rp: jo calderone

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Nymph/Jo.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Het, Nonsense, Lime.
- "Di fuori il cielo è terso, ma di un colore grigiastro e sbiadito. Chiunque lo troverebbe deprimente, ma Nymph no."
Note: *occhi che si illuminano* A questa storia sono affezionatissima. La amo molto, ho amato molto plottarla e scriverla e peraltro mi ha molto sorpresa, perché ero partita con l'idea di scrivere del nonsense svagato e privo di risvolti di un certo tipo, e invece fin da subito lei si è orientata più sul nonsense metaforico che su quello fine a se stesso, e ciò mi ha molto commossa. Ora non mi va di stare a farvi le pippe sulle metafore che ho inserito e tutto il resto, tanto più che certi punti della storia, specie nella seconda metà, rendono il discorso di base veramente palese, quindi niente, spero solo che vogliate leggerla, perché io ci tengo molto, e che possa piacervi, perché sarebbe per me bellissimo ♥
Scritta per il primo numero di Squee, il cui prompt chiedeva di prendere ispirazione da una qualsiasi parte della (splendida) At Last di Etta James. Io ho scelto un verso (quello che dà il titolo alla storia) e ci ho ricamato sopra.
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A THRILL THAT I HAVE NEVER KNOWN

Nymph apre gli occhi nel sole tiepido e scolorito del primo mattino invernale, e sorride, come sempre fa ogni giorno. Ha imparato a non chiedersi il perché delle sue immotivate allegrie mattutine, sa bene che scavare è inutile, di motivi per essere così allegra non ce se sono.
Neanche per essere triste, comunque, stabilisce saltando giù dal letto e sistemandosi addosso la sottoveste bianca. Di fuori il cielo è terso, ma di un colore grigiastro e sbiadito. Chiunque lo troverebbe deprimente, ma Nymph no. Nymph ne vede le sfumature, quelle striature più scure qui e là che gli danno carattere, ed annuisce compiaciuta. Quest’anno il raccolto sarà buono.
Quando esce dalla propria stanza, il nonno sta dondolando sulla sedia. Preciso come un metronomo, non ha mai mancato un battito negli ultimi dieci anni. Nymph gli sorride e gli augura il buongiorno, gli si avvicina e gli toglie la pipa di bocca, lo sai, nonno, che non devi fumare, ti fa male, metti che ti prende fuoco un orecchio?, gli ricorda, sistemando i fili di paglia gialla e allegra che escono fuori dalle cuciture ai lati della testa. È giusto che una nipote si prenda cura del proprio nonno, pensa con orgoglio, annuendo e se stessa mentre gli sistema il cappello. Lui si è preso cura di lei quando era ancora una bambina, è semplicemente normale che adesso che lui non può più prendersi cura di nessuno sia lei ad occuparsene.
È ancora presto, comunque, perché il nonno vada fra i campi a lavorare. È quasi tardi, però, per la colazione delle fate, e quindi Nymph si affretta, afferrando il barattolo di zucchero in cucina e correndo fuori a piedi nudi. Le chiama fischiando una melodia dolce e malinconica, e loro accorrono ronzando pochi secondi dopo. Nymph le sente ridere, è come un’eco lontana di bambini che giocano, e sparge lo zucchero sull’aia, osservandole per qualche secondo mentre litigano per ogni granello.
Non rientra in casa, passerà dopo a prendere il nonno, verso mezzogiorno, quando i corvi cominceranno a far sentire la loro voce stridula e raschiante, e cominceranno a cercare di mangiarsi tutto quando. Il nonno glielo impedirà, d’altronde è per questo che è stato cucito.
Nymph saltella allegramente fino al fiume, e ne segue il corso, continuando a fischiettare. Alcune fate la seguono, ma lei le scaccia con un gesto della mano. Il loro ronzio è fastidioso, e quando è così vicino al fiume attira le zanzare.
Si china sulla riva, i pesci stanno cantando una serenata al mare verso il quale stanno nuotando affannosamente. “Svelti, svelti!” li incoraggia, battendo le mani. Loro sorridono grati, mentre i granelli di zucchero che lei ha ancora appiccicati alle dita scivolano nell’acqua, rendendola dolciastra e saporita. Sarà un bel trauma quando scopriranno che l’oceano è salato!, ridacchia lei fra sé, prima di alzarsi in piedi e ricominciare a correre verso la radura.
Comincia già a sorridere estasiata quando intravede il pianoforte apparire e scomparire fra le spighe verdissime che invadono i campi tutti attorno a lei, ma il sorriso le muore sulle labbra quando vede che c’è un ragazzo seduto sopra. Ha i piedi appoggiati sulla tastiera e fasciati in scarpe di tela sdrucite e annerite dalla strada, e guarda in alto, nel cielo. Nymph non lo conosce, e perciò ne ha paura.
Si stringe nelle spalle, avanzando verso di lui con aria timorosa, i lunghi capelli biondo cenere che le coprono il viso, scivolando giù fino alla curva del seno appena accennato. “Chi sei?” gli chiede, cercando di mostrarsi cattiva e minacciosa. Non le riesce mai.
“Sono Jo,” risponde lui, senza neanche degnarsi di guardarla. Porta una mano alle labbra e si sfila la sigaretta di bocca, trattenendola fra due dita mentre esala uno sbuffo di fumo azzurrognolo che risale verso il cielo disegnando complicati arabeschi simili alle nuvole che ogni tanto Nymph ama dipingere nell’aria con le dita quando sta sdraiata nell’erba.
“Quello è veleno,” dice lei, e quando lui scrolla le spalle, apparentemente disinteressato al fatto, lei insiste “È veleno per il mio raccolto.”
Finalmente, Jo abbassa lo sguardo, squadrandola con sospetto. I suoi occhi sono cerchiati di occhiaie violacee, e la sua pelle è lucida come fosse sudato, o sporco. È disgustoso, Nymph non pensa ad altro che a trovare un modo per mandarlo via.
“E cosa coltivi, da queste parti?” chiede lui, invece. Nymph aggrotta le sopracciglia, stringendo i pugni lungo i fianchi magri.
“Non sono affari tuoi,” risponde seccamente, “E quello su cui stai seduto è il mio pianoforte.”
“Questo scassone è tuo?” domanda lui, tirando un calcetto col tallone contro la cassa, mentre a Nymph viene la pelle d’oca dall’orrore, “E suona?”
“Certo che suona,” sbuffa lei, incrociando le braccia sul petto, adesso incredibilmente offesa. Jo le sorride invitante, sollevando i piedi ed incrociando le gambe.
“Fammi sentire,” ordina. Nymph aggrotta le sopracciglia ed è lì lì per dirgli di sparire, una buona volta, quando l’eco del verso stridulo dei corvi raggiunge le sue orecchie. Si volta repentinamente nella direzione generale di casa propria, e non perde nemmeno tempo a dire qualcosa a quel disgustoso ragazzo, prima di cominciare a correre velocissima sul sentiero verso la fattoria.
