rp: josep guardiola

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Davide, Davide/Zlatan, Zlatan/José più varie assortite.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU.
- La Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, si occupa di identificare, mettere in sicurezza, conservare e procedere alla classificazione e allo studio approfondito di tutti quei fenomeni e soggetti paranormali/sovrannaturali che comunemente interagiscono, più o meno evidentemente, con la realtà di tutti i giorni. Davide Santon è un Agente alle dipendenze di José Mourinho, direttore generale del distaccamento milanese della Fondazione, nonché suo padre adottivo. Sta ancora riprendendosi dall'addio forzato al suo partner precedente, Zlatan Ibrahimovic, trasferitosi recentemente al distaccamento parigino, quando suo padre gli affida un novizio, Mario Balotelli. E i due danno inavvertitamente inizio all'Apocalisse.
Note: Il mondo è un posto bello in cui io posso scrivere anche di queste cose non solo senza sentirmi in colpa, ma anche gloriandomene e divertendomi un casino XD Dunque, breve storia di questa storia: l'idea di base, il fulcro su cui tutto si sviluppa, l'idea di scrivere una storia sovrannaturale "a episodi", divisa in stagioni come una serie tv, nasce un paio d'anni fa, quando incappo per caso nella community LJ paranormal25, che decido di utilizzare come una traccia generica, seguendo i vari prompt proposti dalle varie tabelle. Ho subito capito che sarebbe stata una storia sul Soccerdom, perché la tipologia del racconto richiedeva tipo un fottio di personaggi, che solo il Soccerdom poteva darmi con l'adeguata abbondanza, ma per il resto un enorme velo nero è calato sulla storia e sui modi, finché Julie non ha inventato il Genetics Fest. Sono rimasta a brancolare nel buio chiedendomi cosa avrei potuto scrivere a riguardo, visto che avevo già deciso di prendere piume come prompt, quand'ecco che il progetto di questa storia è tornato a bussare alle porte della mia memoria, e giù a cascata tutto l'headcanon che in due anni non mi era mai passato per la testa XD
Dunque, in sostanza, per i primi quattro episodi dovresti essere abbastanza sicuri di poterli ricevere per tempo, uno a settimana, in coincidenza con le scadenze del Genetics Fest. Per i successivi, chissà! XD Mi conoscete, sapete che scrivo a cazzo di cane, ma prometto che cercherò di essere se non puntuale almeno dignitosa con le consegne e i postaggi ♥
Ciò detto, aspettatevi una storia potenzialmente infinita -- Supernatural ci fa una sega. E buon divertimento XD
L'ispirazione per la SCP Foundation viene da qui.
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THE UNSPEAKABLES
1x01 – Pilot

Avrebbe potuto voler diventare un avvocato, riflette fra sé, le gambe accavallate, le braccia incrociate sul petto, un piede che sbatte nervosamente contro il pavimento in resina lucida e bianca, il culo poggiato controvoglia sulla seggiolina in plastica grigia più scomoda mai concepita da mente umana. Avrebbe potuto diventare un avvocato, o chissà, un medico. Avrebbe potuto voler essere un poliziotto, o un professore. O un pilota automobilistico. Perfino un calciatore.
Ma no. Lui voleva seguire le orme paterne. Paterne, poi. Un blocco di cemento attaccato a una caviglia e in caduta libera giù da un ponte verso il mare sarebbe stato più paterno di quanto José Mourinho era stato nei confronti di Davide per tutta la sua intera esistenza, da che era stato adottato in poi, cosa che, davvero, aveva del crudelmente ironico. Se la natura non ti ha dato dei figli, perché disturbarti ad andartene a cercare uno fino in Italia per poi non stare mai con lui? Sempre lontano, suo padre, sempre immerso nel suo lavoro, sempre chiuso in ufficio, sempre impegnato ad incontrare gente che inevitabilmente finiva per non essere Davide. Un padre assente, per voler usare un eufemismo ancora gentile. Un trascurante figlio di puttana, a volere invece descrivere in termini più propri la realtà dei fatti.
Forse è per questo motivo che, posto di fronte alla scelta della vita, non appena concluso il liceo, Davide ha scelto la pillola rossa. Ha scelto di aprire gli occhi e guardare, uscire dalla realtà per cui “papà è il direttore generale di un’importante organizzazione che lo tiene molto, molto occupato, tesoro” per tuffarsi di testa nella verità che ha continuato a sfuggirgli per tutti gli anni della sua infanzia.
Una verità che ora vive quotidianamente, che gli piace più di quanto non ammetterà mai, e che a fasi alterne gli regala quanto di meglio la vita abbia da offrirgli, e subito dopo quanto di peggio.
I suoi pensieri si soffermano distrattamente sul profilo di Zlatan che si staglia contro il tramonto, in spiaggia, la tenda da campeggio appoggiata sulla sabbia qualche metro più in là, il carbone che scoppietta ed arde allegro nel braciere fra di loro mentre nell’aria si diffonde l’aroma invitante delle puntine di maiale annaffiate nel salmoriglio. “Andrà tutto bene, Dade,” la sua voce sempre così ruvida, dai semitoni così improvvisamente soffici, “Non hai davvero bisogno di me.” Il sapore di sale, chissà se dovuto alle lacrime o all’acqua di mare.
