Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Davide, Davide/Zlatan, Zlatan/José più varie assortite.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU.
- La Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, si occupa di identificare, mettere in sicurezza, conservare e procedere alla classificazione e allo studio approfondito di tutti quei fenomeni e soggetti paranormali/sovrannaturali che comunemente interagiscono, più o meno evidentemente, con la realtà di tutti i giorni. Davide Santon è un Agente alle dipendenze di José Mourinho, direttore generale del distaccamento milanese della Fondazione, nonché suo padre adottivo. Sta ancora riprendendosi dall'addio forzato al suo partner precedente, Zlatan Ibrahimovic, trasferitosi recentemente al distaccamento parigino, quando suo padre gli affida un novizio, Mario Balotelli. E i due danno inavvertitamente inizio all'Apocalisse.
Note: Il mondo è un posto bello in cui io posso scrivere anche di queste cose non solo senza sentirmi in colpa, ma anche gloriandomene e divertendomi un casino XD Dunque, breve storia di questa storia: l'idea di base, il fulcro su cui tutto si sviluppa, l'idea di scrivere una storia sovrannaturale "a episodi", divisa in stagioni come una serie tv, nasce un paio d'anni fa, quando incappo per caso nella community LJ paranormal25, che decido di utilizzare come una traccia generica, seguendo i vari prompt proposti dalle varie tabelle. Ho subito capito che sarebbe stata una storia sul Soccerdom, perché la tipologia del racconto richiedeva tipo un fottio di personaggi, che solo il Soccerdom poteva darmi con l'adeguata abbondanza, ma per il resto un enorme velo nero è calato sulla storia e sui modi, finché Julie non ha inventato il Genetics Fest. Sono rimasta a brancolare nel buio chiedendomi cosa avrei potuto scrivere a riguardo, visto che avevo già deciso di prendere piume come prompt, quand'ecco che il progetto di questa storia è tornato a bussare alle porte della mia memoria, e giù a cascata tutto l'headcanon che in due anni non mi era mai passato per la testa XD
Dunque, in sostanza, per i primi quattro episodi dovresti essere abbastanza sicuri di poterli ricevere per tempo, uno a settimana, in coincidenza con le scadenze del Genetics Fest. Per i successivi, chissà! XD Mi conoscete, sapete che scrivo a cazzo di cane, ma prometto che cercherò di essere se non puntuale almeno dignitosa con le consegne e i postaggi ♥
Ciò detto, aspettatevi una storia potenzialmente infinita -- Supernatural ci fa una sega. E buon divertimento XD
L'ispirazione per la SCP Foundation viene da qui.
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THE UNSPEAKABLES
1x02 – Braccia strappate all’agricoltura

Le labbra di Zlatan sanno di buono e di nostalgia, e Davide non ci pensa nemmeno a rifiutarsi di schiudere le proprie per accogliere il sapore della sua lingua, i suoi movimenti carezzevoli alla ricerca della sua, così come non esita ad avvicinarsi al suo corpo caldo, aderendo perfettamente a lui, petto contro petto, ventre contro ventre, i fianchi che ondeggiano e si muovono ritmicamente avanti e indietro alla ricerca di un contatto più intimo, di quel tocco in grado di farli rabbrividire entrambi.
Davide ha gli occhi chiusi e tutti gli altri sensi accesi, le sue orecchie accolgono con calore il suono della voce di Zlatan, l’eco confusa dei suoi sospiri, e la sua pelle si riscalda del suo calore, del tocco ruvido ma attento delle sue mani. Le sue labbra inseguono quel sapore che mai così poche settimane avrebbero potuto essere in grado di cancellare dalle fibre intrecciate della sua memoria, e quando la dita di Zlatan gli scivolano addosso, seguendo la linea dritta del suo fianco e poi insinuandosi oltre l’orlo dei pantaloni e degli slip, Davide piega indietro il capo, esponendo il collo alla lunga serie di baci e morsi affamati che non ha richiesto ma che ugualmente sapeva sarebbe arrivata.
“Cazzo,” pensa distrattamente, mentre sente le dita forti di Zlatan chiudersi risolutamente attorno alla sua erezione, “Cazzo, funzioniamo ancora così bene. Ricordi ancora come toccarmi,” e gli sfugge un gemito profondo dalle labbra quando Zlatan passa il pollice sopra la punta arrossata del suo cazzo, “Ed io so ancora come toccare te,” ed il suo cuore canta quando preme un ginocchio fra le gambe di Zlatan e lo strofina insistentemente contro la sua erezione ancora tenuta prigioniera dagli abiti, e lui, in risposta, chiude le labbra sulla pelle sensibile del suo collo e succhia come volesse dissanguarlo, lasciandosi sfuggire un gemito che gli vibra addosso e gli trema dentro come i bassi troppo forti durante un concerto.
La mano di Zlatan si muove più veloce attorno a lui, e Davide ne segue i movimenti col proprio bacino, pensando scopami, scopami, e poi Zlatan se lo rigira fra le braccia, lo preme contro la parete, si preme contro di lui e Davide sente la sua erezione scivolare calda e già bagnata contro di lui, attraverso i vestiti, ed istintivamente piega la schiena, spingendo in fuori il sedere, offrendosi in un invito esplicito anche se senza parole, sapendo d’altronde che Zlatan non ha bisogno di sentirne alcuna.
Sente la forza del suo desiderio crescere e, chiudendo gli occhi con forza, riuscendo a malapena a trattenere i gemiti, pianta entrambe le mani contro la parete e si spinge indietro contro di lui, scivolandogli addosso. Zlatan grugnisce e chiude entrambe le mani attorno alla fibbia della sua cintura, sciogliendola e poi spingendo i suoi pantaloni giù lungo i suoi fianchi. Si afflosciano attorno alle sue caviglie, atterrando sul pavimento con un discreto rumore metallico, e sono subito pelle contro pelle, calore contro calore, il loro desiderio si mischia e si confonde e Davide non può più solo pensarlo, deve per forza schiudere le labbra, piegare indietro il capo, cercare alla cieca la bocca di Zlatan per un bacio umido e confuso e mugolargli addosso, “scopami, Dio, ti prego, scopami.”
E Zlatan gli si avvicina, l’erezione che scivola fra le sue natiche, stuzzicandolo, le labbra che percorrono a memoria la curva del suo collo, ricoprendola di baci umidi. Davide trema e si protende verso di lui, e Zlatan gli sorride addosso, e poi gli parla, e la sua voce è distante, ma preoccupata. “Il diavolo canta,” gli sussurra all’orecchio, “Tiene a battesimo il suo primogenito.”
E poi Davide apre gli occhi e il sole entra di prepotenza attraverso la serranda che qualcuno ha sollevato mentre lui dormiva, annegando la stanza in una luce biancastra densa di pulviscolo e calda come l’inferno, accompagnata dal familiare e spiacevole odore di smog del traffico milanese, così attaccato alle molecole d’aria da far pensare che anche fermando ogni singola autovettura nel raggio di chilometri per mesi non si riuscirebbe a depurare l’aria in alcun modo.
Geme infastidito, nascondendo gli occhi dietro la mano e poi schiudendo appena le dita per continuare a schermarsi dalla luce mentre si guarda intorno. Si sente appiccicoso e frustrato. Il suo corpo condivide la sensazione appiccicaticcia e bagnata, ma non la frustrazione, almeno a giudicare dall’orgasmo che gli cola giù per la coscia, abbondante nonostante buona parte sia trattenuta dal tessuto dei boxer.
Disgustoso.
- Allora? – dice qualcuno alla sua sinistra. Sulle prime, fatica perfino a riconoscere quella voce profonda, dall’accento pesantissimo e dalle note intrise di ironia cattiva, - Ti è piaciuto?
Scatta a sedere e si volta a guardare Mario. Lo trova seduto sulla sponda del proprio letto, appoggiato indietro sulle mani aperte, un sorriso sarcastico a piegargli le labbra piene.
- A te è piaciuto lo spettacolo? – domanda di rimando, scalciando via la coperta ed alzandosi in piedi. La macchia all’altezza del cavallo dei boxer è evidente, ma a questo punto, sapendo che Mario lo sta spiando chissà da quanto, non ha più niente di cui vergognarsi.
- Ho chiesto prima io. – ghigna Mario, restando seduto, perfettamente a proprio agio. Dividono la stanza e lavorano insieme ormai da una settimana piena, ma Davide non è ancora riuscito a sopire l’istinto di prenderlo a cazzotti sul naso che gli rivolta lo stomaco ogni mattina che si sveglia e lo vede sdraiato o seduto su quel letto. Mentre gli lancia un’occhiata infastidita, sente in bocca il retrogusto amarognolo degli antibiotici che il dottor Combi gli ha prescritto per la profilassi preventiva, ed al pensiero di doverne prendere ancora oggi, anche se per l’ultima volta, gli sale la nausea. Non ha idea di come si suppone questo rapporto debba funzionare. Lui ha l’impressione che non riuscirà mai ad abituarcisi – ha l’impressione di non voler nemmeno provarci.
- La risposta è che non sono cazzi tuoi. – risponde acido, voltandogli le spalle e dirigendosi verso il bagno senza più voltarsi indietro.