Fa più in fretta che può, diventa gigantesca e scavalca i ponti e il fiume, le spighe le fanno il solletico sotto i piedi ma lei non ha voglia di ridere, e ha paura di non arrivare per tempo, perciò la strada davanti si allunga e si allunga e si allunga, e Nymph vede casa propria all’orizzonte scappare più veloce di quanto lei stia correndo, ed è per questo che a un certo punto allunga una mano e la stringe fra le dita, tenendola ferma mentre il suo corpo si rimpicciolisce abbastanza da passare attraverso la porta, e tutto torna alle sue dimensioni naturali.
Respira affannosamente, stanca come non è mai stata, ed è tutta colpa di quel ragazzo. Entra in casa, afferra il nonno, corre fuori e lo issa sul suo supporto, le braccia ben larghe, la pipa fra le cuciture che gli disegnano la bocca, il cappello ben calcato sulla testa, così che non voli via. Poi sente il rombo di tuono che annuncia la tempesta delle ali frullanti dei corvi, e col cuore che le salta in gola corre dentro. Le fate la seguono, strillando impazzite, e lei si accerta che siano entrate tutte prima di sprangare porte e finestre.
È così terrorizzata che non riesce a rimanere in giro abbastanza da vedere dove vadano a nascondersi tutte – alcune si infilano nei barattoli vuoti di pepe e caffè, altre si gettano nei cassetti, fra le tovaglie e la biancheria, altre ancora nel cestino della roba pulita, qualcuna perfino nella scatola piena di tabacco del nonno, e passerà le prossime ore a starnutire ininterrottamente. In genere, Nymph tiene conto di dove ha riposto i propri segreti, in modo da poterli tirare fuori quando il peggio è passato. Ma stavolta no, stavolta i corvi le fanno tremare le mani, e perciò lei scappa a rifugiarsi sotto il tavolo della cucina, le ginocchia strette al petto, le braccia attorno alla testa, mentre di fuori la tempesta infuria, e attraverso la fessura sotto la porta d’ingresso Nymph può vedere gli stormi di corvi passare avanti a indietro, oscurando il sole, strillando e gracchiando e frullando le ali, spazzando via la polvere dell’aia e i granelli di zucchero rimasti dalla colazione delle fate, strappando di dosso la pelle al nonno coi loro becchi e i loro artigli d’acciaio. Nymph conosce le tempeste e sa quanto male possano fare, vede la paglia che imbottisce il nonno scivolare per terra imbrattata di sangue, e sa che il sangue è il proprio, e quando si guarda le braccia le vede piene di ferite, e la sua sottoveste è macchiata di rosso.
Nymph piange, piange ad alta voce per il dolore e per la paura, e quando i singhiozzi si fanno insopportabili, quando il petto comincia a farle male tanta è la forza con cui ha urlato, pensa che ha bisogno di qualcosa da stringere e Sansone, il suo enorme gatto nero, appare dal nulla, placido e sereno come sempre, e si accuccia sotto il tavolo accanto a lei, sfiorando il piano sopra le loro teste con le orecchie. Struscia il muso più grande della sua testa contro la guancia bagnata di lacrime di Nymph, asciugandole col proprio pelo mentre lei lo allaccia al collo e continua a disperarsi, nascondendosi contro di lui.
“Passerà presto, passerà presto,” cerca di tranquillizzarla Sansone, ma lo fa con la sua stessa voce, una voce tremula da ragazzina impaurita e piangente, e non ha l’effetto che dovrebbe avere, perciò Nymph smette di provare a farlo parlare e si limita a stringerlo forte, mentre lui la consola con le sue fusa profonde e calde, che le fanno tremare piacevolmente la pelle.
In genere, le tempeste non durano più di un paio d’ore, ma questa è peggiore del solito, e Nymph sa che è per colpa di quello stupido ragazzo seduto sul pianoforte. Sarà ancora lì, lui? A osservare i corvi da lontano, fumando quella sua puzzolente sigaretta e prendendo a calci il suo amato piano? Sarà lì a governare i corvi col suo sguardo torbido e allo stesso tempo brillante? Sarà lì a sorridere, sicuramente, mentre Nymph soffre e sanguina e il nonno viene fatto a brandelli, di fuori. Per ore, e ore, e ore. I corvi sembrano non fermarsi mai. Avanti e indietro sui campi senza riposo. Nymph spera che il nonno riesca a farcela. “Nonno, resisti,” mugola fra i singhiozzi, “proteggi il raccolto.” È così importante che il raccolto sopravviva. È tutto ciò che Nymph possiede, è tutto ciò che è. Il nonno l’ha sempre protetto, il nonno deve riuscire a proteggerlo anche adesso, anche se sembra impossibile, perché vale troppo per poter essere distrutto.
È già sera, quando il rumore da fuori comincia a scemare. I corvi urlano ancora un po’, le loro ali gigantesche fanno tremare tutta la casa, ma poi finalmente si allontanano, le ferite sulle sue braccia si rimarginano senza lasciare neanche un segno, le macchie sul vestito scompaiono e Nymph smette di piangere, anche se singhiozza ancora forte. Tira su col naso mentre Sansone le dà un buffetto e poi torna a dormicchiare acciambellandosi sulla poltrona in un angolo della stanza. Dormirà fino alla prossima tempesta. Dormirà così profondamente che scomparirà fra le pieghe del tessuto della poltrona, e Nymph si dimenticherà della sua esistenza fino a quando non ne avrà nuovamente bisogno.
Le fatine cominciano a uscire dai loro nascondigli, ridacchiando della loro stessa paura perché alla fine non è successo niente di grave, no?, a nessuna di loro, ma Nymph non riesce a ridere, perché sa già cosa l’aspetta una volta superata la porta.
I campi sono intatti. Il nonno è stato un eroe. Nymph si avvicina al suo cadavere quasi vuoto, e si inginocchia nell’erba, stringendoselo contro. Lo culla, cantandogli una ninna nanna, e quando finalmente lo sente smettere di piangere se lo carica in spalla e lo riporta in casa. Le fate sono già uscite quasi tutte. L’ultima, quella che si era nascosta nel barattolo del tabacco, si attarda perché ogni battito d’ala ne solleva un po’, solleticandole il naso. Nymph la saluta con un sorriso mesto, e poi si accoccola sulla sedia a dondolo, recuperando ago e filo e infilando le mani nel sacco di iuta pieno di paglia proprio lì accanto, per tirarne fuori abbastanza da riempire il nonno da capo a piedi.
Passa così quasi tutta la notte. Finisce per addormentarsi all’alba, il nonno ancora stretto fra le braccia, senza neanche spostarsi a letto.
*
Quando si sveglia, l’indomani mattina, è tardi, ma lei sorride comunque. Stringe il nonno con un mugolio intenerito e si scusa perché gli ha rubato il posto, poi scivola giù dalla sedia e lo sistema per bene sul cuscino, il busto dritto contro lo schienale, la testa perpendicolare in mezzo alle spalle. La pipa la mette via, “no, nonno, te la do dopo, quando esci,” e poi corre a fare colazione.