Scaccia via il pensiero con forza, chiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia. È arrabbiato, con se stesso, principalmente, per essere nonostante tutti gli anni di servizio che ha ormai alle spalle ancora così ridicolmente debole. Ricorda ancora le parole di suo padre il giorno in cui, completato l’addestramento, gli ha consegnato il suo nuovo tesserino di Agente, e la sua arma. “Ti affido a Zlatan,” ha detto, e poi ha sorriso, “Anche se so che sto facendo un errore.” Davide si rivede, infinitamente più piccolo, la faccia ancora brufolosa tipica degli adolescenti ed una massa confusa di capelli castani sulla testa, l’uniforme ancora da riempire che gli cadeva addosso sformata come un sacco di patate, chiedere perché. E rivede di nuovo quel sorriso a piegare le labbra di suo padre, e quel suo “Non crescerai mai, attaccato al culo di Zlatan, ti proteggerà sempre. Ma sei mio figlio, e non posso mandarti lì fuori con nessun altro.” La prima volta che s’è sentito vagamente amato da lui.
Si decide a deviare nettamente dal viale dei ricordi quando sente le lacrime cominciare a pungere sotto le ciglia, ed in quel momento la porta metallica accanto alla quale era seduto in attesa si apre con un clic discreto, mostrando la mano abbronzata e dalle dita lunghe di Pep, che si affaccia dallo spiraglio e gli posa addosso un’occhiata che non presagisce nulla di buono.
- Tuo padre può riceverti, adesso. – dice con un breve cenno del capo, aprendo la porta per lui.
Davide si solleva con un sospiro ed entra nell’anticamera di medie dimensioni che funge da ufficio di Pep Guardiola, fedele segretario tuttofare e primo consigliere di suo padre da ormai più di dieci anni.
In quell’edificio, ed anche al di fuori dei suoi confini, tutti sanno che è il figlio adottivo di José Mourinho. Lui s’è premurato di spargere la voce non appena ha saputo della decisione di Davide di entrare nella Fondazione. Un misto di orgoglio paterno e desiderio di buttare giù qualche paletto per tenergli lontano qualche Agente anziano in vena di scherzi di cattivo gusto. Quelli della Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, sono quanto di più simile ai ranghi di un esercito sia possibile trovare all’infuori di un esercito, e che qualcuno potesse voler mettere le mani sul nuovo arrivato senza conoscerne l’origine era un’eventualità che andava necessariamente presa in considerazione.
- Qualsiasi cosa accada lì dentro, - gli dice Pep, accompagnandolo di fronte alla porta chiusa dell’ufficio di suo padre e poi aprendola per lui, - Sappi che ho provato in ogni modo a fargli cambiare idea, ma non ha voluto ascoltarmi.
Davide gli lancia un’occhiata dubbiosa, ma è troppo tardi per indagare oltre. La porta è aperta e suo padre è seduto dietro la sua scrivania, tutto intento ad apporre il proprio timbro e la propria firma su una pila di documenti la cui altezza sfiora i venti centimetri. Un foglio via l’altro, ogni tanto scambia qualche parola con un tizio alto, scuro di pelle e coi capelli rasati secondo un pattern assolutamente ridicolo, seduto scompostamente su una delle due sedie metalliche di fronte al tavolo.
Davide decide di ignorarlo ed entra, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
- Papà. – lo saluta quindi, alzando un po’ la voce per costringerlo a guardarlo.
- Ah!, Davide. – annuisce José, invitandolo ad avvicinarsi con un breve cenno della mano, - Vieni, vieni. Sei perfettamente in orario, come al solito.
- Non avevamo un appuntamento. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia.
- Questo è del tutto irrilevante. – sorride José, - Vieni, dai, siediti. Di cosa volevi parlarmi? – Davide lancia un’occhiata al tizio, che gliela ricambia con aria un po’ stupita, e sta per dire che vorrebbe parlargli in privato quando la fragorosa risata di José lo interrompe. – Non preoccuparti, puoi parlare di fronte a lui. Dimmi.
Davide prende posto sull’unica altra sedia libera di fronte alla scrivania, serra le mani sulle ginocchia e prende un respiro profondo.
- Non voglio essere assegnato a nessun altro partner. – dice quindi, - Voglio lavorare da solo.
José inarca le sopracciglia, sollevando gli occhi su di lui ed interrompendo la propria interminabile trafila di apposizione di timbri e firme.
- Impossibile. – dice quindi, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Non è vero. – insiste Davide, - Non sarei il primo.
- I casi si contano sulle dita di una mano. – gli fa presente José, riprendendo a siglare documenti.