- Figurati. – ride Mario, - Per quello che mi frega. – poi si interrompe per qualche secondo, giusto il tempo di convincere Davide che, almeno per quella mattina, non sarà più costretto ad ascoltare il fastidioso suono della sua voce. E poi ovviamente parla ancora. – Chi è Zlatan? – domanda con leggerezza solo apparente. In realtà le parole gli pesano sulla lingua, e Davide può sentire che ne è perfettamente consapevole.
Si irrigidisce d’improvviso, una mano già sulla maniglia della porta. Neanche si volta a guardarlo.
- Perché vuoi saperlo? – domanda piano.
Mario scrolla le spalle.
- Te ne ho sentito parlare con Mourinho. – risponde, - E poi l’hai nominato prima. Mentre sognavi, o quel che era.
Davide non può impedire al sangue di risalirgli al viso, colorandogli le guance di imbarazzo. Stringe le dita attorno alla maniglia e poi apre la porta di scatto.
- Neanche questi sono cazzi tuoi. – conclude, richiudendosela alle spalle con un tonfo sordo.
*
Sta ripensando al sogno, ed alle parole di Zlatan, quando José finalmente si decide a riceverli nel proprio ufficio un paio d’ore dopo. Ha stampata in faccia la solita aria ilare, sembra che nulla riesca mai davvero a preoccuparlo, o a scuoterlo. Un’altra delle sue caratteristiche con cui Davide non è mai riuscito a venire a patti. Ha perso il conto delle volte in cui, animato da un’ansia di approvazione così infantile che, ripensandoci, se ne vergogna, ha cercato di impressionarlo in qualche modo, raccontandogli di cos’aveva fatto durante un’uscita o chiedendo a Zlatan di farlo al posto suo o lasciando che fosse il resoconto dei fatti a farlo in sua vece. Da qualche parte, comunque, deve aver smesso, perché non cerca più quel tipo di approvazione da lui da anni. Ma cerca di non pensarci per ignorare il senso di vuoto che gli si allarga nel petto senza che lui possa far niente per fermarlo, inevitabilmente, ogni volta che si sofferma a pensare al fatto.
- Allora, - cinguetta José, indicando loro le sedie di fronte alla sua scrivania senza neanche alzarsi per accoglierli, tutto preso, al solito, dal mezzo trilione di documenti sui quali gli tocca apporre una sigla perché vengano considerati ufficiali, - Com’è andata la settimana di vacanza?
Davide inarca un sopracciglio.
- Credevo che la definizione di vacanza fosse “periodo di libertà trascorso occupandosi dei fattacci propri in un luogo rilassante scelto liberamente”, non “settimana di reclusione in laboratori, camere iperbariche ed uffici di terapisti per prevenire l’insorgere di malattie sconosciute che si potrebbe tranquillamente non aver nemmeno preso”. – precisa.
- Dade, Dade. – José sospira, scuotendo il capo, - Qualcuno dovrebbe farti una lezioncina approfondita sui tempi comici. È raro che una battuta faccia ridere quando solo per dirla ti servono cinque minuti del prezioso tempo altrui.
- E questo cosa vorrebbe dire? – ringhia Davide, fissandolo infastidito.
- Vuol dire stai zitto. – taglia corto Mario, sospirando pesantemente e rilassandosi contro lo schienale della sedia.
José scoppia a ridere, battendo le mani un paio di volte.
- L’esempio perfetto. – annuisce. – Dunque, Mario? Com’è stata la tua prima esperienza di profilassi preventiva?
Nella disapprovazione di Davide che, scottato, incrocia le braccia sul petto e si trincera nel più assoluto silenzio, Mario si prende qualche secondo per riflettere, e poi si sistema meglio sulla sedia, la schiena dritta.
- Fastidioso. – risponde, - E invasivo.
- Immagino. – sorride José.
- Capisco tutto, ma l’esplorazione rettale mi è sembrata eccessiva.
- Non ne dubito. – José annuisce comprensivo, - Ma non sappiamo ancora con assoluta certezza come funzionino i batteri ed i parassiti che infestano i demoni, ed in questi casi, credimi, prevenire è molto meglio che curare. Ci sono virus che possono trasformarti in un enorme verme demoniaco bianco, traslucido, cieco e glabro. Sai come si guarisce da questa malattia? – Mario scuote il capo ed il sorriso di José si allarga. – Non si guarisce. – risponde. – Altre osservazioni?
Mario ci pensa su.
- Gli antibiotici mi hanno dato un po’ di acidità di stomaco. – annuisce, - Ed hanno reso Davide irritabile.
- Ehi! – prova ad interromperlo Davide, ma fa prima la risata tonante di José.
- Quello non era un effetto collaterale, - spiega, - Lui è sempre così. Altro?
- C’erano degli stimolanti, fra le pillole che ci avete dato negli ultimi due giorni? – domanda Mario.
- Mmmh. – José allunga un braccio per recuperare la cartella contenente le cure e le terapie somministrate loro dal dottor Combi, e sfoglia il fascicolo contenuto al suo interno. – Sì, - dice quindi, - Eccitanti, stimolanti, vitamine. Contrastano i calmanti somministrati preventivamente nel corso dei primi quattro giorni. Effetti collaterali spiacevoli?
- Niente di che. – Mario scrolla le spalle, - Solo sogni bagnati.
- Mario! – strilla Davide, stridulo, - Adesso basta!
José ride un’altra volta, divertito.
- Bene. – annuisce, - Queste sono le procedure alle quali è obbligatorio sottoporsi in caso di contatto ravvicinato con un SCP di qualunque tipo. Sono variegate, fastidiose ed invasive, ma necessarie. E rappresentano anche un deterrente particolarmente efficace. Provate una volta, hai tutto l’interesse a non doverle provare più.
Mario annuisce.
- È vero, signore.
- Le nostre pistole. – sbotta Davide a quel punto, tendendo una mano. È stufo di quel dialogo, vuole solo recuperare la propria arma, il tesserino e la libertà di uscire da quell’ufficio del cazzo, nonché il permesso e la possibilità di non rivedere suo padre per qualche giorno. Inoltre, per quanto lo infastidiscano Mario ed i suoi atteggiamenti da primo della classe – ingiustificabili, considerata l’ignoranza abissale nella quale galleggiano i neuroni nella sua testa –, non può negare che sia giunto il momento di cominciare l’addestramento di coppia. Per non parlare dell’addestramento individuale teorico che dovrà ripetere, coprendo quantomeno le basi, dal momento che non si può pensare di rimandarlo per strada completamente all’oscuro rispetto a ciò che lo aspetta nel mondo reale.
Finché hanno dovuto sottoporsi alla profilassi preventiva, ha rimandato. Non avrebbe avuto senso rientrare in camera dopo sette, otto ore di analisi, prove di laboratorio e valutazioni psicologiche e pretendere che Mario riuscisse a seguirlo mentre lui gli spiegava da capo ciò che i suoi genitori non avevano ritenuto opportuno insegnargli nel corso dell’addestramento primario. Inoltre, ancora arrabbiato con lui per essere stato la causa principale del suo fallimento, non aveva proprio alcuna voglia di passare in sua compagnia più dello strettamente necessario.
Ma adesso, in previsione della prossima missione – sperando che la figura di merda rimediata contro Mahalath non sia abbastanza per condannarli ad una vita passata ad inseguire blob di livello S lungo i vicoli più sporchi e bui della città –, la cosa comincia a farsi necessaria. E lui deve cominciare a prendersi le proprie responsabilità.
Suo padre, dall’altro lato della scrivania, lo guarda senza calore.
- Giusto. – annuisce, chinandosi a recuperare le armi dal cassetto. Sono entrambe nuove e sigillate. – Ed i vostri tesserini, naturalmente. – aggiunge, consegnando loro anche quelli. – E, per non farci mancare niente, la vostra nuova assegnazione.
- Cosa?! – Davide gli spalanca addosso un’occhiata a metà fra lo stizzito e l’incredulo, stringendo automaticamente le dita attorno all’impugnatura della pistola, - Papà, non—
- Davide, - lo riprende José, guardandolo severamente, - Se la tua intenzione è quella di metterti a protestare ogni volta che ti affido un nuovo caso, ti prego di non prolungare oltre quest’agonia: rassegna le tue dimissioni e nel giro di ventiquattro ore non avrai più di che preoccuparti.
È la freddezza del tono di voce, ma non soltanto. È la freddezza, unita alla noncuranza. Unita alla leggerezza con la quale José pronuncia quelle parole, guardandolo dritto negli occhi, senza ripensamenti. Sei fuori di qui, e ti sostituisco in venti minuti. Posso fare a meno di te così facilmente, neanche t’immagini. Sto facendo a meno di agenti ben più bravi, di personale ben più efficiente. Cosa credi che m’importi di continuare a trattenerti se non solo non sei in grado di farne una giusta ma oltretutto sembri non volerlo tu per primo?
Davide stringe i pugni attorno alle ginocchia, irrigidendo la schiena ed il collo nella posa in cui gli hanno insegnato a stare seduto di fronte ad un superiore. Abbassa lo sguardo, accennando ad un lievissimo movimento del capo.
- Chiedo scusa, signore. – dice piano.
José annuisce senza aggiungere altro, e lascia scivolare la cartella chiusa sul tavolo.