Le fate invadono la cucina e Nymph ridacchia, battendo entusiasta le mani mentre si appollaia su un vecchio sgabello foderato, e l’odore delle frittelle comincia a inzuccherare l’aria. Le fate ridacchiano affaccendandosi fra le padelle e i barattoli di marmellata. Due o tre di loro svolazzano attorno a una ciotola, e sbirciandone il contenuto Nymph vede che le stanno preparando la crema al cioccolato, e non può fare a meno di lanciare uno strillo felice.
Mangia con soddisfazione e permette alle fate di ripulire il piano dallo zucchero e dagli avanzi. Loro se ne nutrono voracemente, ridacchiando serene, i piccoli dentini acuminati che spezzano il pane e le frittelle, le gote bianche talmente sporche di marmellata di fragole da farle assomigliare a bestiole che hanno appena sollevato il muso dal cadavere sventrato della loro preda.
Nymph si costringe a non guardarle. Sa come i loro lineamenti cambino quando sono deformati dalla loro golosità, sa quanto voraci siano i sogni, quanti pezzi di vita strappino un brandello dopo l’altro per cibarsene e sa che i loro occhi fanno paura quando brillano della luce sordida della sazietà, ma a lei questi dettagli non interessano, e le fate cambiano subito espressione quando si voltano a salutarla mentre esce. I loro sorrisi sono di nuovo rosa come pesche, i loro occhi brillanti e cerulei, i loro vestiti soffici e ricamati, più leggeri delle nuvole. È lei a cucirli per loro, e cambiano colore ad ogni cambio di stagione.
Fischietta e canticchia mentre passeggia a piedi nudi in cortile, e poi saltella sul retro, accucciandosi sulle sue aiuole. I fiori sono ancora tutti chiusi, stretti fra loro come a proteggersi l’un l’altro. Nymph ridacchia, accarezzandoli dolcemente. “È ancora presto,” annuisce, “Al tempo.” I fiori si scuotono nel vento, sembrano quasi annuire.
Lei si alza nuovamente in piedi, spolverandosi le ginocchia, e poi prende a passeggiare lungo il corso del fiume. Ha proprio voglia di suonare, perché oggi tutto è allegro, e anche lei è allegra. Splende il sole, l’acqua canta assieme a lei, le fate battono le mani dettandole il ritmo da seguire.
E quel ragazzo è ancora seduto sul suo pianoforte.
Nymph aggrotta le sopracciglia e stringe i pugni, avvicinandosi con aria minacciosa. “Ancora tu!” sbotta, “Perché sei ancora qui?”
“Dove altro avrei dovuto andarmene?” ribatte lui, stropicciandosi il naso con due dita, come gli prudesse, “Non c’è niente, da queste parti. Fa tutto schifo.”
“Non fa per niente schifo!” strilla lei, oltraggiata, agitandosi sul posto ma decidendo di rimanere a distanza di sicurezza, “E poi, se questo posto ti fa così schifo, perché non te ne vai? Salta il fiume, scavalca le montagne, oltrepassa il confine e sparisci! Sono sicura che c’è un posto nel mondo che sarà quello giusto per te.”
Lui la guarda per qualche secondo con aria per nulla impressionata. Poi, punta le mani contro il legno e salta giù dal pianoforte, avanzando verso di lei in brevi passi lenti e flemmatici. Nymph resta pietrificata sul posto, le braccia lungo i fianchi, e cerca di tirarsi indietro col busto il più possibile, visto che le sue gambe si rifiutano di ubbidire ai suoi ordini.
“Tu puoi fare tutte queste cose?” le domanda lui, quando è abbastanza vicino da poter sentire l’odore della sua pelle. Non è spiacevole come Nymph pensava. Sa di fumo, di nebbia, del buio della notte. Sa di cose paurose e sporche, ma non è spiacevole. “Saltare il fiume come se fosse un rigagnolo, le montagne come fossero dune, il confine come se potessi vederlo disegnato per terra?” Nymph trattiene il fiato e deglutisce. Lui solleva una mano e stringe una ciocca del suoi capelli fra le dita annerite dal fumo e rese ruvide dai calli. Ci gioca un po’, prima di proseguire. “Il letto del fiume è troppo ampio, le montagne fanno il solletico al cielo, il confine è invisibile e si sposta a convenienza. Non posso andarmene, non ho nessun controllo su questo mondo,” sorride furbo, piegando solo un angolo delle labbra sottili, “Cambia tutte queste cose per me, e allora ti lascerò in pace.”
Il cuore di Nymph manca un battito, e fa male. Il sangue nelle sue vene si ferma, il respiro nei suoi polmoni si blocca, tutto il suo corpo è paralizzato per un attimo che le riempie la carne di schegge di vetro acuminate che la fanno a brandelli, e subito dopo il tempo ricomincia a scorrere due volte più veloce, e lei si tira indietro, strillando così forte da fare tremare la terra. Jo si allontana, guardandola con aria persa. Lei continua a strillare, l’eco del suo urlo rimbalza fra le montagne e torna indietro, ferendole i timpani. Muovendosi così veloce da lasciare appena una traccia nell’aria, Jo si volta e corre via, fra le spighe verdi e ancora acerbe, e Nymph smette di gridare solo quando un suono perfino più spaventoso comincia a rombarle nella testa.
Spalanca gli occhi e guarda il cielo. Una macchia nera si allarga all’orizzonte, e lei ha gli occhi pieni di lacrime.
“I corvi…” esala spaventata, scattando immediatamente a correre verso casa. Le fate le ronzano intorno, strillando nella loro lingua incomprensibile, le loro vocette stridule e acute le danno i brividi e Nymph piange più forte, “Farò in tempo, farò in tempo! Lo prometto, lo prometto!” piange e si lamenta e si dibatte e la macchia è così grande, quando riesce ad arrivare a casa, che ha quasi paura di non riuscire a farcela. Ansima e le duole il petto, ma si lancia in casa, recupera il nonno e, chiedendogli scusa per i suoi modi bruschi, lo appende al suo posto. Poi torna dentro e spranga porte e finestre, e non ce la fa più a muoversi, neanche per nascondersi sotto il tavolo, e le fate continuano a strillare oltraggiate, e i loro vestitini sono tutti strappati, e c’è ancora l’odore della pelle di Jo attaccato ai suoi capelli, e lei chiama Sansone, “Sansone, Sansone!”, piangendo come una bambina, e Sansone appare, acciambellato sulla poltrona, e lei si rannicchia terrorizzata contro di lui, nasconde il viso nel suo collo e prega che la tempesta che infuria di fuori passi in fretta, che il nonno ce la faccia, e che il sonno la raggiunga prima che le finiscano le lacrime da piangere.
*
L’indomani si sveglia col mal di testa, e la vocetta stridula delle fate già nelle orecchie. Apre un occhio e poi un altro, allunga le mani e sente Sansone ancora sonnacchioso sotto di lei. Lo ringrazia per essere rimasto, anche se lui in genere non lo fa mai, e poi si mette a sedere. Le fate continuano a gracchiare attorno a lei, agitano le ditina paffute, sventolano i vestiti tutti stropicciati, sporchi e sbrindellati, e le urlano contro ogni tipo di offesa.
“Non è colpa mia, d’accordo?” borbotta Nymph, alzandosi in piedi e ravviandosi i capelli lungo una spalla, “Ho provato a fermarlo, ma non ci sono riuscita.”
