesso, lui è una tua responsabilità.
- Che non ho chiesto. – dice Davide, tagliente, - Che non mi sono scelto.
Il sorriso di José si allarga impercettibilmente.
- Come tutte le responsabilità. – risponde serafico. Poi sembra come ricordarsi all’improvviso di qualcosa. – Prima che andiate, - dice, rovistando nella sua bella pila di carte, - Il tesserino di Mario, - dice, porgendogli il suo tesserino plastificato, - La sua arma, - continua, aprendo il primo cassetto della scrivania e recuperando l’arma ancora sigillata, - E, già che siete qui, il vostro primo caso.
Davide osserva i suoi movimenti con aria incolore, fin quando non scorge come in un flash il giallo della cartellina portadocumenti passare dalle mani abbronzate di José a quelle scure di Mario.
- Un attimo. – dice, aggrottando le sopracciglia e intercettandola a mezz’aria, sottraendola alla stretta delle dita di Mario prima che possa rafforzarsi attorno al cartoncino, - Me l’hai appena affibbiato e devo già portarlo fuori?
- Anche tu sei uscito quasi subito, dopo essere stato affidato al tuo partner anziano. – risponde José, facendo spallucce.
- Due giorni dopo l’assegnazione. – precisa Davide, irritato, - Non ho avuto il tempo di testarlo. Non ho ancora neanche sentito la sua voce!
- Guarda che sono stato addestrato anch’io. – dice finalmente Mario. La sua voce è profonda e gutturale, e venata da un marcatissimo accento del bresciano. Davide la trova istintivamente antipatica. Quella cadenza strascicata, quella punta di orgoglio infantile, gli danno subito sui nervi.
Si volta verso di lui, sferzandolo con un’occhiata severa.
- Non ti ho chiesto di parlare. – dice.
Mario non la prende bene. I suoi occhi si velano di un’ombra scura, una punta di rabbia che frena evidentemente solo a fatica. Ma non compie nessun movimento brusco. Conserva il tesserino nel portafogli, lega la cintura con la fondina attorno ai fianchi e poi resta in piedi, le braccia ritte lungo i fianchi.
- Lo testerai sul campo. – chiude la questione José, alzandosi dalla propria sedia girevole ed indicando la porta in un gesto di congedo, - Quale migliore occasione.
*
Nessuno dei due dice una parola mentre attraversano i lunghi e bianchi corridoi degli uffici milanesi della SCP Foundation. Non si sente nessun suono, attorno, eccezion fatta per il ticchettio degli stivaletti di pelle di Davide, e lo scricchiolare insistente delle suole di gomma delle scarpe da tennis di Mario.
Davide cammina guardando dritto davanti a sé, stringendo la cartellina fra le dita. Fa strada attraverso l’ingresso e fuori dall’edificio, verso l’ascensore che conduce al parcheggio sotterraneo. E poi attraverso i grigi corridoi di cemento del parcheggio stesso, illuminati a stento dalle luci al neon, biancastre e tremule, fino al SUV nero e lucido dal disegno squadrato che è stato l’ultimo lascito di Zlatan prima di partire. “Dove vado, non mi servirà,” la sua risata sguaiata mentre gli lanciava le chiavi in aeroporto, “Ho una Citroën GT ad attendermi non appena metto piede a Parigi!”.
Davide respira forte, profondamente, poi fa scattare le sicure. L’automobile lo saluta lampeggiando e uggiolando di gioia un paio di volte. Davide apre lo sportello e si siede alla guida senza neanche invitare Mario ad accomodarsi. Fortunatamente, almeno per quello il ragazzo sembra non aver bisogno di alcuna direttiva, perché lo fa di propria spontanea iniziativa e, una volta sedutosi alla destra di Davide, resta composto ed immobile a fissare la parete grigia oltre il parabrezza. Davide lo imita per qualche secondo, cercando di concentrarsi, cercando di ricordare che è un uomo, ormai, che non deve lasciarsi manipolare così da suo padre, che deve essere professionale e che ha un compito da svolgere.
Solleva la cartellina e la appoggia al volante, aprendola ed esaminandone il contenuto.
- SCP di classe E, livello di pericolo due. – legge a bassa voce, scorrendo il documento di presentazione. Gli si piegano le labbra in un sorriso divertito, - Una succube! Mai vista una dal vivo? – chiede, voltandosi a guardare il ragazzo.
Lui è ancora piccato per la sua risposta sgarbata di prima, e si limita a scuotere il capo, silenzioso. Davide sospira e mette via la cartella.
- Non fare così. – gli dice, - Dobbiamo lavorare insieme.
- Sì, hai già espresso più che chiaramente il fatto che preferiresti leccare un cesso pubblico piuttosto che lavorare con me, ma sembra che non ci sia alternativa, per cui. – ribatte quello, guardando altrove.
Davide lancia un’occhiata esasperata al tettuccio e poi si passa una mano fra i capelli.
- Senti, non è una questione personale. – dice.
- Lo è diventata. – risponde Mario.
- No, non lo è diventata. – insiste lui, - Non lo diventa, se non vogliamo. Non è con te che ce l’ho.
Mario si degna di voltarsi a guardarlo. Con le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un broncio infantile, sembra più piccolo di quanto non gli sia sembrato ad una prima occhiata. L’imponenza del suo corpo e la freddezza del suo sguardo traggono in inganno, ma Davide si rende conto adesso che devono avere più o meno la stessa età.
- Ce l’hai con tuo padre? – domanda.
Davide sospira, scrollando le spalle ed appoggiandosi allo schienale del sedile.
- Anche, sì. È tutto un insieme di cose, - agita una mano a mezz’aria, - Non preoccupartene. Quello che è importante, adesso, è portare a termine questa missione e chiudere questa giornata nel modo meno disastroso possibile. Per il resto, avremo tempo. – conclude. – Pensi di potercela fare?
Mario scrolla le spalle.
- E proviamoci. – dice, - Abbiamo una foto?
- Un’illustrazione. – risponde Davide, sospirando teatralmente, - Vedi, questi sono i momenti in cui verrebbe voglia di andare negli uffici del reparto Classificazione e Identificazione, e dare fuoco a tutto. – borbotta, sollevando la fotocopia di un’illustrazione in bianco e nero visibilmente antica. Mostra un demone dalle zampe caprine e dal seno prosperoso. Ha lunghi capelli scuri e ricci, intricati come un labirinto, che svolazzano nel vento, una larga bocca piena di denti aguzzi dalla quale fa capolino una lunga lingua biforcuta ed occhi come due tagli orizzontali, privi di pupilla. Da dietro la schiena spuntano due enormi ali dalle piume nere. Ha le unghie adunche come artigli e zoccoli ai piedi.
Mario inarca un sopracciglio.
- Non andrà mica in giro così? – dice.
- Naturalmente no. – sbotta Davide. – Coi tempi che corrono, è più probabile che si sia trasformata in qualche Barbie bionda superdotata, o in una velina. Ma naturalmente non abbiamo foto della sua forma corrente. Sembra che avremo a che fare con del sangue blu, comunque.
- Prego? – domanda Mario, cercando di sbirciare i documenti. Davide ride e gli solleva davanti al viso un’altra fotocopia.
- La tipa in questione dovrebbe essere Mahalath, una delle quattro regine dei demoni.
- Yuhuu, - sbuffa Mario, senza neanche premurarsi di fingere entusiasmo, - La famiglia reale.
- Già. – ride ancora Davide, tornando a sfogliare il contenuto della cartella.
- Niente di utile, là dentro? – domanda curioso Mario.
- Mmh. – Davide scorre il testo con attenzione, - Citazioni dal Malleus, descrizioni di vittime sfuggite al rapporto per tutto il secolo scorso… roba standard. Niente di che.
- In pratica, dobbiamo arrangiarci per conto nostro. – conclude Mario, e poi annuisce. – Okay, - dice quindi, - Si va?
Davide inarca un sopracciglio, le labbra che si piegano in un sorriso furbo.
- Prima passiamo dagli alloggi. – dice. E, di fronte all’espressione poco convinta di Mario, spiega, - Non vorrai mica andare in discoteca conciato così?
*
Mario non ha niente di adatto per l’occasione, solo qualche paio di jeans sdruciti e qualche maglietta sbiadita. Le sue cose sono già state sistemate fra l’armadio e la cassettiera addossata in fondo alla stanza. Qualche cosa è stata poggiata sul letto, perfettamente rifatto come il suo gemello a qualche metro da lui.
Le due metà della stanza non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra, piena di poster e fotografie e libri che strabordano dagli scaffali della piccola libreria angolare quella di Davide, completamente spoglia ed anonima quella di Mario – nonostante le tracce di scotch sulle pareti dimostrino la presenza di qualcuno in quel luogo nel recente passato, qualcuno che ormai è andato via. Davide ha chiesto almeno cinquecento volte che le pareti venissero ridipinte, ma è stato ignorato ripetutamente, e niente riesce a togliergli dalla testa che si tratti in realtà di una delle piccole torture quotidiane che suo padre si diverte ad infliggergli nel tentativo di renderlo forte e duro e corazzato abbastanza da potergli cedere le chiavi dell’ufficio in un non troppo distante futuro.
Dopo un breve esame dei vestiti di Mario, Davide decide di prestargli qualcosa di proprio. Gli lancia addosso un paio di jeans aderenti blu scuro, una maglietta bianca così stretta da avvolgerlo come una seconda pelle ed un gilet nero, lucido e dal taglio moderno, che gli dice di indossare aperto sopra la maglietta. I jeans gli stanno corti ed il suo torace possente esplode nella maglietta, ma dovrà farsi bastare questo finché non riceverà il suo primo stipendio.
Davide prova a dargli un paio delle proprie scarpe, ma non portano la stessa misura, e Mario ritorna alle proprie sneaker consumate con un flebile sorriso di autentica gioia sul volto. Poi si alza in piedi e si sente scricchiolare tutto.
- Che palle. – borbotta, tirandosi giù la maglietta lungo i fianchi, - Perché stiamo facendo questa cosa?
- Perché i succubi frequentano esclusivamente locali notturni, preferibilmente discoteche. Dove si rimorchia meglio. – risponde Davide, sistemandogli il gilet sulle spalle e sollevandogli un’occhiata di rimprovero addosso, - Non hai studiato?
- Girano pochi libri in casa mia. – risponde Mario, guardando altrove, - I miei non credono nella parola scritta.
- Bella questa. – sbotta Davide, inarcando entrambe le sopracciglia e guardandolo adesso con curiosità, - Sai leggere, almeno?
- Sì, ovviamente. – grugnisce lui, offeso, - È solo che i miei preferiscono l’apprendimento sul campo a quello in classe.
Davide lo scruta con occhi attenti per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi scrolla le spalle.
- Che roba da pezzenti. – conclude, voltandosi e dirigendosi verso il proprio armadio per cambiarsi, - È come pretendere di diventare uno chef senza aver mai studiato come si cucina una frittata.
Irritato, Mario aggrotta le sopracciglia e serra i pugni lungo i fianchi.
- I miei genitori non sono dei pezzenti. – ringhia.
Davide si volta appena a lanciargli un’occhiata sufficiente da sopra una spalla.
- Non importa. – dice quindi, tornando ad esaminare i propri abiti, - Ragionano come se lo fossero.
- Ritira immediatamente quello che hai detto! – abbaia Mario. Davide si sente afferrare per un braccio e fa mezzo giro su se stesso. Mario lo schiaccia contro la porta chiusa dell’armadio e ringhia a due centimetri dal suo volto. – Non costringermi a ripetermi.
Davide lo affronta a muso duro, le sopracciglia aggrottate, le labbra serrate in una linea carica di disappunto. Gli pianta entrambe le mani contro il petto e lo spinge lontano da sé. Mario, sorpreso dalla sua forza inaspettata, finisce a sbattere contro la parete di fronte e gli solleva addosso un’occhiata smarrita. Davide si sposta il ciuffo da davanti agli occhi e mette le mani sui fianchi.
- Un’altra insubordinazione di questo tipo e faccio rapporto. Tre rapporti negativi sono un’ammonizione ufficiale. Tre ammonizioni sono una sospensione. Tre sospensioni portano all’espulsione. – elenca atono, - Questo giusto per avvisarti. Sono un Agente anziano, il tuo partner anziano, e devi portarmi rispetto.
- Be’, anche tu dovresti portarmene. – ribatte Mario, rimettendosi dritto e fronteggiandolo senza timore, - Sono un essere umano. O in questo posto del cazzo contano solo i gradi?
Davide non risponde subito. Lo guarda per qualche secondo, vagliando le sue parole, e poi cede.
- Ti chiedo scusa se ho mancato di rispetto ai tuoi genitori. Non li conosco e non ho il diritto di giudicarli. – dice, - Ciò non toglie, però, che ritengo il loro approccio alla materia assolutamente insufficiente. E penso che seguire i loro insegnamenti abbia fatto di te un Agente incompleto. Non so come tu abbia fatto a passare il test selettivo, ma—
- Non ho fatto nessun test per entrare. – risponde Mario, senza neanche lasciarlo finire di parlare.
Lo sguardo di Davide si incupisce, restando sempre fisso su di lui. Si illumina appena di un’intuizione indistinta quando Davide somma i fattori ed ottiene l’unico risultato possibile.
- Di chi sei figlio? – domanda.
Mario solleva il mento e gonfia il petto, prima di parlare. È una reazione ridicola ed esagerata, ma a suo modo tenera.
- Francesco e Silvia Balotelli. – risponde quindi. La voce gli trema d’orgoglio.
Davide è stupito dalla risposta. Non sapeva che i Balotelli avessero un altro bambino, oltre ai tre già da tempo entrati nella Fondazione, men che meno avrebbe mai potuto immaginare che l’avessero adottato. Quindi sì, è stupito dalla risposta, ma non esattamente sconvolto. José non avrebbe potuto accettare senza test d’ingresso nessuno che non fosse un prodotto certificato della famiglia Balotelli. Silvia e Francesco erano stati due Agenti di fama mondiale, negli anni ’80. Se ne studiava ancora le tecniche e le imprese, all’Accademia, durante l’addestramento.
A Davide non è mai piaciuto il loro stile. Sono noti per la loro intraprendenza ed il loro coraggio, ma anche per l’assoluta mancanza di programmazione e pianificazione dei loro assalti, che risultava spesso nella morte violenta dell’SCP che si sarebbe invece voluto acquisire. Lui preferisce altri tipi di tattiche.
- Capisco. – dice quindi, voltandogli nuovamente le spalle e tornando a passare in rassegna i propri vestiti. Sceglie per sé un paio di jeans neri ed una maglietta dello stesso colore, dalla profonda scollatura a v. – Insomma, un raccomandato. – conclude.
La rabbia di Mario è di nuovo chiarissima nella sua voce, quando parla.
- Sei un figlio di papà anche tu. – ringhia, i pugni che tremano lungo i fianchi.
Davide gli lancia una mezza occhiata ed un mezzo sorriso ironico. Poi si sfila la maglietta.
- Io i miei test ho dovuto sostenerli tutti. – ribatte, - Fra i banchi e sul campo.
Ignora la velocità con la quale Mario distoglie lo sguardo di fronte alla sua pelle nuda.
*
Sono di fronte all’Hollywood per le undici in punto, tardi abbastanza per trovare già un po’ di movimento ma presto abbastanza per avere di fronte almeno quattro ore buone di pattuglia. Entrano mostrando al buttafuori il tesserino e, una volta dentro, Davide si dirige dritto verso il bar, senza neanche guardarsi attorno. Almeno fino a quando non capisce di essersi perso Mario da qualche parte lungo la via.
Si volta per cercarlo in mezzo alla folla e lo trova immobile e rigido come un pezzo di legno a pochi passi dall’entrata, che si guarda intorno con aria smarrita. Sospirando e lanciando uno sguardo colmo di rassegnazione e pazienza in esaurimento al soffitto, gli torna accanto e lo strattona bruscamente, riportandolo alla realtà.
- Trovati. – borbotta, - Comportati con naturalezza.
- Con naturalezza? – esala Mario, fissandolo sconcertato, - Non riesco ad immaginare un comportamento più naturale di questo! Ma ce l’hai presente Concesio? Il buco del culo della Val Trompia! Quindicimila anime all’anagrafe! La cosa migliore che ne sia uscita dopo i miei genitori è stata un Papa! Ti pare che io possa mai aver visto cose di questo genere? – domanda, allargando le braccia in un gesto ecumenico che include tutta la discoteca, che si sviluppa di fronte a loro in un incessante rincorrersi di luci e suoni confusi, di corpi che si schiacciano fra loro al ritmo sempre uguale di tutti gli svariati successi dance dell’estate e dell’odore pesante ed avvolgente del sudore misto a quello più forte dei profumi da uomo e da donna ed a quello fruttato ed alcolico dei cocktail.
Per Davide, ambienti come questo sono la norma. È stato costretto a frequentarli più di quanto volesse per lavoro, e Zlatan ne andava matto nel tempo libero. Ma può comprendere come, per un tipo come Mario, siano invece una novità assoluta, da fissare con gli occhi sgranati e l’aria di un cieco miracolato del dono della vista che, come prima cosa dopo anni e anni di buio assoluto, posi gli occhi su un corpo di donna spogliato di ogni abito.
- Trovati lo stesso. – sbuffa Davide, afferrandolo per un polso e trascinandolo più in profondità all’interno del locale. – Concentrati sull’obiettivo, adesso. Qualunque bella ragazza è potenzialmente una succube.
- E come faccio a riconoscere quelle che lo sono da quelle che sono solo belle ragazze? – domanda lui, incerto.
Davide sbuffa, annoiato.
- Che ne so. – sbotta, - Lo percepisci, insomma. Non hai mai provato?
- Be’, abbiamo un piccolo Cerbero, a casa. – risponde lui, - So riconoscerlo rispetto a un cane normale.
- Sarà perché ha tre teste invece di una sola? – ribatte Davide con sufficienza, lanciandogli un’occhiata sarcastica.
- Intendevo ad occhi chiusi. – precisa Mario, offeso, - Dalla sua aura.
- È più complicato per i succubi. – sospira Davide, scuotendo il capo, - Sono demoni, la loro aura non è molto dissimile da quella degli esseri umani. Devi imparare a leggere le sfumature.
- Sì, certo. – sbuffa Mario, incrociando le braccia e raggiungendolo di fronte al bancone del bar, - Sono molto utili, le tue indicazioni, sai? Dimmi qualcosa di pratico, cosa stiamo cercando? Una donna eccezionalmente bella?
- Non saprei. – scrolla le spalle Davide, guardandosi intorno, - Sono tutte diverse.
- D’accordo, - insiste pazientemente Mario, - Ma nella tua esperienza, cos’hai visto? Ne avrai incontrate altre.
- Sì, - annuisce lui, - Un casino di volte.
- Bene. Ed erano belle?
Davide scrolla di nuovo le spalle, tornando a guardare altrove.
- Suppongo di sì. – dice, - Non faccio mai granché caso alla bellezza delle donne. Per me sono tutte abbastanza uguali.
- Ah. – dice Mario, lasciandosi cadere seduto su uno sgabello. – Ah. Okay.
Davide si volta a guardarlo, inarcando le sopracciglia.
- Problemi? – dice.
- No. – si affretta a rispondere Mario, - No, assolutamente.
Davide lo fissa ancora per qualche secondo, pensando che Mario dovrebbe rivedere il suo dizionario personale, visto che, chiaramente, alla definizione della parola “no” c’è quella della parola “sì”, ma taglia corto e torna a fissare la folla che sciama imperturbabile dentro e fuori dal locale quando si rende conto che una semplice occhiata non sarà in grado di scollare quello sguardo ebete dalla faccia di Mario.
- Okay. – dice quindi con una punta di presunzione, piantando lo sguardo su una ragazza dall’aspetto provocante, - Sta’ seduto qui e osserva il maestro all’opera.
Si allontana da lui senza degnarlo di un’occhiata, camminando a passo svelto a sicuro verso la ragazza. È vestita completamente di nero – pantaloni in pelle aderenti e dalla vita bassissima che mettono in evidenza le ossa appuntite del bacino e l’ombelico, top dello stesso materiale dei pantaloni incrociato sul petto, spalle nude, i capelli biondi lunghi e lisci che spiovono sulla schiena abbronzata in una cascata lucida che riflette tutto l’arcobaleno di colori che le luci stroboscopiche vomitano sulla folla. Ha un’aura appena più brillante delle altre ragazze, e sembra sola. Inusuale, per una ragazza di quell’età. A dir poco.
- Ehi. – la saluta con un mezzo sorriso, appoggiandosi al bancone vicino a dove è seduta lei, - Serata fiacca?
Lei gli solleva addosso un paio d’occhi enormi, da cerbiatta, di un colore indefinibile a causa della penombra multicolore della discoteca.
- Cosa te lo fa pensare? – domanda con un sorriso da Monna Lisa, le labbra piene dal disegno elegante appena appena arricciate agli angoli.
- Be’, - sorride Davide, avvicinandosi appena, - Una ragazza bella come te, in un posto come questo, a quest’ora, ancora tutta sola? O il mondo gira alla rovescia, o è una serata fiacca. Dimmi tu.
La ragazza ride, scuotendo il capo.
- Che fai, ci provi? – domanda.
Lui si concede una mezza risata, facendo cenno al barista di portargli la stessa cosa che sta bevendo lei, un cocktail che sa di albicocca dal colore talmente rosato e dall’odore talmente zuccherino da fargli venire la nausea senza averlo neanche assaggiato.
- Dipende. – dice, - Vuoi che ci provi?
Lei ride ancora, una risata cristallina e nitida, tentatrice. E quando ride la sua aura si illumina appena di sfumature rossastre.
- Spiacente. – dice quindi, e poi dà una risposta che Davide non si aspettava. – Non sono più sul mercato.
Deve guardarla in modo piuttosto esplicito, perché lei scoppia di nuovo a ridere, divertita, e sorseggia un po’ del proprio cocktail, chiudendo le belle labbra a cuoricino attorno alla cannuccia colorata.
- Non è possibile. – dice, e lei ride ancora.
- Dovrei offendermi? – chiede, - Mi avevi preso per una facile?
- Non esattamente. – risponde lui, passandosi le dita fra i capelli per scostarsi la frangia dalla fronte.
Lei ride un’altra volta.
- Oh. – dice quindi, - Allora i miei vecchi occhi avevano visto bene. – il suo sorriso si tinge di una sfumatura maliziosa, - Sei un Innominabile.
- Ah, per piacere. – sbuffa lui, - Ci chiamano ancora così, nei gironi infernali? È un vocabolo caduto in disuso da almeno un centennio.
- Be’, è più o meno da un centinaio d’anni che non rimetto piede all’Inferno. – risponde lei, - Quindi non saprei dire se adesso vi chiamino in altro modo. Per me siete rimasti Innominabili.
- Siamo Agenti, adesso. – sospira Davide, - E tu devi essere caduta.
- Da tempo, sì. – ride lei, allungando una mano verso di lui, - Chloé, piacere.
- Piacere mio. – risponde lui, stringendole la mano, e poi arrossisce appena, imbarazzato, - Non posso rivelare il mio nome.
- Ragioni di sicurezza? – chiede lei. La sua voce sembra ridere sempre, trilla come campanelli. – Non preoccuparti, capisco. – lui le sorride ancora e poi si abbatte sul ripiano del bar. Nel frattempo, il suo drink è arrivato, e lui ne assaggia un sorso e poi subito si ritrae con una smorfia. Come aveva previsto, troppo dolce. E lei si avvicina appena, e profuma di mandorle e zucchero filato. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando perdi l’anima, il profumo della pelle, la brillantezza dell’aura, la malizia negli occhi. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando te ne vai. – Giornata pesante? – chiede.
Davide sbuffa, chiudendo gli occhi.
- Annata pesante. – la corregge, - Ma è del tutto irrilevante, adesso.
- Immagino. – annuisce lei, e poi finge la voce grossa e misteriosa, - Sei in missione segreta?
- Già. – ride lui, voltandosi a guardarla, - Cerco un tuo superiore.
- Ah, sì, ho sentito. – Chloé piega il capo, i capelli le scivolano morbidi sulla spalla come una cascata dorata mentre lei accavalla le gambe, - Sua maestà, o almeno una delle, è scesa in campo.
- Corrono veloci le notizie all’Inferno. – commenta lui, inarcando un sopracciglio.
- Corrono più svelte in superficie. – precisa lei con un’altra risata cristallina. – Quindi sei alla sua ricerca, mh? Be’, mi spiace dirti che l’hai mancata di una manciata di secondi, letteralmente.
Davide spalanca gli occhi, piantandole addosso uno sguardo sconvolto.
- Prego? – domanda incerto.
Lei si stringe nelle spalle, gettando indietro i capelli in un gesto vezzoso.
- È appena andata via con un tipo, - dice, - Un bel ragazzo di colore, dall’aura potente. Il classico tipo che avrei preso di mira anch’io, se fossi stata ancora in servizio.
Davide ha appena il tempo di lanciarle un breve ringraziamento e una scusa impacciata, prima di saltare giù dallo sgabello e lanciarsi a rotta di collo verso l’uscita.
*
Li trova poche centinaia di metri più avanti, nascosti nell’ombra profonda di un vicolo. Segue l’odore dell’eccitazione di Mario nell’aria, prima, il suo profumo selvaggio appeso alle molecole di ossigeno. Poi comincia a sentire gli ansiti e i gemiti e a quel punto, più che seguire una traccia, imbocca una superstrada a duecento all’ora.
Mario sembra cosciente, ma è evidentemente fuori come un balcone. Ha gli occhi rossi e lucidi, le labbra dischiuse ed umide, gonfie di baci e di piccoli morsi, la maglietta strappata sul petto. La sua maglietta, pensa Davide con un certo risentimento.
Mahalath non è riuscita ad aspettare di trovarsi in un posto chiuso, in una camera d’albergo o chissà, magari proprio a casa sua. Gli Agenti hanno sangue forte da generazioni, hanno sangue potente, hanno resistenza e uno spiccato sesto senso, e non mancano in tutti loro una predisposizione verso il soprannaturale ed un’innata capacità di connettersi al paranormale molto più facilmente rispetto ai normali esseri umani. Per i demoni, rappresentano una tentazione più forte della mela per Eva. Se Mario si fosse degnato di aprire un libro e studiare, nella sua vita, lo saprebbe.
La regina dei demoni non ha avuto il tempo neanche di ritornare alla sua forma originaria, prima di iniziare l’accoppiamento. Si agita veloce, seduta sul grembo di Mario, tenendolo per il colletto stropicciato della maglietta come fossero redini e lui un cavallo che lei stesse cavalcando. La lunga e rigonfia massa dei suoi capelli riccissimi si agita lungo la sua schiena abbronzata e flessuosa, piegata in un arco elegante, quasi regale, mentre i suoi fianchi pieni ondeggiano avanti ed indietro. Dalle sue labbra dischiuse sfugge un gemito ed un sibilo da serpente ogni volta che l’erezione di Mario penetra dentro di lei e poi sguscia fuori, veloce, bagnata, pronta ad esplodere.
- Mahalath! – la chiama Davide, sperando di interromperli in tempo. Naturalmente, Mario viene in quell’esatto istante. – Merda. – ringhia lui, portando la mano alla propria arma ed estraendola velocemente dalla fondina. Un attimo dopo, Mahalat ruota la testa di centottanta gradi e gli offre uno sguardo spiritato e serpentino, poi soffia come un gatto e lui le punta la pistola addosso, l’indice già sul grilletto. – Ferma o sparo! – minaccia, il pollice che accarezza l’impugnatura decisamente, spostando verso l’alto il caricatore. Dall’arma comincia ad emanarsi un ronzio a bassa frequenza, e la bocca si illumina di un riflesso azzurrognolo.
Mahalath non reagisce bene. Si allontana dal corpo di Mario – il quale, non più sostenuto dalle sue braccia, si accascia per terra, svenuto – e gli ringhia contro. Quando parla, la sua voce è come divisa in due, una nota più bassa e cupa, l’altra acuta e stridula.
- Non puoi toccarmi, mortale! – gli urla contro, investendolo con l’onda d’urto della propria energia. Davide ha imparato a non contrastare questo tipo di colpi, a lasciarsi accompagnare dolcemente, perciò lascia che l’impatto con l’aria calda lo sollevi dal suolo e lo sposti di una decina di metri indietro. Quando sbatte contro i cassonetti in fondo alla strada e poi finisce di schiena per terra, però, fa un male fottuto lo stesso.
Si solleva da terra a fatica, stringe le dita aspettandosi di trovarci in mezzo la pistola e, quando non la trova, lancia un’occhiata allarmata tutta intorno a sé. La vede a pochi metri di distanza, per terra, spenta, probabilmente danneggiata. Mahalath non sembra interessata ad impadronirsene.
- Perché proprio ora? – le chiede, aggrappandosi ad un cassonetto per tirarsi in piedi. È persa, ormai, le possibilità che ha di catturarla viva o morta sono meno di zero. Tanto vale cercare di scucirle di dosso qualche informazione e sperare che Mario sia ancora vivo.
Mahalath si lascia andare ad un sorriso sghembo, la lingua che saetta fra le labbra.
- Il tempo è propizio. – dice semplicemente. Poi si solleva per aria, il corpo avvolto in una luminescenza rossastra. Lancia un urlo mentre getta il capo all’indietro e le si lacera la pelle all’altezza delle scapole. Due moncherini premono per uscire, sono solo ossa, all’inizio, poi le piume crescono, avvolgono la struttura e nel giro di pochi secondi sue enormi ali nere le si aprono alle spalle. Mahalath le sbatte pigramente a mezz’aria, una cascata di gocce di sangue si sprigiona dalle piume e piove su Davide, sulle pareti degli edifici, sulla strada, sull’immondizia, sul corpo di Mario disteso nell’ombra.
Le ali si chiudono svelte attorno al corpo nudo del demone, e Davide ha appena il tempo di scattare in piedi seguendo un riflesso involontario, afferrare la pistola e puntargliela contro – rendendosi conto che effettivamente non funziona – prima di vederla svanire in una fiammata rossa che divampa a mezz’aria e si consuma prima di toccare il fuoco.
Il vicolo rimpiomba nell’ombra, e Davide ripiomba seduto per terra quando le gambe lo abbandonano senza troppi ripensamenti. Fatica a processare l’enorme quantità di fallimenti che è riuscito ad impilare alla sua prima uscita senza Zlatan. È una situazione terribilmente imbarazzante. Come si possa passare da una percentuale di successo del novantanove virgola nove percento ad una catastrofe di epiche proporzioni come questa, durante la quale in meno di due ore è riuscito a sfasciare un’arma d’ordinanza, farsi rapire e violentare l’Agente di grado inferiore (cosa che potrebbe o non potrebbe avere conseguenze devastati per l’umanità se Mahalath è stata ingravidata), lasciarsi sfuggire un SCP e non riuscire neanche a strappargli dalla bocca un minimo di informazioni utili per farsi perdonare tutto il resto, è una cosa che francamente non riesce a spiegarsi, e che non ha idea di come spiegherà a suo padre.
Lentamente, si rimette in ginocchio, e poi in piedi. Barcolla fino al corpo di Mario, ancora riverso per terra, e gli si inginocchia a fianco. Ha i pantaloni calati fino alle ginocchia ed è passato direttamente dall’incoscienza al sonno profondo, almeno a giudicare dal compiacimento evidente col quale ha preso a russare.
Davide sospira, lo afferra per le spalle e lo scuote bruscamente.
- Oh! – borbotta, - Svegliati!
- Che?! – Mario apre gli occhi e glieli pianta addosso. È ancora così evidentemente confuso che, anche quando riesce a mettersi seduto, non la pianta un secondo di guardarsi intorno e sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco il posto. – Che… Cos’è successo?
- Il nostro obiettivo ha fatto di te il suo obiettivo. – sbotta, alzandosi in piedi e trascinandolo con sé nel movimento, - I succubi hanno una predilezione per gli individui con una predisposizione per il paranormale. Se ti fossi degnato di studiare su un qualsiasi testo preparatorio per meno di mezz’ora, lo sapresti.
- Ah. – biascica Mario, la bocca impastata, - Ah. – poi si ferma, si china di lato e sputa per terra, - Che schifo di sapore di merda. – sbuffa, - Zolfo.
- Chiamiamolo battesimo del fuoco, - sospira Davide, - E rivestiti, che sei nudo come un verme. Se penso che potresti essere appena diventato padre…
- Che cosa?! – sbraita Mario, voltandosi repentinamente verso di lui. Davide sospira ancora.
- Lascia perdere, - dice, - Te lo spiego dopo.
- D’accordo. – annuisce Mario, placandosi istantaneamente, ancora scosso dall’esperienza, mentre tenta con scarso successo di riabbottonare i pantaloni e continua a mancare spettacolarmente l’asola anche di cinque centimetri buoni a tentativo.
- Lascia, da’ qua, - sbuffa Davide, irritato, prendendo letteralmente in mano la situazione. – Sei un soggetto impossibile.
- Okay. – annuisce Mario, - Ma offrimi una pizza.
- Come, scusa?
- Ho questo sapore orrendo in bocca e ti giuro che se non mi offri una pizza adesso mi metto a vomitare a spruzzo come ne L’Esorcista.
- Ah. – Davide inarca un sopracciglio, - Quello lo conosci, dunque.
- Quello l’ho studiato! – ribatte Mario, annuendo, - Lo so a memoria.
- Non ne dubitavo. – sospira Davide, facendo strada.
Finisce comunque per offrirgli una pizza, ed intimargli di godersela, anche, mentre manda giù un boccone dopo l’altro come non mangiasse da mesi. Visto che, con ogni probabilità, è l’ultima che mangeranno prima dell’Apocalisse.
*
- Insomma, che dire. – sospira José, scorrendo distrattamente il report dettagliato che Davide ha posato sulla sua scrivania non più di cinque minuti fa. Lui e Mario stanno dritti in piedi di fronte a lui, le braccia dietro la schiena, le gambe unite, il mento sollevato. Davide ci ha messo tre quarti d’ora ad insegnare a Mario come posizionarsi correttamente di fronte ad un suo superiore, e adesso è abbastanza convinto che l’Apocalisse incombente non sia più una minaccia così spaventosa. Se è riuscito a far sì che Mario avesse anche solo la vaga parvenza di un Agente per bene, può fermare a mani nude tutte le Apocalissi dell’universo. – Un vero disastro. – conclude l’uomo, mettendo giù la relazione. Un’ombra di sorriso gli piega le labbra e non sembra davvero irritato dall’accaduto.
Davide inarca un sopracciglio, stringendo le mani dietro la schiena.
- Non sarebbe successo niente di tutto questo, se non mi avessi affidato un impiastro simile. – dice, - Me la sarei cavata perfettamente da solo.
- Sì, provandoci con una ex-succube decaduta. Osserva il maestro all’opera. – lo prende in giro Mario, lanciandogli un’occhiataccia.
- Mario! – sbotta Davide, arrossendo violentemente prima di poterselo impedire, - Sta’ zitto!
José scoppia a ridere, voltando le pagine del rapporto fino all’ultima ed apponendo in calce il proprio timbro e la firma.
- Non battibeccate come bambini. – dice quindi, rimproverandoli bonariamente.
- Stronzate a parte. – riprende Davide, tornando a guardare suo padre, - Non puoi ritenermi responsabile. Me l’hai consegnato, tralasciando di informarmi che era completamente sprovvisto di una anche minima istruzione teorica di base, e non mi hai neanche dato il tempo di conoscerlo, ci hai buttati per strada cinque minuti dopo averci consegnato l’incarico! Rifiuto qualsiasi conseguenza disciplinare collegata a questo evento.
José gli solleva gli occhi addosso, inarcando le sopracciglia. Richiude il report nella sua cartella e poi si solleva per inserirla nel grosso archivio metallico alle sue spalle.
- Il blob di via Sforza, aprile 2010. – dice, estraendo lentamente la propria chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni dell’abito ed aprendo il cassetto giusto, scorrendo le pratiche fino a trovare il corretto posto per il report, - A causa di una tua distrazione, sei stato contaminato dall’SCP. Ricordi su chi è ricaduta la responsabilità del fatto?
Davide si irrigidisce, serrando le labbra. Mario aggrotta le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata indagatrice, ma dal momento che nessuno aggiunge altro, evita di chiedere.
- Bene. – riprende quindi José, richiudendo il cassetto con un tonfo e poi voltandosi verso di loro e tendendo entrambe le mani, - Le vostre armi, prego.
- La mia è stata danneggiata. – confessa Davide in un borbottio, consegnando la propria.
- Lo vedo. – commenta José, esaminando la pistola ed il meccanismo di caricamento inceppato, - Il costo del pezzo di ricambio sarà addebitato sul tuo conto corrente e detratto dai prossimi stipendi in tre rate bimestrali. – lo informa, - Per quanto riguarda il resto, siete sospesi per una settimana, durante la quale dovrete sottoporvi alla consueta profilassi preventiva. Vi prego di presentarvi dal dottor Combi per iniziare la procedura quanto prima.
- Cosa?! – Davide si lascia sfuggire un gemito strozzato. Non c’è niente che odi al mondo più della profilassi post-contatto, niente, nemmeno suo padre.
- Non lasciarti ingannare dalla mia aria tranquilla, Davide. – risponde José, sollevandogli addosso uno sguardo severo, - Il casino che avete combinato mi costerà lunghe e tediose ore di spiegazioni al presidente, una fastidiosa ammissione di responsabilità di fronte al consiglio e, ultimo ma non ultimo, probabilmente un grande numero di vite umane quando la gravidanza di Mahalath sarà giunta al termine. Dal momento che tutte queste cose sono conseguenze che un tuo errore mi costringerà ad affrontare, farai il bravo bambino e la pianterai di lagnarti perché ti obbligo a sottoporti ad una procedura che sarebbe comunque uno standard nel tuo caso.
- Non è uno standard affatto! – insiste Davide, sbattendo il pugno sul tavolo, - Ti ho già spiegato che tutto questo non è una mia responsabilità, e comunque soltanto Mario è entrato in contatto con l’SCP, io non l’ho nemmeno sfiorato, non—
- Agente. – la voce con cui José interrompe il suo sproloquio è fredda, ferma come il ghiaccio. Non lo chiama per nome e questo, per qualche motivo, dà i brividi anche a Mario. – Presentatevi dal dottor Combi istantaneamente per cominciare la procedura. Dopodiché siete sospesi per una settimana. E se non vuoi che le settimane diventino due, ti converrà obbedire agli ordini all’istante.
Davide si irrigidisce istantaneamente, raddrizzando la schiena e serrando i pugni lungo i fianchi.
- Agli ordini. – risponde quindi, con una voce cavernosa che chissà da quale anfratto di quel corpicino da eterno adolescente sta tirando fuori. – Mario, vieni. – lo richiama, prima di voltarsi ed abbandonare l’ufficio.
Mario lo segue docilmente lungo i corridoi, avrebbe mille domande da fargli, ma si rende conto di non poterlo fare adesso. José li osserva andare via, in piedi dietro la propria scrivania, e sospira pesantemente. Lo aspettano un paio di giorni letteralmente infernali, per non parlare di quello che accadrà fra qualche mese. Sospirando ancora, ripone entrambe le pistole nel doppio fondo dell’ultimo cassetto della sua scrivania, premurandosi di chiuderlo a chiave prima di raccogliere le proprie cose nella valigetta portadocumenti, indossare il cappotto ed uscire.
Come al solito, è rimasto l’ultimo negli uffici. L’eco dei suoi passi rimbomba rumorosamente per i corridoi e all’ingresso, e poi ancora all’interno del garage, nel quale la sua Mercedes è rimasta l’ultima macchina parcheggiata. Sta per far scattare la serratura ed entrare quando una voce conosciuta lo raggiunge alle spalle e lo inchioda sul posto.
- Ti trovo bene. – dice Zlatan, appoggiato ad uno degli enormi pilastri di ferro che reggono la struttura.
José si volta a guardarlo, ravviandosi una ciocca di capelli brizzolati sulla fronte.
- Sei stato via appena un mese, stavolta. – commenta con un mezzo sorriso, - Dev’essere un record.
- Che posso dire, - ride Zlatan, scrollando le spalle prima di allontanarsi dal pilastro con una discreta spinta del bacino, - Mi mancava Milano. – conclude, avvicinandosi a lui.
- Lo immagino. – annuisce José. – Sai già dove andrai a dormire stanotte? – domanda.
- Non posso fermarmi. – scuote il capo Zlatan, - Blanc e Leo mi aspettano a Parigi in tarda serata.
- Davvero? – ribatte José, piccato. Non vuole darlo a vedere, ma la risposta lo delude. – Dunque? Che ci fai qui?
Zlatan gli offre un breve sorriso di scuse non richieste ma ugualmente necessarie, e si stringe nelle spalle.
- Torno adesso da una breve visita a Yolee, in quel di Istanbul. – dice, e José subito lo interrompe con una smorfia.
- Per piacere, - borbotta, - Non ci vediamo da un mese e torni per parlarmi dei deliri di una ridicola fattucchiera?
Zlatan ride, divertito.
- Ha avuto una crisi proprio mentre ero lì. – riprende, - Visioni.
- Non mi interessa. – José gli volta risolutamente le spalle, infilando la chiave nella serratura, - Il giorno che vorrò seguire le indicazioni di una veggente pazza, ne comprerò una a dieci centesimi sul mercato nero. Fino ad allora—
- Il diavolo canta, Zay. – lo interrompe Zlatan. La sua voce è seria e, quando José si volta a guardarlo, scopre che lo sono anche i suoi occhi. – Sarà padre, presto, e non sarà piacevole per nessuno che non sia lui. Ne sai qualcosa?
José deglutisce, cercando di mantenere la calma. È impossibile che la notizia della disavventura di Davide sia già giunta alle orecchie di Yolanthe. La visione dev’essere stata reale. Mahalath è incinta.
- Qualcosa, sì. – ammette con un sospiro, - Ma è tardi. Sono stanco. E non mi va di parlarne.
Zlatan annuisce, e sulle sue labbra torna ad aprirsi un mezzo sorriso. I suoi lineamenti spigolosi si illuminano tutti assieme all’improvviso.
- Può aspettare. – dice quindi, avvicinandosi di un altro passo, - Non ci siamo ancora salutati per bene.
José schiude le labbra per ribattere, ma non ha il tempo di farlo. Si ritrova schiacciato contro la portiere della macchina pochi secondi dopo, la bocca di Zlatan premuta contro la sua, il suo sapore familiare e nostalgico sulla lingua, e decide che possono aspettare anche le battute e le proteste.