- Tenendo conto della vostra particolare situazione e del fatto che non avete ancora avuto modo di conoscervi per bene e testarvi adeguatamente sul campo, la missione è di media difficoltà. – spiega. Nell’aprire la cartella e scorrere i documenti all’interno, Davide pensa che, in fondo, anche Mahalath non era che un SCP di categoria E, ma ciò non ha reso certo più agevole per loro il contenimento. Ma non si azzarda a farlo presente a suo padre. – L’SCP di cui vi affido la cattura, possibilmente in vita, è stato avvistato pochi giorni fa in una frazione di Gargnano del Garda. Si tratta di un categoria E, livello 2. La semplicità dell’operazione, unita alla vicinanza del luogo dalla sede militare di Brescia, mi lascia sperare sulla buona riuscita della missione. Non dovreste aver bisogno d’aiuto, ma nel caso qualcosa dovesse andare storto non avete che da lanciare una richiesta d’aiuto tramite l’app installata allo scopo sui vostri cellulari, ed una squadra vi raggiungerà il prima possibile.
Mario annuisce, e Davide cerca invano di non sentirsi ridicolmente irritato dal modo in cui suo padre continua a rimarcare la semplicità della loro missione, neanche fossero bambini per la prima volta alle prese con una cosa simile. Nel mentre, continua a scorrere l’incartamento, per niente dissimile dalle centinaia di altri incartamenti che settimanalmente escono dagli uffici del reparto Classificazione e Identificazione: testimonianze confuse, foto sfocate o così palesemente modificate al computer da rendere ridicola perfino la loro presenza in mezzo agli altri documenti che pure non rappresentano certo il massimo livello di attendibilità, qualche illustrazione d’epoca, descrizioni sommarie. Si sofferma sul paragrafo relativo all’aspetto fisico della creatura e legge una descrizione di poche righe corredata da qualche schizzo identificativo. Figura umanoide alta quasi due metri, dal colore che, a seconda del testimone, varia dal grigio al marroncino, grandi occhi rossi catarifrangenti. Davide inarca un sopracciglio e rilegge. Figura umanoide. Due metri circa. Occhi rossi catarifrangenti. Prosegue nella lettura. “Ali”.
- Non sei serio. – dice, sollevando gli occhi dal foglio e piantandoli dritti in faccia a suo padre, - Non puoi esserlo.
José gli risponde con un sorriso serafico.
- Evidentemente lo sono.
- L’uomo falena, papà? – domanda, sventolando i fogli a mezz’aria, - Seriamente? Sono stronzate! Favole per nerd con lo spavento facile! Andiamo!
- C’è stato un avvistamento. – José scrolla le spalle, - È nostro dovere andare a dare un’occhiata.
- Siamo già stati in questa zona per un altro avvistamento simile. – precisa Davide, lasciando cadere la cartella sulla scrivania e poi picchiettandola con due dita, - Nel 2002. E non abbiamo trovato niente!
- Probabilmente non abbiamo cercato con abbastanza attenzione. – taglia corto José, - E poi adesso hai Mario. – sorride, - Confido nel suo sesto senso.
- Il sesto senso che l’ha spinto dritto dritto fra le braccia della regina dei demoni non più di una settimana fa?
Gli occhi di José tornano freddi, mentre lancia a Davide l’ennesima occhiata severa.
- Almeno lui ha beccato la succube giusta, al contrario di te. – dice. Davide serra le labbra, mortificato. – Confido che, se davvero l’SCP è presente sul luogo, sarete in grado di trovare lui o delle tracce che possano accertarne o smentirne la presenza. – riprende, ammorbidendo la linea delle labbra in un sorriso indulgente, - Andiamo, non è che una falena. Potete fare meglio di uno stupido insetto, no?
*
Mostrano il tesserino al concierge sepolto in una livrea ridicola di un raccapricciante color vinaccia, consegnando i loro bagagli al ragazzo che va loro incontro mentre firmano il registro al check in. Mentre Villa Feltrinelli si apre per loro e, con un sorriso ed un breve ma deferente cenno del capo ed un cordiale “vi aspettavamo”, vengono accompagnati agli ascensori e poi al primo piano, Mario stabilisce che è valsa la pena di attraversare in macchina tutta la Lombardia in larghezza, anche solo per arrivare fin qui. Se anche la missione dovesse essere un buco nell’acqua, se anche non dovessero trovare l’SCP che sono stati mandati a catturare, se anche addirittura lo trovassero ma finissero per coprirsi di ridicolo un’altra volta, sarebbe valsa comunque la pena di venire fin qui per immergersi per un paio di giorni in questo sfarzo così eccessivo da dare alla testa.
Dovunque si volti a guardare, i suoi occhi incontrano solo marmi elegantemente decorati, mobili lignei finemente intagliati, affascinanti quadri dall’aspetto antico abbracciati da cornici dall’aspetto ancora più antico pendenti alle pareti, giganteschi lampadari perfettamente immobili sopra le loro teste, composti da enormi cristalli a goccia che riflettono la luce delle lampade proiettando ovunque arcobaleni iridescenti.
Mario, che ha vissuto tutta la vita in una valle dimenticata da Dio, in una casa persa in mezzo alle campagne sulle sponde di un fiume che del miele ha soltanto il nome, non ha mai visto niente del genere. È abituato all’enorme casa in legno grezzo che suo padre e sua madre hanno tirato su con le loro stesse mani quando si sono ritirati, è abituato al piccolo edificio chiassoso su un piano solo all’interno del quale hanno sistemato l’unica classe non all’aperto della loro accademia non autorizzata dalla quale nondimeno escono annualmente alcuni fra gli agenti più letali alle dipendenze della Fondazione. È abituato alle valli profonde ed ai pendii scoscesi e ciottolosi ed alle curve dolci dei monti ed ai fianchi ruvidi dello Spina, è abituato a molte cose belle, a molte cose genuine, a molte cose che l’affetto e l’abitudine gli hanno insegnato ad apprezzare, ma a questa ricchezza ostentata, a quest’opulenza priva di scuse e di ragioni, a questo sfarzo eccessivo, pesante, quasi volgare, a questo no. E mangia tutto con gli occhi mentre il concierge in persona, tutto ossequi e salamelecchi, li accompagna fino alla loro suite.
Davide è rimasto silenzioso per tutto il viaggio, ma nel momento in cui rimangono soli non si risparmia di lanciargli un’occhiata severa e tirargli un colpetto con la mano aperta contro la nuca.
- Ricomponiti. – dice, sfilandosi di dosso la giacca e raggiungendo i propri bagagli per estrarre il tablet dalla tasca esterna della valigia, - Davvero, sei ridicolo quando cominci con la pantomima del povero ragazzo di campagna.
- Sarà una pantomima per te. – risponde Mario, scorbutico, osservandolo mentre scalcia lontano le scarpe e si arrampica su uno dei due letti singoli gemelli affiancati al centro della stanza, separati solo da un pesante comodino in legno scuro. – Che fai?
- Do un’occhiata ai dintorni. – risponde Davide, incrociando le gambe sul letto ed appoggiando il tablet sulle ginocchia. “Dare un’occhiata ai dintorni”, per quanto lo riguarda, vuol dire aprire Google Maps ed esplorare l’area sulla cartina, apparentemente.
- Potremmo uscire. – propone Mario, sedendosi sull’altro letto e sbirciando lo schermo del tablet, sul quale Davide fa scorrere veloce le dita, segnalando con piccoli bandierine rosse le zone che, secondo le caratteristiche che gli sono state insegnate, sembrano le più portate ad accogliere SCP della natura di quello che stanno cercando. Piccole vallate boscose, spaccature nella roccia di dimensioni congruenti con quelle dell’obbiettivo, grotte riparate da piccole cascate. – Davide?
- Che vuoi? – risponde lui, senza neanche sollevare gli occhi dalla mappa.
- Dicevo che potremmo uscire. – ripete Mario, - Dare un’occhiata di dintorni per davvero.
Davide gli solleva addosso un’occhiata incolore ed appoggia il tablet sulle cosce, spegnendone lo schermo.
- Ti credi qui in vacanza? – domanda.
Mario aggrotta le sopracciglia.
- No, naturalmente. – risponde, stringendosi nelle spalle sulla difensiva.
- Vuoi giocare a fare il turista? – insiste Davide, - Visitare il lago? Seguire i percorsi di trekking su per la montagna? Scambiare due chiacchiere coi nativi del luogo, comprare un souvenir, scattare qualche foto dal belvedere?
- No! – ribatte Mario, furioso, alzandosi di scatto in piedi, - Intendevo solo dire che non ha senso “dare un’occhiata” lì dentro! Siamo a due passi dalla zona dell’avvistamento! Possiamo uscire e andare a controllare di persona! Ma tu no, che te ne fai tu di andare a controllare di persona? Hai il tuo aggeggio e la tua istruzione, e a cosa ti sono serviti, fino ad ora? A niente, ti sono serviti! Ma è così facile inseguire gli SCP seduto sul tuo comodo lettino nella tua comoda suite extralusso senza neanche guardare il mondo di fuori, vero?
Davide sbatte le palpebre un paio di volte. Verso metà del rabbioso monologo di Mario, un’ombra di fastidio gli ha attraversato lo sguardo, ma è scomparsa in fretta, ed ora lo sta guardando come se ciò che ha detto fosse così stupido da non meritare neanche un’incazzatura blanda.