Le fate alzano ancora di più la voce, in un urlo prolungato e insopportabile. Nymph urla più forte di loro, voltandosi a guardarle con un ringhio furioso, gli occhi iniettati di sangue. “Adesso basta!” tuona. Le fate ammutoliscono, correndo a nascondersi dietro i mobili, tremando terrorizzate. Nymph tira un sospiro di sollievo e si passa una mano sugli occhi. Ha bisogno di un abbraccio, ma quando si volta a guardare Sansone non lo trova già più.
Trattiene a stento le lacrime e guarda fuori. Il cielo è grigio, coperto di nuvole, e piove piano, in lente gocce grosse come acini d’uva, che fanno il terreno a macchie e poi gli cambiano colore del tutto. Nymph singhiozza. È una brutta giornata. Non c’è allegria, forse perché non è mattina. Non sa quanto abbia dormito, sicuramente molto più del solito, e forse è per questo che si sente così infastidita. Non ci è abituata.
Esce scalza, come al solito. Non le importa del fango. Non l’ha mai sentito sotto i piedi, perché lì non ha mai piovuto. Cammina lentamente fino al nonno, che evidentemente era stato appeso male al suo gancio, perché sta lì, rovesciato per terra, tutto strappato e scucito, come al solito. Il raccolto è ancora intatto, e a lei viene di nuovo da piangere. Si accuccia al suo fianco, tirandoselo sulle ginocchia, e gioca con l’orlo sdrucito di un suo braccio ormai quasi vuoto. C’è paglia che continua a cadere da tutte le parti mentre, fra le lacrime, lei si scusa. “È tutta colpa mia,” singhiozza, “le fate hanno ragione.”
Il nonno non risponde. Il suo sorriso stracciato è tutto storto.
Nymph si alza dopo qualche minuto, il suo vestitino è tutto bagnato, così come i suoi capelli. Si sente le palpebre pesanti, e un po’ è il malessere, un po’ sono le lacrime, un po’ le gocce di pioggia che le rimangono intrappolate fra le ciglia. Cammina lentissima lungo il fiume, tanto sa già che quel ragazzo sarà ancora lì. Non le riuscirà più di liberarsene, e il pensiero è spaventoso.
I pesci le chiedono “che hai, piccola Nymph? Perché sei triste?”, ma lei li odia, non vuole parlare, non lo sa neanche lei perché è così triste, è tutto così confuso e difficile, si sente così sporca e appiccicaticcia, forse è il fango, forse no, ma comunque la sensazione è umida, le si attacca alla pelle e la irrita. Si volta a guardare il corso d’acqua con rabbia assassina. “Tanto è salata!” strilla risentita, “L’acqua del mare è salata! Annegherete tutti!” e i pesci ridono. “Siamo pesci, Nymph, non possiamo annegare.”
Sono fortunati, loro.
Piove ancora, quando arriva alla radura. Ci gira attorno per ore, pregando che ritardare il momento sia sufficiente a risolvere il problema della presenza di Jo, ma naturalmente non avviene. Non ha piegato lo spazio per lui, non ha ristretto il fiume o le montagne e non ha disegnato la linea di confine di modo che potesse essere visibile a occhio nudo, e non l’ha fatto perché non è sicura di essere capace di farlo. Manipolare questi dettagli sembra così semplice, quando deve farlo per se stessa, ma non ha la minima idea di come fare in modo che anche Jo veda le cose alla sua stessa maniera. Se Nymph guarda una montagna all’orizzonte, adesso, può prenderla fra le dita e sbriciolarla senza mai toccarla davvero. Ma come fare in modo che possa farlo anche Jo, questo lei proprio non lo sa. E finché non lo scoprirà, non riuscirà mai a scacciarlo.
Smette di girare, comunque, a un certo punto, perché si annoia. La radura è tartassata dalla pioggia, che si infrange al suolo rendendo il terreno morbido e scivoloso, riempiendo l’aria del profumo dell’erba bagnata, e le gocce enormi e pesantissime cadono anche sul suo pianoforte. Il legno colpito emana un ticchettio regolare, come quello di una bomba pronta ad esplodere.
C’è anche Jo, seduto sulla cassa armonica, come al solito. È bagnato dalla testa ai piedi, i corti capelli neri appiccicati alla faccia, il volto pallido e smunto ricoperto di gocce di pioggia, la maglietta bianca attaccata alla pelle, quasi trasparente. Ha gli occhi chiusi e tiene il viso puntato verso l’alto, come stesse prendendo il sole. Ma sole non ce n’è, si sta solo lasciando annaffiare dal cielo come uno stupido.
La pioggia è fastidiosa. A Nymph piace l’odore che ha, le piace la sensazione fresca che lascia sulla pelle quando soffia un po’ di vento, ma non le piace il disordine in cui getta tutto quanto, non le piace l’impiastro molliccio in cui riduce la terra e non le piace il modo in cui si appiccica al corpo di Jo, costringendola a seguire ogni singola gocciolina nel suo viaggio lento ed esasperante lungo la curva del suo collo, o delle sue spalle, o delle sue labbra dischiuse.
Sentendosi inspiegabilmente e fastidiosamente accaldata, avanza un passo dopo l’altro, ben decisa ad ignorarlo. Non vuole – o non può – andare via? Benissimo. Faccia pure. A lei non importa di dov’è o cosa fa, l’importante è ridurre al minimo i contatti con la sua persona, e comincerà non solo non rivolgendogli più la parola, ma anche facendo finta che lui non esista affatto. In genere, questo basta, per far sparire le cose. Ma non funziona, con lui. Non funziona con lui e con i corvi, e questo le fa credere fermamente che ci sia un qualche collegamento, fra lui e quegli uccellacci malvagi. Forse sono addirittura la stessa cosa, forse è sempre lui, tutto il tempo, prima si presentava solo sotto forma degli stormi, ma adesso ci ha preso gusto, vuole torturarla, e quindi eccolo che si presenta come se fosse un ragazzo della sua età, e poi torna ad essere corvi quando deve provare a devastare il suo raccolto. Che razza di mostro crudele farebbe una cosa del genere? A lei, che non ha mai fatto male a una mosca?
Lo odia, odia lui e il suo stupido aspetto e il suo stupido odore e lo stupido suono della sua voce, ed odia il modo in cui la pioggia gli scivola addosso in rivolini sottili e ipnotici, e lo odia così tanto che non riesce ad esprimere tutto il suo odio a parole, perciò si siede sul suo sgabellino, davanti al pianoforte, e comincia a pestare sui tasti con rabbia. La melodia che ne viene fuori è furiosa, cattiva, sanguigna. Nymph chiude gli occhi e vede solo rosso, poi li riapre e Jo è ancora lì, il naso puntato per aria. Ha accavallato le gambe ed ora segue il ritmo della musica con brevi movimenti del capo, mugolando parole senza senso sulla melodia che lei inventa sul momento, come se lui riuscisse a prevederne le note, i cambi di tono e di velocità, i saliscendi sulla tastiera e le improvvise pause che lei impone solo per cercare di regalarsi il piacere di vederlo perdere familiarità con la canzone. Ma non avviene, Jo sembra conoscere la melodia a memoria, sembra portarla scritta dentro, e dopo qualche minuto, infastidita dal pensiero, Nymph si ferma, pressando con forza tutte e cinque le dita contro i tasti in avorio, prima di lasciarsi andare sullo sgabello, le spalle curve e le braccia pendenti lungo i lati del corpo.