continua

Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Malinconico.
Pairing: Mario Balotelli/Davide Santon, Philippe Coutinho/OC/Adriano, (accennato) Zlatan Ibrahimovic/José Mourinho.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst, What If?.
- Sono passati quasi vent'anni - "diciotto" ripete una vocina fastidiosa nella sua testa - da quando Mario Balotelli è partito da Milano alla volta di Manchester, lasciando l'Inter per il City. E' partito senza una parola, perché era giusto così, e non ha mai avuto un ripensamento, nel corso di tutta la sua vita. La sua carriera è stata lunga e soddisfacente, e da quando ha appeso le scarpe al chiodo ha cominciato a lavorare nel settore giovanile. E' appunto mentre è in ritiro con il Manchester United di Walter Zenga che lo raggiunge la telefonata del suo vecchio mister, José Mourinho.
José a Milano c'è rimasto. Contro ogni previsione, forse anche contro la propria stessa volontà, è rimasto ancorato alla Pinetina per quasi vent'anni, ed ora ha una proposta per Mario. Qualcosa di cui può parlargli solo personalmente.
Mario non ha intenzione di accettare, ma sale comunque sul primo aereo per Milano, ben determinato ad arrivare fino a lì, ascoltare cosa José ha da dirgli e poi declinare la sua offerta per tornarsene a casa. Solo che le cose non vanno esattamente così, e l'offerta di José lui l'accetta.
Note: Una storia di cui avevo intuito l'enormità (delle dimensioni) fin dal momento del plottaggio (qualche mese fa) e che avevo accuratamente tenuta serbata nella mia mente fino all'arrivo del Big Bang XD Non ne avevo neanche parlato con qualcuno, se non per l'accenno di "voler scrivere qualcosa in cui bla bla" a Def, mi pare, accenno che poi lui ha gloriosamente dimenticato, per la mia gioia, visto che questo mi ha permesso di mantenere la suspanssss per un bel po', mentre scrivevo XD *crudeltà* Spero che possiate apprezzarla nonostante la lunghezza infinita (e il melodramma) (e Beautiful).
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VIA LE MANI DAGLI OCCHI