- Sai dov’è stato avvistato il nostro SCP? – domanda con tranquillità. Mario non risponde, perché ricorda il nome del paese ma, pur essendo della provincia di Brescia, onestamente non ha la più pallida idea di dove si trovi. Davide gli offre un sorriso canzonatorio inquietantemente simile a quelli che Mourinho rivolge a lui quando protesta per qualche motivo, e poi gira il tablet così che Mario possa vederne lo schermo. Indica un piccolo agglomerato di case immerso nel verde più assoluto e picchietta l’immagine con l’indice un paio di volte. – Muslone. Sessantasette anime in tutto. Quattrocentosessantadue metri di altitudine, a picco sul lago. Si trova a sei chilometri da qui, ma sono tutti in salita. Non abbiamo un mezzo adeguato per risalire i sentieri montani, il che vuol dire che dovremo raggiungere la destinazione a piedi. Sarai pratico di valli e montagne, dimmi tu quanto tempo ci metteremo se anche decidiamo di procedere alla scalata senza fermarci a riprendere fiato neanche una volta.
Mario deglutisce e distoglie lo sguardo, imbarazzato.
- Intendevo solo dire che—
- Se dovessimo uscire per “controllare di persona” senza neanche prima sapere dove andare, ci metteremmo una settimana solo per controllare i luoghi più probabili. Ma il fatto che siano i più probabili non assicura che l’SCP si trovi lì, e se dovessimo ritrovarci a dover esplorare anche i meno probabili è quasi sicuro che non riusciremmo a cavare un ragno dal buco prima di un mese. – rigira il tablet, appoggiandolo nuovamente sulle ginocchia e riprendendo a scorrere la mappa segnalando qualche punto particolarmente interessante qua e là, - Ora tu e la tua passione per il mondo di fuori potete anche andare a perdervi sulle montagne per i fatti vostri, mentre io organizzo la spedizione con un minimo di senso pratico.
Nel momento in cui Davide smette di parlare, la suite piomba nel silenzio. Umiliato, Mario resta dritto in piedi di fronte alla porta, le braccia rigide lungo i fianchi, gli occhi ostinatamente puntati per terra. Sente di essere arrossito, e la sensazione è spiacevole. Ci mette un po’ a recuperare il controllo su se stesso, e solo quando ci riesce lancia un’occhiata a Davide, il quale nel mentre è tornato a disinteressarsi completamente a lui e perlustrare la mappa su Google. Mario lo osserva, così concentrato sul proprio lavoro, e sospira.
- Okay. – concede, tornando a sedersi sul proprio letto, - So riconoscere quando ho detto una cazzata, ed ho detto una cazzata. Mi dispiace. Ho solo voglia di fare qualcosa. Non so niente di tutte le cose che sai tu e non mi ci trovo bene con la tecnologia. Ho voglia di menare le mani, di catturare qualcosa. Ne ho bisogno, dopo il casino con quella tizia, la settimana scorsa.
- E questo lo capisco. – annuisce Davide, senza staccare gli occhi dal tablet, - Ma non posso lasciarti fare di testa tua. Quindi ora stai zitto e buono mentre io preparo un minimo di itinerario. Questa storia è già abbastanza degradante così, non voglio anche perdermi nel bosco e dover lanciare un segnale di aiuto solo per ritrovare la strada per Gargnano.
- Ma si può sapere qual è il tuo problema? – borbotta Mario, sfilando le scarpe da tennis e lasciandole ricadere disordinatamente sul pavimento, - Ho capito che, magari, dopo essere andati inseguendo la regina dei dannati per discoteche, finire dislocati in mezzo al niente sulle tracce dell’uomo falena è un po’ una rottura di cazzo, ma è lavoro e ci tocca farlo, perché non la pianti di lamentarti?
Davide sospira, mettendo via il tablet e pinzandosi la radice del naso.
- Tu metti alla prova la mia pazienza. – borbotta, e poi spiega, - Devi sapere che esistono due categorie non scritte, all’interno della classificazione degli SCP. Ci sono le cose reali, le cose pericolose, le cose che non credevi possibili e invece lo sono. Demoni, illusioni, fenomeni naturali inspiegabili, tecnologie e soggetti alieni, luoghi dalle proprietà magnetiche misteriose e potenzialmente mortali e via così. Ci sono queste cose, e poi ci sono le bufale, le stronzate megagalattiche, le robe che gli adolescenti ubriachi americani “avvistano” per le strade di campagna, di notte, dopo aver rubato la macchina di papà per portare la fidanzata a farsi limonare fra le spighe di grano. – sospira, passandosi una mano fra i capelli e poi lasciandosi ricadere sul letto, fissando il soffitto con aria annoiata, - L’uomo falena appartiene alla seconda categoria. – si volta appena a guardare Mario, lanciandogli un’occhiata quasi di scuse, - Non troveremo niente, fra quelle montagne. – dice a bassa voce. Sulle labbra gli si disegna un sorriso triste, che genera un’onda calda che parte nello stomaco e cresce, cresce, risalendo all’interno del petto di Mario, riempiendolo tutto.
Per un istante, nonostante tutta la voglia di rivalsa che serve dopo il fallimento con Mahalath, non gli importa di trovare davvero l’uomo falena a Muslone. Ha già trovato qualcosa in questa stanza, in questo momento, e forse è abbastanza, almeno per qualche giorno.
*
La donna serve loro una ventina di piccole crocchette di polenta sopra un tagliere in legno bianco che deve per forza aver visto giorni migliori. Sono buone, quasi non si sente che si tratta di polenta avanzata, e chissà da quanto. C’è dentro giusto un po’ di prosciutto per insaporirla ulteriormente, ma in realtà l’impressione, mandando giù una crocchetta dopo l’altra, è che il prosciutto sia più un lusso che la donna ha deciso di concedere alla famiglia per un pasto piuttosto che un’aggiunta necessaria per rendere le crocchette mangiabili.
Tutto concentrato sul sapore della polenta, Mario ignora l’intervista che da qualche minuto Davide cerca di portare avanti col vecchio nonno Potente Guerrieri, una cariatide incartapecorita bloccata su una sedia a dondolo di vimini e legno, costantemente piazzata davanti alla finestra della grande stanza spoglia che fa alla famiglia Guerrieri da cucina e sala da pranzo.
Seduto al tavolo, il primogenito di nonno Potente ascolta con attenzione ma con aria irritata. Le mucche si lamentano nella loro stalla, e dalle occhiate impazienti che l’uomo – un soggetto alto, dalla pelle scurita dal sole, sulla cinquantina – lancia alla finestra è chiaro che preferirebbe mille volte uscire per occuparsi dei loro bisogni piuttosto che restare in casa ad assicurarsi che i due tizi mandati da un’organizzazione di cui non conosceva neanche l’esistenza possano turbare il vecchio papà.
La donna dev’essere sua moglie. Si affaccenda silenziosa e cupa avanti e indietro per la cucina, impastando il pane e controllando la cottura di quello già in forno, ed ogni tanto torna a rifornire il vassoio di crocchette, quando cominciano a scarseggiare. I due non hanno figli, o se ce li hanno non è lì che si trovano, ed ogni possibile traccia della loro presenza in quella casa – foto e simili – è stata accuratamente cancellata.
Nell’osservarli, Mario pensa che la gente del bresciano dev’essere fatta tutta con lo stampino, perché questa donna piccola e fragile, dalla pelle scura e dai corti capelli ramati appena arricciati, è del tutto uguale a sua madre, così come l’uomo, invece, è uguale a suo padre, e se avesse fatto in tempo a conoscere suo nonno è sicuro al cento percento che sarebbe stato l’immagine sputata di nonno Potente. Eppure, ha visto le foto dei suoi genitori da giovani, e ricorda i loro fisici tonici e slanciati, le braccia e le gambe muscolose, i fianchi torniti. Ma si sono come rattrappiti, tornando a vivere nella Val Trompia. Il bresciano li fa in serie, i suoi figli, perché possano lavorare la sua terre e prendersi cura delle sue bestie. Un popolo al servizio della sua terra madre.
E poi lui, la pecora nera. Che forse avrebbe fatto meglio a restare fra i campi. O, chissà, a morire all’Ospedale Civico a Palermo, vent’anni prima, senza neanche un nome addosso.
- Dunque, riepiloghiamo. – sospira Davide, scorrendo gli appunti presi in più di mezz’ora di conversazione confusa e stentata, - La figura umanoide è stata avvistata da lei, signor Guerrieri, nella tarda serata di una settimana fa, dalla finestra di fronte alla quale era seduto. Quella finestra. – dice, indicando la finestra di fronte.
Nonno Potente si volta verso il figlio.
- Che dice? – domanda.
Il figlio sospira.
- Che hai visto la figura umanoide alla finestra una settimana fa.
- La che?
- La figura— l’uomo falena, papà. – taglia corto il figlio, sospirando pesantemente ed allungando una mano a recuperare una crocchetta.
- Ah! – nonno Potente si volta nuovamente verso Davide, annuendo con aria grave, - Si mangia le nostre mucche. – dice.
Davide si volta verso il figlio.
- Ci sono stati furti di bestiame nella zona? – domanda.
- Non nella nostra proprietà. – risponde il figlio, scrollando le spalle, - E neanche nelle altre, che io sappia.
Mario inarca un sopracciglio, lanciando a Davide un’occhiata muta, che Davide ricambia con rassegnazione.
- Si mangia le nostre mucche, vi dico. – insiste nonno Potente, - E le nostre galline.