È solo in quel momento che Jo apre gli occhi, ed abbassa il viso fino ad incontrare lo sguardo di Nymph. “Sei brava,” le dice, “Non l’avrei mai detto,” aggiunge con un ghigno furbo.
Nymph aggrotta le sopracciglia, offesa. “Certo che sono brava!” sbotta, incrociando le braccia sul petto, “Suono da quando ero piccola, e mio nonno—“
“Non mi interessa,” la interrompe lui, scrollando le spalle, “Non me ne frega niente di quello stupido spaventapasseri rattoppato.”
“Che cosa?!” Nymph scatta in piedi, stringendo convulsamente i pugni, le braccia rigide lungo i fianchi, tese fin quasi a fare male, “Come ti permetti?! Mio nonno non—“
“Non è uno stupido spaventapasseri rattoppato?” domanda lui, inarcando un sopracciglio, “No, perché m’era parso.”
“Tu non puoi permetterti di—“
“Eddai, ti ho già detto che non mi interessa di lui, comunque sia,” taglia corto Jo, sorridendo appena, “Tu sei brava, però. Mi hai emozionato.”
Lei schiude le labbra e poi si stringe nelle spalle, guardando altrove. La sua pelle si riscalda tutta assieme all’improvviso, ovunque. Sul viso, sulle mani, sulle orecchie, fra le gambe, e questo la fa sentire così tremendamente fuori posto che tutto attorno a lei cambia forma e dimensione, il cielo diventa viola e l’erba azzurra, la terra è una massa informe rosa e bianca, e la radura non è più una radura, e casa sua in fondo al fiume scompare, e le montagne diventano caramelle e se solo volesse potrebbe allungare una mano e mangiarne una, ma si sente fuori posto anche qui, perciò in pochi secondi torna alla realtà di prima, perché almeno la conosce. “Non m’importa,” borbotta confusamente, grattandosi il dorso di una mano in un gesto nervoso, “Vattene via.”
“Non posso,” risponde lui, scrollando le spalle.
Nymph sospira, agitando una mano a mezz’aria. “Sì, lo so, il fiume, le montagne, il confine, intendevo vattene via da qui!”
Jo sorride ancora, inumidendosi le labbra. “L’avevo capito che era questo che intendevi. E la mia risposta è la stessa, non posso. Ma il fiume, le montagne e il confine non c’entrano niente.” Si china appena in avanti, appoggiandole una mano sulla sommità della testa e lasciandola poi scivolare indietro lungo la linea dritta e liscia dei suoi capelli, fino a poggiargliela sulla nuca. “Sei carina,” dice, e Nymph spalanca gli occhi, e il respiro le si blocca in gola, e quando le labbra di Jo toccano le sue – all’improvviso, con forza, con un senso di inevitabilità che le riempie il petto di angoscia e paura – tutto il mondo crolla. Il cielo va in frantumi e la terra si spacca in crepe profonde, nere e spaventose, che brillano di un rosso vivido, acceso e bollente nelle loro profondità più recondite, e tutti i colori si fondono in uno ed è tutto così abbagliante e impetuoso che Nymph si sente come trascinata dalla marea, lei che il mare non l’ha mai visto, e per un secondo è una sirena, abbandonata ai flutti, gli occhi chiusi e i capelli attaccati al viso, e Jo è il mare che la trascina qua e là, sulla battigia, nelle profondità dell’oceano, fra gli scogli, fra i pesci e le alghe e le meduse e la barriera corallina, e poi le labbra di Jo si allontanano dalle sue con uno schiocco soffice e umido, e tutto torna al suo posto e fa paura, e il cielo all’orizzonte è nero. Nero come la pece. Nero come le piume dei corvi.
“No…” esala lei, a corto di fiato, allontanandosi di un passo, “No… no, non avrei dovuto… le fate avevano ragione…” balbetta confusamente, e la massa di corvi all’orizzonte si fa più grande, il loro gracchiare più forte e spaventoso, e Jo la guarda come fosse un enigma del quale proprio non riesce a venire a capo, e lei strilla, chiudendo gli occhi e tappandosi le orecchie, lanciandosi in una corsa disperata verso casa, anche se lo sa che non riuscirà mai a fare in tempo, lo sa, lo sa e basta, con la stessa consapevolezza con cui sa tutte le cose che riguardano questo mondo e anche tutti gli altri che controlla con la punta delle dita.
E quando arriva è troppo tardi. Il nonno giace per terra, ancora distrutto dalla notte prima. E i corvi pasteggiano col suo raccolto ancora immaturo, strillando compiaciuti mentre le fate, nascoste in casa, guardano la scena con gli occhi pieni di lacrime, appiccicate al vetro della finestra.
Nymph cade sulle ginocchia in mezzo al fango. Prova a piangere, ma forse quello che prova è troppo, troppo più anche del dolore, perché dai suoi occhi non esce niente, sulle sue guance non scorre neanche una lacrima, e se prova a lamentarsi dalla gola non riesce a passare neanche un respiro.
Jo si avvicina alle sue spalle dopo un po’. Ha il fiatone. Nymph prega intensamente di sentirlo cadere per terra all’improvviso, di potersi voltare e trovarlo morto, ma non succede niente.
“Mi dispiace per il tuo raccolto,” le dice, e sembra che sia sincero. A lei, però, non importa.
“Vai via,” dice tetra. E le montagne scompaiono, il fiume diventa un rigagnolo ed una lunga linea bianca emerge fra i sassi e l’erba a delimitare il confine del suo territorio.
Jo capisce l’antifona, e si allontana in silenzio.
*
Piove ancora, il giorno dopo. Nymph non vorrebbe fare nemmeno la fatica di alzarsi dal letto – è già stato abbastanza orribile trascinarcisi dopo la devastazione della sera prima – ma le fate non le danno tregua. Le svolazzano davanti, a due centimetri dal naso, facendole il solletico, e lei sbuffa infastidita una, due, tre volte, e poi si annoia, e sospira. “D’accordo, d’accordo…” borbotta, mettendosi a sedere. Sansone è accucciato ai piedi del letto, e lei per poco non lo calpesta, alzandosi in piedi. “E tu che ci fai qui?”, domanda stupita, “Io non ti ho chiamato.”
“Si vede che avevi bisogno di me comunque,” risponde Sansone con la sua voce, e Nymph si morde la lingua. Deve smetterla, deve smetterla. Lui è solo un gatto, non può parlare.
“Vattene via,” gli dice con rabbia. Sansone emette un miagolio addolorato, ma sparisce, ubbidiente.