La Pinetina è cambiata un sacco. Mordicchiandosi distrattamente le unghie – un vizio che non ha mai perso nonostante le quasi due decine d’anni passate dall’ultima volta che ha messo piede in quel posto – Mario attraversa salette e corridoi di cui ricorda a memoria la planimetria e scopre in ogni metro qualcosa di differente, nuove piante, un nuovo parquet in palestra, nuovi tappeti, nuove foto incorniciate e appese alle pareti. Così, anche se le mura sono le stesse, i corridoi sono ancora lunghi allo stesso modo e sono invariati perfino i passi da fare per giungere da un posto all’altro, tutti i particolari minuscoli che rendono la Pinetina diversa si fondono in un’unica, grande massa di cose sconosciute che rendono ignoto l’intero ambiente, spaventandolo un po’.
Non è mai stato da lui lasciarsi spaventare, affrontare le cose come se potessero fargli del male. E non sono neanche le svariate coppe vinte dall’Inter negli ultimi diciott’anni ad intimidirlo – è stato molto attento a stare ben lontano dall’Italia, e tutte le vittorie di quella squadra, a parte le due Champions che hanno conquistato a distanza di sette anni precisi l’una dall’altra nel duemilaquattordici e nel duemilaventuno, non l’hanno mai toccato più di tanto – no, è qualcosa di diverso, la sensazione irrazionale di dovere qualcosa a quelle pareti, a quei luoghi, alle camerate del dormitorio, alle file di bagni sempre puliti e profumati, alla vasca del ghiaccio, alla cappella isolata in fondo al viale, agli studi di Inter Channel al piano di sopra, ai campi sempre perfettamente mantenuti di fuori. Un saluto, forse, o un ringraziamento. Niente che abbia mai avuto la possibilità di dire, essendo partito per l’Inghilterra direttamente dal ritiro negli Stati Uniti nel duemiladieci, ma in realtà niente che abbia mai avuto la reale voglia di dire, per cui immagina che, non fosse partito da Philadelphia ma da lì, non l’avrebbe detto comunque, ed ora si sentirebbe esattamente allo stesso modo.
Inizia a pentirsi di aver accettato quel colloquio con Mourinho, ma d’altronde non gli ha fatto alcun tipo di promessa, cosa anche logica, visto che non ha idea di che lavoro voglia proporgli. In realtà, però, attraversando i corridoi verso quella che ricorda perfettamente essere la sala d’aspetto di fronte al suo ufficio, si rende conto di essere stato sciocco ad accettare. Un viaggio a vuoto dal ritiro statunitense dello United – la fedeltà, d’altronde, non è mai stata parte del suo essere – fino a Milano, e già sapendo che, qualsiasi posto sia quello che Mourinho intende offrirgli, la sua risposta sarà comunque un no, sembra troppo stupido perfino per lui, che di cose stupide nella sua vita ne ha fatte. Sempre meno e sempre meno eclatanti, certo, ma le ha fatte, e continua a farle.
Dallo scorcio che riesce a vedere avanzando lentamente lungo il corridoio, la sala d’aspetto sembra vuota. Saluta con un sorriso di gioia sincera la prospettiva di restarsene un po’ seduto in silenzio per i fatti propri a riflettere. È un’abitudine che ha preso quando è partito, su consiglio di Mino, e non l’ha più abbandonata, anche adesso che Mino non è più lì a ricordargliela. “Tu non sei capace di ragionare,” gli diceva sempre, guardandolo con quel misto di severità e ironia che gli aveva sempre fatto pensare a quando i suoi fratelli maggiori lo guardavano nello stesso modo quando lo portavano in giro a farsi vedere dalle squadrette giovanili dei dintorni di Brescia, “perciò, quando ti senti confuso, mettiti seduto da qualche parte, preferibilmente in silenzio, ed elenca i pensieri. Dato che a ordinarli non sei capace, almeno fai una lista e poi cerca di scegliere il più conveniente. Questo dovresti essere in grado di farlo, sì?”
E quello era stato in grado di farlo, sì. Era l’unico modo in cui era davvero riuscito ad andare avanti e non perdersi fino a quel momento. Quando, dopo sei mesi di permanenza al City, il Mancio l’aveva estromesso dalla rosa dei titolari per aver litigato con mezzo spogliatoio – compresi i suppellettili e le docce – aveva davvero pensato di rassegnarsi a passare il resto dell’anno in panchina e poi chiedere a Mino di farsi trasferire ovunque fosse possibile, anche di nuovo all’Inter, pur di mollare quel posto di merda. Ma Mino gli aveva detto “siediti e fai una lista”, e Mario l’aveva fatta, ed alla fine si era calmato, ed era rimasto.
Era rimasto cinque anni, abbastanza a lungo da vincere tutto, Pallone d’Oro compreso – non aveva neanche fatto un grande effetto: era una cosa che si aspettava da se stesso, prima o poi sarebbe arrivato, l’aveva sempre aspettato con la fiducia di chi sa per certo di poterlo fare – e poi era andato via in pace, aiutando il City ad uscire dal brutto buco nero in cui gli sceicchi l’avevano mollato da un anno all’altro, scoperchiando un debito da fare invidia alla peggior gestione di una qualsiasi squadra spagnola o italiana a scelta. Era stata una cosa che aveva fatto con piacere, alla fine sarebbe anche rimasto volentieri: a Manchester s’era scavato il suo posto da titolare fisso inamovibile, posto che era sopravvissuto anche all’avvicendamento degli allenatori che avevano seguito il Mancio, e la tifoseria lo amava, per non parlare della fauna femminile locale. Ma gli era stato chiesto un sacrificio e lui l’aveva fatto a cuor leggero, e d’altronde l’offerta del Real era di quelle veramente irrinunciabili.
A lui era andata bene. Tutti quelli che gli avevano pronosticato una vita alla Cassano, piena di delusioni e con un ravvedimento solo tardivo, a scapito di anni che invece avrebbero potuto essere proficui, erano rimasti con un palmo di naso: Mario Balotelli era maturato subito, come fosse stata l’aria milanese a tenerlo ancorato al proprio infantilismo fino a quel momento, cosa che Mario, tra l’altro, tendeva a non escludere. La sua vita, così come il suo percorso calcistico, era stata bella, piena, regolare. Era rimasto sulla cresta dell’onda per un sacco di anni, aveva seguito un normale declino sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista tecnico, come tutti, senza grandi drammi, senza scadere nel ridicolo e nel patetico come altri grandi prima di lui, e dopo aver chiuso la carriera con un ultimo anno al City s’era trovato un lavoro nello staff tecnico di Zenga allo United, e lì era rimasto a lungo, in una posizione magari oscura, ma tranquilla, a contatto coi ragazzi, giusto perché almeno uno come lui sapeva come prenderli.
Inspira profondamente, pensando ai ragazzini delle giovanili che si sono aggregati con la prima squadra per il ritiro a Los Angeles aspettandosi di aver lui al fianco, mentre lui invece è lì a perdere tempo e ponderare su una decisione che sa di non voler prendere mentre peraltro ancora nessuno gli ha chiesto di prenderla, ed è con questo stato d’animo, nel mezzo della solita confusione di pensieri che gli fa desiderare una stanza vuota e una sedia per poter fare la sua lista e scegliere l’opzione migliore, che entra in sala d’aspetto e non la trova vuota come credeva.
Su una delle poltroncine c’è Davide, che appena gli posa gli occhi addosso si tende tutto come una trappola pronta a scattare, ed il cervello di Mario si annulla, niente più liste da fare, niente più masse di pensieri, niente più pensieri e basta, solo i suoi occhi, i lineamenti del suo viso segnato dal tempo, i capelli corti e brizzolati sulle tempie ed il pizzetto che ridisegna il contorno del suo mento e delle sue labbra con una precisione tale che solo quello basta a togliergli il fiato.
- Ciao. – mormora incerto, avvicinandoglisi di qualche passo. Davide non è cambiato moltissimo, non fatica per niente a riconoscerlo. Anche le sue reazioni sono le stesse. A Mario basta un assaggio fugace del suo profumo per ricordare giorni in cui una tensione simile nei suoi muscoli e nei lineamenti del suo viso poteva essere giustificata solo dalle sue mani che correvano lungo i suoi fianchi e il suo ventre, insinuandosi oltre l’elastico dei boxer alla ricerca della sua erezione.
- Sei già qui. – considera Davide, atono, alzandosi in piedi. Non sembra intenzionato ad avvicinarsi, però, anzi, sta piuttosto sulla difensiva. – Non sei neanche passato dall’albergo? Il tuo volo dovrebbe essere atterrato non più di un’ora fa.
- Per la verità, non ne ho nemmeno prenotato uno. – risponde con una mezza risata, grattandosi nervosamente il collo, - Non penso di restare poi molto.
Le labbra di Davide si tendono in una smorfia poco compiaciuta, mentre scrolla le spalle.
- Come preferisci. – commenta con una freddezza che Mario fatica ad associargli.
- Tu che fai? – chiede, cercando di scioglierlo parlandogli con lo stesso tono casuale e affezionato con cui soleva parlargli anni prima, - Aspetti di vedere il grande capo?
- Già. – annuisce lui, spostando lo sguardo sulla porta chiusa dell’ufficio di José, - Per la verità è almeno una settimana che cerco di fargli cambiare idea sull’opportunità della tua presenza qui. – aggiunge con una naturalezza che quasi lo turba. Parla di lui come di un possibile impiegato e basta, valuta i pro e i contro della sua presenza solo in un’ottica di convenienza lavorativa. È triste, ma Mario immagina fosse inevitabile. È cresciuto – sono cresciuti entrambi – e non c’è più niente, di ciò che avevano, la cui fibra sia resistita abbastanza da consentire loro di aggrapparvisi ancora.
- Come ti dicevo prima, - annuisce serio, - non intendo restare a lungo.
- E allora perché sei venuto? – ritorce Davide, sferzandolo con un’occhiata dubbiosa, - Se già sapevi che, indipendentemente da cosa ti sarebbe stato offerto, non saresti rimasto, perché hai fatto la fatica di muovere il culo e venire fin qui?
Mario si morde l’interno di una guancia, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Non tutto si può spiegare razionalmente. – risponde incerto.
- Sì, invece. – obietta Davide, bussando alla porta, - Se solo si vuole.
- Davide, levati dai coglioni. – risponde immediatamente una voce dall’interno. È invecchiata e arrochita dagli anni e dal fumo, ma l’accento è lo stesso, il tono strascicato e affascinante anche, e Mario non può impedirsi di sorridere, nonostante quella voce non risvegli solo ed esclusivamente ricordi piacevoli, nella sua memoria. – E lascia in pace Mario. Solo uno di voi due metterà piede in quest’ufficio, e mi auguro siate entrambi abbastanza intelligenti da capire chi.
Davide rotea gli occhi, lamentandosi a bassa voce e sputacchiando un flusso inarrestabile di parole inintelligibili, sul sottofondo del quale Mario lascia andare una mezza risatina e lo osserva allontanarsi lungo il corridoio, prendendosi un secondo per inspirare, espirare e poi tornare serio, prima di aprire la porta.
- Però, - commenta, osservando Mourinho seduto dietro la propria scrivania, intento ad osservare degli schemi scorrere sullo schermo ultrapiatto del pc mentre prende appunti a mano sul proprio taccuino, un’abitudine che non ha mai perso nonostante l’evoluzione tecnologica degli ultimi dieci anni, - sei invecchiato bene.
- Tu no. – lo rimbecca lui, senza neanche guardarlo, - Sei diventato una pappamolla. Farti rigirare come un calzino a quel modo da Davide.
- Non sono io che mi sono rammollito, mister. – gli fa notare, prendendo posto su una poltrona di fronte a lui, - È Davide che è diventato una macchina da guerra. Cosa che temo di dover imputare a lei.
Mourinho stacca lo sguardo dallo schermo del computer, posandoglielo addosso in una carezza distratta ma, in qualche modo, perfino affettuosa.
- Mi hai chiamato “mister”. – dice atono.
- Sì, me ne sono accorto a metà parola. – ridacchia Mario, accomodandosi meglio, - Le vecchie abitudini non muoiono mai, immagino.
- Sono passati vent’anni. – insiste Mourinho.
- Quasi vent’anni. – ribatte lui.
- Quasi vent’anni. – concede Mourinho con un mezzo sorriso, - Forse non sei cambiato poi così tanto.
Mario indica la propria testa e la pettinatura decisamente più sobria che porta da quando ha smesso di giocare.
- Un po’ sì.
- Sono differenze minime. – sbuffa l’uomo, agitando una mano davanti al viso con aria annoiata, - Ma Davide le ha notate.
- Non che mi aspettassi niente di diverso. – sorride Mario, lo sguardo che si perde un po’ sul verde rigoglioso della Pinetina fuori dalla finestra. Solo per qualche secondo, comunque, dopo il quale torna immediatamente a concentrare tutta la propria attenzione sul portoghese. – Allora, - comincia, - parliamo d’affari.
José sorride, spegnendo il computer con un tocco appena accennato alla base dello schermo, e poi si alza in piedi. Ha un po’ perso massa, soprattutto il tono muscolare non è più quello di una volta, ed ha perso anche centimetri in altezza, e non è che sia mai stato veramente alto, e nel complesso guardandolo così in piedi, molto più bianco e magro e minuto di quanto lo ricordasse, Mario non riesce ad evitare una stretta di nostalgia che gli avvolge i polmoni e lo stomaco in una morsa soffocante, e le sue labbra si piegano in una smorfia, che fortunatamente, dietro gli occhiali dalla montatura praticamente invisibile, lui non nota.
- Affari. – dice, girando attorno alla scrivania e dirigendosi senza guardarsi indietro verso la porta. Si aspetta che lui lo segua, e Mario si alza in piedi a propria volta, raggiungendolo ma restando dietro di lui di un passo o due, osservando la direzione che prende fra i corridoi e sorridendo quando si rende conto che vuole condurlo di fuori, ai campi. – Fossi in te, io non la metterei in questi termini.
- No? – chiede Mario, incuriosito, osservandolo camminare lentamente con le braccia dietro la schiena, - E come la metterebbe?
- Io non voglio fare affari con te. – dice José, imboccando un viale alberato senza neanche controllare che lui lo stia seguendo ancora, certo com’è della sua presenza pochi passi dietro di lui, - Un affare presupporrebbe del guadagno da parte di entrambi, qualcosa di vantaggioso sia per me che per te. Io, invece, voglio essere sincero e chiederti un sacrificio. Un accordo in seguito al quale io guadagno un giocatore, e tu praticamente niente.
Mario si lascia sfuggire una risatina incerta, inarcando le sopracciglia.
- Io non gioco più da tempo, mister. – gli fa notare, - Non può propormi una cosa del genere.
- Non ho mai pensato di rimetterti a giocare per me, Mario. – ride divertito lui, salutando il sorvegliante all’ingresso dei campetti sui quali si allena la Primavera, - Ho seguito il tuo percorso lavorativo, però, e devo dire che mi hai molto sorpreso.
- Nel senso che non si aspettava che durassi tanto? – chiede lui, ironico.
- Sciocchezze. – risponde José, - Mi sarei aspettato che durassi un po’ di più, s’è per questo, ma dal momento che è evidente che non hai mollato perché non ce la facevi più, ma perché t’era venuto a noia, direi che va bene così. Comunque, no. – spiegò, rallentando decisamente il passo in prossimità dei campi, - Parlo di quello che hai fatto dopo esserti ritirato. Il tuo è un lavoro di responsabilità, ed ho sempre pensato che, una volta appesi al chiodo gli scarpini, avresti cercato di rifuggirne il più possibile.
Mario scrolla le spalle, lasciando scorrere gli occhi sul campetto sul quale alcuni ragazzi si stanno allenando, divisi in piccoli gruppi.
- Me la cavo coi ragazzini. Mi adorano tutti. – risponde, osservando Davide entrare da un cancello secondario, molto distante da loro, e raggiungere subito un assistente, per recuperare una cartellina prima di piazzarsi al centro del campo e battere le mani con forza, richiamando l’attenzione dei ragazzi ed ordinando loro di radunarsi in cerchio attorno a lui. – È lui che allena la Primavera? – chiede con aria allucinata, puntandolo con un dito e voltandosi a guardare José con un sorriso incredulo sulle labbra.
- Già. – risponde lui, invitandolo a proseguire il cammino e fermarsi poco più avanti, molto più vicino alla squadra, per osservarli più facilmente, - La mia proposta ha a che fare proprio con la Primavera, nel caso te lo stessi chiedendo.
- Naturalmente. – ride Mario, osservando i ragazzi cominciare a giocare a torello divisi in due gruppi, - Altrimenti non mi avrebbe portato qui.
- L’ottimizzazione dei tempi e delle risorse è la prima regola sulla quale baso il mio lavoro, - annuisce il portoghese, - dovresti saperlo. E poi sono convinto di avere maggiori possibilità di farti accettare la mia proposta, se ti mostro dal vivo il soggetto in questione.
Mario si volta a guardarlo inarcando un sopracciglio, scettico.
- Di chi parliamo? – chiede, e segue il cenno del capo di José fino ad incontrare la figura solitaria di un ragazzino piuttosto magro, mulatto, che palleggia disinvoltamente e con aria abbastanza annoiata a bordocampo. – Chi è?
- Si chiama Christos. – risponde José, atono, - Ha diciott’anni compiuti da un pezzo. Tecnicamente è abbastanza maturo da poter andare in prestito, ed è ciò che dovrebbe fare se non vuole fare la riserva per sempre, visto che in prima squadra non c’è posto per lui.
- Però? – lo incita a proseguire, poggiando una mano sulla ringhiera quasi ad aggrapparvisi, mentre lo osserva con maggiore attenzione.
- Però non vuole. – risponde José in una mezza risata sconfitta, - Riesci a crederci? Sta per mandare a repentaglio un’intera stagione perché non ha intenzione di andare via.
- Vuole la prima squadra? – chiede Mario, concentrato. Il ragazzo continua a palleggiare come se nulla di ciò che gli succede intorno, loro che lo osservano o i suoi compagni che si allenano, possa davvero toccarlo.
- Non ne sono sicuro. – riflette José, - D’altronde, scoprirlo sarà uno dei tuoi compiti, per cui me ne tiro fuori.
Mario torna a posargli gli occhi addosso, aggrottando le sopracciglia.
- Di cosa stiamo parlando, nello specifico?
José sorride, riprendendo a camminare.
- Hai sei mesi. – gli risponde, - Nella finestra invernale, il ragazzo deve andarsene. Troveremo noi una squadra adatta ad accoglierlo, ma Christos deve andare in prestito. E con le buone, perché è un capitale molto importante per questa società. Non vogliamo rischiare di perderlo per colpa di un capriccio adolescenziale.
- Dico, - borbotta Mario, affiancandoglisi, - non avete pensato a mandarlo da uno psicologo o chessò io? O parlare col suo procuratore, magari? Di solito aiuta. – suggerisce con un sorriso furbo. José gli lancia un’occhiataccia ed è così palese che vorrebbe tirargli un ceffone sulla nuca che Mario quasi pensa di porgergliela.
- Il suo procuratore è d’accordo con noi, così come gran parte del suo entourage, almeno stando a quello che siamo riusciti ad intuire parlando con alcuni di loro, ma il ragazzo non si lascia convincere. Tu hai detto di saperci fare, no? Allora dimostralo. Ufficialmente farai parte dello staff tecnico di Davide, ma il tuo compito è risolvere il problema con Christos, quindi non lasciarti distrarre da altre questioni, siano esse lavorative o personali.
- Non mi parli come avessi già accettato. – gli ricorda lui, serio, - Non l’ho ancora fatto. Voglio prima parlare col ragazzo.
José sorride ancora, e Mario si accorge che, camminando, sono arrivati fino al cancello d’ingresso del campetto, solo quando José lo spalanca.
- Allora vai. – lo invita, sempre sorridendo, - Hai tutto il tempo che vuoi.
Mario si mordicchia l’interno di una guancia, ripensando ai ragazzi dello United, a Los Angeles, a Zenga che come minimo comincerà a cercare di rintracciarlo ininterrottamente nel giro di tre ore massimo quattro. E poi oltrepassa il cancello e si avvicina a Christos.
*
- Preferisci essere chiamato in qualche modo particolare? – chiede Mario sorridendo, mentre si avvicina a Christos all’ombra degli alberi che circondano il campetto. Il suo sguardo corre per un secondo a bordocampo, dove Davide sta scuotendo con un bastone piuttosto lungo le fronde di un albero dall’altro lato rispetto a loro, imprecando in ferrarese stretto. Da quando il Campionato Primavera è stato praticamente equiparato in importanza a quello maggiore, i giornalisti spiano anche i ragazzi, ed è divertente osservare il malcapitato spione mentre cerca di arrampicarsi più in alto per non essere preso a bastonate, mentre il servizio di sicurezza accorre, più per salvare lui che per aiutare Davide che, è evidente, se la caverebbe benissimo anche da solo. – Non so, - riprende, tornando a guardare il ragazzo, - Chris? Christi?
- Il mio nome è Christos. E non mi piacciono i nomignoli. – risponde lui, continuando a palleggiare. Quella che usa è una palla di quelle nuove, ultraleggere, perfettamente sferiche, con le cuciture invisibili ad occhi e tatto. È incredibile come riesca a controllarla al punto da compiere palleggi così brevi e precisi, senza mai sbavare. Dev’essere un pezzo che non gli viene permesso di allenarsi coi compagni.
- Davvero? – ride Mario, sedendosi su una panchina là accanto, - E Tramontana non ti ha affibbiato nessun soprannome?
- Gli ho chiesto di non farlo. – continua a palleggiare Christos, imperturbabile, - Il nome di una persona è importante. Voglio essere ricordato col mio nome, quando diventerò famoso.
- Ed è Christos come? – insiste Mario, - Ce l’avrai un cognome, no?
Il ragazzo gli lancia un’occhiata ironica e si produce in un palleggio lievemente più alto. Afferra il pallone sul palmo di una mano e poi lo lascia rotolare a terra, mentre quello trova subito la sua strada verso gli altri palloni accatastati in un angolo poco lontano.
- No, non ce l’ho. – risponde con un mezzo ghigno, piantando una mano sul fianco, - Non ho cognome perché nessun genitore s’è premurato di darmelo. E prima che tu possa pensare che alla base del mio comportamento ci sia un’enorme solitudine, ti dico subito che alla base del mio comportamento c’è esattamente il contrario. – si ferma per un secondo, Mario fa per aprire la bocca e, al solo vederlo, Christos ricomincia a parlare. – E prima anche che tu possa pensare che io e te ci assomigliamo… io so chi sei. E non ci assomigliamo per niente. Tu eri uno stupido ingrato e non sei per niente la persona più adatta ad aiutarmi ad entrare nell’ottica di idee di dover partire. Io questo posto non lo lascio. E non intendo stare a sentirti.
Mario serra le labbra, non perché sia davvero sorpreso – Christos è un ragazzino difficile; bella storia, non è il primo né l’ultimo che incontrerà nella sua vita – ma perché si rende conto di quanto inutile e frustrante potrebbe essere continuare questa conversazione adesso, mentre Christos non ha voglia di ascoltarlo e lui, be’, lui ha voglia solo di prenderlo a pallonate in faccia fino a far diventare la palla cubica.
- Come preferisci. – risponde, alzandosi in piedi. – Comunque, se mi conosci come dici, saprai anche che questo bel discorsetto non mi fermerà certo dal provare lo stesso a convincerti.
Christos scrolla le spalle, avvicinandosi al mucchio di palloni e recuperandone uno, per tornare a palleggiare.
- Accomodati. – gli risponde, senza più guardarlo.
Immediatamente fuori dal campetto, Mario trova Mourinho ad aspettarlo, con un sorriso enigmatico sul volto.
- È andata bene? – gli chiede.
- Malissimo. – risponde lui, - E non mi dica che si aspettava qualcosa di diverso, perché non ci credo neanche se me lo giura. – Mourinho ride divertito, riprendendo a passeggiare ed aspettandosi che lui gli vada dietro, cosa che d’altronde Mario fa immediatamente. – Comunque, accetto il lavoro.
- Adesso posso dire che non mi aspettavo niente di diverso. – annuisce il portoghese, - Posso chiederti cosa ti ha convinto?
- Mi ha dato dell’ingrato. – sbotta Mario, velenoso.
- E ha torto? – chiede José, inarcando un sopracciglio.
- Certo che sì. – insiste lui, offeso, - Ero giovane, non ingrato. Lui, in compenso, è giovane, vigliacco e terrorizzato. E crede di avere una risposta per tutte le domande del mondo. – José fa per chiedergli qualcosa, ma Mario lo ferma con un sorriso. – E sì, - annuisce sicuro, - ha torto anche su questo.
*
- Sei sicuro di volerlo fare, Davide? – gli chiede José, le braccia incrociate sul petto, - Non sarebbe certo un problema trovargli una stanza da qualche parte.
- Casa mia è abbastanza grande per ospitarlo finché non trova un posto dove stare in pianta stabile. – risponde lui, scrollando le spalle. Mario li osserva discutere appoggiato allo stipite della porta, dopo aver recuperato la valigia all’ingresso, dove l’aveva lasciata arrivando. – Non capisco per quale motivo la società dovrebbe anche sobbarcarsi il peso del suo vitto e del suo alloggio quando già ci toccherà pagargli un lauto stipendio. Per non parlare della penale che ci scucirà di dosso lo United, non siamo mica andati a pescare un assistente a caso, no, noi dovevamo andare a tirar loro via il dannato direttore dell’area tecnica del settore giovanile. – sbuffa infastidito, e José ride di gusto.
- Ti dispiacerebbe venirci a patti, Davide?
- E magari non parlare come se non ci fossi? – aggiunge Mario, agitando una mano come a volersi mostrare ai loro occhi. Davide ignora Mourinho, ma si volta repentinamente a guardare lui.
- Sarà dura cambiare abitudini, - dice amaramente, - considerando che ho sempre parlato di te come non ci fossi, negli ultimi vent’anni. Chissà perché. Ah, già, perché non c’eri.
- Il che ci riporta alla questione principale. – s’intromette José, sollevando gli occhi al cielo e poi tornando a posarli su Davide. – Sei sicuro di volerlo fare?
Lui sospira pesantemente, rilassando le spalle e massaggiandosi le tempie.
- Sì. – risponde, visibilmente più sereno rispetto a prima, - Sì, sono sicuro. Non mi pesa, davvero. E poi mi toccherà abituarmi, e questo è il modo migliore.
- Devi abituarti a lavorare di nuovo con lui, Davide, mica a conviverci. – ride José, ed un brivido identico scorre lungo le schiene di entrambi i suoi interlocutori, visto che nessuno dei due ha ancora dimenticato quando le due cose non facevano che mescolarsi l’una con l’altra.
Ma erano altri tempi, e loro erano altre persone. Davide saluta Mourinho con un abbraccio affettuoso, augurandogli la buonanotte, prima di passare accanto a Mario ed ordinargli di seguirlo, conducendolo verso la propria macchina nel parcheggio sul retro.
- Quindi sei tornato per restare? – gli chiede mettendo in moto, lo sguardo fisso sulla strada.
- Devo ancora fare un paio di telefonate per risolvere qualche questione e, naturalmente, sottopormi all’ovvia ramanzina di Walter, ma tendenzialmente sì. – risponde lui, sorridendo distrattamente. – Milano è molto cambiata, da quando sono partito. – commenta, lasciando scorrere lo sguardo sulle enormi campagne che attraversano, lontano dai terreni industrializzati dei quali si possono scorgere i contorni all’orizzonte.
- Sì, in peggio. – annuisce Davide, le mani ben salde sul volante, - Fortunatamente, Appiano resta un’oasi in cui il progresso non si è introdotto in modo troppo invasivo, anche se è ovviamente tutto merito della gestione. Adesso l’intero paese appartiene a noi. Abitiamo tutti lì, con le nostre famiglie.
- Dev’essere un vero paradiso. – ride Mario, guardandolo con attenzione. Gli occhi di Davide non si staccano mai dalla strada.
- È l’unico posto veramente abitabile nei dintorni. Almeno per me. – scrolla le spalle lui, - Milano è tremendamente inquinata, e così caotica. – aggiunge con malcelato disgusto.
- Ti piaceva, quando ci abitavamo insieme. – si lascia sfuggire lui, come fosse un aneddoto di poco conto. Gli occhi di Davide saettano immediatamente sulla sua figura, infuocati di rabbia.
- Troppo tempo fa perché possa ricordarmi per quale motivo una cosa simile potesse bastarmi per ignorare tutto il resto. – risponde acido. Mario incassa e non ribatte.
Casa di Davide è enorme, e stupenda. È una di quelle ville che da qualche anno a questa parte rappresentano il top per architettura e progettazione, completamente immersa nella natura, tutta in legno, vetro e acciaio. Le scorre accanto un torrente di quelli che Mario pensava si fossero drenati tutti. Un ruscellino allegro e scrosciante, c’è perfino una ruota attaccata ad una cabina che Mario immagina provveda a parte dell’energia elettrica che serve per rifornire la casa. Può scorgere i pannelli solari che provvedono al resto sul tetto, e si sente profondamente inadeguato nel ripensare al suo attico da scapolo incallito a Manchester. Cosa se ne debba fare Davide di una casa così grande, comunque, resta un mistero.
- Nella piscina – dice Davide, indicando la vasca colma d’acqua proprio davanti alla casa, - va l’acqua del torrente, depurata. Viene ulteriormente depurata e rimessa in circolo per uso domestico, ed è perfino potabile.
- Wow. – ride Mario, ammirato, - Devi andarne fiero.
- È così, in effetti. Non che sia un pezzo unico, visto che da queste parti è l’unico modo per vivere serenamente se vogliamo anche cercare di preservare l’ambiente, o nel giro di poco tempo anche Appiano farebbe la fine di Milano e dintorni, - sospira, - però sì, l’ho voluta con forza e ne sono molto orgoglioso. È l’ambiente ideale per crescere un figlio.
Fermandosi sulla soglia della porta, aspettando che Davide digiti il proprio codice per disattivare l’allarme e far scattare la serratura, cercando disperatamente di non mostrare quanto profondamente l’abbia scosso l’implicazione maggiore delle ultime parole di Davide, Mario si chiede se avrebbe potuto esistere un modo migliore per venirlo a sapere. Meno doloroso, meno violento, meno improvviso.
- Sei sposato. – constata seguendolo in casa, - E hai—
- Papà! – strilla un bambino di non più di sei anni, correndogli incontro inseguito da una babysitter scarmigliata, - Papà, sei— - si ferma all’improvviso, quando nota la sua presenza al fianco di Davide. Mario lo osserva divertito spalancare gli occhi e puntargli il dito contro, allucinato. – Ma è Mario Balotelli! – dice, saltellando sul posto, - È Mario Balotelli!!!
- Urrà! – borbotta Davide, roteando gli ochi, - È così che si salutano gli ospiti, Giovanni? – lo riprende poi, con tono pacato ma grave. Il bambino si calma un po’, incrocia le braccia dietro la schiena e china il capo, ma continua a pestacchiare incessantemente coi piedini contro il pavimento, e si vede che sta per esplodere. Mario ride pianissimo, sperando che Davide non lo senta. Ovviamente, Davide lo sente, e lo sferza con un’occhiataccia disapprovante prima di sospirare ed arrendersi. – Va bene, va bene. – mugola, sfilando la giacca ed appendendola all’attaccapanni, - Sciogliti, per carità, non voglio vederti scoppiare sul tappeto preferito di tua madre. – concede con un mezzo sorriso.
Giovanni urla qualcosa di non meglio definito e corre incontro a Mario, cominciando a saltellargli davanti e tutto intorno in preda ad una straordinaria eccitazione.
- Sei Mario Balotelli! – gli ripete per la terza volta in dieci minuti. Mario ride, accucciandosi davanti a lui per raggiungere la sua altezza. È piuttosto piccino, per avere la sua età, ed un sacco sottile. Assomiglia tremendamente a suo padre, tranne per gli occhi, di un anonimo castano che non ha niente a che vedere con quello più liquido e brillante di Davide, affogato in un verde di cui Mario non è mai riuscito a capire nemmeno come fosse possibile l’esistenza.
- Già. – dice annuendo, - Conosco il mio nome, sai? – lo prende un po’ in giro, molleggiando sulle punte.
- Sì, ma è che tu sei Mario Balotelli! – continua a squittire il bambino, battendo le mani, - Mangi con noi? Possiamo giocare un po’, dopo cena? Possiamo, sì?
Mario solleva gli occhi su Davide che, in fondo all’ingresso, scambia qualche battuta veloce con la babysitter, che scompare lungo il corridoio subito dopo.
- Allora? – chiede ad alta voce, per attirare la sua attenzione, - Possiamo, papà?
- Mario, non abusare della mia pazienza. – lo avverte lui con un sorriso pericolosamente teso, - Gio, Mario resterà qui per qualche tempo. – dice quindi, chinandosi a prendere in braccio il bambino.
- Un po’ di tempo quanto? – chiede quello, gli occhi che brillano d’emozione.
- Qualche giorno, penso. Un paio di settimane, forse. – risponde Davide. Giovanni, incapace di trattenersi oltre, comincia a saltellargli in grembo.
- Mi farò insegnare un sacco di cose! – strilla, dimenandosi come un’anguilla.
- Sì, sì, certo. – ride Davide, rimettendolo a terra, - Hai già sentito tua madre, oggi?
- Sì! – risponde subito Giovanni, sollevando le braccia con entusiasmo, - No, aspetta… - ci ripensa poi, assumendo una posa molto seria e riflessiva, tremendamente comica. – No, oggi no. – risponde quindi, incupendosi.
- E cosa stai aspettando? – chiede Davide, scompigliandogli i capelli vaporosi e biondicci, - Vai di là e telefonale. Niente cena se prima non le parli per almeno venti minuti!
- Vado! – dice Giovanni col solito entusiasmo, sollevando nuovamente le braccia e correndo via.
- Però. – ridacchia Mario quando il bambino scompare alla vista di entrambi, - Quanta gioia di vivere. La madre dov’è?
- Hera è in tour negli Stati Uniti, per ora. – risponde lui, sollevando gli occhi al cielo, perfettamente visibile oltre la cupola di vetro che fa da soffitto all’ingresso, - Starà via almeno fino a gennaio.
- Hera? – ride Mario, recuperando il proprio bagaglio e seguendo Davide quando anche lui imbocca il corridoio, - Non so se sia più comico il pensiero che tu abbia sposato la stessa ragazza con cui stavi a diciott’anni, o il fatto che gli armadietti dei miei ragazzini a Manchester sono tappezzati delle sue foto in topless per Rolling Stones. – commenta ironico. Davide si volta a guardarlo malissimo per qualche secondo, prima di procedere.
- Se sei venuto qui per insultare la mia famiglia, faccio sempre in tempo a buttarti fuori da questa casa. – lo minaccia blandamente, - O infilarti nell’inceneritore, chissà che almeno la tua presenza non porti qualcosa di utile, tipo energia elettrica sufficiente per cucinare la cena di stasera.
Mario ride ad alta voce, fermandosi subito dietro di lui quando Davide spalanca una porta, mostrandogli la sua stanza.
- …cazzo, Davide, questa stanza da sola è grande quanto metà di tutto il mio appartamento. – commenta, sinceramente ammirato, muovendo qualche passo all’interno della camera, - Quanto è grande questa villa?
- È abituata a contenere un mucchio di persone. – scrolla le spalle lui, - Persone che naturalmente non faranno i salti di gioia al pensiero di rivederti, come ho cercato insistentemente di spiegare a José per le ultime due settimane della mia esistenza, ma comunque. – sospira teatralmente, - Sistemati pure qui. – lo invita con un cenno del capo, - La cena sarà in tavola fra tre quarti d’ora. Non tardare, Giovanni deve andare a letto presto e dubito che si rassegnerà ad obbedire prima che abbiate giocato almeno un po’. – sospira ancora, scuotendo il capo, - Ma chi me l’ha fatto fare… - esala in un mugolio sommesso, avviandosi stancamente lungo il corridoio.
Mario lo osserva allontanarsi con un sorriso intenerito, stupito da quanto sia semplice, nonostante il figlio e l’atteggiamento ostile, sentirlo ancora tanto vicino anche e soprattutto nelle piccole cose, nei piccoli cenni che gli fa, nelle occhiate che gli lancia. Si chiude la porta alle spalle, sistemandosi in fretta. Non vuole fare tardi.
*
L’espressione sconvolta che rende ridicolo il viso di Zlatan non può che costringere ad una mezza risata Davide, nonostante tutto, nel momento stesso in cui appare sullo schermo del videotelefono.
- Ho chiamato appena ho saputo. – dice lo svedese, gli occhi spalancati e i capelli tutti arruffati, come si fosse appena svegliato, - Ma il portoghese è impazzito del tutto all’improvviso?
- Non faccio che chiedermelo da quando me ne ha parlato. – sospira Davide, lanciando un’occhiata al giardino illuminato di fuori, sul prato naturale del quale Mario e Giovanni si rincorrono fra loro fingendo di rincorrere entrambi il pallone, - Non mi ha neanche chiesto cosa ne pensavo, ha semplicemente preso una decisione. E tu sai com’è quando prende una decisione.
- Lo so anche troppo bene. – sbotta Zlatan con una smorfia, - Ma perché non me l’hai detto?
- Perché tu sei un procuratore, Zlatan. – risponde Davide, - E questi invece sono affari della società. Non potevo dirtelo.
- Professionalmente parlando, no. – annuisce Zlatan, - Ma considerata la nostra vecchia e proficua amicizia…
- Sempre no. – sorride lui, mentre Mario prende in braccio Giovanni e lo fa volare più in alto di quanto lui non sia mai riuscito a fare. – È un bel casino. – sospira quindi, abbattuto.
- E non può che peggiorare. – commenta Zlatan, pensoso. – Dade, ma Mario ha idea di chi sia la gente che Christos frequenta? I suoi amici, le persone che l’hanno cresciuto… non è veramente pensabile che ci possa lavorare in mezzo, me compreso. Sarà una guerra.
- Senti, a me non dici nulla di nuovo! – sbuffa lui, stendendosi contro lo schienale della poltrona ed allentando il nodo della cravatta, - È José che s’è fissato, io non avrei mai permesso che una cosa simile potesse accadere, se lui non mi avesse scavalcato. Fa’ il tuo mestiere, comportati da procuratore e rompi i coglioni alla società. Io non posso farlo, tu sì.
- Non posso farlo nemmeno io, Da’. – ride Zlatan, inarcando un sopracciglio, - Avrei potuto, fino a cinque anni fa, ma ormai il regolamento è tutto cambiato, e la nostra libertà di rompere i coglioni al nostro prossimo, che poi è stato il motivo principale che mi ha spinto a intraprendere questa carriera, s’è molto ridotta.
Davide torna ad avvicinarsi al videotelefono, sorridendo appena.
- Ora non raccontarmi balle. – borbotta, - Sappiamo entrambi che non è per questo che hai cominciato. - Zlatan rotea teatralmente gli occhi, gesticolando come a scacciare via una mosca molesta, e Davide torna a distendersi, molto più rilassato di quanto non fosse prima. – Senti, perché non gli parli? Christos è una cosa molto speciale, per lui, ma è evidente che se te l’ha affidato, dodici anni fa, l’ha fatto perché ritiene di potersi fidare di te. Prova a spiegargli che non è questo il modo per—
- E qual è il modo, Davide? – chiede Zlatan, abbattuto, - Perché io, sinceramente, non ho più conigli da tirare fuori dal cappello. Ho esaurito le risorse. Christos deve partire, se vuole avere una dannata carriera, e deve staccarsi da questo dannato posto, ed io non so come convincerlo a farlo.
- Il problema è che non so come potrebbe convincerlo Mario. – considera Davide, atono. – Ti saluto, adesso, sta rientrando. – dice frettolosamente, osservandolo avvicinarsi alla porta con Giovanni già addormentato appoggiato su una spalla, - Ci vediamo domani a pranzo, come al solito.
Zlatan lo saluta con un breve cenno del capo ed interrompe la chiamata. Il suo volto scompare dallo schermo prima che Mario possa raggiungerlo.
- Dove lo poso questo sacco di patate? – gli chiede in una mezza risata. Davide sorride intenerito, alzandosi in piedi e tendendo le braccia per farsi passare il bambino, che mugola appena ma resta addormentato nonostante gli smottamenti.
- Ci penso io. – risponde, - Tu va’ a riposarti. Non hai idea della giornata che ti aspetta, domani. – dice, quasi divertito. – Conosci la strada. – conclude, salutandolo con un cenno della mano ed avviandosi lungo il corridoio. Mario si guarda intorno e si chiede cosa abbia dato a Davide questa certezza, visto che è arrivato non più di un’ora e mezza fa, ma sospira, si rimbocca metaforicamente le maniche e parte alla ricerca della propria camera. È, invero, piuttosto soddisfatto quando, dieci minuti dopo, la trova.
*
Nonostante le parole tutt’altro che rassicuranti di Davide, non gli è riuscito di chiudere occhio. Mentre si cambiava per la notte, Zenga l’ha chiamato ed ha preteso che rimanesse in piedi accanto a letto senza mai sedersi mentre lo rimproverava strillandogli addosso quanto fosse irresponsabile, e stupido, e quanto in realtà stesse aspettando una cosa simile da anni e l’avessero capito tutti tranne lui. Mario non sa perché abbia obbedito, non sa perché sia rimasto in piedi quando avrebbe tranquillamente potuto sedersi o anche stendersi e non ci sarebbe stato modo, per Walter, di saperlo, dall’altro lato del mondo. Tutto quello che sa è che, anni fa, non l’avrebbe mai fatto. Sedersi o stendersi sarebbero state le prima cose che avrebbe fatto nel momento stesso in cui avesse sentito le parole “resta in piedi”. Oggi, ad anni di distanza, in una casa non sua, lontano dalla propria vita, dalla propria squadra, e catapultato nella vita e nella squadra che erano sue vent’anni prima, invece, non l’ha fatto. Qualcosa significherà, ma Mario non sa cosa, ed in ogni caso non è ancora pronto a chiederselo.
Incapace di restare ancora a letto a sudare nonostante la casa perfettamente rinfrescata, si alza ed esce dalla propria stanza, guardandosi intorno. Non vuole finire nella zona delle camere di Davide e Giovanni, per cui cerca di ricordare verso dove ha visto avviarsi Davide quando l’ha salutato prima di andare a dormire e si dirige verso un punto completamente opposto, sperando di trovare qualcosa. Qualsiasi cosa.
Gira a vuoto per almeno un quarto d’ora. Incontra porte chiuse, il salotto con la porta a vetri, un bagno con la porta socchiusa – probabilmente lasciata così apposta nell’eventualità che lui ne avesse bisogno – e poi, semplicemente, la porta di casa. Attraverso i vetri si vede tutto, il cielo pieno di stelle, la vegetazione rigogliosa ovunque, il torrente che scende lungo la collina e la piscina. E Davide che fa il bagno.
Esce cercando di non fare troppo rumore, ma nel silenzio totale che avvolge il giardino Davide fa in fretta a sentirlo comunque, e si volta a guardarlo. Non sembra infastidito, né sorpreso dal suo trovarsi lì.
- Non riesci a dormire? – gli chiede. Mario scrolla le spalle, avvicinandosi. Sfila le ciabatte e si siede a bordo vasca, dondolando i piedi, mentre Davide si issa sulle braccia, appoggiandosi sui gomiti e restando fuori dall’acqua solo per metà, proprio accanto a lui.
- Pensavo. – risponde, piantando le mani per terra e provando semplicemente a rilassarsi.
- A cosa? – chiede Davide. La sua voce è dolce, carezzevole, completamente diversa da quella che ha usato per rivolgersi a lui per tutto il resto del giorno.
- A domani. – risponde lui, vago, - A come mi organizzerò, a cosa dirò a questo benedetto ragazzo. Il mister mi ha detto che è importante.
- Allora evidentemente lo è. – risponde lui, lo sguardo fisso nel buio.
- Ti fidi di Mourinho? – chiede Mario, incerto.
- Hai dimenticato com’è con lui? – ritorce Davide, ironico, - O ti fidi, o ti rassegni. Per la maggior parte delle cose riesco a fidarmi, sì. Per tutto il resto, mi rassegno.
- Come con me. – suggerisce Mario. Davide sospira.
- Esatto. – risponde, - Come con te.
Mario lascia che qualche minuto passi in perfetto silenzio, riempito soltanto dallo sciabordio dell’acqua contro le rocce del letto del torrente, e poi schiude le palpebre, ritira le gambe e si piega per guardare Davide dritto negli occhi.
- Ho bisogno del tuo aiuto. – gli dice. Davide si ritrae appena, solo pochi millimetri, ma abbastanza perché Mario possa notarlo e interpretarlo come un segnale di sfiducia. – Professionalmente parlando. – precisa lui, aggrottando le sopracciglia, - Lavorare coi ragazzini non è facile. Ogni parola può essere quella sbagliata, e quello con Christos sarà un lavoro di precisione. A Manchester sono abituato a lavorare a stretto contatto con le famiglie, col loro supporto, mentre qui non ho niente. Mi serve tutto quello che sai. Come è arrivato qui questo ragazzino, chi ce l’ha portato e perché. E questo non perché sono Mario, non perché stavamo insieme e non perché ti ho lasciato, - dice tutto d’un fiato, - ma perché siamo colleghi.
Davide resta teso a lungo, anche dopo aver finito di ascoltarlo. Quando si scioglie, espirando stremato e tornando ad appoggiarsi a bordo vasca, i suoi occhi tornano distanti e un po’ smarriti. Perdono parte di quel bagliore che da sempre li rende più vivi e vispi di quelli degli altri, e istintivamente Mario sa che tutto questo sta avvenendo perché Davide sta spingendo la propria memoria a ricordare tempi antichissimi, che avrebbe preferito non dover rivangare mai più.
- Tu eri andato via da poco, e tutti noi eravamo ancora troppo esaltati dalla vittoria della Champions per preoccuparci. Di te o della trattativa in corso fra José e il Real. Io personalmente continuavo a pensare che tutto fosse andato come doveva andare, e che avrebbe continuato ad essere così anche da quel momento in poi, per cui se José doveva andarsene, che andasse. Così come avevi fatto tu. – si ferma per qualche secondo, inumidendosi le labbra, incerto. – Sarebbe andato via davvero, sai? La trattativa col Real era quasi chiusa. E poi una mattina si presenta in sede, a bordo di una macchina dai vetri oscurati, e mezz’ora dopo esce ed è ancora l’allenatore dell’Inter. – Davide sospira, dondolandosi un po’ nell’acqua. – Mario, cazzo, lo sai quanto sono lunghi vent’anni?
- Diciotto. – lo corregge lui, teso.
- Diciotto. – concede Davide, - Sono lunghissimi, per certuni sono una vita. Per Christos, per dire, lo sono. – solleva lo sguardo e incontra quello di Mario. I suoi occhi brillano di nuovo, adesso, e Mario può vederli con chiarezza.
- …Christos. – dice piano, - È lui la ragione per cui è rimasto.
Davide annuisce, inspirando profondamente.
- Non ci ha mai detto da dove sia spuntato. Ognuno di noi ha teorie diverse sul punto. Io credo sia suo figlio, per esempio, anche se non ho proprio idea di chi potrebbe essere la madre. Fatto sta che, da un giorno all’altro, Christos era sempre con lui. – sorride appena, gli occhi di nuovo persi nel vuoto, - Ci è praticamente cresciuto, in Pinetina, capisci? José non lo portava mai a casa, restava in dormitorio con noi. Ci prendevamo tutti cura di lui a turno, facevamo le notti in bianco quando era piccolissimo, e ci siamo abituati tanto alla sua presenza che dopo un po’ prendercene cura non è più stata una fatica, ma un piacere.
Mario annuisce composto, tornando a immergere i piedi nell’acqua.
- Almeno adesso è chiaro perché non vuole partire neanche morto. – considera. Davide annuisce.
- Christos ha grandi progetti, per il suo futuro. – dice, - È cresciuto in mezzo a grandissimi campioni e sa ciò che vuole. Il problema è che lo vuole all’Inter, dove è sempre stato, e non riesce ad accettare la possibilità di doversene separare per raggiungere i propri obiettivi. Sa che tornerebbe, il presidente Moratti è quasi un nonno per lui, ed Angelomario non lo manderebbe mai via senza avere la certezza di poterlo riprendere all’occorrenza, ma non accetta compromessi. Abbiamo… - sospira, - Abbiamo tutti cercato di spiegargli che non è così che funziona, ma lui vuole ottenere ciò che vuole alle sue condizioni e basta. E da lì non si muove.
Mario annuisce ancora, prendendo mentalmente nota di tutte le informazioni ottenute.
- Grazie. – dice infine, - Sono sicuro che tutto questo mi sarà utile.
- Anche perché io non ho altro da darti. – scrolla le spalle Davide, uscendo dalla piscina e sedendosi al suo fianco.
- Dovrò parlare con il suo procuratore, con chiunque frequenti di rilevante. – ragiona, - Sarà possibile?
Davide ride a bassa voce, stringendosi nelle spalle.
- Sarà obbligatorio, più che possibile. – risponde, - È tutta gente che in un modo o nell’altro continua a frequentare Appiano ancora oggi. Non sarà difficile ottenere quello che cerchi.
Mario sorride soddisfatto. Fa per alzarsi, ma all’ultimo secondo ci ripensa, restando là seduto.
- Tu perché non dormi? – gli chiede, lanciandogli un’occhiata fintamente casuale, - Pensieri per la testa?
Davide sospira, chiudendo gli occhi per una manciata di secondi.
- Non intendo mentirti, Mario: la tua presenza qui mi turba. – confessa, - Se sono riuscito ad andare avanti con la mia vita dopo che te ne sei andato, è perché la vita, che tu lo voglia o no, si muove, e tu puoi solo muoverti assieme a lei. Restare fermi non è proponibile. E così mi sono sposato, ho avuto un figlio, ho costruito questa bella casa, e ora faccio un lavoro che mi piace e sono un uomo soddisfatto. Ma quando guardo te… - mormora, voltandosi a sfiorarlo con un’occhiata improvvisamente dolce, quasi antica, - …torna tutto indietro. Tutto assieme. Ed è un po’ troppo, sai? – conclude con una risatina un po’ incerta.
Mario si inumidisce le labbra, sollevando un braccio con l’intenzione di sfiorargli una spalla. I suoi polpastrelli toccano appena la sua pelle nuda ed umida, e lui subito ritrae la mano, quasi si fosse scottato.
- Mi troverò presto un altro posto dove stare. – dice a bassa voce. Davide lo guarda con delusione palese negli occhi, e Mario si alza da terra, un po’ impacciato. Tanto che, quando la mano di Davide scatta ad afferrarlo per una manica, tirandolo repentinamente giù, lui inciampa sui propri stessi piedi e gli cade praticamente addosso, la maglietta che si inumidisce all’istante, a contatto con la sua pelle bagnata. Si guardano negli occhi per una quantità di tempo che non riescono né vogliono quantificare, e Mario ha l’impressione che possa spuntare il sole da dietro le colline troppo presto, ad un certo punto, ed è per questo, solo per questo, perché sente l’alba approssimarsi ed ha paura che, sorgendo, il sole possa togliergli la possibilità di fare ciò che vuole, che si china su di lui e copre le sue labbra con le proprie in un bacio che è bagnato solo perché lo è Davide, lo sono loro.
Si rimette in piedi subito dopo. È ancora notte, buia più che mai. Davide, sdraiato a bordo vasca, così perso e vulnerabile, lo tenta – senza volerlo, probabilmente – come mai niente l’ha tentato prima d’ora. E Mario distoglie lo sguardo.
Davide respira a pieni polmoni e poi si alza in piedi a propria volta, stando bene attento a non scivolare.
- Non metterti fretta. – gli suggerisce, - Non solo per la casa. In generale. Prenditi il tempo che ti serve. Non ti butterò in mezzo a una strada. – conclude passandogli accanto e rientrando in casa.
Mario sfiora con due dita la propria maglietta all’altezza del ventre. È calda e bagnata, di Davide e di lui. Ne stringe con forza un lembo in un pugno, prima di tornare in camera propria.
*
- Non vuoi parlare prima col suo procuratore? – chiede José, inarcando un sopracciglio mentre prepara sbrigativamente il programma della seduta di allenamento mattutina, picchiettando a memoria col pennino sul touchscreen del palmare. Mario lo osserva per qualche secondo, notando come non abbia nemmeno bisogno di stare a guardare cosa stia selezionando. Dopo vent’anni, malgrado tutti i cambiamenti che ci sono stati nel lavoro, nella società ed anche nel modo di intendere il calcio a livello nazionale e globale, Mourinho tende comunque a restare immutabile come ha sempre pensato che sarebbe stato.
- No. – risponde sinceramente, - Sarebbe perfettamente inutile. Non avrei niente da dirgli.
- Guarda che è una delle persone che lo conoscono meglio, in giro. – gli fa notare l’uomo, mentre dalla stampante in un angolo della stanza viene fuori il programma dell’allenamento su carta, pronto ad essere appuntato all’immancabile cartellina senza la quale José non sembra essere in grado di sopravvivere, abitudine che non ha mancato di passare anche a Davide.
- Non importa. – insiste Mario, - È comunque una figura di tipo professionale, nella sua vita. Non è direttamente parte del suo privato. Quindi, al momento, non mi serve.
José sospira, appuntando il foglio col fermaglio in cima alla cartellina.
- Scoprirai col tempo che, quando si parla di Christos, professionale e privato sono due concetti che vanno inaspettatamente a braccetto.
Mario sbuffa, esasperato, e José ride di gusto.
- Può lasciarmi fare come dico io? – ride a propria volta Mario, già dimentico dell’offesa, - Non ci riesce proprio, eh?
- Be’, sei stato tu il primo a chiamarmi “mister”. – risponde José, dandogli una pacca sulla spalla, - È ovvio che io mi sia adeguato. Comunque, - sorride, avviandosi verso l’uscita del proprio ufficio e facendogli cenno di seguirlo, - dimmi cosa ti serve.
- I nomi. – annuisce Mario, - Quelli che l’hanno cresciuto.
José rallenta il passo, riflettendo per qualche istante.
- Davide ti ha già detto tutto, vero? – chiede. Mario annuisce. – Non è mio figlio. – dice immediatamente lui, - So che Davide lo pensa, ma non è mio figlio. Non ho mai tradito Tami e non avrei mai potuto. Le ho chiesto molto, quando le ho parlato di Christos. Le ho chiesto di fidarsi di me, di non indagare, di rinunciare a sapere. Per lei non è stato facile. Christos ha passato la quasi totalità del suo tempo con me per i primi tre, quattro anni della sua vita, e dal momento che non potevo portarlo a casa, visto il rischio enorme che correvo di essere visto o fotografato con lui, non solo ero costretto a lasciarlo in Pinetina praticamente sempre, ma trascorrevo lì quasi tutti i giorni. Ogni giorno. Ventiquattro ore su ventiquattro. – sospira, scuotendo il capo. – Puoi immaginare cosa questo possa voler dire per un matrimonio? Non esserci mai perché troppo impegnato ad accudire un figlio non tuo.
Mario si inumidisce le labbra, incerto.
- Di chi è figlio Christos? – chiede a bassa voce. José si volta a guardarlo con severità, come lo avesse appena scoperto a rovistare fra i suoi documenti privati.
- Non ne ho idea. – risponde alla fine. Mente, e Mario se ne accorge, ma non ritiene opportuno insistere oltre. Se Mourinho non glielo sta dicendo, vuol dire che non ritiene possa essere un’informazione utile. Magari i suoi genitori sono morti, magari erano suoi cari amici. In sostanza, non sono fatti suoi. – Ed al contempo, lo so. – continua José, ora più pensieroso. Si prende qualche secondo, prima di proseguire. Mario lo scruta con attenzione. – Esclusi Davide e me, - dice quindi, - Javier, Esteban, Dejan e, per una strana combinazione di coincidenze, - aggiunge con un sorriso più dolce, - Philippe. Sono queste le persone che si sono occupate più spesso di lui, quando era piccolissimo. I suoi punti di riferimento, per così dire. Molti altri sono quelli che l’hanno seguito man mano che si faceva più grande, ma cercavo per quanto possibile di non coinvolgere troppo i nuovi arrivati, o comunque i più piccoli. Preferivo fidarmi dei senatori.
- L’ha sempre fatto. – ride Mario, inarcando un sopracciglio. – Come mai Coutinho? – chiede quindi, incuriosito, - Che vuol dire una strana combinazione di coincidenze?
José solleva gli occhi al cielo, parzialmente divertito, parzialmente rassegnato.
- Cose di cui sarebbe meglio evitare di parlare. – risponde enigmatico, - Cose, comunque, che potrà dirti lui stesso, se vorrai incontrarlo.
- Vorrò incontrare tutti loro. – annuisce Mario, tornando serio, - Dovrà dirmi dove e quando.
- Be’, gli allenamenti stanno per cominciare. – riflette José, lanciando un’occhiata all’orologio da polso, - Posso concederti dieci minuti con Philippe mentre gli altri si scaldano. Quanto agli altri, temo dovrai aspettare la pausa pranzo. A quest’ora, sono già tutti impegnati da un pezzo. E Javier non tornerà dall’Argentina prima di qualche giorno.
- È sempre stato… - mormora Mario, gli occhi bassi, mentre escono sui campi appena fuori dal centro sportivo, - …spiazzante, credo. Il modo in cui la maggior parte delle persone che hanno a che fare con questa società poi, per un motivo o per l’altro, insistono sempre per rimanerci incastrate a vita. C’è gente che non s’è mai mossa da qui. È una cosa che non riesco a comprendere.
José ride divertito, stringendogli affettuosamente una spalla.
- È per questo che sei la persona adatta a convincere Christos a darsi una mossa. – lo rassicura incoraggiante, - Adesso, forza, al lavoro. Per incontrare Deki e il Cuchu, durante la pausa pranzo, ti converrà andare in mensa. È probabile che Christos sia con loro, peraltro. – riflette, grattandosi il mento, - Dirò a Davide di trattenerlo con una scusa.
- Grazie. – annuisce Mario, sorridendo appena. – In generale.
José risponde al suo sorriso, salutandolo con un’altra pacca sulla schiena, prima di indicargli Philippe che fa il proprio ingresso in campo con un asciugamano poggiato sulle spalle.
Mario gli si avvicina sfoggiando un sorriso aperto, carico di fiducia, incoraggiante. Riflesso sul volto di Philippe, però, trova un sorriso molto diverso. Divertito, ironico, incuriosito, forse, ma non certo ben disposto. Si dà mentalmente del cretino per avere accettato l’incarico abbandonando un lavoro piacevole che amava profondamente, e poi si fa forza.
- Ciao. – lo saluta, tendendogli la mano. Philippe si ferma e gliela stringe con decisione, il suo sorriso ora è vagamente meno indisponente. – Noi due non abbiamo mai avuto propriamente modo di conoscerci.
- No, non direi. – ammette Philippe, allontanandosi verso una panchina ma aspettando che lui lo segua, - Quando sono arrivato, tu eri già andato via. Un trasferimento lampo, non c’è che dire.
- Conosci come me le tempistiche del calciomercato di allora. – scrolla le spalle lui, rimanendo al suo fianco mentre Philippe solleva una gamba e l’appoggia sulla seduta della panca per un po’ di stretching, - Tutto poteva avvenire in poche ore, oppure potevano volerci dei mesi. Da uscirci pazzi.
- Eccome. – ride Philippe, piegandosi e risollevandosi ritmicamente, - È vera quella storia su Raiola? Se n’è parlato tanto, qualche anno fa. L’esaurimento nervoso e tutto…
- Balle. – sbotta Mario, roteando gli occhi, - Di gente che non ha mai imparato a tacere. Mino stava male già da un po’, quando s’è messo in pensione. È sempre stato un testardo, ma contro il secondo infarto non poteva spuntarla nemmeno lui. Ero lì quando è successo, sai? I medici gli avevano detto di riguardarsi, mangiare leggero, ed invece a casa sua si organizzavano cene spaziali ogni tre giorni. Pollo, costolette alla brace, peperonata, pomodori ripieni… - ride, - Le sue ultime parole, poco prima dell’attacco di cuore, sono state “Mario, tu eri, sei e resterai per sempre un cazzone”. Gli avevo appena detto di volermi ritirare.
Philippe ride ad alta voce, rimettendo entrambi i piedi per terra e saltellando un po’ sul posto.
- Aveva ragione? – chiede curiosamente.
- Sì, abbastanza. – risponde Mario, ridendo a propria volta.
- Sembri averla presa bene, comunque. – commenta Philippe, inarcando un sopracciglio ironico.
- Be’, sì. – scrolla le spalle lui, invitandolo ad una breve passeggiata con un gesto. Philippe accetta. – Sembrava proprio non dovesse farcela, dopo il primo infarto. Ero molto amareggiato, temevo che non avrei avuto modo di salutarlo, o di ringraziarlo. Sai, quello che sono oggi, per quanto possa sembrare assurdo, è in gran parte merito suo. E invece poi s’è ripreso. Questo mi ha dato qualche mese in più. – guarda verso gli alberi che circondano il centro sportivo, sempre uguali, immutabili, le punte che fanno il solletico al cielo di un azzurro sorprendente sopra le loro teste. – Quando se n’è andato, eravamo a posto, se capisci cosa intendo. Tutti dovremmo avere il tempo per elaborare i lutti, di qualsiasi tipo siano.
- Che una cosa del genere venga proprio da te… - ridacchia Philippe, le braccia incrociate dietro la schiena, mettendo avanti un piede alla volta, serenamente, - Quando sei andato via, non hai proprio lasciato a nessuno il tempo giusto per elaborare, mi pare.
- Lo so. – ride Mario, - L’ho capito dopo. D’altronde, non ho mai fatto mistero di essere stato uno stronzo.
- Ed ora? – chiede Philippe, svoltando a sinistra per girare attorno al campo.
- Ora è diverso. – sospira Mario, - Sembra siano passati secoli, da quando me ne sono andato da Milano. Comunque, - si interrompe, ridendo divertito, - non è certo per psicanalizzare me che siamo qui, adesso.
- Aaah, eccoci qua. – solleva gli occhi al cielo Philippe, rassegnato, - La sfilza di domande su Christos.
- Ti dispiace? – chiede Mario con un mezzo sorriso. Philippe scrolla le spalle, ed anche il capo.
- Spara. Prima risolviamo questo problema, meglio sarà per tutti.
- Come l’hai conosciuto?
Philippe scoppia a ridere, divertito oltre il legale.
- Conosciuto? Tu quando sei arrivato come hai conosciuto i letti, i divani, le donne delle pulizie…?
Mario si lascia andare ad una risatina complice, tirando fuori dalla tasca un palmare sottilissimo e minuscolo corredato da un pennino col quale comincia immediatamente a prendere appunti sullo schermo.
- Credo di capire cosa intendi. – annuisce, incitandolo a continuare.
- Christos era già qui da più di un mese, quando sono arrivato io. – racconta il capitano, - Era già uno di famiglia. Dovevi vederla, tutta la squadra, un branco di omaccioni sudati che dopo l’allenamento fuggivano via per andare a coccolare ed allattare un infante piagnucoloso. – ride, perso nella propria memoria, - Erano uno spettacolo fantastico. Io a quei tempi non capivo una parola di italiano, per cui ero abbastanza confuso. Al mister, peraltro, non piaceva parlarne. Puoi immaginarti il casino?
- Lo immagino sì. – annuisce Mario, ridendo un po’, - E poi?
- Poi niente. – Philippe scrolla le spalle, - Christos è sempre rimasto qua, così per un motivo o per l’altro era sempre in giro. Io sono diventato capitano nel duemilasedici e quello è stato un anno piuttosto confuso, sai, con l’infortunio di Davide e tutto. – lo guarda per qualche secondo, prendendo atto solo distrattamente della sua occhiata vagamente perplessa, - Insomma, sentivo di avere una certa responsabilità, no? Christos aveva sei anni. Ed un giorno torna infebbrato e indisposto dopo l’allenamento dei pulcini, e comincia a ricoprirsi di pustoline. Varicella. – solleva gli occhi al cielo, - Abbiamo passato insieme qualcosa come una settimana, non mi sono mai allontanato da lui. Non poteva praticamente uscire dalla stanza, il campo sportivo come al solito era pieno di bambini e sarebbe stato pericoloso. E stando a stretto contatto con lui, ero contagioso anch’io. Non sapevo chi o meno nel centro avesse avuto la varicella da piccolo, perciò per evitare problemi siamo entrati entrambi in una mini-quarantena.