Davide si volta ancora verso il figlio.
- Furti di galline? – domanda speranzoso.
Il figlio strappa un morso alla crocchetta. Il ripieno filante ne esce, spandendo nell’aria un profumo delizioso. Mario sta mangiando crocchette da ormai quasi tre quarti d’ora, ma ha ancora fame, e ne prende un’altra dal vassoio.
- Ce ne sono stati, nei mesi scorsi. – risponde, - Ma era una volpe. L’abbiamo beccata un paio di settimane fa. Da allora, più niente.
Davide sospira, stanco.
- Si mangia le nostre mucche, e le nostre galline, vi dico. – ribadisce nonno Potente, - E i nostri conigli.
Davide non ritiene opportuno chiedere anche dei conigli.
- D’accordo. – passa oltre, tornando alla descrizione, - Dunque, lei ha visto questa figura umanoide— l’uomo falena, passare proprio di fronte alla sua finestra. Era alto all’incirca due metri.
- Più di due metri! Un gigante!
- E con grandi occhi rossi.
- Enormi occhi rossi! Enormi!
- Situati circa a metà della testa, incassati nelle spalle.
- Era come un armadio. – annuisce nonno Potente, incrociando le vecchie braccia artritiche sul petto, non senza difficoltà, - Come un armadio.
- Bene. – Davide sospira ancora. In quel sospiro, Mario può sentire che si sta arrendendo. Si chiede se forse non sia il caso di chiamare Mourinho, spiegargli la situazione, fargli capire che sono arrivati fin qui seguendo la segnalazione di un vecchio pazzo e chiedergli il permesso di rientrare a Milano prima che Davide decida che ne ha avuto abbastanza, di questo lavoro, e rassegni le dimissioni per davvero. Poi il momento passa, negli occhi di Davide si riaccende la scintilla e, quando parla, lo fa con rinnovato vigore. – D’accordo, - annuisce, - Per quanto riguarda le ali.
- Oh, sì! – nonno Potente si emoziona anche lui, sentendosi probabilmente davvero ascoltato per la prima volta da quando sono lì, - Erano proprio quelle di una falena. Triangolari e grigiastre. Ed avevano un aspetto peloso, alla base.
Davide annuisce, prendendo appunti.
- E l’apertura alare era di—
- Tre metri! – la spara grossa nonno Potente, - Forse anche quattro!
Segue un silenzio imbarazzato.
- Mezz’ora fa ha detto non più di un metro. – lo corregge Davide, mostrandogli la nota degli appunti sullo schermo del tablet, anche se il nonno palesemente non riesce a leggerla, - Ha esplicitamente specificato che le ali l’avevano colpita particolarmente proprio perché erano troppo piccole rispetto al resto del corpo.
Nonno Potente resta immobile come una statua di cera per qualche secondo.
- Oh. – dice quindi. Abbassa lo sguardo, grattandosi il mento barbuto, tutto raccolto in riflessione per qualche secondo, e poi stabilisce: - Be’, era buio. Avrò visto male.
Mario si sente scorrere un brivido lungo la schiena, e si volta istintivamente a guardare Davide. Durante la sua preparazione, suo padre e sua madre gli hanno spiegato che è molto facile che, fra due Agenti partner, nasca un legame molto profondo, se non telepatico quantomeno empatico. Sua madre gli raccontava di come, ogni volta che suo padre era in pericolo o cambiava repentinamente stato d’animo, lei fosse ripetutamente scossa dai brividi, e nel voltarsi a guardare Davide Mario si chiede se la cosa non stia finalmente cominciando a svilupparsi anche fra loro due.
Davide è tutto teso, dalla testa ai piedi. Guarda nonno Potente con l’occhio fisso dell’uomo che sta per perdere la calma tutta insieme, e Mario trema ancora. “Ecco,” si dice, “Ecco, ora sclera. Ora tira fuori la pistola e fa una strage.”
E invece i lineamenti del suo volto si distendono naturalmente, pochi istanti dopo, e sulle sue labbra piene affiora un sorriso.
- Bene. – dice conciliante, alzandosi in piedi, - Abbiamo tutto quello che ci serve. Grazie mille per la vostra collaborazione, lasciate pure la situazione nelle nostre mani. – dopodiché, si volta verso di lui e, sempre sorridendo, lo chiama. – Vieni, Mario?
Lui, inquietato da quell’espressione e da quell’improvvisa, cordiale calma, si limita ad annuire sbrigativamente e seguirlo all’esterno della casa. Nonno Potente non li accompagna alla porta, ma il figlio sì. Resta sulla soglia a guardarli allontanarsi e poi rientra in casa, e Mario aspetta di aver sentito la porta chiudersi prima di voltarsi verso Davide e deglutire.
- È tutto a posto? – domanda incerto. Stanno camminando lungo un sentiero curvilineo e irregolare, ma ben spianato, che si arrampica su per la montagna all’interno di una chiazza verde inizialmente rada, poi via via sempre più fitta.
Il sorriso sulle labbra di Davide si allarga, e Mario, onestamente, lo teme. Non può che essere impazzito. La sparata di nonno Potente sul buio e l’aver visto male gli ha fatto esplodere qualcosa nel cervello, e ora Davide è completamente impazzito. Come farà a spiegarlo a suo padre?
- Certo che è tutto a posto. – risponde Davide, ilare, - Finalmente ho capito perché siamo qui.
- Sì? – domanda Mario, inarcando un sopracciglio.
- È evidente. – annuisce Davide, - Mio padre l’ha fatto apposta.
Mario si ferma nel bel mezzo del sentiero, ma quando Davide non lo imita è costretto a corrergli dietro per raggiungerlo.
- Come sarebbe a dire? – domanda.
Davide si sta guardando intorno da un po’, ma con aria molto distratta. È evidente che non si aspetta di trovare niente. È come un ragazzino che va a funghi per il bosco senza sapere né dove cercare, né cosa si suppone debba trovare. È lì solo per poter poi tornare a casa e dire “sì, ho cercato, ma non c’era niente, peccato, sarà per un’altra volta”. È lì pro-forma. Con la testa è già altrove.
- L’ha fatto apposta. – ripete, - Dai, seriamente? Mandarci su per le montagne intorno al Lago di Garda alla ricerca dell’uomo falena? – ride, - È ridicolo. Avrei dovuto capirlo prima. Siamo qui a perdere tempo. Non si aspetta davvero che troviamo qualcosa. Doveva mandarci da qualche parte ed ha scelto questa sapendo che avremmo capito subito che non c’era niente da cercare, qui. Abbiamo anche l’albergo pagato per tre giorni. È il suo modo di dirmi “riposati, Dade, non pensare a niente, è tutto a posto, penso a tutto io”.
- …oh. – Mario lo segue con lo sguardo, incerto. Davide devia dal sentiero principale e prende a seguirne uno che si intravede appena in mezzo all’erba e ai sassi, e Mario gli va dietro. – Quindi, uhm, è stato gentile. Voleva solo che stessi bene.
Davide si volta a guardarlo, lanciandogli un’occhiata ironica, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in un sorrisetto impudente.
- Ma sei stupido? – domanda, e poi sospira, voltandosi nella sua direzione. Si trova appena più in alto di lui, sul sentiero, e con le mani sui fianchi e le gambe larghe per tenersi in equilibrio torreggia su Mario abbastanza da costringerlo a piegare il capo all’indietro per continuare a guardarlo. – È una punizione. Per quello che abbiamo combinato con Mahalath. È una punizione ed anche una presa in giro. Questo è tutto quello che ci ritiene in grado di fare, andare negli stupidi paesini di montagna delle stupide province in giro per l’Italia e raccogliere le testimonianze dei vecchi pazzi arteriosclerotici che parlano troppo! – si interrompe all’improvviso, stringendo la presa delle mani sui fianchi. La sua voce è andata alzandosi di tono man mano che parlava, è diventata più acuta, e poi stridula. Ed ora lui inspira ed espira, e poi torna a sorridere, gli occhi fissi su Mario. – L’unico motivo per cui non sto tornando di corsa a Milano per puntagli la pistola alla tempia, - riprende, - È che non voglio dargli la soddisfazione di comportarmi come il bimbetto isterico che lui crede che sia. Per cui, - conclude, - Resteremo qui per tutti e tre i giorni per cui la suite è stata prenotata, perlustreremo la zona, non troveremo niente, torneremo a Milano, faremo il nostro report e poi io darò le dimissioni, e buona fortuna per il resto della tua vita nella Fondazione, Mario.
Il suo sorriso si allarga e lui sospira, apparentemente sollevato.
- …Davide— - prova a chiamarlo Mario, ma lui lo interrompe.
- Mi ci voleva proprio! – dice, e poi scruta il cielo con attenzione, - Ora torniamo in albergo. Sta per piovere.
Mario inarca le sopracciglia e guarda nella sua stessa direzione. Non una nuvola per chilometri. Ma lo segue comunque giù per il sentiero e verso la città, quando Davide riprende a camminare.
*
Un’ora dopo, rintanati all’interno della suite a Villa Feltrinelli, ascoltano le gocce di pioggia infrangersi con un ticchettio monotono e noioso contro i vetri delle finestre. Davide ha deciso di portarsi avanti col lavoro e, dopo aver evidenziato la zona già perlustrata oggi, ha cominciato a redigere il report alla sezione riguardante la raccolta delle testimonianze. Ogni tanto ride fra sé per la sensazione di ridicolo che sente farsi strada tra le righe mentre riporta, il più fedelmente possibile, la sua chiacchierata con nonno Potente e suo figlio al cospetto di un vassoio infinito di crocchette di polenta col prosciutto.