Le fate continuano a svolazzarle intorno, squittendo inferocite. Nymph chiude gli occhi perché i loro volti le danno la nausea. Può vedere brillare le punte dei loro dentini acuminati nell’ombra grigiastra che invade la stanza. Hanno fame. “Niente zucchero, oggi,” annuncia risentita, “Non c’è zucchero per nessuno,” precisa, agitando una mano a mezz’aria per disperderle prima che comincino ad affollarsi attorno alla sua testa come mosche fastidiose, con quei loro terribili vestitini tutti stracciati che hanno perso perfino colore. Una di loro le morde un dito per ripicca. “Ahi,” borbotta Nymph, guardandosi la punta dell’indice, sulla quale fanno bella mostra di sé due piccole ferite gemelle, dalle quali fuoriescono due gocce di sangue di un bel rosso acceso. Piccoli vampiri ingrati, si sono presi tutto di lei, ma non basta ancora, no, non basta ancora. “Va bene, va bene,” protesta scocciata, decidendo di dar loro un contentino, giusto per farle stare buone: sfiora l’abitino della fata che l’ha morsa con la punta del dito sporca di sangue, e non solo il suo abito, ma anche quelli di tutte le altre fate tornano a posto, come fossero appena stati cuciti. Hanno anche cambiato colore – rosso rubino, proprio come il suo sangue – e sono pieni di pizzi e merletti, proprio come piacciono a loro. Le fatine girano su loro stesse, ridacchiando compiaciute, commentandosi i nuovi abiti a vicenda con soddisfazione. Nymph vuole piangere ma non ci riesce. Si sente così debole.
Niente zucchero, comunque, l’ha detto prima e non intende cambiare idea. Si ferma davanti alla porta e la guarda intensamente, spaventata dall’idea di cosa potrebbe vedere aprendola. Non ha nessuna voglia di uscire. Vorrebbe che Sansone fosse lì, al suo fianco, ma lui nemmeno miagola, probabilmente ancora offeso dal modo in cui l’ha trattato prima. Si sente così stupida, stupida e infantile. E incapace. E sola. Terribilmente sola.
Prende un respiro profondissimo e si decide ad aprire la porta. Il campo è nelle stesse condizioni in cui l’ha lasciato ieri fuggendo in casa, solo ancora più bagnato e fangoso di come lo ricordasse. Tutte le sue piante sono secche e spezzate, le foglie calpestate, i baccelli dai frutti misteriosi schiacciati e neri, vomitano un liquido rossastro e denso che puzza di marcio e corrotto, e le dà la nausea. Si preme forte una mano sul ventre, che le fa male come se le viscere le si stessero rivoltando contro, annodandosi l’una all’altra e contorcendosi disperatamente, e muove qualche passo all’esterno. Ha i piedi ancora incrostati di fango, al punto che non sente quello nuovo sotto le dita. Inspira ed espira e si inginocchia accanto al cadavere del nonno, accarezzando i punti sfilacciati del suo sorriso un po’ stupido.
“Nonno, mi dispiace,” geme, piegandosi appena quando il dolore al ventre si fa più intenso, “Il mio corpo mi odia per quello che ho fatto. Ti capirò, se mi odierai anche tu.” Ma il nonno, muto, non risponde.
Nymph si alza in piedi. Nel punto in cui era accovacciata resta una pozzanghera d’acqua stagnante, qualche goccia di sangue la sta già colorando di rosso. Nymph ne è disgustata. Si volta indietro come può per lanciare un’occhiata al retro della sua gonna, ed è macchiato di rosso anche lui. Il dolore al ventre è così forte che vorrebbe soltanto crollare addormentata da qualche parte e svegliarsi fra quattro giorni. E’ tutto così difficile. Si sente così svuotata e debole.
Le fate si affaccendano subito attorno a lei, accarezzando foglie, tastando radici sotto terra, discutendo animatamente fra loro e commentando lo stato delle piante. Una di loro le tira una ciocca di capelli, e Nymph non ha più voglia neanche di lamentarsi. “Cosa vuoi?” le domanda, abbattuta. La fata aggrotta le sopracciglia e punta un ditino paffuto verso la sterminata distesa di piante morte. “Non posso fare niente, per loro,” risponde Nymph, distogliendo lo sguardo. La fatina le tira i capelli un’altra volta. “Be’, forse non voglio, allora!” insiste Nymph, “Forse non voglio più badare al raccolto sapendo che non rischia altro che essere rovinato ancora e ancora e ancora, senza che nessuno riesca a coglierlo, senza che io riesca mai ad assaggiarne i frutti!”
Le fate sospirano, scuotendo il capo. Nymph si sente in colpa, e abbassa lo sguardo. “Mi sento sola,” confessa con voce lamentosa. Tutte le fate le si avvicinano, gorgogliando intenerite. La abbracciano con calore, nonostante le loro braccia così piccole permettano loro di farlo solo entro certi limiti. Nymph è grata per il loro affetto e per la loro presenza, anche se ogni tanto le fanno paura, anche se ogni tanto le sembra che pretendano da lei molto più di quanto lei non sarà mai in grado di dare loro, anche se ogni tanto le ingombrano l’esistenza al punto che lei fa fatica a capire fino a che punto sta vivendo la sua vita per se stessa e fino a che punto invece la sta vivendo per inseguire le loro chimere, sa che non potrebbe farcela se loro la abbandonassero, e perciò sorride, lasciandosi stringere ed accarezzare dalle loro piccole mani calde, lasciando che la tranquillità che sono sempre in grado di infonderle rilassi ogni fibra del suo corpo, sciogliendo i suoi muscoli tesi e rigidi.
“Ho capito…” sospira quindi, alzandosi in piedi e guardando il raccolto ancora una volta. “Ci vorrà un sacco di tempo…” borbotta, ma poi si scrolla di dosso la tristezza ed inspira ed espira profondamente, decidendo di darsi da fare. Carica il nonno in spalla e lo porta in casa, adagiandolo sulla sedia a dondolo. “Torno ad aggiustarti dopo,” sussurra rassicurante, lasciando un bacio tenero sul bottone scucito che ha per naso, e che pende dondolando su una delle sue pallide guance di tela. “Puoi avere la pipa, nel mentre,” annuisce condiscendente, posizionandola in gesti delicati e lievi in uno dei fori che gli si sono aperti sulla bocca.
Poi esce nuovamente fuori, notando con compiacimento che ha smesso di piovere. Il pallido sole invernale fa capolino fra le nuvole, e Nymph, incoraggiata, lo aiuta, agitando una mano a mezz’aria per scacciare via quelle che i suoi deboli raggi, da soli, non riescono a sciogliere.
Gira attorno alla casa e si accovaccia davanti alle sue aiuole. I fiori sono salvi, fortunatamente, ancora addormentati e ripiegati su loro stessi. “Dovrete aspettare ancora un po’,” sussurra con rammarico, accarezzandone le corolle chiuse. Poi si alza in piedi, e torna al campo. Con un altro sospiro, si inginocchia di fronte alla prima piantina, posando le mani sulla terra proprio sopra le sue radici, e chiude gli occhi, concentrandosi. Lascia che la sua energia fluisca attraverso le sue dita, si diffonda all’interno del terreno e dia nuova vita alla pianta.