- Non dev’essere stato facile. – riflette Mario, picchiettando un po’ a caso col pennino sul touchscreen, disegnando puntini neri sul foglio virtuale che scompaiono immediatamente quando ci passa sopra con un dito, - Trascorrere tutto quel tempo da solo con un bambino praticamente sconosciuto.
- Invece è stato facilissimo. – sorride Philippe, - Ci siamo trovati subito. Era così incredibilmente affascinato da… tutto, più o meno. – ride appena, - La sua curiosità era irrefrenabile. Mi tempestava di domande, soprattutto sulla squadra, e su com’era giocare in Brasile. Io mi sposai quell’anno, - sorride più teneramente, - e ricordo di aver pensato distintamente che mi sarebbe piaciuto avere un figlio come lui. Per un certo periodo, dopo il matrimonio, pensammo anche di adottarlo. – ride, un’improvvisa nota amara nella voce, - Sai, non potendo avere figli nostri ci siamo detti “piuttosto che pagare un utero in affitto, perché non lui?”. Ma il mister non era d’accordo, andò su tutte le furie quando glielo proponemmo, ed alla fine non se ne fece più niente. – scrolla le spalle, guardando altrove.
- Tu di chi pensi sia figlio? – chiede Mario a bruciapelo, mettendo via il palmare.
- Non ne ho idea. – risponde sinceramente Philippe, lanciando un’occhiata ai propri compagni che già si allenano in mezzo al campo, - Suo, credo. Lo crediamo quasi tutti. Ma chi può saperlo. In ogni caso, - sospira, - dopo quell’episodio il rapporto fra me e Christos si fece particolarmente stretto. Si prese anche una bella cotta per me, ma di quelle di una certa entità, sai? Se l’è portata dietro per anni.
Mario inarca le sopracciglia, divertito.
- È gay? – chiede con un mezzo sorriso.
- Dio, - sospira Philippe, - non potrebbe essere più gay neanche se indossasse un corpetto ed una minigonna fucsia ed andasse in giro facendosi chiamare Veronique. Sai che a dodici anni l’ho beccato a scambiare scarpini per un bacio? – ridacchia, - Deki gli aveva comprato questo paio di Nike Vintage splendide, era l’edizione di quell’anno ispirata alle vecchie Superfly del 2009, una roba che gli invidiavano tutti dalle giovanili ai più grandi, soprattutto perché sai, c’era sopra l’autografo di Zlatan e tutto, e… - gli lancia un’occhiata, prendendo atto del suo sguardo a dir poco confuso, e ridacchia imbarazzato, - …sto divagando. Comunque, regalò gli scarpini a un ragazzo degli Allievi in cambio di un bacio. Avresti dovuto vederlo, ne andava orgogliosissimo. Del bacio, dico, non degli scarpini.
- …wow. – ride Mario, stupito ma nonostante tutto divertito, - Un tipino niente male.
Philippe sbuffa una mezza risata sarcastica, grattandosi nervosamente la nuca.
- Già. – risponde, - Forse è per questo che… Dio, dirlo è ancora così difficile. – ridacchia appena, guardando insistentemente qualsiasi punto circostante che non sia il viso di Mario, - Insomma, avemmo una storia. Non lunga, ma a suo modo… importante. E questa cosa ha distrutto completamente il mio matrimonio, mettendoci definitivamente una pietra sopra.
Mario gli batte una pacca sulla spalla, comprensivo.
- State ancora insieme? – chiede incerto.
- No, - ride Philippe, - e da parecchio tempo.
- E… insomma, non hai mai provato a ricontattare il tuo ex? – insiste Mario, inarcando le sopracciglia. Philippe ride ancora.
- Non ho bisogno di ricontattarlo, - risponde, - lo vedo ogni giorno. Ora sta insieme a Christos, - ride un po’, - e da parecchio tempo. – conclude, facendosi il verso da solo. – Ora scusami, - lo saluta, sottraendosi al suo tocco, - devo andare ad allenarmi. Non sarò più il capitano di questa squadra, dall’anno prossimo, perciò voglio godermi appieno ogni occasione di torturare i giovani che mi viene offerta da qui a fine stagione. Ci si becca in giro.
Quando lo vede allontanarsi, attraversando il cancello e correndo fino a centrocampo mentre Mourinho gli urla che non c’era bisogno di prendersi le ore per raccontargli l’intera storia della sua vita, per qualche secondo Mario rimane immobile a fissare il vuoto con aria perplessa, e non può fare a meno di chiedersi in che razza di trappola si sia andato a cacciare.
*
Quando Mario arriva, la mensa è piena di ragazzini che chiacchierano e fanno rumore spostando sedie, posando piatti e posate, tirandosi calci a vicenda e ridendo come idioti per ogni battuta. Li riconosce facilmente perché ricorda com’era avere la loro età e frequentare quella stessa mensa, mangiare quello stesso cibo – be’, forse non propriamente lo stesso, dopotutto – e ridere allo stesso modo delle stesse battute cretine.
Riconosce facilmente anche Deki e il Cuchu, comunque, perché non sono cambiati di una virgola. Sorride, o almeno ci prova, nonostante sia teso come una corda di violino, mentre si avvicina al tavolo al quale sono seduti, da soli. Non mangiano, parlottano fra loro con aria serena, e lui si sente quasi di troppo quando scolla un “ehi” impacciato che lo riporta a vent’anni prima e ad un se stesso molto più piccolo che si avvicinava agli stessi due uomini sperando che potessero dargli una mano ad ambientarsi in mezzo ai grandi.
Dejan si volta a guardarlo immediatamente, ed il suo movimento è così repentino e inaspettato da spiazzarlo. Mario fa un mezzo passo indietro mentre l’espressione del serbo si fa istantaneamente tesa e poi subito maggiormente rilassata, anche se si tratta palesemente di una forzatura volta a non metterlo troppo a disagio.
- Ciao. – sillaba Esteban, la voce incerta solo inizialmente, che va prendendo confidenza man mano che comincia a parlare, - José ci ha avvertiti che saresti arrivato. Sei un po’ in ritardo, però.
- Chiedo scusa. – sorride appena lui, grattandosi la nuca, - Avevo un po’ di appunti da riordinare. Pare che Christos sia uno su cui gli aneddoti si sprecano.
- Oh, potrei raccontartene alcuni piuttosto piacevoli. – ridacchia Dejan, incrociando le braccia sul tavolo, - D’altronde, è stato qui in giro parecchio a lungo. Ha assorbito tutte le influenze che poteva assorbire e le ha portate ad un nuovo livello evolutivo.
- Piantala, Deki. – ride Esteban, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca. – Non ascoltarlo, - continua, tornando a rivolgersi a Mario, - va così orgoglioso del piccolo che ogni tanto straparla.
- Il piccolo? – domanda divertito Mario, - È alto quasi quanto me.
- Quando conosci qualcuno che è ancora così piccolo da poterlo tenere sul palmo di una mano, fatichi ad accettare che possa davvero crescere. – considera Esteban, malinconico.
- Confermo. – annuisce Dejan, - E ti assicuro che io ho provato in ogni modo possibile a convincermene, eh. Non c’è stato verso.
Mario annuisce, tirando fuori il palmare dalla tasca a picchiettando lievemente sul touchscreen per accenderlo.
- Quand’è arrivato qui? – chiede con tono professionale.
- Era una notte buia e tempestosa… - risponde Dejan, ironico, gesticolando e modulando la voce perché risulti più cupa di quanto in realtà non sia, - A che ti serve saperlo, Supermario?
- Dio. – ride lui, scuotendo il capo, - Non mi chiamano così da secoli. E non fate i vaghi, ho bisogno di queste informazioni, e se c’è qualcuno dal quale posso estorcerle, quelli siete voi.
- Puoi provarci. – ribatte Dejan, sorridendo sereno, - Ma non ci riuscirai.
- Vedi, Mario, - spiega Esteban pazientemente, - Christos, così come ciò che questa squadra è stata, soprattutto negli ultimi quindici anni, è famiglia. Tu sei un elemento che ha preferito smettere di farne parte prima che si formasse definitivamente. Quindi ci sono cose che non possiamo dirti.
- Ci sono cose che non vogliamo dirti. – precisa Dejan, guardandolo con una certa severità.
Mario aggrotta le sopracciglia.
- È stato José a chiamarmi. – fa presente, offeso.
- Senza prima consultare nessuno di noi. – ritorce Dejan, ora decisamente meno calmo.
- Deki. – lo riprende Esteban, lanciandogli un’occhiata disapprovante prima di tornare a guardare Mario con indulgenza, - Non prenderla sul personale. – si scusa stringendosi nelle spalle, - Quello di averti qui è un desiderio di José, non esattamente condiviso da gran parte della comunità. Aiuteremo come potremo, per il bene di Christos, ma se sei venuto qui per una cronistoria completa della sua vita da quando è arrivato ad Appiano fino ad ora, è mio dovere avvertirti che questo sarà solo il primo di una lunga serie di buchi nell’acqua, per te. Oltretutto, - continua con un sospiro, - noi sappiamo molte cose, e Christos ci vuole molto bene, ma è innegabile che i suoi punti di riferimento, al momento, siano altri. È a loro che dovresti rivolgerti.
- …il suo ragazzo. – riflette Mario, occhi bassi ed espressione concentrata, - E il suo procuratore. – qualcosa gli si illumina negli occhi, all’improvviso, - Il suo ragazzo è il suo procuratore? – chiede incerto.
- Ti piacerebbe. – scoppia a ridere Dejan, quasi piegandosi in due per le grandi risate, - Così almeno avresti una sola gatta da pelare. E invece no, caro mio, sono due ed entrambi problematici come si addice ad uno come Christos. Non si può che augurarti buona fortuna. Secondo me José l’ha fatto apposta, a gettarti in questa fossa di leoni. È la sua vendetta, dopo tutti questi anni.
- Dejan. – lo chiama Esteban, cupo e gelido, sferzandolo con un’occhiataccia peggiore di tutte le precedenti messe insieme, - Ora basta.
Dejan sospira, allungando una mano ad accarezzargli la testa perfettamente lucida.
- La pianto, la pianto. – annuisce alzandosi in piedi, - Vado a prendere una boccata d’aria. E tu, - dice, rivolgendosi a Mario, - farai meglio a tornartene a casa e riposarti. – il suo sorriso si fa più dolce, solo per un momento, - Scommetto che per oggi ne hai già avuto abbastanza. – conclude, prima di allontanarsi verso l’uscita.
Esteban gli si avvicina subito dopo, dandogli qualche pacca su una spalla, con la mano bene aperta.
- Scusalo. – dice sorridendo, - Devi un po’ capire che per tutti noi la questione della tua presenza qui è molto complessa. Sei un po’ una storia che non si è mai chiusa, - ridacchia, - sarà dura riviverti, e poi magari lasciarti andare di nuovo.
- Non è detto che vada così. – dice Mario, aggrottando le sopracciglia, - Potrei rimanere. Sono una persona diversa, adesso.
Esteban sorride con più convinzione, la presa della mano sulla sua spalla che si fa più stretta solo per un attimo, prima di lasciarlo andare.
- Potresti. – annuisce, - Chissà. Un passo alla volta, vuoi? – ride. Mario sbuffa un mezzo sorriso, ed annuisce.
- Cosa cazzo ci fai qui? – dice una voce tetra alle sue spalle. Quando si volta a guardare, si ritrova davanti Christos, ancora sudato e coi capelli ricci scarmigliati sulla testa, - Stai lontano da lui.
- Christos. – prova a intromettersi Esteban, ma lui non gli dà modo di farlo, scattando in avanti ed afferrando Mario per il colletto della camicia, prima di strattonarlo e spingerlo verso la parete.
- Stai lontano da lui! – tuona minaccioso, - Stai lontano dalla mia famiglia, stai lontano dalla mia vita! – grida, prima di dare loro le spalle e fuggire di fuori attraverso la portafinestra in fondo alla sala.
Mario respira a fatica, immobile contro la parete, Esteban al suo fianco che gli chiede come stia. Tutti gli sguardi dei presenti sono voltati verso di lui. Gli duole una spalla. Per un secondo, un secondo soltanto, ha avuto paura di Christos. È stato sufficiente a farlo dubitare di fin troppe cose che credeva al di fuori di ogni questione.
*
- Ho saputo che l’incontro in mensa non è andato esattamente bene. – commenta Davide, sistemandosi addosso la polo e tirandone su e giù il colletto mentre si guarda con attenzione nello specchio, alla ricerca del risultato migliore.
- Oh, e immagino come questo ti dispiaccia. – ride Mario, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate sul petto, - Scommetto che avresti voluto essere lì per vederlo.
- Oh, sì. – ghigna Davide, decidendo per il colletto sollevato e dandosi una sistemata ai capelli, - Sarebbe stato grandioso.
- Stronzo. – ride Mario, tirandogli uno scappellotto contro la nuca. Davide ride a propria volta, sollevando una mano per fermarlo e, non riuscendoci, scattando ad afferrare quella che l’ha appena colpito, senza però lasciarla andare. La tiene stretta fra quattro dita, e Mario lo lascia fare anche quando si volta e la esamina lentamente, con gli occhi e coi polpastrelli, scivolando fra le dita, contando le falangi.
- Sicuro che non ti pesa restare qui con Giovanni? – gli chiede soprappensiero, continuando a guardare il palmo chiaro della sua mano, - Posso ancora chiamare la babysitter. Magari hai qualcos’altro da fare.
- Niente che non possa aspettare domani. – risponde lui, la mano libera che risale lungo il braccio di Davide e poi si poggia quasi casualmente sulla sua spalla, strofinandola piano al di sopra del tessuto leggero della maglietta a maniche corte. È come se i loro corpi stessero imparando da capo come trovarsi, come non l’avessero mai saputo. Ricorda quando succedeva davvero, quando davvero né lui né Davide avevano idea di cosa aspettarsi da una carezza o da un bacio, e pensa che quella condizione, rispetto a questa, era mille volte più lieve, mille volte meno dolorosa. Ora Mario sa di cosa saprebbe Davide se solo si sporgesse a coprire le sue labbra con le proprie. Conosce alla perfezione il tepore della sua pelle, il suo odore, la sensazione tattile dei suoi fianchi ossuti, delle sue natiche piene, della sua voglia dura fra le dita. Eppure non può prendersela. È lì e non può averla. – Esci spesso con Obi? – chiede quindi, cercando di far sì che il suo tono risulti il più casuale possibile.
Davide ride di gusto, e solleva gli occhi dalla sua mano, incontrando il suo sguardo.
- Sei geloso. – constata con divertimento palese.
Mario si stringe nelle spalle, incapace di trattenere un sorriso sornione.
- Forse. – concede in una mezza risata, - Ma questo non risponde alla mia domanda.
Davide inspira profondamente, tornando a guardare la sua mano, ed anche a rigirarsela fra le dita.
- Al contrario di te, - comincia con tono polemico, ma intimamente divertito, - Joey per me c’è stato in ogni momento in cui ne ho avuto bisogno. Quando sei andato via… - sospira, - Insomma, avevo bisogno di qualcuno a cui aggrapparmi, e ne avevo bisogno immediatamente, perché tu eri quello cui mi aggrappavo prima e te n’eri andato via troppo presto. Non mi hai… lasciato il tempo di recuperare l’equilibrio.
- Avete avuto una storia? – chiede Mario a bruciapelo.
- No, demente. – risponde Davide, tirandogli uno schiaffo contro la nuca, - C’è stato e basta. Per chiacchierare, per uscire, quando ho avuto qualche problema scemo con Hera… soprattutto, c’è stato quando mi è andato in pezzi il ginocchio.
Lo sguardo di Mario torna a farsi più serio, mentre con la mano che prima gli accarezzava una spalla sale ad accarezzargli anche il collo, e i contorni del viso.
- Fuori sono arrivate notizie frammentarie. – dice a bassa voce, inumidendosi le labbra, - La notizia ha fatto scalpore, ma i giornali dicevano tutti una cosa diversa, e dopo un po’ ho perso traccia di quello che ti stava succedendo.
- Avresti potuto chiamarmi. – sospira Davide, socchiudendo gli occhi.
- Potevo, sì. – annuisce lui, - Ma non volevo. Avrebbe riportato a galla troppe cose, non era passato abbastanza tempo.
- Erano passati sei anni, Mario.
- Non era passato abbastanza tempo, Davide. – ripete lui, calcando maggiormente le parole. Davide schiude le palpebre e torna a guardarlo.
- I medici l’hanno capito subito che non c’era più niente da fare. – racconta, il tono dimesso e spento, - Solo che hanno aspettato di esserne certi al cento per cento prima di dirmelo. Allora il trattamento a base di PFD non era ancora legale, per quanto fosse a un passo dallo sviluppo completo, e io potevo scegliere di farmi riempire il ginocchio di viti e convivere con ossa che si sarebbero ridotte in polvere ciclicamente dandomi il tormento, oppure… be’, ritirarmi.
- …e tu hai scelto di ritirarti. – conclude Mario per lui, guardandolo intensamente. Davide scrolla le spalle.
- Non volevo rischiare di gettare fango su quanto di buono avevo costruito nel corso di tutta la mia carriera. – spiega, - Non sarebbe stato giusto, e non solo per me, ma anche per tutti quelli che mi avevano aiutato a diventare quello che ero. Che sono.
- Avresti potuto diventare capitano. – insiste Mario, accarezzandogli una guancia col pollice seguendo le linee della barba rasata di fresco, - Anche solo per un anno.
- Solo per un anno? – ridacchia Davide, scuotendo il capo, - Io non volevo essere il capitano dell’Inter solo per un anno, Mario. Io volevo esserlo fino a che non mi fossi ritirato, io volevo morire con la consapevolezza di aver giocato l’ultima partita della mia vita con quella maglia addosso, con quella fascia al braccio. Ma non posso spiegartelo adesso, perché questa è la classica cosa che non hai mai capito, l’unica che tu non abbia mai afferrato di me, e se non l’hai compresa allora non la comprenderai mai.
Mario distoglie lo sguardo, abbassando la mano che lo accarezzava ma lasciando che Davide continui a stringere l’altra fra le proprie.
- Mi dispiace. – sussurra sincero. Davide sorride.
- Non dispiacerti. – scuote il capo, - Ci sono cose che semplicemente non sono destinate ad accadere. Tu sei stato felice, no? Non eri destinato a restare. E io sono stato felice, Mario, davvero. Te lo giuro. Per cui non è colpa tua. Non hai niente di cui scusarti.
Mario si morde un labbro. Improvvisamente, le sue dita si chiudono attorno a quelle di Davide, e le stringono teneramente.
- Posso baciarti? – chiede in un fiato. Non sa perché stia chiedendo il permesso quando potrebbe semplicemente chinarsi e prendersi le sue labbra come in passato ha sempre fatto senza che ci fosse bisogno di espliciti permessi di alcun tipo, sente soltanto che deve farlo. Che questa non è una cosa che può decidere da sé, che è una scelta che deve coinvolgere anche Davide. Perciò lo chiede. E lo ripete. – Posso baciarti?
Davide ride, scuote il capo con rassegnazione e si sporge in avanti, appoggiando la propria fronte contro la sua. È così vicino che potrebbe semplicemente spingersi di qualche centimetro verso di lui e baciarlo, ma non può. Non prima di aver ricevuto una risposta.
- No. – è la risposta di Davide. E quindi Mario non può baciarlo affatto. – Devo andare, adesso, sono in ritardo. – dice, allontanandosi da lui, - Giovanni a letto per le nove e mezza massimo, e niente ologiochi se prima non finisce tutti i compiti. – lo avverte con una mezza risata, recuperando la giacca dalla spalliera di una sedia e dirigendosi verso l’uscita.
- Quella roba lo fa impazzire. – commenta Mario divertito. Davide annuisce, strizzandogli un occhio.
- È mio figlio, d’altronde. Noi due sui videogiochi ci facevamo le nottate. – ridacchia, sparendo oltre l’uscio e richiudendosi la porta alle spalle. Mario non ha neanche il tempo di salutarlo.
*
Due letturine con protagonisti uccellini perduti che non riuscivano più a ritrovare la strada di casa – in inglese e in italiano – una cena e mezz’ora di tiri in porta fuori in giardino dopo, Giovanni giace sbadigliante nel proprio lettino con la luce accesa, e Mario sta seduto sul bordo, proprio accanto a lui, sistemandogli le coperte sul petto.
- E poi che hai fatto? – chiede il bambino, gli occhi così piccoli da sembrare solo due linee sottili che brillano a tratti nella luce giallognola dell’abat-jour sul comodino a fianco, - Gliele hai date di santa ragione, vero?
- No che non gliele ho date di santa ragione. – ride Mario, scuotendo il capo, - Ibrahimović era largo il doppio di me, io ero solo un ragazzino. Mi ha rincorso per tutto lo stadio e mi sono dovuto chiudere a chiave in bagno per impedire che a darmele di santa ragione fosse lui!
Giovanni ride, rotolandosi un po’ fra le coperte e scombinandole tutte, così che a Mario tocca sollevarle nuovamente e risistemargliele addosso tenendole dagli orli.
- Era davvero così manesco, da giovane? – chiede curiosamente il bambino, - Ora a guardarlo non sembra, è sempre gentile con me.
- Lo conosci? – chiede Mario, inarcando un sopracciglio, dubbioso. Giovanni annuisce freneticamente, entusiasta.
- Ogni tanto viene qui a pranzo o a cena! Papà borbotta sempre, perché Zlatan lo prende in giro.
- Sì? – ride lui, sporgendosi curiosamente verso Giovanni per incitarlo a continuare.
- Sì! – conferma il bambino, emozionato dall’aver trovato un argomento di discussione che possa interessarlo, - Io non è che capisco cos’è che dicono, in realtà, parlano sempre di cose successe tanti anni fa.
- Ed è molto cambiato, lui? – chiede ancora Mario, il tono che si ammorbidisce, nostalgico.
- Un po’. – annuisce Giovanni, - Ma ha sempre il nasone. – ride divertito, - E gioca ancora a calcio benissimo, una volta l’ho incontrato in Pinetina e mi ha portato sul campo dei grandi, e mi ha detto “stai fermo qui” e mi ha messo fermo davanti a una delle porte piccole per l’allenamento, e poi ha cominciato a prendermi a pallate!
- Ha cominciato a fare cosa?! – sbotta Mario, incredulo, e Giovanni ride.
- Si è messo lontano e ha cominciato a calciare, e segnava sempre, e non mi colpiva mai! E c’era la palla che mi passava sempre accanto e a un certo punto mi è passata a tanto così dall’orecchio, e l’ho sentita fischiare! A te ti è mai successo? È una cosa troppo bella! E io allora ho deciso che volevo diventare un calciatore, perché da grande volevo farla pure io questa cosa di calciare in porta senza prendere neanche una volta il bambino che ci ho messo dentro.
Mario ride divertito, chinandosi a scompigliargli i capelli.
- Saggia scelta. – dice, - Scommetto che sarai un calciatore grandioso. Ibra è il tuo preferito, vero?
- No no. – risponde Giovanni, scuotendo il capo, - Il mio preferito sei tu!
- Ah, sì? – chiede lui, inarcando un sopracciglio, - E cosa ne sai? Non ti ho mai messo in una porta per prenderti a pallate.
Giovanni ride, agitando le gambe sotto il lenzuolo.
- Papà mi ha raccontato tutto di te. – annuisce dopo essersi ripreso dall’accesso di risa, - Ha un’agenda nel suo studio ed è piena piena di foto tue vecchissime e anche più nuove, e poi mi ha fatto vedere un sacco di olotape con un sacco di cose bellissime che hai fatto. Prima capitava che la domenica ci mettevamo in salotto e lui metteva il lettore in mezzo alla stanza e proiettava gli ologrammi a grandezza massima, e tu sembravi proprio lì. – dice con aria sognante. Mario lo guarda e sorride, rimboccandogli un’ultima volta le coperte sotto il mento.
- Adesso dormi. – dice, ravviandogli la frangetta biondiccia sulla fronte, - È già tardi, tuo padre si arrabbierà moltissimo se torna a casa e ti trova ancora sveglio.
- Okay! – risponde il bambino, sistemandosi comodamente sul materasso e tirandosi la coperta fin sopra la testa. Mario spegne la luce e contemporaneamente vede spuntare quella di una torcia da sotto la massa di coperte, e nel silenzio perfetto della stanza cominciano a diffondersi i primi suoni del giochino elettronico portatile che Giovanni accompagna con la propria voce, facendo la telecronaca della partita che sta giocando.
Mario ride silenziosamente, scuote il capo e si allontana, lasciando la porta socchiusa. Passa di fronte alla porta dello studio di Davide, e non prova neanche a fare finta di voler rispettare la sua privacy.
*
- Allora… - comincia Joel, le mani sul volante ed un sorrisino sornione ad increspargli le labbra, - Com’è che sta andando?
- Oddio, no, ti prego. – mugola Davide, rilasciando il capo all’indietro contro il sedile mentre la macchina sfreccia veloce lungo le vie semivuote della notte nel tardo agosto milanese, - Abbiamo passato tutta l’intera serata parlando di qualsiasi cosa non fosse Mario, e proprio all’ultimo rovini tutto?
- Be’, era piuttosto ovvio che te l’avrei chiesto, dai! – ride Joel, - Vedila come una questione pratica, sono finiti gli argomenti di conversazione, a furia di ignorarlo è rimasto solo lui. Dunque, è successo qualcosa fra voi?
Davide sospira, guardando fuori dal finestrino. Il cielo è così ingombro di nubi che non si vede nemmeno la luna, figurarsi qualche stella. Non vede l’ora di essere di nuovo in campagna.
- Mi spieghi perché ci ostiniamo a venire a cena sempre da queste parti? – borbotta soprappensiero, - Ormai ad Appiano e dintorni hanno aperto un sacco di localini simpatici. Io la odio questa città.
- È la tua città, Davide, - gli ricorda Joel, - è la città dei colori che indossi ed è la città del tuo primo stadio.
- Sì, e fortunatamente è una città dalla quale sono anche scappato via. – ritorce lui, lanciandogli un’occhiata quasi infastidita.
- Stai ignorando la mia domanda. – gli fa presente Joel, atono.
- No, è la tua domanda che è del tutto imprecisa. – ribatte Davide, scrollando le spalle. – Mi chiedi se è successo qualcosa… - sospira stancamente, - Definisci qualcosa.
- Aaah, lo sapevo! – ride Joel, battendo divertito i palmi delle mani contro il volante, - È successo! Qualsiasi cosa sia, è successo!
- Ma quanto sei cretino? – ride anche Davide, tirandogli un cazzotto nient’affatto amichevole contro una spalla, - Qualcosa è successo, sì. Niente di davvero significativo, comunque.
- Sento della delusione, nella tua voce. – tira a indovinare Joel, lanciandogli un’occhiata divertita, - Ti vuoi davvero ficcare in questo casino impossibile? – gli chiede, e Davide si arriccia su se stesso, prendendosi la testa fra le mani e mugolando di dolore come in preda alla più fastidiosa delle emicranie.
- Non lo so. – borbotta con tono lagnoso, mentre la macchina, dopo aver brevemente attraversato le vie praticamente sterrate in mezzo ai campi, si ferma a pochi passi dal vialetto di casa sua, - Mario è sempre stato così, lo sai. Lui potrà essere cambiato, ma genera casini anche solo esistendo. Io sono sposato, ho un figlio, non posso— non voglio, però…
- Però quando lo guardi è la fine del mondo. – sorride Joel, guardandolo teneramente e scompigliandogli i capelli. – Dio, sei così palese. Sei rimasto un sedicenne dentro, ma guardati.
- Oh, e piantala! – sbotta lui, rimettendosi dritto e scansando via la sua mano, ma ride divertito, nonostante sia palesemente in imbarazzo. – Non lo so, davvero. – sospira alla fine, curvando le spalle solo per un attimo, come dovesse sostenere un peso troppo grande, prima di voltarsi indietro e recuperare la giacca abbandonata sul sedile posteriore. – Me ne vado a letto, va’. Domani sarà il massacro, José ha organizzato un’amichevole di allenamento fra la prima squadra e la Primavera e mi ha già anticipato che vorrà almeno dieci cambi per parte durante la partita.
- Uuuh. – ride Joel, osservandolo aprire lo sportello e scendere dalla macchina, - Dovrò tenere pronte le incubatrici, i ragazzi avranno bisogno di un trattamento ricostituente di quelli mica male.
- Sissì, senti che tono eroico… “dovrò tenere pronte le incubatrici”… - lo prende in giro Davide, facendo la voce grossa, - Mentre tu terrai pronte le incubatrici e ti rigirerai i pollici fino alle sei del pomeriggio, a me toccherà tenere a bada un mucchio di ragazzi smaniosi di farsi scegliere in prima squadra che entreranno sulle caviglie di chiunque senza capire che rischiano che la Regina di Cuori ordini che venga tagliata loro la testa.
Joel ride ad alta voce, gettando indietro il capo ed asciugandosi una lacrima dall’angolo di un occhio prima di scuotere la testa e guardarlo come guarderebbe un fratellino minore che abbia appena detto qualcosa di estremamente stupido.
- Vedi cosa intendevo? Sei rimasto un sedicenne dentro. – sbuffa appena, tornando a guardare davanti a sé mentre rimette in moto l’automobile, - La Regina di Cuori, ma sentitelo… buonanotte. – lo saluta con un cenno della mano. Davide gli fa una linguaccia, giusto per non smentirlo e sentirsi ridicolo una volta di più ad indulgere in comportamenti così infantili alla sua età, e poi richiude lo sportello, voltandosi per risalire il vialetto e rientrare in casa.
Tutte le luci delle stanze che danno sul prospetto frontale sono spente, il che significa che Giovanni è già a letto e, se è molto fortunato, sarà già a letto anche Mario. Non è proprio sicuro di volerlo affrontare adesso, perché se solo chiude gli occhi davvero non fatica a ritornare adolescente nel sentire ancora il tepore della sua pelle così vicina alla propria.
Attraversa il corridoio in silenzio, camminando a memoria senza sbattere da nessuna parte nonostante il buio pesto che lo avvolge. Tutto in quella casa è stato voluto così com’è espressamente da lui. Forme, dimensioni, posizioni. Riconosce ogni centimetro delle pareti che nemmeno sfiora, perfettamente bilanciato al centro esatto del corridoio, e percepisce ciò che lo circonda come una melodia che parla direttamente alla parte più profonda di lui. Una melodia tranquilla, regolare, priva di imperfezioni.
È per questo che nota subito la porta socchiusa dello studio e il lievissimo raggio di luce che esce dallo spiraglio, illuminando a ventaglio una minuscola porzione del corridoio. Inarca un sopracciglio e, nel momento in cui poggia una mano sulla porta e la spinge verso l’interno, aprendola, sa già chi deve aspettarsi là dentro.
Mario, d’altronde, non sembra stupito di essere stato trovato. È, anzi, così tranquillo che sembra non abbia cercato altro. Appoggiato alla sua scrivania, sfoglia l’agenda che aveva lasciato sul ripiano con attenzione quasi eccessiva, leggendo ogni parola degli stralci di articoli attaccati con lo scotch o trascritti a mano, e sfiora con la punta delle dita ogni foto. Voltando incautamente una pagina, si accorge di un biglietto per una partita che scivola fra le pagine e lo afferra deciso prima che possa cadere a terra. Lo guarda da ogni lato e sorride, e per tutto il tempo Davide resta lì, fermo sulla soglia, sereno come non avrebbe mai immaginato di poter essere, e lo osserva.
- Sei venuto a vedermi per il debutto al Real Madrid. – constata, riponendo il biglietto al suo posto e riprendendo a sfogliare le pagine, ora meno attentamente, - E in generale ci sei sempre stato, anche se eri lontano. Qui sono registrate cose che quasi non ricordo nemmeno io.
- È a questo che servono le agende. – risponde Davide, muovendo un passo in avanti verso l’interno della stanza e chiudendosi la porta alle spalle, - A ricordare le cose.
Mario annuisce.
- Non ho neanche dovuto cercarla davvero. – considera a bassa voce, - Era qui, in bella mostra.
- Non è mai stata pensata per essere segreta. – risponde lui, scrollando le spalle, - È una cosa a cui tengo. Volevo poterla mostrare a Giovanni senza dovergli riempire la testa di segreti.
- Ma avresti potuto farla sparire quando mi sono trasferito qui. – insiste Mario, richiudendola lentamente e posandola sulla scrivania al proprio posto.
- Forse volevo che tu la trovassi. – ipotizza Davide, lo sguardo lontano, perso in un punto vuoto oltre la sua spalla, - O forse ci speravo e basta, non lo so.
Mario resta appoggiato alla scrivania mentre Davide attraversa in pochi passi lo spazio che li separa, mantenendo il contatto fra i loro sguardi.
- Ti sei divertito con Obi? – chiede, ma è evidente nel brivido che gli corre lungo la schiena che qualcosa è cambiato, la consistenza dell’aria che respirano, forse, o il suo sapore.
- Smettila di chiamarlo per cognome. – sorride Davide, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, - Siete stati amici.
- A volte – confessa Mario a mezza voce, - A volte faccio fatica a ricordare cose che risalgono al periodo in cui ho giocato per l’Inter, sai? Tutto si è disintegrato e mescolato e io a volte mi chiedo cosa sia successo in un determinato periodo e cosa in un altro, chi ho conosciuto prima e chi dopo, e questo vale per tutto, Davide, tutto tranne te. – conclude in un fiato. – E ora ti prego, dimmi che posso baciarti, perché giuro che se non lo faccio adesso impazzirò del tutto.
Davide si morde il labbro inferiore, irrigidendo le braccia lungo i fianchi al solo scopo di cercare di trattenersi dall’abbracciarlo di slancio.
- Baciami. – dice ansioso, il respiro già troppo pesante per poter essere sostenuto se non con l’aiuto delle sue labbra a dargliene di nuovo e più leggero, - Baciami, per favore.
Il sollievo di Mario si esprime in un lamento quasi strozzato mentre si lancia in avanti, afferrandolo per le spalle e tirandoselo addosso. Le loro labbra, i loro denti, le loro lingue collidono, e si scambiano un bacio umido, aperto e doloroso. Un bacio che assomiglia a un morso che assomiglia a una carezza che assomiglia ad uno schiaffo in pieno volto. Davide solleva le braccia e lo cinge al collo, sollevandosi un po’ sulle punte per raggiungere la sua altezza e lasciando il proprio corpo strusciarsi contro quello di Mario nel movimento, più in un tentativo di riprendere confidenza con le sue forme che in un invito di tipo sessuale.
Le mani di Mario si appendono ai suoi fianchi magri mentre si allontana nel tentativo di riprendere fiato, e quando Davide gli si schiaccia di nuovo contro quelle stesse mani corrono con naturalezza alla fibbia della sua cintura, e lì si fermano per un secondo, incerte.
- Posso? – chiede.
- Sì. – risponde lui, annuendo deciso. Ha gli occhi chiusi, perciò non può vederlo, ma ricorda ancora qual era la sua espressione in momenti come quello, quanto sembrasse concentrato, come pensasse che maneggiarlo con qualcosa in meno della massima premura possibile fosse criminale o chissà che altro. È certo che, se schiudesse le palpebre e lo guardasse in viso, troverebbe la stessa espressione di allora, perciò sorride mentre la cintura scivola fuori dai passanti dei suoi jeans e poi sul pavimento, producendo un fastidioso tintinnio attutito solo in parte dalla moquette che riveste la quasi totalità della casa.
Mario gli sbottona i jeans e li lascia scivolare giù lungo le sue gambe, e lui ha appena il tempo di scalciarli lontano da sé che si ritrova seduto sulla scrivania, mentre Mario si pressa spasmodicamente fra le sue cosce, cercando la via per il suo corpo con ansia quasi disperata.
- Cristo. – mormora Mario, senza fiato, cercando le sue labbra a casaccio, - Cristo, Dade.
A Davide fa male il cuore al solo sentirsi chiamare così dalla sua voce. Il vortice che si apre nei suoi ricordi ogni volta che ripensa a Mario si spalanca anche stavolta, solo mille volte più violento, improvviso e doloroso del solito. Si aggrappa alle sue spalle perché è certo che se non lo facesse non riuscirebbe a mantenere il contatto con la realtà, e Mario entra dentro di lui poco dopo con un sospiro di sollievo quasi ridicolo nella sua infantile serenità. Si muove lentamente, subito dopo, come se avesse avuto una gran fretta di ritrovarlo ma quella fretta si fosse esaurita immediatamente, sostituita dal desiderio ben più pressante di tenerlo stretto il più a lungo possibile.
Davide si muove in sincronia con il suo corpo, andando incontro alle sue spinte e ritraendosi quando anche lui si allontana, così che ogni colpo che gli viene inferto finisce con l’andare sempre un po’ più a fondo di quanto non fosse andato il precedente, e fa male come una coltellata, ma allo stesso tempo il piacere che lo scuote ogni volta è così intenso da dargli quasi il capogiro.
Stretto fra le sue dita, viene con tanta forza da non riuscire a trattenere il gemito che gli ingombra la gola, e che spinge per uscire al punto che è costretto a pressare le labbra contro il suo collo e mugolargli addosso, perché all’improvviso la camera di Giovanni e più in generale tutta la realtà sembrano troppo vicini per non fare paura. Ora che anche le spinte di Mario si fanno più incostanti, più lente, ora che anche lui sta venendo dentro il suo corpo e gli nasconde il viso fra il collo e il mento, è fin troppo facile riaprire gli occhi e vedere il buio e la casa vuota e la vita di tutti i giorni che non può comprendere l’esistenza di qualcosa che li leghi come li legava un tempo, semplicemente perché questo, la parte più profonda di loro, è rimasto uguale mentre tutto intorno il mondo cambiava, ed è cambiato così tanto che ormai non resta più spazio per ospitarlo, né per contenerlo. Non ha un posto, eppure dal posto che si prende con la forza straripa, tracima gli argini, e Davide si allontana da Mario con forza perché del tutto all’improvviso, senza un perché, si sente mancare l’aria, come gli si stessero riempiendo d’acqua i polmoni.
Mario lo guarda ferito, e per qualche secondo, Davide ne è sicuro, non comprende esattamente ciò che sta succedendo. Poi però torna in sé, e vede di nuovo tutto anche lui. Davide scende dalla scrivania e si risistema frettolosamente i vestiti addosso, osservando Mario fare lo stesso e poi restando immobile, sperando che sia lui a fare la prossima mossa, perché per parte propria non saprebbe nemmeno da dove cominciare.
Lo sguardo di Mario si fa più dolce mentre gli si avvicina, gli appoggia una mano sulla nuca e se lo tira nuovamente contro, baciandolo lievemente sulla fronte e trattenendolo immobile contro le proprie labbra per qualche secondo, secondo di cui Davide approfitta per chiudere gli occhi e rilasciare un respiro tanto profondo da dargli la sensazione di non avere più aria da buttare fuori.
- Buonanotte, Dade. – gli sussurra Mario sulla pelle, prima di lasciarlo andare. Non si volta a guardarlo mentre esce dallo studio, ma Davide non riesce a staccare gli occhi dalla sua schiena che si allontana. È un déjà vu troppo doloroso perché Davide possa sopportarlo senza vacillare, perciò si morde un labbro e, quando la porta dello studio si chiude, silenziosamente si mette a piangere.
*
Mario non ha chiuso occhio tutta la notte, ed il risultato di questa opinabile scelta del suo sistema nervoso è un mal di testa lancinante che lo accompagna per tutta la mattina, da quando mette piede giù dal letto in poi, affiancato ad una sonnolenza che lo rintontisce sbiadendo i contorni della realtà all’interno della quale si sta muovendo.
Prende un caffè, prima di uscire di casa. Lo trova ancora tiepido nella caffettiera. Lo stupisce, in qualche modo, la naturalezza dei propri stessi gesti. Sa dove cercare e trovare le tazzine pulite, sa che il manico non tiene bene e la caffettiera va sollevata con molta attenzione, ha preso l’abitudine di sciacquare la tazzina e riporla al proprio posto dopo averla usata. Sa già che il caffè farà schifo, perché a Davide non è mai piaciuto ma gli ha spiegato che adesso gli serve per svegliarsi completamente e in fretta al mattino, per cui lo prende, sì, ma incredibilmente annacquato, anche perché ogni volta Giovanni insiste a volerne un goccio e lui non potrebbe di certo propinarglielo se fosse fatto in grazia di Dio, forte e nero e denso e così amaro da dargli la pelle d’oca. A Mario invece piace, neanche a dirlo, forte e nero e denso e amaro, ma mentre butta giù la brodaglia quasi trasparente di Davide non ne sente nemmeno il sapore, così come a stento riesce a percepire la sensazione bagnata dell’acqua sul viso quando si lava prima di vestirsi.
In compenso, se solo chiude gli occhi, il profumo di Davide è ancora lì, come il calore della sua pelle, l’odore dei suoi capelli e il suono della sua voce. È tutto lì, concentrato sulla pelle sensibile dei suoi polpastrelli e sulla punta della sua lingua. Quelle legate a ciò che ha fatto con Davide la sera prima sono le uniche sensazioni che sente di essere in grado di provare, al momento.
Sa che è sbagliato, ed è consapevole di comportarsi in modo molto, molto stupido. Vorrebbe prendersi a schiaffi, ma sarebbe troppo stupido perfino per lui. Cerca di dirsi che deve concentrarsi, che ha un lavoro da portare a termine. Si aggrappa a questo pensiero con tutte le proprie forze quando, meno di venti minuti dopo, arriva in Pinetina e la prima cosa che vede è Davide. Sta discutendo serenamente con alcuni collaboratori, ha un’aria così perfettamente concentrata e seria, mentre si accarezza distrattamente il pizzetto e indica una serie di nomi facendo prove di formazione sul display del touchscreen di medie dimensioni che regge per un angolo, che Mario quasi fatica a riconoscerlo.
Davide annuisce, soddisfatto della formazione definitiva, e consegna il touchscreen ad uno dei suoi collaboratori perché cominci a radunare i ragazzi che, fra una mezz’ora, scenderanno in campo da titolari contro la prima squadra. Mario gli fa un cenno, e quando Davide si accorge di lui gli si avvicina, offrendo un sorriso come pegno di pace.
- Preparativi frenetici. – commenta divertito, e Davide sospira stancamente, lasciandosi andare sulla prima panchina disponibile ed aspettando che lui si sia seduto al suo fianco prima di rispondergli.
- José tiene molto a queste partitelle, soprattutto nel pre-stagione. Oggi, poi, è speciale. – sorride appena, - Mi ha lasciato intendere che due o tre ragazzi potrebbero fare il salto in prima squadra, se si mettono abbastanza in mostra.
- Posso immaginare l’emozione. – ride Mario, guardando i ragazzini che indossano una pettorina bianca sulla maglietta celeste e si riscaldano correndo, scattando e saltando qua e là.
- Puoi? Davvero? – lo prende in giro Davide, inarcando un sopracciglio, - Ti sei mai sentito sotto esame, tu? – chiede incredulo.
- Costantemente. – risponde Mario con naturalezza, senza guardarlo, - Immagino che Christos giocherà.
- Non fra i titolari. – nega Davide, scrollando le spalle, - Sa già cosa penso di tutta questa storia. Guarda con che ragazzini gioco oggi, sono tutti diciassettenni, c’è qualche diciottenne fresco di compleanno al massimo. Christos è il più grande. Dovrebbe essersene già andato l’anno scorso. – sospira affranto. Mario gli appoggia una mano su una spalla, cercando di rassicurarlo mentre lancia un’occhiata curiosa attorno al campo per individuare Christos.
- Toh. – ride divertito quando lo trova, - Fra le varie informazioni che mi sono state date, nessuno si è premurato di dirmi che Christos è molto amico del vostro vice-capitano.
Davide segue il suo sguardo e sorride quando i suoi occhi incontrano le figure di Christos ed André vicine sotto un albero. I due parlano del più e del meno, ogni tanto ridono, scherzano, si tirano qualche spallata giocosa. La pelle scura di André contrasta piacevolmente contro quella caramellata di Christos, sensibilmente più chiara, ed il sorriso di Mario si piega un po’ di più quando pensa che il contrasto fra la sua pelle e quella di Davide un tempo era molto simile, e nonostante tutto lo è ancora.
- Sono sempre stati piuttosto amici, sì. – annuisce Davide, la voce soffice, venata di tenerezza, - André s’è preso una cotta spaziale per lui, sai?
- Santo cielo. – sospira Mario, sollevando gli occhi al cielo, - Ma ce n’è uno che si salvi, qua dentro?
Davide ride di gusto, gettando indietro il capo.
- Spiritoso. – lo apostrofa, tirandogli uno schiaffo sulla nuca, - Direi che ogni situazione è particolare e va osservata nel suo contesto, ma tieni presente che con Christos è tutto sempre un po’ più inspiegabile del resto. È qui da così tanto tempo… è parte di tutti noi. Alcuni di noi ci sono caduti perché—
- Alcuni di voi? – lo interrompe Mario, incredulo. L’occhiata che lancia a Davide è sinceramente stupita, ma anche profondamente divertita. Davide risponde infilandogli due dita fra le costole e ridendo mentre lui si piega in preda alle risate e al dolore contemporanei.
- Alcuni di noi, sì. – annuisce continuando a torturarlo finché Mario non implora pietà, - Non io, comunque. Ma devi capire che è una cosa particolare, Mario. Tutti noi abbiamo, credo, cercato di essere dei buoni padri, per lui. Nessuno di noi c’è riuscito, ovviamente, visto che siamo sempre stati genericamente impreparati alla sua persona, ma ci abbiamo provato, ed ognuno di noi ha fallito in modo diverso. Christos è un po’ confuso, riguardo certe cose. Credo che si senta molto amato, in generale, stando qua, e credo che abbia molta paura di allontanarsi da questo posto in cui tutti pendono dalle sue labbra e per lui darebbero un braccio e vogliono solo il meglio per la sua vita. Ma d’altronde, - sospira, - penso che sia così per tutti. Io, però, non posso capirlo, perché non sono mai stato costretto ad andarmene. Forse tu puoi, però.
Mario scrolla le spalle, alzandosi in piedi.
- Il punto è esattamente questo, Dade. – dice, usando senza pensarci lo stesso soprannome che gli è sempre rimasto disegnato sulle labbra, - Io non sono stato costretto ad andarmene. Io sono stato costretto a capire che andarmene sarebbe stata la soluzione migliore, e solo a quel punto ho deciso di andarmene di mia spontanea volontà. – si volta a guardarlo, - Avrei potuto restare, e farmi un altro anno di scazzi e rotture di coglioni partendo da titolare cinque volte in tutto il Campionato, ma ho scelto di andarmene. E così dovrà essere anche per Christos. Noi possiamo solo spiegargli nel dettaglio che alternative ha, poi dev’essere lui a decidere.
- Ma le sa già le alternative che ha. – sospira Davide, scuotendo il capo.
Mario sorride.
- Il fatto che le conosca non vuol dire che le abbia davvero comprese. – conclude, allontanandosi a grandi passi verso la coppia ancora intenta a chiacchierare sotto le fronde dell’albero che li protegge dal sole spaccapietre di agosto, poco più in là. – La palança negra. – dice, sorridendo sereno e porgendo ad André la mano mentre finge di ignorare l’occhiata astiosa di Christos che ha accompagnato i suoi ultimi passi e continua ad accompagnarlo anche ora che è già arrivato, - Ti ho seguito con molta attenzione, dall’estero. Non si fa che parlare della tua Angola, dai Mondiali del duemilaventisei. È incredibile quello che siete riusciti a fare, sarebbe già stato leggendario anche solo arrivare in finale, ma costringere l’Olanda ai rigori e perdere con un solo gol di scarto, be’, che dire. L’Inter è fortunata ad averti.
- Sono stato fortunato io ad avere l’Inter. – sorride André, ricambiando la stretta della sua mano ed ignorando a propria volta Christos che, per protesta, incrocia le braccia sul petto. – Non sarei nemmeno vivo, oggi, se non fosse stato per quello che questa società ha fatto per me quando ero ancora un bambino. La mia gratitudine è immensa.
- Vedo che abbiamo tutti uno o più motivi per essere grati a questa società. – commenta Mario con un sorriso.
- Tu non sei grato. – sbotta Christos, interrompendo il proprio sciopero del silenzio con un fiotto d’acido diretto al centro del suo petto, - Tu sei solo uno stronzo opportunista che non sarebbe mai tornato se non per soldi.
Mario gli lancia un’occhiata severa, prima di voltarsi nuovamente verso André.
- Mi spiace, dovremo rimandare ad un altro momento la nostra conversazione. – dice, continuando a sorridere come se Christos non avesse mai parlato. André si scusa, saluta Christos con un bacio sulla tempia facendosi strada a fatica fra i ricci gonfi e leggeri che gli incorniciano il viso, e poi scompare oltre il cancello, deciso a riprendere il proprio posto in allenamento con la prima squadra. – Per inciso, - dice Mario non appena lo vede sparire oltre la siepe, - il mio stipendio come consulente tecnico qui non giustificherebbe il mio passaggio dallo United all’Inter neanche se fossi stato dichiarato clinicamente incapace di intendere e di volere prima di firmare il contratto.
Christos lo liquida con uno sbuffo contrariato, e prova a sorpassarlo girandogli attorno. Mario si muove lateralmente, piazzandoglisi di fronte e guardandolo dritto negli occhi in segno di sfida.
- Lasciami passare. – dice gelido, stringendo i pugni lungo i fianchi. Mario scuote il capo. – Lasciami passare! – insiste lui, stavolta più ad alta voce.
- Tanto non giocherai. – gli fa presente Mario, sorridendo beffardo. Alle volte, parlando con Christos, ha l’impressione di tornare ragazzino e litigare con lo specchio.
- Lo so già che non parto titolare. – ringhia lui, - Ma Davide mi—
- Il tuo mister – lo corregge Mario, incrociando le braccia sul petto, - non ti farà giocare nemmeno per il secondo tempo, che siano quaranta, dieci o anche solo cinque minuti.
- E questo perché l’hai deciso tu? – ribatte Christos, strafottente, ma il sorriso che gli piega le labbra svanisce in un lampo quando si ritrova a fronteggiare un sorriso identico da parte sua.
- Esattamente. – risponde Mario, - E visto che tenerti lontano dagli allenamenti e dal campo non basta a farti entrare un minimo di sale in zucca, farò quello che avrebbero dovuto fare altri con me quando avevo la tua età e ti toglierò il pallone.
- …che cosa? – balbetta Christos, incerto. Mario sorride ancora.
- Esci dalla Pinetina. Vai da qualche altra parte. Non ti è permesso entrare in questo centro sportivo per tutta la prossima settimana.
- Cos— io ci vivo qua dentro, stronzo di merda! – annaspa il ragazzo, gesticolando animatamente.
- Me ne sbatto le palle. – risponde Mario, sorridendo serafico, - Ora, vuoi che te lo ripeta io o preferisci che chiami mister Mourinho in persona per farti buttare fuori da questo posto a calci in culo? – Christos lo guarda come volesse saltargli alla gola e sbranarlo sul posto. Ringhia sommessamente, come una bestia in gabbia, e Mario sente il prurito più piacevole del mondo scivolargli lungo la schiena e crepitargli sulle mani. Il ragazzino non ha idea della persona contro cui si è messo. – Ti irrita, vero? – ride piano, - Ti irrita da morire che ad ordinarti una cosa del genere debba essere proprio io. Io che con te non c’entro un cazzo, sono arrivato da meno di una settimana e questa squadra che tu ami tanto l’ho mollata senza pensarci quando avevo quasi la tua stessa età. Che ingiustizia. – ride ancora, sottovoce. Le mani di Christos, lungo i suoi fianchi, si aprono e si chiudono a pugno alternativamente, come se solo provando a strangolare l’aria Christos potesse impedirsi di provare a strangolare lui. – Be’ ti insegno qualcosa che pare qui nessuno sia stato in grado di ficcarti in quella testaccia del cazzo: la giustizia non esiste. E ora fuori di qui.
Christos lascia andare un mezzo grido frustrato, muovendo qualche passo verso di lui e calciando con una forza inaudita un pallone lasciato lì per terra, prima di allontanarsi imprecando e continuando a prendere a calci qualsiasi cosa incontri al passaggio.
Mario sospira, rilassando le spalle ed i lineamenti del viso. Un tempo era abituato a tirare sulle labbra sorrisi falsi per lasciare intendere al mondo che stesse andando tutto bene quando in realtà non era affatto così, ma è un’abitudine che ha perso andando via da Milano, quando la gente ha smesso di pretendere, di chiedere, di accerchiare. Di soffocarlo.
Scuote con decisione il capo, per evitare che ricordi che non ha alcuna voglia di rivangare tornino inattesi e indesiderati ad ingombrargli il cervello. Sciogliendo le spalle, si dirige verso la panchina sulla quale è seduto Davide. I Primavera stanno ancora scaldandosi, la prima squadra, accompagnata da Mourinho, è appena arrivata. Davide non lo guarda, nemmeno quando lui si siede al suo fianco.
- L’hai fatta grossa. – lo avverte.
Mario scrolla le spalle.
- Non è la prima né l’ultima volta.
*
Il pomeriggio è già tardo, col sole ancora giallo e splendente ma basso a sfiorare già le punte degli alberi attorno alla Pinetina, quando Mario entra nella sala principale della zona medica. La luce è bassa e per lo più azzurrina, c’è solo qualche lampada bianca sparsa in giro, soprattutto vicino alle scrivanie dei dottori e in qualche punto strategico vicino alle incubatrici, così che i vari addetti possano controllare valori e funzioni vitali degli incubati senza doversi portare dietro una torcia elettrica.
Joel è vicino all’incubatrice di Philippe. Controlla scrupolosamente che tutto sia a posto e poi, sollevando gli occhi, ricambia il sorriso estatico che Philippe stesso gli rivolge, al di là dello spesso vetro che lo protegge, della maschera ad ossigeno che gli fornisce la quota di ossigeno in più che gli permette di respirare e dello straordinario liquido che lo avvolge interamente come un abbraccio.
- L’aria liquida. – commenta Mario, avvicinandosi a lui e spezzando discretamente il silenzio della sala, - È o non è stata la scoperta in assoluto più interessante dell’ultimo secolo?
- Indubbiamente. – annuisce Joel, scorrendo gli elenchi di valori sul proprio datapad, - Curare gli infortuni immediatamente, dimezzare i tempi di recupero, potenziare l’apparato respiratorio e rallentare l’invecchiamento cellulare, e tutto questo è possibile con una sola seduta a settimana, e nemmeno tanto lunga. – sbuffa appena un sorriso, - Personalmente, avrei preferito la UEFA lo legalizzasse qualche anno prima. Considerato che già allora le singole leghe calcistiche nazionali non esistevano più, e che già parecchi centri sportivi in tutta Europa erano pronti a partire ed aspettavano solo il via dei grandi capi, sarebbe bastato un niente per prendere il ginocchio di Davide in tempo ed aiutarlo a guarire.
Mario si volta a guardarlo, sorridendo appena.
- Sembri molto affezionato a lui. – considera, prendendo a passeggiare davanti alle incubatrici ed osservando i ragazzi godersi la terapia, chi più quietamente, con gli occhi chiusi e le braccia molli lungo i fianchi, chi in maniera più rocambolesca, saltellando sul fondo dell’incubatrice o azzardando qualche capriola dopo aver staccato la maschera ad ossigeno.
- Non è che lo sembro, lo sono. – risponde Philippe, affiancandoglisi e bussando ad una delle incubatrici al cui interno si verifica un’attività più turbolenta, - Aleks, vedi di darti una calmata. Sta’ buono e respira. – sbotta, prima di tornare a rivolgersi a Mario con un sospiro rassegnato, - La soluzione di Perfluorodecalin ossigenato funziona meno efficacemente se si agitano, ma molti sono ragazzini e lo vedono solo come un gioco. Educare i piccoli non è facile.
- Questa è decisamente qualcosa che non è cambiata. – ride Mario, appoggiando una mano al vetro di una delle incubatrici ed accarezzandolo lentamente. – Il che ci riporta al motivo per cui sono qui.
- Oh, non volevi parlare di Davide? – ride lui, stringendosi nelle spalle.
- No, Joey. – risponde Mario, facendogli eco, - Quello magari dopo.
- Hai smesso di chiamarmi Obi? – insiste lui, inarcando un sopracciglio.
- Ti ho detto do— aspetta, Davide ti ha detto perfino che ti chiamavo Obi?! – sbotta lui, spalancando gli occhi, e Joel ride di gusto, piegandosi in due ed appoggiandosi alla stessa incubatrice sulla quale Mario stava passando una mano prima. Alen, da dentro, tira un calcetto contro il vetro, guardandoli infastidito, e loro si allontanano.
- Ok, ok, basta idiozie. – ride Mario, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandoselo contro in un abbraccio affettuoso, - Dimmi di Christos.
Joel scrolla le spalle, ricambiando l’abbraccio.
- Sei venuto da quello che lo conosce di meno in assoluto, Mario. – confessa, - Nell’anno in cui Christos è arrivato in Pinetina, io feci il salto definitivo dalla Primavera alla prima squadra e allo stesso tempo decisi di cominciare a frequentare l’università. Fra allenamenti e studio non è che avessi davvero del tempo libero, perciò di lui si occupavano prevalentemente gli altri. Poi all’università ho conosciuto anche quella che ora è diventata mia moglie, per cui—
- Sei sposato? – chiede Mario, sorridendo, - Congratulazioni! Mi fa piacere sapere che la specie umana è ancora provvista di qualche esponente eterosessuale in grado di proseguirla.
Joel ride, scuotendo il capo.
- Sei sempre stato un cretino. – lo apostrofa divertito, - Comunque, - sospira, - mi spiace di non poterti dire molto. So meno di quanto sappiano altri con cui hai già parlato, Christos è arrivato dal nulla, nessuno sa chi sia il padre, quasi tutti crediamo sia José ma lui è tanto ostinato nel ripetere che non è suo figlio quanto lo è nel rifiutarsi di dirci allora chi sia questo padre misterioso. Hai perso tempo, me ne rammarico.
- Ah, io no. – sorride Mario, battendogli una pacca amichevole sulla spalla, - Mi andava di parlare un po’ con te, comunque. E, be’, sento il bisogno di ringraziarti, anche.
Joel inarca un sopracciglio, scettico.
- …vorrei chiederti perché, ma suppongo ci sia di mezzo Davide e non ci tengo minimamente a sentirti fare un discorso del tipo “grazie di esserti preso cura di lui mentre non c’ero”. Cercati un altro Pacey, Dawson.
Ridono entrambi, e continuano a farlo anche mentre le luci si accendono e le incubatrici si svuotano, lasciando i ragazzi all’interno liberi di tornare a poggiare i piedi per terra e respirare normalmente. È in quel momento che una segretaria entra in sala, cercando Mario, per riferirgli che Mourinho vuole parlare con lui nel proprio ufficio.
*
Zlatan irrompe nel suo ufficio sbraitando come una furia, la cravatta che svolazza ovunque e che lui immediatamente allenta e sfila, lanciandola sulla scrivania un attimo prima che entrambi i suoi pugni si abbattano sullo stesso piano, a pochi centimetri dalle mani di José.
- Oggi si è passato il segno! – strilla, chinandosi su di lui in modo da poterlo guardare dritto negli occhi, anche se José non sembra intimorito da questo, come neanche dal suo atteggiamento aggressivo in generale. – Cristo, José, sai che io sono il primo a desiderare che Christos muova il culo e si allontani da qui quanto prima, ma è già da due settimane che il ragazzo è rientrato e si allena a programma ridotto, ora arriva Mario e lo mette fuori squadra! Ma stiamo scherzando?! Vogliamo che giochi altrove o che perda la forma e si distrugga?! Ma Cristo!
L’espressione di José si incrina appena solo quando sente Zlatan dire che Mario ha messo Christos fuori squadra, ma torna immediatamente alla solita impeccabile maschera di controllato interesse già per la fine del suo monologo. Frustrato, Zlatan sbuffa e si lascia ricadere su una delle due poltrone di fronte alla scrivania, incrociando le braccia sul petto e mormorando un “di’ qualcosa!” estremamente risentito.
José sospira, intrecciando le dita ed avvicinando la propria poltrona girevole alla scrivania con un colpo di reni.
- Zlatan, da quanti anni segui Christos? – chiede con rassegnazione evidente nella voce, negli occhi, nei lineamenti del viso.
- Tanti. – risponde Zlatan, piegandosi verso di lui in modo da dare a quella conversazione il tono più intimo che José implicitamente gli ha chiesto avvicinandosi per primo. – Ma il fatto che io gli sia affezionato non può impedirmi di fare correttamente il mio lavoro, e— - ride un po’, - È assurdo che tu mi chieda di comportarmi come se non mi importasse essere scavalcato proprio da lui. L’ultimo arrivato, e sarebbe già abbastanza per farmi saltare i nervi, ma Mario, per giunta. José, sei stato tu a volere che imparassi questo lavoro. Per Christos. Non puoi chiedermi di svolgerlo male, adesso.
- Non te lo sto chiedendo, Zlatan. – scuote il capo lui, - Ti sto chiedendo di fidarti di me, è ben diverso.
- No, José, tu non mi stai chiedendo di fidarmi di te! – sbotta lui, esasperato, - Tu mi stai chiedendo di fidarmi di Mario, e questo è ben diverso!
- Io mi fido di lui. – ribatte José, serio.
- E non riesco a capire perché. – sbuffa Zlatan, tornando ad appoggiarsi contro lo schienale e incrociando le braccia sul petto, - Non ti ha mai dato motivo di farlo.
- Nemmeno tu me ne avevi mai dato. – gli ricorda il portoghese, sistemandosi gli occhiali sul naso.
- È diverso, - insiste Zlatan, - io sono tornato, quando me l’hai chiesto.
- Ed anche lui. – ridacchia José, - Zlatan, smettila. – lo rimbrotta divertito, - So quello che faccio.
- Forse tu sì, ma Mario no di certo. – sospira lui, alzandosi in piedi e recuperando la cravatta, girandosela attorno al collo senza però annodarla. Fa per voltarsi verso la porta e muovere qualche passo per uscire, ma nota subito Mario immobile sulla soglia, una mano sulla maniglia e gli occhi spalancati dalla sorpresa. – Da quanto sei qui? – gli chiede gelido, piantando una mano su un fianco. Mario boccheggia, fa per dire qualcosa, non ci riesce. Zlatan sbuffa. – Fa niente, - dice con un gesto di stizza, attraversando i pochi metri che li separano e uscendo dalla stanza per imboccare il corridoio, - non che m’interessi davvero.
Mario resta immobile senza essere capace di esprimere nemmeno uno dei pensieri che gli affollano la testa. José ha tutto il tempo di alzarsi dalla propria poltrona ed avvicinarglisi circospetto.
- Mario, - lo chiama a bassa voce, - devo parlarti.
Lui si riscuote, abbassando lo sguardo e incontrando i suoi occhi.
- È lui il suo procuratore? – gli chiede. José annuisce. – Perché?
- Perché era adatto. – risponde.
- Come sono adatto io adesso? – domanda ancora, stringendo la presa attorno alla maniglia.
- Esattamente. – annuisce ancora lui.
Al di là delle labbra serrate, Mario digrigna i denti.
- Forse ha fatto un errore di valutazione di troppo. – gli risponde seccamente, prima di voltarsi e inseguire Zlatan lungo il corridoio.
- Aspetta, Mario! – cerca di fermarlo lui, allungando un braccio per afferrarlo e ritrovandosi a stringere solo aria, - Devo parlarti!
- Dopo! – risponde semplicemente lui ad alta voce, prima di sparire dietro un angolo. José sospira e torna nel proprio ufficio, massaggiandosi stancamente le tempie e sperando che dopo non sia troppo tardi.
*