Mario, disteso sul proprio letto, si annoia. Se fuori non piovesse così, uscirebbe e tornerebbe sulle montagne. I suoi l’hanno addestrato ad essere un buon cane da caccia. Non ha sentito niente di particolare, mentre risaliva i sentieri montani con Davide nel pomeriggio, ma è ancora troppo presto per mollare l’osso. E poi, almeno, in quel modo avrebbe qualcosa da fare. Chiuso in questa stanza, non c’è niente che lui possa fare che non sia rigirarsi sul letto e guardare di fuori mentre la notte piovosa diventa sempre più scura, inghiottendo i contorni delle cose.
- Davide? – lo chiama, sollevando la testa dal cuscino.
- Mmh. – risponde lui, senza sollevare gli occhi dal tablet.
- Che fai?
- Lavoro.
Di quelle risposte che ti segano le gambe. Si rigira un’altra volta sul letto, stendendosi sulla schiena e fissando il soffitto. Pure quello è intagliato nel legno. Scene di caccia di ambientazione medievale, si direbbe. Una roba così eccessiva da sconfinare senza troppi pudori nel pacchiano. Si chiede quanto costi una suite del genere alle persone normali che la prenotano, poi si chiede se mai qualche persona “normale” la prenoti, e poi pensa a Mourinho, che esilia il figlio sul Lago di Garda ad inseguire moscerini giganti per toglierselo dai piedi, o per farlo stare meglio, chissà.
Mario solleva lo sguardo su Davide e lo trova ancora perfettamente assorto nel suo lavoro. Il silenzio gli pesa addosso.
- Perché odi tuo padre? – gli chiede.
Davide gli lancia appena un’occhiata, e poi scrolla le spalle.
- Per lo stesso motivo per cui lo odiamo tutti, credo. – risponde.
- Io non odio mio padre. – gli fa notare Mario, aggrottando le sopracciglia.
- Sei una mosca bianca, allora. – ribatte Davide con un mezzo sorriso. Poi sospira, tornando a guardarlo. – Perché ti interessa?
- Non lo so. – risponde Mario, - Non mi dici mai niente di te.
- Tu, invece, sei stato prodigo di informazioni. – sorride distrattamente Davide.
- Be’, ti ho detto qualcosa. – insiste Mario, - E non ignoro le domande, quando me ne fai.
Davide non risponde subito. Lo guarda in silenzio per qualche secondo, poi mette giù il tablet.
- Sono cose private, Mario.
- Ma noi viviamo insieme.
- Ci conosciamo comunque da poco più di una settimana! – ribatte lui, infastidito, - Non puoi pretendere—
- Chi è Zlatan?
Nel momento esatto in cui pronuncia la domanda, Mario si rende conto di non averne mai voluto pronunciare un’altra. Cosa se ne fa delle vere ragioni per cui Davide e suo padre si odiano? Se solo perdesse qualche istante a rifletterci su, avendoli visti battibeccare già un paio di volte da quando è arrivato, potrebbe stilare in mezz’ora un elenco da cento punti sui motivi e le modalità dell’astio che li allontana in contrasto al legame che li tiene uniti. Ma Zlatan? Non sa niente, di lui. Non sa chi sia, o cosa sia stato per Davide. È un’ombra triste nei suoi occhi, una domanda alla quale non vuole rispondere, un ricordo che preferisce mettere via.
C’è la voce di sua madre, nella sua testa, che con la solita inflessione dolce e comprensiva dice “Mario, quello fra due Agenti è il legame più forte al mondo. È completa fiducia, completa apertura, completa conoscenza”. E lui, di Davide, si fida? È aperto, nei suoi confronti? Lo conosce? E Davide?
Davide si è irrigidito sul suo letto, e lo guarda come se gli avesse appena urlato contro insulti senza alcun motivo. Mario si sente addosso il suo nervosismo, il suo rifiuto di affrontare l’argomento. Vede il suo sorriso sparire e i suoi occhi spegnersi, e quando parla la sua voce è bassa e cupa, distante.
- Mario, - dice, - Impara a farti i fatti tuoi.
Poi appoggia il tablet sul comodino, si spoglia velocemente e si infila sotto le coperte, dandogli le spalle. È presto e non hanno ancora cenato, e per qualche motivo Mario si aggrappa a questo per continuare a sperare che, nel giro di qualche minuti, si alzerà in piedi e potranno scendere al piano terra per mangiare qualcosa al ristorante, e forse allora potranno continuare a parlare. Ma qualche secondo dopo Davide sta già dormendo, Mario capisce che niente di tutto questo accadrà e si rassegna a spegnere la luce.
*
Il giorno dopo non piove più, ma il cielo è grigio e pesante, e minaccia tempesta, e le stradine scoscese sulle quali devono quasi letteralmente arrampicarsi per scalare la montagna sono tutte ricoperte di fango.
Davide è tornato di malumore, rispetto al giorno prima. Mario sa che è a causa sua, ma allo stesso tempo non riesce a sentirsi in colpa per aver semplicemente chiesto di più. La voce di sua madre lo ammonisce ogni volta che ci pensa – il rapporto fra due Agenti, si diventa così vicini da leggersi nella mente – e lui si arrabbia, ogni volta. Non c’è nessun rapporto, fra lui e Davide. Non sono vicini per niente.
- Prima o poi dovrai parlarmene. – borbotta nella sua direzione, e Davide, che in quel momento sta risalendo un gradino di pietra e fango che minaccia di liquefarsi sotto il suo peso da un momento all’altro, è incapace di trattenere un mezzo ringhio frustrato.
- Mario, mollami. – dice, scocciato.
- Non posso. – ribatte Mario, risalendo l’altura appena dietro di lui e poi seguendolo lungo il sentiero che avevano già cominciato ad esplorare il giorno prima, - È importante, per me.
- Cos’è, ti sei preso una cotta? – domanda Davide, sarcastico, - E adesso sei geloso di tutti i miei ex?
A Mario non piace la leggerezza con cui Davide ne parla, la semplicità con la quale riduce una questione così importante ad un mero giochetto di gelosie adolescenziali, ma non è accecato abbastanza da mancare il piccolo spiraglio che il malumore di Davide apre sui suoi segreti.
- Quindi è un tuo ex? – domanda.
Davide si irrigidisce di nuovo. Parlare con lui è come scavare nel granito. Sai che, arrivato ad un certo punto, ci sarà una parete più dura e spessa delle altre, che non potrai abbattere in nessun modo. E allora si tratta di lasciare perdere, o cambiare strada.
Sta per cambiare strada, quando realizza che loro, la loro strada, l’hanno cambiata qualche minuto prima. Si sono avventurati su per un sentiero a malapena visibile nell’impasto di terra bagnata e fangosa in cui il temporale di ieri ha trasformato il terreno.
- Questo dev’essere il sentiero per i pascoli montani che ho individuato ieri… - riflette Davide fra sé, guardandosi intorno alla ricerca di un qualche punto di riferimento, - Non l’abbiamo esplorato, ieri, giusto?
- No. – conferma Mario, ma si guarda intorno solo sbrigativamente, e poi torna a guardare Davide, - Non cambiare argomento.
- Non direi che sia io quello che cambia argomento. – sbuffa Davide, avanzando più in profondità nel sentiero. Si perde all’interno del bosco, e se quella è una via per i pascoli montani di sicuro nessuno deve più averla utilizzata da un pezzo. – Direi che sei tu quello che continua a distrarsi pur sapendo di avere un lavoro da fare.
- Dunque cercare l’uomo falena è un lavoro da fare solo quando ti conviene. – protesta Mario, aggrottando le sopracciglia, - Per tutto il resto del tempo è una cazzata, l’uomo falena non esiste e tuo padre ci ha mandati qui in punizione e per prenderci per il culo, ma improvvisamente quando ti serve che diventi un lavoro serio, ecco che diventa un lavoro serio.
- Mario. – la voce di Davide trema appena, - Stai mettendo a dura prova la mia pazienza.
- Be’, che puoi farmi? – sbotta lui in rimando, - Spararmi? Sei il mio partner anziano, hai la responsabilità della mia incolumità.
- Hai dimenticato che intendo rassegnare le dimissioni, una volta a Milano? – ribatte Davide, gelido, - Già in questo momento, non ho più la responsabilità di niente. – sospira pesantemente, - Non me ne frega più niente.
E se qualcuno avesse detto a Mario che una cosa del genere avrebbe fatto tanto male, ci avrebbe pensato ben più di due volte prima di insistere per essere assegnato a qualcuno. Avrebbe proseguito l’addestramento, si sarebbe fatto preparare per cacciare da solo. Aveva il potenziale, i test attitudinali che i suoi genitori l’avevano portato a fare all’Accademia di Brescia lo dimostravano chiaramente. Ma lui no, lui voleva lavorare in coppia. Come i suoi genitori, come i suoi fratelli, come tutti gli Agenti usciti dalla loro scuola fra i campi nelle profondità della vallata.