Quando apre gli occhi, il gambo è di nuovo verde e ben dritto. Ampie foglie luccicanti di brina si aprono a ventaglio tutte attorno allo stelo, decorando i piccoli fiori che proteggono il baccello del frutto – adesso di nuovo pieno, tondo e pesante – come adagiato su un letto di petali.
“E questa è una,” sospira soddisfatta, alzandosi in piedi e tergendosi il sudore dalla fronte con il dorso di una mano. “Avanti un’altra.”
*
Nel momento in cui finisce di curare le piantine, Nymph si lancia attorno uno sguardo un po’ smarrito, e si chiede cosa fare adesso di se stessa. È solo un lampo, breve abbastanza da dimenticarlo subito dopo, ma intenso a sufficienza da lasciarle addosso una sensazione spiacevole, come di disagio, o di imbarazzo.
Nello stesso istante, si mette a piovere. Nymph aggrotta le sopracciglia, infastidita dalle gocce che le cadono sul viso, facendole il solletico, e rientra di corsa in casa, per badare al nonno. Si sistema sulla sedia a dondolo, recupera la paglia, ago e filo e si mette diligentemente a cucire, ridando forma e gioia al sorriso, rimettendo a posto il bottone del naso, riempiendogli la testa e le braccia di paglia e poi richiudendo il tutto perché il nonno sia di nuovo bello tondo e morbido e pronto ad affrontare la tempesta.
Nymph lancia uno sguardo veloce all’orologio, e si sente elettrizzata, perché è quasi ora. La vedranno, quei corvacci, oggi. Il nonno li farà pentire di aver distrutto il raccolto.
Si alza in piedi con un saltello eccitato, e trascina il nonno fuori dalla casa, correndo ad appenderlo al suo sostegno. Lo sistema per bene, le braccia larghe e la testa dritta, sulla quale posa il cappello. Ci mette una decina di minuti a sistemarlo come vuole, dev’essere perfetto. E alla fine lo è, il nonno è bellissimo e forte e saprà proteggerla valorosamente, come al solito. “Ecco la tua pipa, nonno,” sorride, posizionandogliela fra le labbra a mo’ di premio.
Torna in casa quasi saltellando, e non ha modo o voglia di notare le occhiate perplesse che le fate si scambiano. È strano che non accorrano in casa terrorizzate, ormai è quasi ora. “Che ci fate ancora là fuori?” domanda dalla porta, piegando appena il capo, incuriosita, “Volete che i corvi vi divorino?”
Le fatine continuano a lanciarsi occhiate incerte, ed è allora che Nymph guarda l’orizzonte e nota qualcosa di diverso. I corvi. I corvi non ci sono. Già a quest’ora il cielo sopra le montagne avrebbe dovuto cominciare a tingersi di nero e il loro verso acuto e straziante avrebbe dovuto cominciare a riempire l’aria, graffiandole le orecchie. E invece niente, il cielo è grigio uniforme per via delle nuvole e l’aria non si riempie d’altro suono che quello delle gocce che cadono, picchiettando per terra.
“C’è qualcosa di strano…” borbotta Nymph, che però entra in casa e chiude la porta – le fate restino pure fuori, se vogliono! – per poi dirigersi verso la finestra ed affacciarsi a sbirciare da dietro le tendine bianche ricamate.
“Non verranno,” dice Sansone, apparendo alle sue spalle. Nymph si volta, spaventata. La voce di Sansone è diversa.
“Chi sei tu?” domanda, schiacciandosi contro la parete. Sansone sembra ferito, i suoi grandi occhi verdi sono pieni di tristezza.
“Sono sempre io,” risponde, la voce profonda le ricorda qualcuno, non saprebbe dire chi, “Non mi riconosci?”
“No,” scuote il capo lei, le mani strette al petto, “Vai via.”
Sansone china il capo, il suo corpo proietta un’ombra lunghissima sul pavimento, che sfiora i piedi nudi di Nymph. Lei li ritrae, e lui miagola sofferente. “È già la terza volta che mi mandi via,” le dice piano, “Potrei non ritornare più.”
“La terza…?” domanda Nymph, confusa, “No, non è così. È successo solo un’altra volta.”
“Erano due,” ribatte Sansone, scuotendo il capo. Non è più un gatto, ma Nymph non saprebbe dire cos’è adesso. È un’ombra confusa e impalpabile, è grande e minuscolo, forte e debolissimo, sicuro e perso, e sa di fumo, di nebbia, del buio della notte. Sa di cose paurose e sporche, e non è spiacevole, solo spaventoso, perché Sansone non ha mai avuto questo profumo qui.
“Chi sei?” domanda ancora una volta, stringendo i pugni lungo i fianchi. Sansone ormai non la guarda più. E nemmeno le risponde, prima di sparire.
Nymph si lascia sfuggire un ringhio frustrato e corre via, spalancando la porta e lanciandosi fuori. Attraversa i campi, segue la linea del fiume disegnata nella terra, i pesci la prendono in giro per come le si scoprono le cosce ad ogni passo, ma lei li ignora, stupidi pesci, cosa ne sanno loro?, cosa ne sanno di qualsiasi cosa?
La radura è lontana, ma lei può vederla da dove si trova. La stringe fra le mani e ci salta dentro, e il pianoforte è al solito posto, e tutto è identico a com’era l’ultima volta che è stata qui, ma Jo non c’è. Non c’è più neanche il suo profumo, o l’eco intossicante della sua presenza. Nymph si guarda intorno e non riesce a trovarne nemmeno una traccia, ed è delusa, e non saprebbe dire neanche perché.
Si muove lentamente, sedendosi sul proprio sgabello e poggiando le mani sulla tastiera del pianoforte. Sente l’avorio sotto le dita, è fresco e bagnato di pioggia. Preme un tasto e chiude gli occhi, la musica la culla mentre le sue dita scivolano veloci da un tasto all’altro, e lei dondola appena il capo, i capelli bagnati che le si appiccicano al viso, al collo e alle spalle mentre si aspetta di sentire il suono fastidioso della risata di Jo da un momento all’altro.
Ma Jo non c’è, e le dita di Nymph si stancano presto a fare da sole. Lei apre gli occhi e si guarda intorno, smarrita. Ha il fiatone e si sente sporca, appiccicaticcia, fuori posto, e la sensazione non le piace. Si alza in piedi, stringendosi nelle spalle, e muove un paio di passi attorno al pianoforte. Il mondo è diverso da come lo ricordava – il mondo è diverso da come credeva – è tutto arido e secco e inospitale e silenzioso, non c’è nulla davanti a lei, neanche dietro di lei, nessun posto dove andare, nessun fiume lungo il quale correre, nessuna casa in cui rifugiarsi. Solo il suo raccolto si staglia contro il grigiore uniforme del cielo e della terra, a chilometri e chilometri di distanza. Nymph allunga una mano e ne accarezza i contorni impalpabili, poi crolla per terra e si rannicchia su se stessa, stupendosi di non essere andata in frantumi. Appoggia la schiena contro il pianoforte e stringe le ginocchia al petto, abbassa il capo in modo che i capelli possano scivolarle sulla fronte e sulle guance, a coprirle il viso, e poi scoppia a piangere, perché si sente stupida. Perché ha passato tutta la vita a combattere contro i corvi, a desiderare che sparissero per sempre, ma ora che sa che non torneranno più si rende conto che la sua vita è vuota, senza di loro, senza il tempo passato in loro attesa, senza la guerra combattuta per tenerli lontani dal raccolto. A cosa serve lei se non può affrontarli? Come passeranno le ore? A cosa servirà il raccolto, quando finalmente darà i suoi frutti, se mai questo accadrà, a questo punto?