- Smettila di seguirmi. – dice Zlatan, senza degnarlo nemmeno di un’occhiata.
- Non lo farò fino a quando non avrai risposto alle mie domande. – ribatte lui, sicuro.
- Non ne hai posta nemmeno una, ancora. – gli fa notare lo svedese, inarcando un sopracciglio senza smettere di camminare.
- Sto aspettando che tu ti fermi e mi dia modo di cominciare! – sbotta Mario, allargando le braccia in un gesto rassegnato e fermandosi all’improvviso, sperando intimamente che Zlatan lo segua. Zlatan, però, continua a camminare imperterrito, e dopo pochi secondi Mario ha bisogno di corrergli dietro, se non vuole perderlo. – Zlatan. – lo chiama, il respiro un po’ affaticato per la corsa.
- Chiedi. – risponde lui, gelido.
- È figlio tuo? – domanda Mario a bruciapelo. Zlatan si ferma all’improvviso, così inaspettatamente che Mario ha bisogno di un paio di secondi buoni prima che il suo corpo comprenda che è successo e si decida a fermarsi. Si volta a guardarlo, e Zlatan lo sta fissando di rimando, gli occhi spalancati.
- Ma come ti salta in mente? – ritorce allucinato, - No che non è figlio mio! Mi spieghi come dovrebbe essere arrivato qui mentre io ero in Spagna?
- Cosa vuoi che ne sappia?! – sbuffa lui, allargando nuovamente le braccia ai lati del corpo, - C’è una qualsiasi cosa che abbia senso, in questa storia? Puoi biasimarmi se ormai non do più niente per scontato?
- Senti, Mario, - riprende Zlatan con un sospiro, ricominciando a camminare, - non so che idee ti sia fatto tu, ma ci sono molte più probabilità che il figlio sia tuo che non che sia mio, ed è tutto dire.
- Spiritoso. – quasi ringhia Mario, rimettendosi al suo fianco e riprendendo il passo, - Tu sei il suo procuratore e non sai di chi è figlio?
- Esattamente. – dice Zlatan, e fatica ad ammetterlo, Mario lo capisce, perché i suoi lineamenti si tendono tutti, indurendosi e dandogli l’aria di uno che non vede l’ora che il momento che si ritrova controvoglia costretto a vivere svanisca nel vortice dei momenti suoi simili già trascorsi e fortunatamente dimenticati.
- Come cazzo è possibile che nessuno oltre José sappia di chi questo ragazzo è figlio?! – strilla Mario, esasperato, affiancandosi alla macchina di Zlatan, parcheggiata a pochi passi dal cancello d’ingresso secondario del centro sportivo.
- Cosa vuoi che ti dica? – scrolla le spalle lui, aprendo lo sportello e sedendosi al proprio posto, - È stato bravo a mantenere il segreto.
Mario si affretta a spalancare lo sportello anche dal proprio lato, chinandosi poi sull’automobile sportiva bassissima per cercare gli occhi di Zlatan. Si scambiano uno sguardo lungo, intenso e combattuto, simile a certi sguardi che si lanciavano in allenamento troppi anni prima perché il ricordo possa essere ancora di una qualche importanza. Ciononostante, al termine del confronto, Zlatan sospira e lo invita con un cenno ad entrare, cosa che Mario termina di fare pochi attimi prima che l’auto parta, imboccando la strada per il centro residenziale di Appiano a velocità sostenuta per passare in mezzo al crocchio di giornalisti e curiosi ammassato poco fuori dall’uscita.
- Dove stiamo andando? – chiede timoroso. Zlatan fissa di fronte a sé.
- Da Christos. – risponde lapidario, - Capisco cosa hai avuto intenzione di fare, ma lui non ha nessun posto dove stare oltre alla Pinetina. Sarà andato a rompere i coglioni al suo ragazzo, e lì non ci può stare.
Mario inarca un sopracciglio, incerto.
- E perché no? – chiede, - Dovrebbero essere felici di stare un po’ insieme.
- Lo sarebbero indubbiamente se non fosse che in quella casa non c’è spazio. E naturalmente, se non fossero anni che Adri cerca di rompere con lui.
Mario spalanca gli occhi, prendendosi qualche secondo per cercare di digerire l’informazione e rassegnandosi a boccheggiare sconvolto quando si rende conto che non c’è modo per digerire una cosa simile. Non c’è modo, in generale, per comprendere quanto profondamente Christos abbia messo radici a Milano, con quanta forza si sia imposto su ogni singolo componente di questa società, del nucleo di persone che la compone e di tutti coloro che a queste persone sono in qualche modo collegati. È un bene che i suoi genitori, chiunque siano, stiano ben lontani da Milano, perché hanno sulla coscienza la vita di troppa gente, e da quando è tornato anche la sua.
- Quindi è lui il ragazzo di Christos. L’ex marito di Philippe. – considera con aria assente. Zlatan si concede una mezza smorfia, deviando dalla strada principale per entrare in paese e cominciando a vagare per le vie dei quartieri semivuoti.
- Senti, cerca di non darti troppa pena per quello che è successo mentre non c’eri. – lo avverte, - Anche perché è troppa roba, e per lo più sono cose di cui non hai colpa. Non è che se tu fossi rimasto Christos non sarebbe arrivato comunque, eh. Anzi, ci sarebbe solo stato un problema in più.
Mario annuisce, ma si mordicchia l’interno di una guancia, incapace di smettere di pensare a come sarebbero andate le cose se invece fosse rimasto davvero.
- Cosa sai di lui? – chiede quindi, più per distrarsi dalla piega che i suoi pensieri stanno prendendo che perché speri di cavare un qualche ragno dal buco.
Zlatan, infatti, scrolla le spalle.
- Niente più di quello che ormai saprai a memoria anche tu. – risponde, continuando a tenere d’occhio la strada nonostante la disinvoltura con cui guida lasci intendere che conosce quelle vie perfettamente a memoria, - José s’è presentato già col bambino, come l’avesse autogenerato. E lì è cambiato tutto. Doveva andarsene, ma è rimasto. Ora, io non so se lui cercasse solo una scusa per rimanere e questo bambino gli sia piovuto fra capo e collo regalandogliela, o se restare qui sia stata solo una conseguenza cui s’è dovuto abituare controvoglia, però so che è così che è andata. E per inciso, dei primi anni di Christos io non so niente, perché ho saputo della sua esistenza quando lui ne ha compiuti sei.
Mario annuisce serio, meditando sulla possibilità di tirare fuori il suo pad e prendere qualche appunto. Poi lascia perdere, decidendo di affidarsi alla propria memoria. Per qualche motivo, l’idea di fare con Zlatan come ha già fatto con tutti gli altri lo disturba. Vuole che questa continui ad essere una conversazione normale, per quanto – se ne rende conto – nella situazione contingente la parola normale perda un po’ senso.
- Com’è successo? – chiede, - Come l’hai saputo?
- José mi ha chiamato. – dice Zlatan con un mezzo sorriso, - E mi ha chiesto di fare un sacrificio.
Mario non può impedirsi di sorridere a propria volta.
- È la stessa cosa che ha detto a me, sai? – dice, guardando fuori dal finestrino Appiano sempre uguale, le sue palazzine basse, le villette sporadiche, le piazze semivuote, - Mi ha detto che non voleva propormi un affare, assumendomi, ma chiedermi un sacrificio.
Zlatan ride ad alta voce, i lineamenti molto più rilassati di quanto non fossero qualche minuto prima.
- Non è cambiato molto, in questi ultimi anni. – dice, nella voce una punta di tenerezza, - È pretenzioso e sfacciato adesso come lo era allora.
- Quando ti ha chiamato… tu non dovevi essere poi così vecchio. – riflette Mario, dubbioso, - Quanti anni avevi? Trentacinque, trentasei? Il PFD era appena stato legalizzato, il Barça aveva apparecchiature molto all’avanguardia. Avresti potuto fare almeno altri due, tre anni.
Zlatan annuisce.
- Avevo trentacinque anni, infatti. E sì, avrei potuto. Ma non l’ho fatto. – ride, - Ho lasciato Barcellona e sono tornato a Milano immediatamente.
- Cosa ti ha detto per convincerti? – chiede Mario, curioso, e Zlatan ride ancora.
- Assolutamente niente. – risponde divertito, - Non è neanche stato completamente chiaro, al telefono. Mi ha parlato di questo bambino e mi ha detto che voleva che fossi io il suo procuratore. “Sei abbastanza stronzo per farlo,” mi ha detto.
- E tu hai mollato tutto e sei tornato a Milano solo per questo? – insiste Mario, - Solo perché te l’ha chiesto?
Zlatan ride a bassa voce, scuotendo lievemente il capo con evidente rassegnazione.
- Assurdo, vero? – commenta, - Eppure, sì. È andata esattamente così. Ed è successo così anche con te, no? – gli chiede, lanciandogli un’occhiata complice.
Mario distoglie lo sguardo, un po’ in imbarazzo.
- Io non pensavo di rimanere. – risponde, - Pensavo di rifiutare.
- Certo. – ride Zlatan, ad alta voce, - Chiunque prende un volo transoceanico per andare a rifiutare una proposta di lavoro. Come no. – lo prende in giro, e Mario gli lancia un’occhiataccia solo fintamente offesa. – La verità – riprende Zlatan poco dopo, fermandosi a pochi passi da una bifamiliare con un bel cortile davanti all’interno del quale Mario nota due cani che sonnecchiano in un angolo e un piccolo pollaio sull’angolo opposto, tre o quattro galline che chiocciano nell’aia e i panni stesi in alto a pochi passi dal cancello d’ingresso. – Ma mi ascolti? – rimbrotta Zlatan, ridacchiando divertito. Mario annuisce, tornando a guardarlo ma non riuscendo a smettere di chiedersi per quale motivo si siano fermati. – La verità – ricomincia Zlatan, - è che il punto non è Mourinho e non è nemmeno quello che siamo venuti a fare qua. Sai perché sono convinto che Christos non sia stato altro che il pretesto di cui José aveva bisogno per rimanere? Perché è stato il mio pretesto per tornare. E credo che la stessa cosa valga per te. – annuisce deciso, - Il punto è Milano, Mario. Quello che ci siamo lasciati alle spalle andandocene. Ecco perché siamo tornati. Il motivo reale è questo.
Mario abbassa lo sguardo, incerto.
- Anche se mi dici così, se è vero io non posso saperlo, perché non me ne sono accorto. – risponde, - Io credevo davvero di voler rifiutare.
- E poi non l’hai più fatto. – scrolla le spalle Zlatan, aprendo lo sportello. – Matematico. Ora esci, dai. Siamo arrivati.
Mario solleva lo sguardo, tornando a guardare il cortile.
- Qui? – chiede allibito, indicando il pollaio, i cani, i panni, in generale tutto ciò che vede, - È qui che abita Adri?
Zlatan si mette a ridere, chiudendo la macchina ed avviandosi verso il cancello.
- È qui che abitiamo tutti. – risponde, tirando fuori le chiavi.
Mario non riesce ad impedirsi di lasciare andare un’esclamazione di puro stupore, nel sentire le sue parole.
- Come sarebbe a dire tutti? – domanda sconvolto, seguendo Zlatan oltre il cancello e dentro al cortile ed osservandolo con un certo sgomento mentre scaccia a pedate qualche gallina più stupida delle altre, convinta di potersi frapporre fra lui e il suo obbiettivo.
- Ti presento il Senato. – ride Zlatan, aprendo la porta ed invitandolo ad entrare, - Ma non azzardarti a chiamarlo così davanti ai vecchi, è il modo in cui lo chiamano i ragazzi in Pinetina per prenderli in giro.
- Il Senato? – chiede Mario, sempre più allucinato, seguendolo all’interno dell’edificio e lanciando occhiate curiose intorno per provare a mappare la casa, il cui piano terra è composto da due stanze a vista sull’ingresso, un salotto enorme e la cucina abitabile, ed un corridoio sul quale si aprono altre tre porte.
- Aha. – prosegue Zlatan, posando le chiavi sulla consolle all’ingresso e chiudendo la porta mentre Mario muove qualche passo incerto attorno a sé, giusto per non rimanere impalato in mezzo al niente come uno stoccafisso. – Lo sai com’è quando i figli crescono, no? Le famiglie si rimpiccioliscono e gli amici si avvicinano. – scrolla le spalle, - Javi, Deki e il Cuchu ne hanno solo approfittato per poter avere un posto in cui tenere Christos e prendersi cura di lui quando ha cominciato a farsi un po’ più grande. Poi le cose si sono complicate, naturalmente, prima sono arrivato io, molti anni dopo hanno dovuto trovare un posto anche per Adri, insomma, una serie di terremoti uno dietro all’altro. Che poi, se ci pensi, - continua, come perso nei suoi pensieri, - tutti i terremoti sono stati generati da Christos, in un modo o nell’altro. Tutto il resto è una conseguenza.
- …quindi vivete tutti qui. Tutti assieme. – commenta Mario, deglutendo a fatica, - Ma non è la cosa più opprimente del mondo? Il mio appartamento mi sembra già troppo affollato quando porto a casa qualcuno per la notte.
- Porti a casa qualcuno per la notte? – ridacchia Zlatan, divertito, - Dio, non sei cambiato per niente. – sbuffa scuotendo il capo, - Ci credo che continui a combinare danni, il danno ambulante sei tu. – sospira appena, prima di alzare la voce e rivolgersi genericamente a tutto il resto della casa. – Sono tornato! – annuncia, - E c’è un ospite.
Il primo a mostrarsi, affacciandosi alla porta del salotto con tanto slancio che ha bisogno di puntellarsi con entrambe le mani sugli stipiti per non cadere in avanti, è Javier.
- Mi sembrava di aver sentito una voce conosciuta. – dice, così piano che Mario a stento lo sente, - Speravo di sbagliarmi.
- Javi, bentornato. – lo saluta Zlatan, sfilando la giacca ed appendendola all’appendiabiti, - Andato bene il viaggio di ritorno?
- Quello sì. – sbuffa lui, - Il papà di Paula sta meglio, tra l’altro.
- Ah, ne sono contento. – sorride Zlatan, battendogli una breve pacca sulla spalla prima di sorpassarlo ed entrare in salotto.
- Certo, arrivare a Milano ed essere costretto a correre qui immediatamente perché Christos è stato buttato fuori dalla Pinetina mi ha un po’ scombussolato i programmi. – riprende Javier, accigliato, inseguendolo senza aspettare un attimo. – A chi devo dare la colpa di tutto questo?
Zlatan si lascia andare sul divano con un tonfo, lanciando un’occhiata al televisore acceso e cercando alla cieca il telecomando fra i cuscini con entrambe le mani.
- A lui. – dice, indicando Mario con un cenno del capo.
- E perché l’hai portato qui? – insiste Javier, comportandosi in tutto e per tutto come se Mario non esistesse, mentre lui resta immobile alle sue spalle, ancora all’ingresso, tremendamente a disagio.
- Perché ha bisogno di parlare con qualcuno con cui non ha ancora parlato. – sbuffa Zlatan, chiudendo l’argomento e trovando finalmente il telecomando. – Aaah, eccoti. – esala soddisfatto, prendendo a fare zapping. Solo allora Javier si volta e guarda Mario con la stessa espressione con cui l’ha osservato spesso scrutare gli avversari prima delle partite. Gli occhi di uno che sa chi ha davanti, ha ottenuto tutte le informazioni che gli servivano ed è perfettamente pronto ad affrontarlo.
- Scusami. – gli dice, i tratti del volto che si distendono tutti assieme, sciogliendosi in un sorriso rassicurante che ridà al suo volto l’età che la durezza di poco prima gli aveva tolto, riportandolo quasi a quando di anni ne aveva trentasei e guidava senza paura una squadra di pazzi a vincere quella che per certi versi è rimasta la Champions League più epica di tutti i tempi, - Non è colpa tua. È solo che José ha giustamente aspettato che io fossi via, per farti venire. Che uomo assurdo.
Mario si inumidisce le labbra, guardando Javier con un certo timore reverenziale che suona francamente assurdo, visto che non lo guardava in questo modo neanche quando avrebbe dovuto farlo per contratto.
- Non mi volevi qui? – chiede incerto. Javier sorride ancora e scuote il capo.
- Ma ancora una volta, non è colpa tua. – lo rassicura con una breve stretta di mano, - Purtroppo, la situazione è molto complessa, come immagino già saprai.
- Sì, - ride un po’ Mario, ricambiando la stretta e grattandosi nervosamente la nuca con la mano libera, - il mondo intero non fa che ripetermelo da quando sono arrivato.
- E non hai ancora avuto modo di vederlo coi tuoi stessi occhi? – chiede Javier, facendogli strada verso la cucina proprio di fronte al salotto.
- Per la verità sì. – sospira lui, prendendo posto su uno degli sgabelli attorno al tavolo alto nel mezzo della stanza ed osservando Javier che prepara il caffè meticolosamente, senza sporcare nulla. Ripensa al piano accanto al lavello a casa sua. Non ricorda se l’ha pulito prima di partire. È straniante come la sua permanenza a Milano, per quanto scombussolata e sconvolgente, gli stia dando modo di comprendere a fondo quanto disordinata e priva di qualsiasi criterio sia la propria vita di tutti i giorni a Manchester. – Capitano, non ho la minima idea di dove stia andando a parare questa storia.
Per niente stupito di sentirsi chiamare ancora così proprio da lui, quando nessuno più lo fa ormai da tempo, Javier sorride e continua a preparare il caffè. Altri capitani hanno preso il suo posto dopo di lui, alcuni meno longevi di altri. C’è stato Deki per un anno subito dopo il suo ritiro, poi c’è stato il Cuchu per un po’, Julio per l’ultimo anno all’Inter prima di cedere il passo e tornare in Brasile, poi Philippe, tanto a lungo da superare perfino i suoi record, ed André si appresta a prendere il suo posto l’anno prossimo, col benestare di tutti, e Javier non è più il capitano di nessuno che militi ancora nella formazione dell’Inter, non è il capitano di nessuno dei ragazzi che scendono in campo ogni domenica e nei turni infrasettimanali e durante le competizioni nazionali, europee e mondiali, ma è rimasto il capitano di Mario. Quello che gli hanno insegnato a chiamare così quando aveva sedici anni, lo stampo sul quale ha posizionato tutti gli altri capitani che si sono susseguiti nel corso della sua carriera, l’ombra scura sul muro sopra la quale proiettava le sagome degli altri, per vedere se le assomigliavano, se c’entravano qualcosa, il suo imprinting, il suo primo assaggio reale di cosa possa voler dire prendere sulle spalle una squadra e condurla dove ha bisogno di andare, dove è giusto che vada.
- Dove sta andando a parare quale storia? – chiede bonario, accendendo il fornello e voltandosi a guardarlo, per poi sedersi di fronte a lui. Mario si stringe nelle spalle e si sente molto più piccolo di quanto non si sia mai sentito, anche quando piccolo lo era davvero.
- Tutte. – risponde un po’ abbattuto. – Perché José mi ha voluto qui, cosa sto facendo con Christos e con tutto il resto… non ho avuto neanche il tempo di fermarmi a riflettere su quale fosse effettivamente la cosa di cui si stava parlando, sai?, perché c’era la possibilità di tornare, e il ragazzino indisponente era una sfida troppo allettante, e tutte le cose che ho lasciato qui vent’anni fa sembra che mi stiano chiamando per chiedermi di restare. – sospira, - Ma io che ci faccio qui? Questa non è più la mia vita, qui non è rimasto niente che sia solo mio. Non ho neanche un posto dove stare. – ride un po’.
- Cos’è, dormi sotto un ponte? – gli fa eco Javier, - Ti direi di trasferirti qui, che tanto è stata la frase che ho usato di più nell’ultimo ventennio, ma non abbiamo più stanze libere. Oh, ma abbiamo soppalcato lo sgabuzzino, un paio d’anni fa, se vuoi—
- Mi sta ospitando Davide, grazie. – ride di cuore Mario, sciogliendosi un po’. Javier sorride con affetto sincero, mentre gli appoggia una mano sulla spalla e la stringe calorosamente.
- Ho capito cosa intendi. – gli dice a bassa voce, - È esattamente il motivo per cui ero contrario alla tua presenza qui. Ma per qualche motivo José invece è convinto che tu possa essere la soluzione ideale per Christos, e sia io che tu sappiamo bene che sono rare le volte in cui quell’uomo ha torto.
- Già, perché nessuno sopravvive per raccontarle. – ride Zlatan, entrando in cucina e spegnendo il fornello. – Si stava bruciando. – risponde con un sorriso alle loro domande mute, prima di recuperare qualche tazzina e versare il caffè.
- Senti, - sospira Mario, sorseggiando il proprio con aria incerta e rivolgendosi nuovamente a Javier, - tu lo sai chi è il padre, vero? Se c’è una persona alla quale il mister può averlo detto, quella persona sei tu.
Javier trattiene il respiro solo per un attimo, mentre Mario resta in attesa, e in quell’attimo Zlatan inarca un sopracciglio e gli lancia un’occhiata incerta.
- Tu lo sai. – gli dice a bassa voce. Javier distoglie lo sguardo.
- Non è— - comincia, ma non ha modo di concludere la frase perché la tensione quasi sacrale del momento viene interrotta dal rumore che produce la mano di Christos quando si schianta contro lo stipite della cucina. Indossa solo i jeans e le pantofole, i capelli così arruffati che gli coprono tutta la fronte. Le punte dei ricci un po’ sudate gli accarezzano la nuca e i suoi occhi sono talmente pieni di rabbia che Mario, guardandoli attentamente, riesce già quasi a vederli lucidi di lacrime.
- Tu devi stare lontano da me. – dice il ragazzo, e la sua furia è tale che non riesce a nascondere il tremito che gli scuote la voce, - Devi stare lontano da me e dalla mia famiglia. Io non me ne voglio andare, io non andrò da nessuna parte e tu devi smetterla di ficcare il naso in cose che non ti riguardano! – il suo sguardo si allontana da Mario e si posa su Zlatan e Javier, dall’altro lato del tavolo. – E voi siete due stronzi. – conclude, la delusione che rende pesante il tono di voce, mentre volta loro le spalle e corre fuori. Dalla stanza, dalla casa, dal cortile.
Zlatan espira profondamente, come avesse trattenuto il fiato fino a quel momento, e si passa una mano fra i capelli.
- Era su con Adri, immagino. – sospira, scuotendo il capo. Javier annuisce, voltandosi a guardare Mario.
- Va’ da lui. – dice, indicando le scale per il piano di sopra con un cenno del capo, - Non potrà rispondere alla domanda che sembra più importante per te, perché non sa chi sia il padre, ma risponderà sicuramente a tutte le domande che sono più importanti per Christos. – conclude con un sorriso mesto.
Mario si morde un labbro, annuendo lentamente, e poi, a capo chino, si incammina verso il primo piano.
*
Adriano non si aspetta di vederlo, ma la sua espressione sorpresa è immediatamente mitigata dal sorriso sincero che gli si apre sulle labbra quando gli posa gli occhi addosso.
- Oh-mio-Dio. – dice incredulo, - Oh-mio-Dio! – ride, saltando giù dal letto ed andandogli incontro. Mario fa per stringergli la mano, incapace di trattenere un sorriso di fronte a tanta allegria, ma Adriano non gliene porge alcuna, preferendo di gran lunga avvolgerlo in un abbraccio tanto stretto da risultare quasi soffocante nel momento stesso in cui si avvicina abbastanza da poterselo tirare contro.
- Ehi. – ridacchia Mario, a corto di fiato, - Sei il primo che sembra così felice di vedermi.
- Be’, è abbastanza normale. – ride Adriano, allontanandosi da lui ma continuando a tenergli una mano sulla spalla, come non volesse in alcun modo interrompere il contatto fra i loro corpi, - Immagino che il ricordo che gli altri hanno di te sia piuttosto diverso da quello che ho io. Per me rimarrai sempre il ragazzino idiota che rideva a tirava fuori la lingua contro gli avversari quando si guadagnava una punizione o segnava. Non ho avuto modo di pensare a te come qualcosa di diverso, visto che quando sono tornato in Italia, be’, tu eri già andato via.
- Mi sei mancato. – sorride Mario, stringendolo in un altro abbraccio di propria iniziativa, un abbraccio molto diverso dal precedente, meno irruento ma più caloroso, - Non è che all’Inter non ci fosse nessuno in grado di capirmi, quando sei andato via tu, però ecco, con te mi sentivo molto più a mio agio. Eravamo più… simili.
- Verissimo! – annuisce Adriano, con un’altra risata, - Questo perché sia io che tu siamo sempre stati due casini ambulanti. Tu, però, sei stato più fortunato di me. – annuisce serio, - Figlio di un’altra generazione, una generazione di vincenti. Infatti ti è andata molto meglio.
- Non mi sembri granché infelice, però, nonostante tutto. – commenta Mario con un sorriso divertito, sedendosi sul letto quando Adriano lo invita a farlo, prima di piombare sgraziatamente al suo fianco.
- Perché non lo sono. – scuote il capo il brasiliano, - La mia vita è stata piena e carica di gioie. Se fosse stata del tutto priva di dolori, non sarebbe stata una vita, ti pare?
- Dolori come Philippe? – gli chiede Mario a bruciapelo, rifiutandosi di guardarlo negli occhi perché odia giocare al detective con la gente che l’ha cresciuto, anche se sa di non avere molte alternative a riguardo. Adriano s’interrompe un attimo, perfino il sorriso che ancora piega le sue labbra si fa meno convinto, più dimesso, prima di aprirsi nuovamente, con maggiore convinzione.
- Dritto al punto. – commenta, la voce ancora un po’ incerta, - Perché avrei dovuto aspettarmi qualcosa di diverso, d’altronde?
- Mi dispiace. – borbotta Mario, tornando a guardarlo solo quando l’imbarazzo comincia lentamente a scemare.
- Non scusarti. – lo rassicura Adriano, battendogli una robusta pacca su una spalla, - Immagino che tu non abbia avuto proprio modo di raccapezzarti in questo gran casino, da quando sei qui.
- No, infatti. – annuisce Mario, lasciandosi andare ad un piccolo sorriso, - È per questo che sto cercando di tornare il più indietro possibile, capisci? Cioè, - cerca di spiegarsi, e gesticola, e guarda altrove perché teme di non riuscirci, - so che c’è un passaggio che mi sono perso. C’è un corto circuito da qualche parte e non riesco ad individuarlo. Forse, se riesco a risalire fino al momento in cui ero ancora qui e questo posto per me non aveva segreti, riuscirò anche a… - sospira, - Non lo so. Andare avanti fino all’interruzione, e sistemarla.
Adriano annuisce lentamente, considerando le sue parole. Poi striscia all’indietro sul materasso, appoggiandosi contro la testiera e guardando un punto a caso nel vuoto per raccogliere i pensieri, prima di schiudere le labbra e riprendere a parlare.
- Con Philippe è cominciata molto tempo prima che ci trasferissimo entrambi in Italia. – racconta a bassa voce, perso nella propria memoria, - Era solo un ragazzino, allora, per cui non è che ci fossero state chissà che grande cose. – ridacchia, vagamente imbarazzato, - Però lui era così spontaneo, allegro e, be’, sì, stupido, che insomma, non riuscivo davvero a stargli lontano. È stato il primo essere umano che ho sentito il bisogno di proteggere. Che mi sono sentito in grado di proteggere. – ride un po’, ma è una risata molto più spenta della precedente, - Mi sbagliavo, come mi sono sbagliato spesso quando s’è parlato di relazioni umane, nella mia vita. Christos ne è solo l’ennesima prova, d’altronde.
- Cos’è successo? – si azzarda a chiedere Mario, sfilando le scarpe e sedendosi a gambe incrociate di fronte a lui, sentendosi sempre più bambino man mano che i secondi passano e la sua schiena si curva assumendo una posizione di curiosità infantile che le sue ossa non dovrebbero più nemmeno ricordare come comporre, visto quanto tempo è passato dall’ultima volta che se l’è concessa.
- Fra me e Philippe o fra me e Christos? – chiede Adriano, inarcando un sopracciglio. Mario ride.
- Fra te ed entrambi. – risponde. Adriano ride a propria volta, inspirando brevemente.
- Be’, io e Philippe ci siamo trasferiti, lui a Milano, io a Roma, e ci siamo un po’ persi di vista, ovviamente. E altrettanto ovviamente ci siamo ritrovati quando io mi sono ritirato e sono tornato a Milano. Non chiedermi perché l’ho fatto. – ride, - Non saprei risponderti.
Mario abbassa lo sguardo annuendo lentamente. Lo comprende più di quanto non riesca a dire, più di quanto non riesca perfino ad ammettere.
- E vi siete sposati. – aggiunge, incitandolo a continuare.
- Già. E siamo stati felici a lungo. – conclude lui, annuendo.
Mario si morde un labbro, prima di sollevare nuovamente lo sguardo su di lui, incerto.
- E Christos? – chiede, - Come diavolo— voglio dire, come è riuscito a passarvisi entrambi? Cioè, scusa la brutalità, ma—
Adriano ride ad alta voce, interrompendolo all’improvviso e gettando indietro il capo.
- No, ma è il modo migliore per dirlo. – ammette, - Anche se forse sarebbe più corretto dire che siamo stati noi a passarcelo, non lui a passarcisi. Ma sarebbe solo una questione di forma, la realtà è che Christos… - sospira, - Come te lo spiego? Ha sempre avuto un gran bisogno di sentirsi amato. Sempre. Da chiunque. Ed il fatto che sia sempre stato circondato da persone che per lui avrebbero fatto di tutto l’ha portato a cercare di fare qualunque cosa per, come dire, tenersele strette.
Mario si inumidisce le labbra, gli occhi che brillano appena.
- Da piccolo facevo così anch’io. – ammette, - Con la mia famiglia adottiva, intendo. Nessuno di loro, né i miei genitori né i miei fratelli, hanno mai colto la malizia con cui facevo certe cose, i ricatti morali che imponevo loro per cercare di evitare che mi abbandonassero. Piangevo ogni volta che mi sembrava non mi fossero stati vicini abbastanza, o abbastanza a lungo. Ho fatto in fretta a crescere, quindi questa cosa si è un po’ smorzata, col passare del tempo, ma è un atteggiamento che posso capire.
Adriano annuisce serio, grattandosi pensieroso il mento.
- Il problema è questo qua, di fondo. – cerca di spiegare con la massima chiarezza possibile, - C’è una questione irrisolta, nella vita di Christos, che è la questione dei suoi genitori. Cazzo, deve pure averceli un padre ed una madre. Tu, voglio dire, sei stato adottato, ma sai di avere due genitori naturali, sai chi sono, sai che esistono, da qualche parte, li hai visti, ci hai parlato. Sono presenze che magari hai rifiutato nella tua vita, però li conosci. – Mario annuisce, ed Adriano non aspetta altro per proseguire. – Lui invece no. I suoi genitori potrebbero aver fatto una fine qualsiasi, è come se non fossero mai esistiti, e sente di dovere troppo a Mourinho per costringerlo a dirgli la verità. E la cosa peggiore è che tutti intorno a lui si comportano come se questa questione non fosse poi così importante, cazzo, come se fosse normale per un bambino avere trecentocinquanta padri ed altrettante madri soltanto perché gli unici due che avrebbero dovuto crescerlo non ci sono.
Mario annuisce, un po’ abbattuto. Ha creduto di poter comprendere Christos presumendo di poter comparare le loro situazioni, ma la realtà è che non può affatto. Comparare, né comprendere. C’è una profonda differenza fra la sua infanzia e quella di Christos, e questa differenza è la chiarezza. Lui ha sempre saputo fin troppo bene da dove veniva e dove invece era andato, come e perché. Christos, invece, no.
- Quindi mi stai dicendo che si tratta solo di una banalissima sindrome da abbandono? – sospira, le spalle che tornano dritte nel momento in cui ricorda di avere ancora un lavoro da portare a termine.
- Banalissima? – chiede Adriano, scrollando le spalle, - Se preferisci considerarla banalissima, fai pure. Sarà anche banale, ma ha combinato un casino dietro l’altro. Christos voleva Philippe, e quando se l’è preso si è reso conto di non averlo voluto davvero. O meglio, di averlo voluto, ma non tanto profondamente da accettare di essere il responsabile della fine di un matrimonio. Si è depresso. Parecchio. Ha smesso di mangiare, di allenarsi, di alzarsi dal letto. Eravamo tutti preoccupati perché era ancora in fase di crescita e trascurarsi in questo modo poteva rovinargli la vita, oltre che la carriera. – Mario trattiene il fiato, ed Adriano lo imita per un secondo, prima di ricominciare a parlare. – Philippe non poteva più stargli vicino come un tempo. Fra loro era cambiato tutto e sarebbe stato un disastro. Allora ho cercato di avvicinarmi io, ho cercato— non lo so. Di aiutarlo. E Christos ha voluto me, ed è riuscito a prendermi, ed io ho cercato in tutti i modi, negli anni, di fargli capire che non è giusto così, non è amore, è solo paura, ma lui non ascolta. Non ascolta una parola di ciò che gli dici, mai.
Mario si mette in ginocchio, avvicinandosi quasi a gattoni ed abbracciando Adriano con tanta forza da sentirlo annaspare contro il proprio petto.
- Ha fatto così anche con me. – ammette a bassa voce, cullandolo piano. Adriano ricambia la sua stretta, aggrappandosi alla sua maglia come ad uno scoglio nel mezzo di una tempesta.
- Per te è diverso, Mario. – dice, - Per te, quando si rifiuta di ascoltarti, non si tratta che di un rifiuto. A me spezza il cuore ogni volta. Ogni santa volta.
Mario si morde un labbro, trattenendo il respiro mentre Adriano, silenziosamente, comincia a piangere contro la sua spalla. Non smette per un secondo di stringerlo, e per questo solo molti, molti minuti dopo, Mario riesce ad allontanarsi, salutarlo ed uscire dalla camera. Scende al piano di sotto guardando fisso davanti a sé, come in trance. Non bada ai gradini, imbocca il corridoio ed entra in cucina, parandosi davanti a Zlatan e Javier, ancora intenti a sorseggiare i propri caffè, restando in silenzio fino a quando non sono loro stessi a sollevargli gli occhi addosso. Ed è la voce di Zlatan a costringerlo a parlare, chiedendogli cosa ci faccia lì impalato.
- Riportami in Pinetina. – dice semplicemente, la voce ruvida come fosse disabituato ad usarla, - Devo parlare con José. Immediatamente.
Zlatan potrebbe domandargli perché, ma se lo risparmia. Mario gli è grato, mentre lo osserva posare la tazzina vuota nel lavabo e fargli strada all’esterno della casa, attraverso il cortile e poi in macchina.
- Non te lo dirà mai. – lo avverte lo svedese, intuendo i suoi pensieri. Mario non risponde. Continua a guardare fisso davanti a sé, come se potesse visualizzare il proprio obbiettivo in qualcosa di fisico eppure impalpabile, la linea dell’orizzonte, le punte degli alberi in lontananza, la sagoma sbiadita del centro sportivo nella luce azzurrognola della sera. José e tutte le sue rispose sono lì. Mario può vederlo.
Quando è arrivato ad Appiano, è stato José stesso a fargli giurare che niente sarebbe riuscito a distoglierlo dal suo obbiettivo. E così sarà.
*
- Mi chiedevo se saresti tornato, oggi. – sorride appena José, seduto alla scrivania, gli occhi bassi sulle proprie stesse dita intrecciate sul tavolo. – Avevo bisogno di parlarti e speravo di poterlo fare prima che scoprissi tutte le cose che avrai sicuramente scoperto andando a casa dai ragazzi.
Mario si morde un labbro, cercando di non prestare troppa attenzione a Davide in piedi accanto a José, appoggiato di schiena alla parete e con le braccia incrociate sul petto, ed a Zlatan seduto sulla poltrona accanto a lui.
- Speravo che avremmo potuto parlare a quattr’occhi. – non può evitare di dire, stringendo la presa sui braccioli della propria poltrona. Il sorriso di José si allarga un po’, venato da una sorta di tenerezza paterna che Mario non può fare a meno di trovare in qualche modo rassicurante, per quanto vagamente fuori luogo.
- Arrivati a questo punto, non c’è niente che io debba dire a te che non debba dire anche a loro. – sospira, - Perciò tanto vale farla breve.
- José. – lo interrompe Mario, usando con lui il suo nome di battesimo e la seconda persona per la prima volta in assoluto da quando lo conosce, per la prima volta in tutta la sua vita, mentre Davide e Zlatan, consci di ciò che sta per accadere, tendono tutti i sensi in attesa della risposta all’unica domanda che José si sia ostinato ad ignorare negli ultimi anni. – Ho parlato con Adri. Mi ha detto di quello che è successo a Christos. E mi ha detto perché gli è successo. È ridicolo ostinarsi in questo modo, non possiamo continuare ad ignorare il fulcro del problema. Devi dirmi chi sono i genitori di Christos. Non mi importa dei dati anagrafici o di sapere dove trovarli, devi solo dirmi chi erano, che persone erano, perché altrimenti io non—
- Perché questa questione ti sta così a cuore? – lo interrompe José, guardandolo dritto negli occhi, - Perché vuoi sapere chi sono?
- Per risolvere il problema di Christos. – risponde lui, seccamente. – Perché è il lavoro che mi è stato dato quando sono stato assunto, e voglio portarlo a termine. Perché non voglio essere preso in giro. E perché è giusto così.
- E anche per poter dire a Christos chi sono? – insiste José, duro. Mario si morde l’interno di una guancia.
- Sì, se sarà necessario. Se ciò servirà a spronarlo a partire, lo farò senza dubbio. – annuisce, senza interrompere il contatto coi suoi occhi.
José inspira profondamente, intrecciando le dita davanti agli occhi e chiudendo le palpebre, perso in qualche secondo di riflessione silenziosa. Davide sposta il peso del corpo da un piede all’altro, mordendosi nervosamente un labbro. Zlatan stringe la presa attorno ai braccioli della propria poltrona, picchiettando con un piede sul pavimento lucido e nero.
- E se invece saperlo lo intrappolasse qui? – chiede, - Se vi intrappolasse qui entrambi?
Mario trema.
- Che cosa…? – balbetta. Davide si avvicina di un passo. Zlatan si sporge verso José.
- Christos è tuo figlio. – dice l’uomo, gelido, tornando a guardarlo negli occhi. Mario smette di respirare, anche perché in un solo secondo la consistenza dell’aria si fa troppo densa, e il suo peso specifico troppo elevato. Respirare adesso equivarrebbe a soffocare, e Mario se lo risparmia. Non riesce a staccare gli occhi da Mourinho, anche se vorrebbe, e non riesce a smettere di ascoltarlo, anche se vorrebbe riuscirci anche più di quanto non vorrebbe riuscire a distogliere lo sguardo. – Betty venne a trovarmi a casa un paio di giorni dopo la tua partenza. Disse di non avere più il tuo numero, di non sapere come rintracciarti. Voleva parlartene, ma non aveva avuto il coraggio di farlo fino a quel momento e in tutta sincerità dubito che lo avrebbe trovato nel tempo. – José sospira, sfilando gli occhiali e passandosi due dita sugli occhi, massaggiandoli piano. – Voleva darlo via. Non voleva tenerlo ed avrebbe cercato di darlo via il più silenziosamente possibile. Mi disse che già doversi nascondere per quasi sei mesi le aveva rovinato la vita a sufficienza. Non c’era più nessuno che le offrisse un lavoro. Aveva perso la linea e recuperarla non sarebbe stato semplice. Era così… - sospira ancora, cercando le parole più giuste per descriverla, - arrabbiata. Con se stessa, principalmente. E anche con te, e con il suo bambino. Per questo non avrebbe avuto difficoltà a darlo a qualcun altro. – José solleva nuovamente lo sguardo, incontrando quello di Mario e restando silenzioso per qualche secondo, prima di proseguire. – Io non ci sono riuscito, però. Avevo lasciato andare te, ma lui volevo— non lo so. – ammette, un po’ abbattuto, - Volevo tenerlo. È stata una follia, e non ho avuto tempo di rendermene conto perché man mano che gli anni passavano Christos si faceva sempre più grande, e tutto sempre più normale. Ma non lo era. E quando ho capito cos’era a bloccarlo in questo modo, ho pensato che tu potessi riuscire a liberarlo, in qualche modo. Ma probabilmente mi sbagliavo.
Mario fa per dire qualcosa, Zlatan sembra più veloce di lui perché si sposta in punta alla sedia e batte un pugno violento contro la scrivania di José, ma l’unica voce che si riesca a sentire prima di quella di Christos è quella di Davide che, dalla propria posizione privilegiata in piedi dietro alla scrivania, lo vede prima di tutti, immobile sulla soglia della porta, ed ha il tempo di mormorare un “Dio” strozzato che dà i brividi a tutti. Poi è solo la sua voce, sottile, debole, sperduta come quella di un bambino intimidito di fronte all’enormità dell’edificio scolastico all’entrata del primo giorno delle elementari, e nonostante questo è un suono che deflagra nella mente di tutti i presenti, azzerando le loro capacità di pensiero.
- No. – dice, con una sicurezza impressionante, nonostante la sua voce sia appena udibile, pur nel silenzio caotico di quel momento. Zlatan e Mario si voltano a guardarlo così lentamente che sembra che il solo girare sulla sedia costi loro una fatica immensa. Si aprono come il mar Rosso e questo permette agli sguardi di José e Christos di incrociarsi, ed è guardandolo dritto negli occhi che Christos ripete “no”, a voce più alta, così che l’unico uomo cui vuole far sentire quella parola recepisca il messaggio senza possibilità di errore.
Poi si volta, e il minuto successivo è sparito oltre la porta, lungo il corridoio. Mario sente lo scricchiolio fastidioso delle suole di gomma delle sue scarpe da tennis che strisciano contro il pavimento lucido e liscio, e non si concede il tempo per pensare. Sa che, se si fermasse a riflettere, capirebbe che non è lui quello che deve alzarsi e corrergli dietro, al momento. Dopo, forse, per un chiarimento, per chiedergli scusa, anche se non riesce a immaginare esattamente per cosa. Ma non ora. Non proprio ora.
Ed è proprio questo il motivo per cui spegne il cervello. Non deve inseguire Christos, ma è quello che vuole fare, perciò mormora un “Davide” che sa di implorazione d’aiuto e si alza in piedi con uno scatto, correndogli dietro. Davide gli è accanto già prima che sia riuscito ad uscire.
Anche José si alza, visibilmente più lentamente degli altri due, schiacciato da troppi pesi per poterli contare, e per la prima volta anche dall’età. Gli cadono addosso gli anni uno ad uno, lo confondono e lo rattristano e lo riempiono di tante altre emozioni e sensazioni troppo vivide per poter essere sostenute su due gambe, motivo per cui appoggia entrambe le mani sulla scrivania e la usa per sostenersi mentre le gira intorno, ben deciso a seguire Christos a propria volta.
Zlatan si alza in piedi e lo afferra per un polso, tanto repentinamente che José si sente quasi cadere all’indietro. Quando si volta a guardarlo, nei suoi occhi legge troppa confusione e troppo dolore. Stringe forte le labbra e si gira, fronteggiandolo e reggendo il suo sguardo per qualche secondo prima di rassegnarsi a chinare il capo e fissare il pavimento. È la prima volta, la prima volta nella sua intera vita che si sente in colpa.
- …avresti dovuto dirmelo. – dice Zlatan, la furia trattenuta nella sua voce è così palese che José prova quasi fastidio nel percepire quanto lui si senta in dovere di moderarsi per non dargli troppo addosso. Che sia a causa dell’età o di chissà che altro motivo non gli interessa, vorrebbe avere la forza di tornare a guardarlo negli occhi e dirgli chiaro e tondo che può urlargli addosso quanto gli pare, come ha sempre fatto in passato, e che nulla di quello che potrà dire lo scalfirà, o riuscirà a sfiorarlo. Il punto è che sa che sarebbe una menzogna, e non può aggiungere al carico anche questa.
- Lo so. – risponde sommessamente, continuando a fissare per terra, - Non ci sono mai riuscito.
- La mia intera vita, José… - continua Zlatan, come non l’avesse nemmeno sentito, - La mia intera vita è così com’è oggi perché tu mi hai chiesto una cosa ed io ho risposto di sì. E ora—
- Non è cambiato niente, Zlatan. – prova a dire, - Te l’avrei chiesto comunque, anche se ti avessi detto che era figlio di Mario, io—
- Ma io l’avrei saputo! – tuona Zlatan, stringendo la presa sul suo polso per un attimo, prima di lasciarlo andare con delicatezza quasi forzata. – Non mi hai mai detto niente, e la cosa più assurda, la cosa più stupida, è che per me è andata bene così, fino ad adesso.
José si morde l’interno di una guancia, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, a disagio. Si inumidisce le labbra e si schiarisce la voce, prima di parlare, perché ciò che ha da dire adesso è più difficile di tutto quello che ha dovuto dire nel corso della sua intera esistenza, e di cose difficili ne ha dette, tante, e a parecchie persone.
- Forse… - azzarda, sollevando lo sguardo per cercare i suoi occhi, - dovresti chiederti perché.
Zlatan deglutisce a vuoto un paio di volte, restando immobile nei pressi della scrivania. José osserva il suo corpo rigido, come si stesse volutamente impedendo di muoversi. Poi si scioglie, poco a poco, è come se il sangue piano piano riprendesse a scorrere attraverso le sue vene. Il suo viso riprende colore e si avvicina a José di un passo, poi di un altro, e quando solleva un braccio e gli accarezza una guancia José trattiene il respiro, terrorizzato e ad un passo dall’esplodere per l’emozione.
- …sarebbe stupido chiedersi qualcosa di cui conosco già la risposta. – conclude, abbassando ancora il braccio. José riprende a respirare e sul volto di entrambi nasce un sorriso.
*
- Christos! – lo chiama ad alta voce, ma Christos non si ferma. È naturale che non lo faccia, Mario si dà dell’idiota da solo per averci sperato, per aver sprecato chiamandolo fiato che avrebbe potuto utilizzare per correre più veloce, per cercare di stargli dietro. Davide gli è due passi dietro, così composto che a Mario viene quasi da ridere, soprattutto visto che lui ha un fiatone tale che se non si conoscesse si scambierebbe per uno che ha smesso di tenere il passo degli allenamenti già da almeno vent’anni. Mario gli lancia un’occhiata subito dopo essere uscito dal centro sportivo, e Davide gli ricambia lo sguardo come a dirgli che lui è lì, non deve preoccuparsi di chi lo sta seguendo, che badi solo a chi si ritrova a dovere inseguire a propria volta, ma anche che quella, comunque, è la sua lotta, e lui potrà anche aiutarlo, ma non potrà mai combattere al posto suo.
Mario torna a guardare di fronte a sé. Christos scavalca una recinzione e oltrepassa un nugolo di giornalisti assiepati nei pressi, per gettarsi come una furia in mezzo ai campi poco distanti, e mentre Mario prende distrattamente nota della pioggerellina fresca che gli cade addosso dal cielo grigio chiaro sopra Appiano, si chiede dove abbia sbagliato nella vita. Se sia stato un errore andarsene, se sia stato un errore tornare, se l’errore l’abbia fatto a monte concedendosi a vent’anni quello che poi, per una svariata serie di ragioni, avrebbe deciso di smettere di concedersi nel tempo. Da qualche parte un errore deve esserci stato, perché immaginarsi colpevole dell’aver rovinato la vita a così tante persone è già abbastanza senza dovere aggiungere il carico della consapevolezza che, anche cercando di impedire tutto questo, non sarebbe riuscito ad evitarlo.
Ha bisogno di qualcuno da incolpare. Se non se stesso, chi altri?
- Mario! – lo chiama Davide, e Mario solleva lo sguardo. Christos è più vicino, sta piangendo così forte che lo si sente singhiozzare nonostante il rumore della pioggia sempre più forte, e sta correndo molto più lentamente di quanto non stesse facendo fino a qualche minuto fa, nonostante l’ostinazione gli impedisca di fermarsi e lasciare che l’inevitabile avvenga. Mario lo capisce. Christos sa che prima o poi dovrà fermarsi, che lo prenderanno o se anche non dovessero riuscirci sarà lui a dover tornare a casa, prima o dopo. Sa che questa è una verità che dovrà affrontare, ma non vuole farlo. Mario sa come si sente perché s’è sentito così per vent’anni, già da prima di partire per Manchester. Ora sa che la sensazione di terrore che ha sentito quando è arrivato in Pinetina è la stessa che muove le gambe di Christos, adesso, ed è la stessa che, fosse stato più giovane, avrebbe costretto alla fuga anche lui: la certezza di essere arrivato alla resa dei conti, di avere qualcosa da confessare a quelle pareti, qualcosa da chiarire, qualcosa per cui scusarsi.
Scatta in avanti con l’ultimo respiro che gli sia rimasto nei polmoni, sperando di non scivolare sul fango che scricchiola sotto le sue scarpe per niente adatte a correre per campi, e quando riesce a sentire solida e fisica la spalla fradicia di Christos sotto le dita non può impedirsi di sorridere, anche se nel movimento si sbilancia e nell’aggrapparsi a lui finisce per trascinare entrambi a terra, facendosi male e, probabilmente, facendone anche a lui.
- Lasciami stare. – piange Christos, le mani sul viso e le lacrime che scorrono lungo le guance arrossate per lo sforzo, mentre i capelli, resi pesanti dalla pioggia, gli si afflosciano lungo il collo e la nuca, - Dio, perché proprio tu? Fra tutti quelli che potevano essere… Lasciami stare, vaffanculo, tornatene da dove sei venuto, lasciami stare
Mario cerca di riprendere fiato, appoggiandosi per terra mentre i vestiti gli si inzuppano d’acqua e fango, e quando Davide lo raggiunge e si china al suo fianco per chiedere ad entrambi come stiano non gli lascia nemmeno il tempo di aprire bocca.
- Io non sono tuo padre. – dice seccamente, e Christos abbassa le mani e solleva lo sguardo, trovando i suoi occhi. – Io non sono tuo padre. – ripete Mario con un sorriso più dolce. – Sai chi è Thomas Barwuah? – gli chiede. Christos scuote il capo. – È un uomo che ho conosciuto e ha vissuto un po’ fra Palermo e Brescia fino a settant’anni. È un uomo che ogni tanto parlava di me per portare a sua moglie e ai suoi due figli qualche soldo in più. È un uomo che ho odiato e che ho imparato a perdonare con la consapevolezza che è arrivata col tempo che per me lui non è stato nulla, non è stato in grado di farmi male. Thomas Barwuah è stato tutte queste cose, ma non è mai stato mio padre. E io non sono tuo padre. Non sono tuo padre, Christos. – conclude sorridendo con maggiore convinzione.
- …e chi è tuo padre? – chiede Christos, abbassando lo sguardo. La sua voce è debole, fioca come una fiammella persa in mezzo al temporale che si sta abbattendo sul campo e su di loro in quello stesso istante. – Tu lo sai? Perché io no. Io non lo so.
- Sì che lo sai. – sorride ancora Mario, e si allunga a ravviargli una ciocca di capelli bagnati dietro l’orecchio, scivolando poi con due dita lungo il profilo del suo viso fino a trovare il suo mento, costringendolo a tornare a guardarlo negli occhi. – Mio padre si chiamava Franco. Era un uomo buono. Mi ha sempre voluto bene. Quella del suo funerale è stata l’unica occasione in cui sono tornato in Italia in tutti questi anni.
- Sì, ma io non ce l’ho! – grida Christos, la voce spezzata dal pianto, - Io non ne ho uno. Non ho niente. Non ho niente— come faccio ad andarmene se non ho niente a cui tornare? Se me ne vado perdo tutto. Qui per me non resta nessuno. Perché non ho nessuno.
Mario sorride appena, avvicinandoglisi un po’.
- Mister Mourinho. – comincia ad elencare, - E Davide, e Philippe, e Joey. E Adri, e Zlatan. E il capitano, e il Cuchu, e Deki. E potrei farti altri cinquecento nomi. È tutta la gente che ti ha cresciuto, Christos, sono le tue radici. Sono i tuoi genitori.
Gli occhi di Christos si fanno enormi, così pieni di lacrime che Mario teme di poterli vedere sciogliersi nella pioggia. Ma poi Christos li chiude e il suo respiro si fa più pesante, più calmo, quasi si fosse addormentato. E dopo un attimo esplode in un singhiozzo enorme, come l’avesse trattenuto per tutta la sua vita da quando è venuto al mondo, aspettando il momento giusto per emetterlo. Allungandosi a stringerlo fra le braccia nel fango, una cosa che sa non farà mai più, Mario sa che è proprio così che è andata. Tutto torna al suo posto. Appiano gli piove addosso, Mario sente il suo celo grigio scivolargli goccia dopo goccia sulla pelle, e il suono flebile della pioggia sembra sussurrargli che adesso è libero, adesso può scegliere se andare o restare, ma restare non sarà più una prigione, ed andarsene non sarà più un obbligo.
Christos gli si abbandona lentamente fra le braccia, e Mario si accorge solo dopo qualche minuto che s’è addormentato, esausto. Si volta a cercare gli occhi di Davide, e li trova subito. Rossi e bagnatissimi, lo osservano in un misto di stupore e gioia. La sua mano calda sopra la spalla lo rassicura una volta di più. E quando gli chiede aiuto per tirare su Christos e riportarlo in Pinetina, Davide non si tira indietro, e Mario sa che i loro problemi non sono ancora risolti, ma sono comunque sulla buona strada per esserlo.
*
- Sei sicuro di aver preso tutto? – chiede Zlatan, trascinandosi dietro il proprio trolley ed inarcando un sopracciglio quando nota Christos intento ad amoreggiare senza vergogna con André in un angolo poco distante da loro. – Christos! Ma santo Dio, partiamo fra venti minuti e invece di salutare tutta la gente che è venuta fin qui per dirti arrivederci cosa fai?
- Quello che fa sempre da quando aveva dodici anni? – chiede innocentemente Philippe, chinando appena il capo con aria incuriosita e scatenando immediatamente la risata divertita di Adriano al suo fianco. Zlatan si passa una mano sugli occhi, espirando pesantemente.
- Ma chi me l’ha fatto fare… - si lagna, e chi gliel’ha fatto fare gli sorride spavaldo, riuscendo per un istante ad assomigliare più che mai al se stesso di tanti anni prima che con due parole era stato in grado di riportarlo a Milano senza nemmeno doverlo guardare negli occhi. – Lasciamo perdere. – sbuffa con una punta d’imbarazzo. – Ti chiamo appena arriviamo, così sai che— è andato tutto bene. – conclude. José gli sorride ancora, stavolta più dolcemente, senza aggiungere una parola.
- Christos, è davvero il caso che tu ti muova. – sorride Davide, afferrando il ragazzo per un orecchio e staccandolo di peso dalle labbra di André, che subito ride, intrecciando le dita con le sue e seguendolo quando Christos, una lamentela dopo l’altra, si trascina verso il resto del gruppo, dispensando abbracci a tutti i presenti, fra una rassicurazione di Javier, una battuta di Dejan ed un abbraccio caloroso di Esteban.
- Non sono ancora sicuro di quello che sto facendo. – borbotta fermandosi davanti a José e guardandolo dritto negli occhi, - Ma adesso so che se non va bene ho qualcuno che mi aspetta qui.
José sorride, accarezzandogli una guancia e tirandoselo contro per abbracciarlo stretto.
- Andrà bene. – lo rassicura, - Non può che andare bene.
Christos chiude gli occhi e prova a crederci. Si allontana pochi secondi dopo, cercando Mario con lo sguardo e trovandolo alle spalle di José, quasi defilato, come se lui, con tutto ciò che sta accadendo, non avesse niente a che fare.
- Ehi. – lo chiama con fare acido, - Grazie.
Mario sbuffa una risatina divertita.
- Perché? – chiede inarcando un sopracciglio.
Christos rotea gli occhi, voltandogli le spalle. Non si spreca a rispondergli, e d’altronde a Mario va bene così. Lo osserva attraversare il corridoio fino all’entrata dell’imbarco, seguito a ruota da Zlatan e da tutte le valige che lo svedese è costretto a portare per lui fra un borbottio e l’altro.
- Sai cosa pensavo? – gli chiede Davide, appoggiandosi contro la sua spalla mentre guarda André seguire Christos fin dove gli è possibile, prima di lasciargli la mano e tornare indietro per osservarlo da lontano mentre passa i controlli e imbocca il corridoio che lo porterà all’aereo, - La settimana prossima torna Hera, e sono tre-quattro giorni che Giovanni non fa che chiedermi se possiamo andare in campeggio tutti insieme. Non so da dove gli sia venuta in testa quest’idea, ma—
- Gliel’ho suggerita io. – ride Mario, voltandosi a cercare le sue labbra in un gesto discreto ma inequivocabile. Davide lo guarda, un po’ sorpreso, ma ricambia il bacio prima di ridere e scuotere mestamente il capo.
- Dimmi come si suppone che io possa resistere a un simile attacco combinato. – finge di lamentarsi con un sorriso.
- Non si suppone, perché non puoi. – ride ancora Mario, tirandoselo contro. – Allora? Ci andiamo in campeggio?
Davide si morde un labbro, guardandolo incuriosito.
- Questo vuol dire che resti? – gli chiede a bassa voce.
Mario sfiora le sue dita con le proprie in un gesto quasi casuale.
- Dici che se resto abbiamo qualche speranza? – gli chiede. Davide riflette qualche secondo e poi torna a guardarlo. Sta ancora sorridendo.
- La differenza fra allora ed adesso, è che adesso avremmo qualche speranza anche se te ne andassi di nuovo. – gli risponde.
Mario sorride più apertamente, stringendogli una mano con decisione.
- Allora resto. – conclude. La voce dell’aeroporto, con tutti i suoi piccoli e grandi rumori, il borbottio delle persone, il ticchettio di centinaia di tacchi contro il pavimento in marmo lucido, sembra complimentarsi con lui per la risposta esatta, e spingerlo ad uscire. Mario obbedisce. E nei suoi occhi non c’è più neanche un’ombra di paura.