Abbassa lo sguardo e non insiste. Davide ha preso la sua decisione, e lui deve prendere la propria. E gli sembra di aver capito, già dopo una settimana, che non sceglierà l’assegnazione un’altra volta. A costo di dover tornare a Concesio con la coda fra le gambe.
Continuano a camminare in perfetto silenzio, mentre le nubi si addensano e il cielo, da grigio, diventa nero. Non è notte, ma è come lo fosse, e la visibilità si è ridotta di molto, da quando si sono inoltrati nel bosco. C’è qualcosa che disturba Mario profondamente, una sensazione inquietante, fastidiosa, come se avesse prurito da qualche parte ma non riuscisse ad identificare perfettamente dove. Solleva gli occhi su Davide per chiedergli se la senta anche lui, ma l’espressione che gli legge in viso quando lo fa è già una risposta sufficiente.
- Davide—
- È tutto a posto. – risponde lui. Non è chiaro se lo dica per rassicurare Mario o se stesso. – È tutto a posto, è solo una sensazione. Non tutte le sensazioni sono attendibili, non te l’hanno spiegato all’Accademia?
- Ma se ce l’abbiamo entrambi… - insiste Mario, guardandosi intorno.
Davide sospira, scuotendo il capo.
- Mario, l’uomo falena non esiste. – ripete come dopo avere imparato la lezioncina a memoria, - È una stupida leggenda metropolitana per nerd. È molto più probabile che questo posto abbia un magnetismo strano, o che sepolto da qualche parte ci sia qualche manufatto alieno o antico o maledetto o tutte e tre le cose insieme. Comunque sta per mettersi a piovere un’altra volta. – dice, sollevando una mano e rigirando il palmo verso l’alto, accogliendo sulla pelle le prime goccioline di pioggia, - Torniamo indietro, riproveremo domani.
Mario annuisce e si affretta a seguirlo giù per il sentiero che si allontana dalle profondità del bosco, ma è proprio mentre si volta che lo sente. È come un venticello impercettibile, leggerissimo, ma gelido, che gli dà la pelle d’oca. E non sembra venire da una generica direzione, come il vento fa, ma da un punto preciso. Più che vento, sembrano dita d’aria che gli sfiorano la nuca, scatenando brividi violentissimi giù lungo la sua spina dorsale.
Mario si volta, e nota la spaccatura nella roccia.
- Davide. – dice, ma lui si è già voltato a propria volta, e sta guardando nella sua stessa direzione. E deglutisce.
- Sì. – risponde, - Sì, lo sento.
“Dovremmo controllare,” pensa Mario, restando immobile sul posto, “Dovremmo, ma non voglio.”
Per la verità, si accorge di avere paura, e se ne vergogna. Quindi spera che sia Davide ad insistere, a decidere di lasciar perdere, di tornare in città.
Ma Davide si avvicina con circospezione alla spaccatura, come attirato al suo interno. È stretta, ma non abbastanza da impedire loro di passare. È buia, però, abbastanza da non poter stabilire quanto sia profonda. Dall’interno non proviene alcun suono.
- Dobbiamo entrare. – dice Davide a bassa voce, - Non possiamo non farlo, l’abbiamo trovata.
- Ma potrebbe essere qualsiasi cosa. – prova Mario, - Qualcosa per cui non siamo preparati.
Davide si volta a guardarlo brevemente.
- Non siamo preparati per niente. – dice, nella voce una nota di rammarico, e poi sorride appena, cercando di essere rassicurante, - Non preoccuparti, andrà tutto bene. Dai. – conclude, prima di oltrepassare l’entrata e perdersi nel buio.
Mario lo segue istantaneamente.
Nel momento in cui attraversano il varco, la prima cosa che sentono è un lieve scricchiolare di qualcosa di friabile che si spacca sotto i loro piedi. Ossa cave, forse, appartenute a qualche uccello o a qualche piccolo mammifero. Quella potrebbe anche essere la tana di qualche predatore, ed al momento stanno entrambi pensando che forse sarebbe meglio così. Per qualche motivo sembra molto più facile affrontare un orso affamato e furioso che non una qualsiasi delle creature per le quali l’addestramento li ha preparati.
Lo scricchiolio è seguito a breve distanza da un vago frullare d’ali, ma le cose potrebbero non essere collegate. Potrebbe trattarsi solo di qualche pipistrello. D’altronde, l’eco che rimbalza sulle pareti della caverna – è molto più ampia all’interno di quanto non sembrasse all’esterno – rende impossibile identificare con precisione l’origine dei suoni. Tutto scricchiola, e tutto frulla intorno a loro. Ed è così buio che non riescono a vedere dove mettono i piedi.
Davide estrae la torcia elettrica che la Fondazione dà in dotazione a tutti i suoi Agenti. Si suppone debba funzionare in qualsiasi condizione, anche in presenza di forti campi elettromagnetici, ma appena Davide prova ad accenderla, sia tramite l’interruttore che caricandola attraverso la leva d’emergenza, quella non risponde nemmeno.
L’aria è densa, umida e pesante. E ha uno strano odore, mai sentito prima. Ma loro continuano ad avanzare, uno scricchiolio dopo l’altro, un frullare d’ali dopo l’altro.
E poi l’urlo li sorprende. È spaventoso quanto umano sia. Si voltano entrambi di scatto, appena in tempo per vedere l’imboccatura della caverna coprirsi del tutto, occlusa da una gigantesca massa nera sormontata da due giganteschi occhi rossi, due fari opachi nella notte assoluta che li circonda.
Urlano entrambi quando gli occhi, unica cosa visibile della creatura, cominciano ad avanzare svelti verso di loro, facendosi più grandi man mano che guadagnano metri.
- Mario! – grida Davide, - Dietro di me!
Mario obbedisce senza pensarci, estraendo la pistola. Davide è più veloce, però. Usa gli occhi come il centro di un bersaglio, punta l’arma e spara. La creatura non viene colpita, ha tutto il tempo di saltare ed aggrapparsi al soffitto, o sollevarsi in volo per quanto la caverna le permette, ma la via è libera, ed il fascio di luce del proiettile al plasma, illuminando le pareti e il pavimento, li guida verso l’uscita.
Tutte le superfici visibili sono ricoperte di uova. Quelle sulle quali hanno camminato entrando, giacciono in terra, spaccate. Larve di medie dimensioni, formate a metà, dai ventri spappolati e dagli enormi occhi rossi, frullano ali minuscole, o moncherini d’ali, tentando invano di alzarsi in volo, le bocche a beccuccio che si aprono e si chiudono a vuoto, incapaci perfino di emettere suoni.
Per uscire, corrono sui cadaveri, o su quelli che presto lo saranno, mentre l’urlo della madre si perde in un’eco agghiacciante dietro di loro. Sembra arrampicarsi lungo le pareti rocciose, inseguirli, cercare di afferrarli. Escono dalla caverna sotto il temporale che si è scatenato mentre erano dentro, e Mario si volta indietro, sparando un paio di colpi oltre l’entrata. Non si illude di abbatterla, ma spera di colpirla, di rallentarla, almeno.
- Cazzo. – ansima Davide, correndo lungo il primo sentiero utile, anche se non è quello per uscire dal bosco. Non possono rischiare di portare la creatura in paese, - Cazzo, cazzo, la madre. Era la madre! Le abbiamo decimato la cucciolata!
- Che dobbiamo fare? – domanda Mario, correndo al suo fianco, - Che facciamo?!
- Merda. – Davide si infila una mano in tasca, estraendo il cellulare. Non c’è campo, naturalmente, ma prova comunque a lanciare un segnale d’aiuto. Lo imposta per continuare a mandarne uno ogni trenta secondi, e poi si guarda intorno, - Dobbiamo trovare un posto per nasconderci— quella cosa— non possiamo affrontarla noi.
- Siamo due incapaci! – sbotta Mario, la voce spezzata dalla rabbia, dalla paura e dalla fatica di correre lungo sentieri fangosi e scivolosi, - Non riusciamo neanche a—
- Mario, sta’ zitto! – lo rimprovera Davide, svoltando bruscamente a destra verso una macchia più densa di verde, - La torcia non funzionava, in quella caverna! Un SCP di quel tipo non dovrebbe essere in grado di fare niente del genere! Le madri— La Fondazione manda squadre di sei o sette Agenti, per fronteggiare le madri! Durante la gravidanza e dopo sviluppano capacità superiori alla norma per proteggere i piccoli, non— - viene interrotto dall’urlo della creatura, così vicino da gelare il sangue ad entrambi, - Cazzo!
- Là! – Mario allunga un braccio, afferrando Davide per un polso. Piove così forte che è difficilissimo distinguere i contorni delle cose, ma a qualche metro da loro c’è una piccola caverna quasi interamente nascosta dall’edera. – È troppo piccola perché lei possa entrarci! – dice.
Davide segue i suoi occhi e la studia per qualche secondo, poi annuisce. Lo segue all’interno della caverna, ed effettivamente è troppo piccola anche per loro. Non è neanche molto profonda, il che non è un bene per niente, ma dovranno farsela bastare.
Camminando stretti l’uno all’altro, si schiacciano sul fondo gelido ed umido di pietra dura, gli occhi puntati contro l’entrata. L’urlo della creatura non si sente più, ma per qualche motivo nessuno dei due si sente particolarmente rassicurato dalla cosa. Mario osserva la propria pistola e la carica.
- Dovrei uscire. – dice deglutendo, - Dovrei— Posso farcela.