“Una bella ragazza come te non dovrebbe piangere,” dice la voce di Jo da qualche parte sopra di lei, e Nymph subito solleva lo sguardo, fissandolo da sotto in su. È seduto sul pianoforte, come sia riuscito ad arrivarci senza che lei se ne accorgesse è un mistero.
“Sei tornato…” sussurra Nymph, coprendosi con una mano le labbra dischiuse in un’espressione stupita.
Jo salta giù dal pianoforte, offrendole un sorriso dolce e vagamente timido. “Ho pensato di fare un altro tentativo,” ridacchia imbarazzato, “Il quarto,” precisa, e Nymph arrossisce, distogliendo lo sguardo.
“Sei sempre stato tu…” biascica confusamente, “Eri sempre tu, a proteggermi e a farmi paura allo stesso tempo. Com’è possibile?”
Jo scrolla le spalle, piegando le gambe fino a raggiungere la sua altezza e molleggiando sulle punte dei piedi, proprio davanti a lei. “Non lo so, Nymph,” risponde con un mezzo sorriso incerto, “Questo è il tuo mondo, sei tu che detti le regole. Sei tu che devi spiegarlo a me.”
Nymph si stringe nelle spalle, fissandosi le punte dei piedi sporche di fango. “Quello che dici potrà anche essere vero, ma non ho più il controllo di niente, qui,” risponde malinconica, sentendo già due grosse lacrime formarsi agli angoli dei suoi occhi, “Ho perso tutto. Sono sola e non ho più niente.”
“Hai ancora il tuo raccolto,” le ricorda Jo con un altro sorriso, annuendo incoraggiante.
“Ma non ci sono più i corvi!” insiste lei, tornando a guardarlo, stringendo l’orlo del suo vestitino fra le dita in un gesto rabbioso e nervoso, “Non c’è più nessuno che lo voglia, e tu… io ti ho mandato via.”
“Ma sono tornato,” la corregge lui, avvicinandosi appena. Nymph solleva lo sguardo su di lui e deglutisce faticosamente. Il suo profumo la circonda, la stringe in un abbraccio che la confonde, e lei arrossisce.
“Non so neanche cosa dovrei fare…” ammette in un balbettio incerto. Jo le accarezza il viso, le labbra che si piegano in un sorriso furbo e vagamente affamato. Il cuore di Nymph batte dieci volte più forte.
“Non è un problema,” le sussurra, la fronte che sfiora la sua, prima di chinarsi a baciarla sulle labbra. Nymph trema al tocco umido della sua lingua, ma la lascia passare, piegando appena il capo perché il bacio possa farsi più profondo e bagnato. Dal cielo smette di piovere, e quando Jo la stringe per i fianchi e la invita a sdraiarsi lei si stupisce di sentire contro le spalle e la nuca il tocco umido e morbido dell’erba. Apre gli occhi e, oltre le spalle di Jo, il cielo è azzurro, macchiato a sprazzi del biancore impalpabile delle nuvole. Sorride, nel sentire la pioggerella fresca e lievissima scivolarle addosso assieme alle carezze di Jo. Le sue dita ruvide le fanno il solletico e lei ridacchia, gettando indietro il capo ed esponendo il collo ai suoi baci e ai suoi morsi lievissimi.
Schiude le gambe, il vestito le si solleva sulle cosce e il secondo dopo è scomparso, e le labbra di Jo stanno disegnando ghirigori incomprensibile sulla sua pelle mentre lui si sistema impaziente contro di lei. Nymph mugola nel sentirlo premere contro il proprio corpo, gli allaccia le braccia attorno al collo e lo trattiene a sé, baciandolo affamata mentre lui chiude le mani attorno ai suoi seni e li accarezza piano, sfiorando le punte sensibili dei suoi capezzoli con le dita. Nymph gli morde un labbro, geme più forte, Jo ridacchia ed annuisce, e scivola con una mano fra le sue gambe, accarezzandola esternamente e poi premendo un dito dentro di lei, e sentendolo scivolare dentro di sé Nymph spalanca gli occhi, e il cielo cambia colore, diventa iridescente, brilla del chiarore del sole, della luna e delle stelle tutte insieme, e Nymph schiude le labbra in un sorriso estatico che si trasforma in una risata cristallina e senza fiato quando Jo sostituisce se stesso alle proprie dita, e si muove svelto avanti e indietro dentro il suo corpo. Lei lo stringe a sé, china il capo, scossa da tremiti nuovi, misteriosi e spaventosi, e ride, non può farne a meno, e geme liquida e libera mentre i suoi occhi si posano sul raccolto che ora li circonda, e i cui baccelli cominciano a schiudersi lentamente, uno dopo l’altro, e i frutti che ne vengono fuori sono rossi e lucidi ed emanano un profumo delizioso. Nymph sente lo stomaco annodarsi e poi sciogliersi tutto assieme, ed è voglia e desiderio e piacere disturbante e stravolgente, e poi trattiene il fiato per un attimo, un attimo solo, mentre tutto il suo corpo si irrigidisce e lei serra le cosce attorno ai fianchi magri di Jo, che si spinge un’ultima volta in profondità dentro di lei, costringendola a lanciare un grido liberatorio e soddisfatto mentre i suoi muscoli si sciolgono tutti insieme in un colpo solo, e lei spalanca gli occhi e davanti al suo viso danzano ologrammi trasparenti che le mostrano i fiori del suo giardino, dischiusi, sorridenti, il viso rivolto al sole, le corolle che brillano nella luce bianca del mattino.
Jo scivola fuori dal suo corpo, stendendosi sull’erba al suo fianco. Nymph sta ancora ridendo, non riesce a smettere. Si copre il viso con le mani, imbarazzata, ma è così felice che a stento riesce a trattenere la voglia di piangere. Le fate, da qualche parte dietro di loro, stanno cantando canzoncine allegre e spensierate. Cinguettano dolcemente, e Nymph cerca di tenere a mente che più tardi vorrà dar loro un po’ dello zucchero di cui le ha private negli ultimi giorni, perché anche loro se lo meritano.
Jo si allunga a staccare un frutto dal proprio baccello, lo soppesa fra le mani per qualche secondo e poi lo morde, il succo dolciastro che gli cola sul mento. Nymph ride ancora, sollevandosi a sedere per leccarlo via. “È buono,” commenta soddisfatta. Jo annuisce.
“Vuoi un morso?” ridacchia. Lei si stringe nelle spalle.
“Non so se posso,” risponde incerta. Il sorriso di Jo si allarga, mentre le porge il frutto.
“Allora scopriamolo,” dice. Nymph lo guarda da sotto le lunghe ciglia bionde per un paio di secondi, e poi annuisce entusiasta, sfiorandolo con le labbra e prendendone un morso abbondante.