(1) André è lui, è angolano e le Palanças Negras (Antilopi Nere) sono appunto i calciatori della nazionale angolana.
(2) Grazie a Def per il titolo, per tutto l'aiuto, per il betaggio e per il PFD :*
(3) Grazie alla Kya per il fanmix stupendo e per aver dato quella faccia a Christos ;____; *piange splendore e amore per sempre*
(4) Un bacio speciale ad Ary e Chià. Loro sanno perché. ♥
Genere: Introspettivo.
Pairing: Accenni di Philippe/OMC, ma è una gen, fondamentalmente.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Gen, (accenni) Slash, (raccolta di) Drabble, What If?, OC, Spin-Off.
- "È il cinque giugno duemiladieci quando José Mourinho si presenta in Pinetina di gran corsa."
Note: LOL Dunque. Aprendo questa fic potrebbe capitarvi di sentirvi vagamente disorientati, e questo perché, anche se mi sono premurata di renderla leggibile anche a prescindere, questo non è che uno spin-off di una storia parecchio più lunga e corposa che sto scrivendo per il bigbangitalia e che pertanto non potrete vedere prima di ottobre. *cade* Mi spiace per l'inconveniente, ma le date sono quelle che sono e questo spin-off s'è incastrato troppo bene sia con il prompt famiglia della dodicesima settimana del Challenge Trimestrale @ dietrolequinte sia con i prompt numerici dell'ultimo challenge di it100, e capite, non potevo rimandare il postaggio o avrei perso entrambe le challenge "XD Una donna schiava delle community. *piange*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NOTHING IS WHOLE AND NOTHING IS BROKEN