- No! – Davide lo afferra per una spalla, trattenendolo vicino a sé, - Ti ammazzerà!
- Ma devo farlo! – insiste Mario, cercando di divincolarsi, - Quando torneremo a Milano, tu te ne andrai, ed io resterò da solo, e voglio restare da solo! – dice, - Quindi devo farcela da solo, così Mourinho—
- No! – l’urlo di Davide quasi si spezza, mentre stringe convulsamente le dita attorno alle spalle di Mario. – No.
- Perché? – chiede lui, voltandosi a guardarlo. Lo scrociare della pioggia è così violento da coprire l’urlo della bestia, e perfino le loro voci.
Davide deglutisce e lo guarda, e non ha una risposta per la sua domanda, tranne l’unica che gli risale alle labbra come in un automatismo naturale, un istinto che non sapeva di avere.
- Perché sei una mia responsabilità. – dice. Si sente dirlo con lo stesso tono di voce col quale tante volte Zlatan l’ha detto a lui, e negli occhi di Mario che si spalancano e lo fissano può riconoscere lo stesso sguardo che deve avergli rivolto lui quando gli sentiva pronunciare quella frase.
Per un secondo, tutto è immobile, intorno a loro. Poi la creatura urla, ed è improvvisamente vicinissima, e loro si voltano verso l’entrata della caverna e la vedono. Copre la spaccatura nella sua interezza, ma è così tanto più grande della fessura da far sentire entrambi sollevati: è chiaro che non riuscirà a passare.
La creatura urla di rabbia, gettando indietro il capo tozzo e incassato fra le spalle possenti e muscolose. Nella luce pur fioca che illumina la radura all’esterno della grotta, riescono a vederla bene, adesso. È davvero enorme, il suo corpo lungo e scuro è ricoperto da una fitta peluria marrone, e le ali triangolari, sottili come quelle delle falene, frullano velocemente alle sue spalle. La testa non è che una massa tondeggiante, incassata direttamente fra le spalle, priva del sostegno di un collo. Nel viso non è distinguibile nulla a parte gli enormi occhi rossi, che lanciano bagliori nella semioscurità del bosco.
È ridicolo restare lì immobili in attesa che qualcosa succeda, che sia l’arrivo della squadra di soccorso o il momento in cui la creatura perderà interesse in loro, ma non possono fare altro, e quindi restano lì, schiacciati contro il fondo della caverna, bagnati fradici, tremanti, gli occhi fissi su di lei.
Che all’improvviso urla e scricchiola, e comincia a mutare forma. Davide e Mario osservano con orrore muscoli e ossa dislocarsi e poi riarrangiarsi diversamente sotto la sua pelle. Si direbbe che si stia rimpicciolendo, che stia diventando più compatta.
In un paio di minuti, è piccola abbastanza da attraversare l’apertura.
- Merda! – strilla Mario, schiacciandosi contro Davide, - Merda!
- Cazzo! – Davide cerca di indietreggiare, ma non c’è spazio per farlo. La creatura occupa tutta la via di fuga con la propria massa. Riesce a muoversi verso di loro, ma non lascia alcuno spiraglio per abbandonare la caverna. I suoi enormi occhi rossi si avvicinano sempre più svelti. – Mario— Sta’ indietro! – Davide sguscia al suo fianco e poi si frappone tra lui e la creatura. Punta la pistola dritta di fronte a sé, carica e, senza pensare, spara, ma il proiettile non parte. L’arma non risponde. Davide prova un paio di volte ma tutto quello che sente è il clic del grilletto che scatta senza un colpo da esplodere. Il caricatore non funziona, è la presenza della creatura che li inibisce.
Mario solleva la propria arma e punta la creatura da sopra la spalla di Davide. Prova a sparare anche lui, ma quando si rende conto che nemmeno la sua pistola risponde capisce la situazione.
- Merda. – dice. La creatura, ormai, è vicina abbastanza da allungare le mani verso di loro. Quasi riesce a sfiorarli.
E poi le fiamme la avvolgono, e lei lancia un urlo stridulo, contorcendosi in spasmi mentre le ali prendono fuoco, polverizzandosi all’istante, e tutto il resto del suo corpo continua a bruciare come una piccola torcia.
- In questi casi, - dice una voce sconosciuta alle spalle dell’enorme insetto infuocato, - Niente è meglio di un buon, vecchio lanciafiamme.
Mario e Davide sentono qualcosa scattare alle spalle della creatura, e poi il suo corpo avvolto dal fuoco viene tirato indietro, e l’entrata della caverna è libera. Si affrettano ad uscirne. La squadra speciale li aspetta sotto la pioggia.
- …Pupi. – dice Davide, riconoscendo l’uomo che ancora regge fra le braccia il lanciafiamme fumante.
- Ola, Dade. – sorride l’uomo. La pioggia scorre addosso alla sua divisa corazzata nera e azzurra, mentre lui solleva l’elmetto in un educato cenno di saluto, - Tutto okay?
- Mi sa che siamo arrivati appena in tempo. – lo anticipa un altro membro della squadra. È un uomo alto, dalle spalle larghe e dalla pelle bianchissima. Quando li raggiunge, sfila i quanti e poi l’elmetto, offrendo alla pioggia la superficie lucidissima della propria testa. – L’SCP è vivo, Capitano, - dice, - Solo un po’ bruciacchiato.
- Meglio così. – annuisce lui, sorridendo soddisfatto, - Mourinho sarà soddisfatto. – e poi si volta a guardare Davide, abbozzando un sorriso divertito, - Ma non da voi due, mi sa.
*
Mourinho li tiene bloccati in ufficio per quasi due ore. Li sgrida con una severità che Mario non credeva possibile, quasi con cattiveria. Legge il report che Davide, cupo e deluso come mai prima, ha redatto mentre tornavano a Milano in elicottero, e poi lo straccia di fronte a loro, elencando nel dettaglio tutti i loro errori, aggiungendo giorni di sospensione per ognuno di essi. Arrivano a dieci, poi si fermano, ma non perché non ce ne siano altri. Mourinho si limita a dire di essere stufo di loro – no, di lui, parla solo con Davide – di non poterne già più della sua sciatteria, delle sue lamentele, delle sue stupidaggini. “Piantala,” gli dice, “O non ti darò il tempo di dare le dimissioni.”
Quando rientrano in camera, dopo la visita preliminare del dottor Combi e dopo la doccia al vapore disinfettate per scrostarsi di dosso i resti delle larve, Davide è talmente esausto che a stento si regge in piedi. Mario lo osserva caracollare fino al proprio letto e lasciarvisi ricadere con uno sbuffo, la faccia nascosta contro il cuscino. Si siede e non osa dirgli niente, anche se vorrebbe.
Dopo qualche istante, Davide si tira su e si mette seduto. Appoggia i gomiti sulle ginocchia e nasconde il volto fra le mani. Piange in silenzio per un po’, e non si vergogna di mostrare a Mario le proprie lacrime, anche se Mario sa – in qualche modo, l’ha già capito – che ogni tentativo di indagarne le ragioni finirà per schiantarsi contro la solita parete che Davide tira su quando non vuole parlare di qualcosa. Per cui, nemmeno ci prova. Si alza dal proprio letto e si siede su quello di Davide, accanto a lui, appoggiandogli una mano su una spalla.
Davide resta in silenzio per qualche secondo. Poi parla, e lo fa senza guardarlo, a bassa voce.
- Zlatan è il primo Agente a cui sono stato assegnato.
Mario deglutisce. Non sa perché porre la domanda successiva sia così difficile, ma per qualche motivo lo è.
- Stavate insieme?
Davide sbuffa una breve risatina amara.
- Ci sono persone che non sono con te neanche quando passano con te tutto il tempo. Zlatan è una di quelle persone. Lo sapevo, - si affretta ad aggiungere, sospirando, - L’avevo capito. Quando ami qualcuno lo sai. Sai quando resterà e capisci quando non resterà. Io sapevo che prima o poi lui sarebbe andato via, ma— - si interrompe, deglutendo a fatica, - Sapere le cose, apparentemente, non ti prepara comunque ad affrontarle quando accadono.
Mario annuisce piano, continuando a guardarlo.
- Eri innamorato di lui?
Davide scrolla le spalle, sospirando appena.
- Immagino di sì. È difficile dirlo con certezza, in questi casi. Mi piaceva, fra noi c’è stato… qualcosa. Mi fidavo ciecamente di lui, e lui di me. Ci capivamo con un’occhiata, ci davamo una mano a vicenda… - si appoggia indietro, sulle mani. Mario allontana la propria mano dalla sua spalla, ma per compensare si avvicina con tutto il resto del corpo. – Non so se fosse amore, ma è il bozzolo in cui ho vissuto fino a poche settimane fa. Ed ora non c’è più e— - stringe i denti, le labbra gli tremano appena. – E io non sono in grado di fare niente, senza. Neanche proteggere te.
“Sarà questo,” si dice Mario, mentre gli si scioglie qualcosa nel petto, “Sarà questo che intendeva la mamma?”
Scivola sul letto, avvicinandosi ancora. Davide lo sente troppo vicino e, incerto, si volta a guardarlo, per chiedergli che stia combinando.
Non ha il tempo di farlo. Le labbra di Mario coprono le sue più velocemente di quanto lui riesca a muoverle.

continua

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