2010
È il cinque giugno duemiladieci quando José Mourinho si presenta in Pinetina, di gran corsa. Il centro sportivo è un cantiere aperto, ovunque gente che prepara valige per partire alla volta dei Mondiali, e se non lo fanno per i Mondiali lo stanno comunque facendo per andare in vacanza. Davide gira per i corridoi in pigiama, a piedi nudi, lo sguardo perso nel vuoto. Ha Joel alle calcagna che cerca di convincerlo a fare colazione, ma lui non sembra interessato. La partenza di Mario per Manchester, così anticipata rispetto a quello che tutti avevano creduto, l’ha scosso più profondamente di quanto lui non voglia lasciare intendere al mondo, e il fatto che fino al giorno prima anche lui fosse dato in partenza per Madrid non ha certo contribuito a rendere l’atmosfera di casa più leggera.
José inspira profondamente stringendo al petto il fagotto che porta con sé e schiarendosi la voce mentre una buona decina di facce si voltano interrogative verso di lui.
- Avvicinatevi. – dice a bassa voce, cercando di risultare rassicurante, - Devo parlarvi.

0
- Quanti anni ha? – chiede Davide, pigiando la guancia del bambino con un dito. José inarca un sopracciglio, dandogli uno schiaffetto sulla mano.
- Non ne ha. – risponde atono, - È troppo piccolo, è nato solo da qualche giorno. E non pigiarlo così.
- È così gommoso… - commenta Davide con aria vagamente sognante, - Ma è figlio suo? Non le assomiglia.
José distoglie lo sguardo. Dejan, intento ad appaiare calzini dal mucchio enorme che ingombra tutto il tavolo della zona giorno, inarca un sopracciglio.
- Non è figlio suo, vero? – dice, col tono di uno che non ha nemmeno bisogno di una risposta.
- Non è figlio mio, no. – conferma José con un sospiro, - L’ho trovato.
- L’ha t— - i calzini gli cadono dalle mani e lui si china a recuperarli, - Che cosa intende dire?
José sospira ancora, gli occhi colmi di inquietudine e incertezza. Poi porge il bambino a Davide, che lo prende tra le braccia con un urletto sorpreso e, nel momento in cui quello comincia a piangere, si mette a saltellare sul posto nel tentativo di calmarlo. Parzialmente, ci riesce. In pochi secondi, il bambino smette di frignare, anche se il labbro inferiore resta tremulo e tutto sporto in avanti, gonfio e umido e minuscolo.
- Si chiama Christos. – dice, - Davide, abbine cura per un po’. Deki. – chiama poi il serbo, cercando i suoi occhi, - recupera Javier ed Esteban. Devo parlarvi.

1
Christos è troppo piccolo perché Davide possa maneggiarlo con disinvoltura. Vorrebbe, ma non riesce. Quando stanno soli, per la maggior parte del tempo lo lascia nella culla, e lui sta seduto lì accanto. Sfoglia una rivista, gioca col DS e tiene il volume attivo anche se lo odia perché a Christos le musichette dei videogiochi piacciono. Quando ci sono i grandi intorno è sempre diverso, perché comunque si occupano sempre loro di tutto – cambiano pannolini, mettono pagliaccetti colorati, fanno bagnetti, spargono colonia baby e volteggiano per la Pinetina tenendo il piccolo fra le braccia, reggendogli la testolina minuscola nel palmo di una mano, con una confidenza che ha dell’incredibile – ma quando Davide è da solo con lui va quasi sempre nel panico. Non riesce a prenderlo in braccio neanche per allattarlo, infatti i grandi si sono dati dei turni per essere sempre presenti all’ora della poppata, e pensarci loro.
Davide non saprebbe dire perché non ci riesca, forse solo perché la prima volta che gli è stato messo fra le braccia nessuno dei due lo voleva veramente, perciò lui ha sclerato pesantemente e Christos pure. Alle volte, quando si china sulla sua culla e lo guarda lì sdraiato, gli occhi bene aperti, enormi e così scuri da non riuscire a distinguere la pupilla dall’iride, ha l’impressione che la risposta sia un’altra, ma sente di non avere ancora materiale sufficiente per comprenderla. Allunga una mano e gli pigia una guancia con l’indice. Christos cerca sempre di metterselo in bocca. Davide non può fare a meno di sorridere.

480
- Sono quattrocentottanta grammi di albumi e—
- Aspetta. – Davide lo interrompe, fissandolo negli occhi con aria allucinata, - In che senso quattrocento grammi di albumi?
Joel inarca un sopracciglio e schiude le labbra. Sembra che abbia la risposta pronta, ma all’ultimo secondo torna a tuffare il naso nel libro di cucina che ha chiesto in prestito alla signora Livia in mensa, scrutando la ricetta da vicino e seguendo le istruzioni con la punta del dito, giusto per non farsi mancare niente.
- Un secondo, - confessa leggendo, - non ne sono sicuro.
- Ma cosa non ne sei sicuro, Joey! – strilla Davide, agitando le braccia, - Eravamo partiti con “ci serviranno sei uova” e ora tu prendi e mi parli di albumi! Ma albumi cosa?! E se non ci bastano?!
- Sì, ma calmati! – strilla in risposta Joel, picchiandolo col libro sopra la testa, - Ma tu stai male, ma che problema hai?!
- Il mio problema è che abbiamo promesso di prepararla noi, la torta! – insiste Davide, massaggiandosi la testa e mettendo su un broncio da manuale, - Fra due ore qui sarà pieno di gente che festeggerà e sarà felice e Christos vorrà spegnere la sua candelina e io voglio che lui lo faccia sulla torta che noi gli abbiamo preparato.
Joel aggrotta appena le sopracciglia e poi si lascia sfuggire un sorrisetto un po’ stupito ma più che altro intenerito, e si piega verso di lui.
- Da quand’è che è diventato così importante, per te? – gli chiede con aria maliziosa, come di uno che ne sa più di quanto non voglia lasciar credere.
Davide si stringe nelle spalle e guarda altrove. Ci mette tutta la propria forza di volontà a risparmiarsi di rispondere sinceramente “da sempre”.

10
- Oh, cielo, ma quanto sei cresciuto? – la signora Milly porta entrambe le mani al viso, guardando Christos con sorpresa e gioia, - Sei un ometto, ormai! Scommetto che zio Deki deve tenerti lontano dal campetto delle bambine, perché sennò si distraggono tutte. – ridacchia.
Christos, intimidito, si nasconde dietro le gambe di José, stringendo con forza in un pugno due lembi della sua giacca. Lui gli appoggia una mano sulla testa, accarezzando i morbidi capelli ricci e scuri.
- Avanti, non fare il tonto. – ride Philippe, capitano già da quattro anni e nonostante questo ancora ansioso di mostrarsi responsabile in ogni occasione, come se, peraltro, gestire un bambino di dieci anni potesse essere una credenziale sufficiente per poter dimostrare di essere maturo abbastanza da gestire sul campo anche una squadra di undici uomini adulti. Non che José abbia poi mai davvero dubitato di lui, in questo senso, e dal momento che la sua prima scelta per la fascia, nel momento in cui finalmente avrebbe dovuto prenderla, non era più disponibile, non se n’è nemmeno mai pentito, ma Philippe ci tiene sempre a ricordargli ogni giorno che la sua scelta è stata quella giusta.
È per questo che prende Christos per mano e lo tira verso di sé, finché esce dal suo nascondiglio.
- Allora. – dice la signora Milly, piegandosi appena sulle ginocchia mentre il marito, al suo fianco, guarda Christos come splendesse di luce propria, - Ce l’hai già la fidanzatina?
Christos abbassa lo sguardo, stringendosi alla gamba di Philippe.
- No. – scuote il capo, - Io da grande sposerò lui. – afferma con convinzione, strattonando la sua camicia.
La signora Milly si rimette dritta, spalancando gli occhi e ridendo di cuore.
- Oh, così piccolo e già con le idee così chiare! – commenta divertita, - Prima o poi, Philippe, dovrai spiegargli che per una persona non è possibile sposarne più di un’altra contemporaneamente.
Philippe si stringe nelle spalle, imbarazzato, allungando la mano sinistra a stringere quella di Adriano – che, al suo fianco, ride di gusto. I loro anulari si sfiorano, le fedi tintinnano. Christos distoglie lo sguardo.

76
Il regalo per il settantaseiesimo compleanno del presidente Moratti lo porta Christos. Ha undici anni e del trofeo che ha fra le mani capisce ben poco, a parte il fatto che è enorme, ha due orecchie giganti e fa piangere tutti quelli che lo guardano. Fatica a tenerlo da solo, e per questo Philippe è al suo fianco: indossa la divisa e la fascia da capitano al braccio, e guarda dritto davanti a sé con occhi colmi di una tale fierezza che anche Christos non può fare a meno di sentirsi importante, anche se – ne è abbastanza certo – per contribuire alla gioia che in questo momento riempie la stanza e i cuori di tutti quelli che ci sono dentro.
Si ferma appena si ferma anche Philippe, ad un solo passo dal presidente, al cui fianco José sorride sereno. Moratti allunga un braccio ed accarezza il fianco della Coppa come un innamorato devoto, i suoi occhi sono dolcissimi e pieni di lacrime.
- Come faccia a sembrarmi sempre più bella, io proprio non lo so. – commenta con voce sognante. José gli appoggia una mano sulla spalla con confidenza.
- È valsa la pena di aspettare a festeggiare, no? – chiede con una mezza risata. Il presidente Moratti non riesce a staccare la mano dal trofeo, dai suoi occhi cerchiati di rughe scendono lacrime copiose che gli rigano le guance. Il cuore di Christos batte con una forza che non avrebbe mai immaginato possibile, e si vede già fra quindici anni al posto di Philippe, con quella stessa maglia, con quella stessa fascia, con quella stessa coppa, di fronte allo stesso presidente, e silenziosamente scoppia a piangere.

59
- Okay, i genitori di Christos sono stati convocati in presidenza a scuola. – annuncia teatralmente Esteban piantando ambo le mani sulla superficie in legno della scrivania nell’ufficio di José. Dietro di lui si apre a ventaglio una delegazione di giocatori ed ex-giocatori dell’Inter da fare invidia ad una partita di beneficenza.
- …cosa ha fatto? – chiede José, sbalordito, accomodandosi meglio contro lo schienale della poltrona girevole.
Esteban sospira, qualcuno dietro di lui ridacchia.
- Ha picchiato un compagno di scuola. – risponde quindi l’argentino, - Gli ha dato del negr
- Ho afferrato. – lo interrompe immediatamente José, rimettendosi dritto e poi alzandosi in piedi. – Dovremo decidere chi… forse è meglio mandare qualcuno di non abbastanza conosciuto, penso che—
- Ci vado io. – dice Davide, spuntando da dietro le spalle di Esteban e guardando José con aria decisa.
- No che non ci vai tu. – sbotta Philippe, affiancandoglisi, - Ci vado io.
- Ma questi ragazzini che prendono ed usurpano il ruolo dei loro diretti superiori? – si lagna Dejan, incrociando le braccia sul petto, - Che impressione volete dare? Ci andrò io.
- Perché naturalmente mandando te daremmo di certo l’impressione giusta. – ride Javier, rivolgendosi poi direttamente a José. – Andrò io, non c’è niente di cui preoccuparsi. Parlerò col preside e risolverò il problema.
L’incontro col preside della Scuola Media associata all’FC Internazionale è il più breve e il più affollato della storia di tutti gli incontri con tutti i presidi di tutte le scuole medie che siano mai state associate ad un club calcistico di tale livello. Si presentano in venticinque. In cinquantanove anni di vita, José Mourinho non ha mai visto una cosa simile, ma mentre Christos gliela racconta entusiasta, saltellando sul posto come il bambino che è, non può fare a meno di sorridere e concedersi un complimento distratto per aver fatto – come al solito – la scelta più giusta.

14
Christos ha quattordici anni quando si ritrova fra le mani il primo trofeo vero della sua vita, il primo che si sia guadagnato allenandosi e sudando e mettendocela tutta. L’allenatore non ha fatto che parlare con José e gli altri per tutto l’anno. “Christos è diverso dai suoi coetanei,” ha detto loro, “ha una grinta che gli altri non hanno. Questi bambini,” ha continuato indicando i suoi giovanissimi nazionali, “questi bambini giocano a calcio. Ma Christos è un calciatore. E lo è anche se è il più piccolo della squadra.”
Quella dei Giovanissimi Nazionali è la sua prima fascia da Capitano. Vuole crescere in fretta per avere quella degli Allievi, della Primavera, ed arrivare all’età di Philippe già pronto per indossare anche quella della prima squadra. Vuole quella fascia, quella maglia, quel posto. Quella coppa, perché ci pensa ancora e non riesce proprio a togliersela dalla testa.
Passa direttamente in Primavera a quindici anni. Per gli Allievi era già troppo.

33
Il giorno in cui il suo matrimonio finisce, Philippe ha trentatré anni. Nel momento esatto in cui le labbra di Christos si poggiano sulle sue, fameliche e implacabili e inevitabili come una condanna di cui si è saputo già troppo tempo fa, e che da qualche anno s’è preso ad aspettare quasi con gioia, Philippe non può fare a meno di pensare per un attimo a Gesù Cristo, alla sua morte in croce, al bacio di Giuda, e poi risolvere in un secondo che credere tanto in Dio e nei dettami della sua religione non serve veramente a un cazzo se, nel momento in cui un quindicenne evidentemente confuso dal mondo si alza sulle punte e ti bacia sulle labbra, tu non sei nemmeno in grado di respingerlo. O di opporti. O di fare qualunque altra cosa che non sia stringertelo contro, accarezzargli la schiena, sentirlo sciogliersi sotto le tue dita, invitarlo a schiudere le labbra picchiettandovi appena sopra con la lingua e poi affondare dentro la sua bocca sentendosi già caldo al punto da esplodere al solo pensiero di affondare dentro di lui fra qualche minuto.
Philippe lo sa, il suo matrimonio è finito. Christos ancora non sa che questo, per lui, non sarà sufficiente.

120
L’esordio ufficiale di Christos in Champions League dura centoventi minuti, ed è la finale del duemilaventisei. André è fuori uso dall’ultima di Campionato ed è dal giorno successivo al suo infortunio che, nonostante abbia giocato in prima squadra solo due volte, quest’anno, Christos implora José di concedergli una chance. José gli concede quella chance, dal primo minuto. “Te lo devo,” gli dice. Christos non capisce perché.
Inter e Chelsea si affrontano per i due tempi regolamentari ed anche per i due tempi supplementari. Centoventi minuti in tutto. Christos non fa che guardare la coppa sul suo piedistallo a bordocampo. Correndo sulla fascia, ogni tanto le passa così vicino che se solo allungasse un braccio la toccherebbe.
Il risultato non si sblocca. Centoventi minuti non bastano. José piange per tutto il tempo, nessuno se ne accorge, e non è per il risultato della partita.
Al centoventesimo minuto, Christos abbandona il campo. È in fondo alla lista dei rigoristi e dubita fortemente che arriverà il suo turno anche per quest’ultima fase della partita. L’Inter perde sei a cinque ai calci di rigore. Tutti ricevono delle medaglie. José indossa la propria solo per il tempo delle foto, poi la sfila e la ripone in tasca. Christos non se ne accorge. Sta fermo a qualche metro dalla coppa. Pensa di sollevare una mano ed accarezzarla, solo per vedere come si percepisce al tatto una cosa simile dopo che hai corso e sputato sangue per centoventi minuti al solo scopo di conquistarla.
Gli addetti UEFA la portano via prima che lui possa anche solo provarci.