- Vuol dire che si conteranno sulle dita di due, da oggi in poi. – ribatte Davide, appoggiando una mano sulla scrivania. – Non intendo essere assegnato a nessun altro. Non voglio qualche stronzetto nuovo arrivato attaccato al culo, e non voglio nemmeno fingere di dover portare rispetto a qualche stronzo più navigato che si sente più bravo o più intelligente di me solo perché ha all’attivo qualche anno di servizio in più. Non voglio, lo rifiuto. Posso lavorare da solo, sono pronto.
José lo guarda senza cambiare espressione, appoggia la penna sul tavolo e scambia una rapida occhiata col tizio seduto accanto a Davide. Poi sospira, congiunge le mani a qualche centimetro dal viso ed appoggia i gomiti sul tavolo, tornando a guardare Davide con aria seria.
- Ti sei mai chiesto il motivo per cui gli agenti sono obbligati a lavorare in coppia? – domanda. Davide si irrigidisce sulla sedia, ma scuote il capo con fare orgoglioso, come fosse fiero del fatto che, in realtà, della risposta non gli interessa niente. – Ovviamente. – sorride José, e poi prosegue. – È necessaria una grande quantità di forza spirituale e psicologica, oltre che fisica, per portare a termine gli incarichi che la Fondazione affida ai suoi Agenti. Non tutti gli individui sono in grado di fornire quello che serve da soli. Anzi, si tratta di casi estremamente rari ed estremamente preziosi. – si interrompe per qualche secondo, il suo sguardo è duro, severo, proprio come quello di un padre intento a rimproverare il figlio, a dargli una lezione che non sarà in grado di dimenticare facilmente. – Tu non sei uno di quei casi, Davide.
A giudicare dal bruciore che sente sottopelle, suo padre ha fatto centro.
Davide abbassa gli occhi, ritraendosi come una lumaca nel suo guscio, velocemente. Si ripiega su se stesso, sconfitto, e non dice una parola.
- Mi dispiace, Dade. – aggiunge José, il tono di voce improvvisamente tenero. Tutto quello a cui Davide riesce a pensare al momento è quanto lo irrita non essere solo con lui in questa stanza. Sente lo sguardo dell’altro ragazzo addosso ed è imbarazzante, è degradante, è mortificante. – Sapevo che avevi intenzione di chiedermi una cosa come questa. L’avevo intuito. Ecco perché ho ritenuto opportuno essere molto chiaro, con te, di modo che ti convincessi a lasciar perdere. Ed ecco anche perché ho scelto di farlo di fronte a Mario. – dice, e Davide gli solleva immediatamente lo sguardo addosso. Sentire chiamato l’altro ragazzo per nome suona come una nota stonata, per quale motivo dovrebbe volerlo includere nella conversazione al punto da riferirsi direttamente a lui col suo nome di battesimo?
Davide si volta a guardarlo, e il tipo lo sta ancora fissando di rimando, le iridi nere piantate sul bianco abbagliante dell’occhio e, sullo sfondo, l’uniformità scurissima della sua pelle.
Sta per domandare chi sia, ma José lo precede.
- Lui è Mario, appunto, - spiega con un sorriso, - E da oggi è il tuo nuovo partner.
Sull’ufficio cala un silenzio nervoso e imbarazzato. Mario non spiccica una parola e Davide, gli occhi fissi sulle proprie mani, serrate strette attorno alle ginocchia, non si azzarda nemmeno a sollevare lo sguardo.
Lo odia, lo odia come non l’ha mai odiato prima di quel momento, e di motivi, e ragioni, e occasioni, ne ha avute parecchie, nella sua vita. Ma questo momento, ora come mai prima d’ora, riassume tutta la loro relazione. Non è mai stato un figlio, per lui, quanto più un prodotto. Qualcosa da crescere, instradare, indirizzare. Qualcosa da concimare ed osservare alzarsi robusta verso il cielo. Avrebbe potuto diventare un giardiniere, con una vocazione simile, ed invece è diventato il direttore generale di un’organizzazione segreta per la protezione della stabilità del mondo conosciuto. Due occupazioni solo in apparenza totalmente dissimili, che si riducono in realtà allo stesso nocciolo, perché niente di quello che José gli ha mai detto è mai stato qualcosa in più che banale fertilizzante. Lezioni da imparare per rendere più dura la sua corteccia.
- D’accordo, ho capito. – si alza in piedi senza degnare suo padre di un altro sguardo. Per quello che gl’importa, un SCP potrebbe emergere dalle pareti e staccargli la testa a morsi in questo esatto istante, e lui non muoverebbe un muscolo per salvarlo. Si volta verso il ragazzo e gli fa un cenno col capo. – Muoviti.
Il ragazzo inarca un sopracciglio e non muove un muscolo. José piega le labbra in un sorriso amaro.
- Bene. – dice, - È così che vuoi farlo, dunque. BÈ, è una tua prerogativa. L’Agente anziano sei tu, adesso, lui è una tua responsabilità.
- Che non ho chiesto. – dice Davide, tagliente, - Che non mi sono scelto.
Il sorriso di José si allarga impercettibilmente.
- Come tutte le responsabilità. – risponde serafico. Poi sembra come ricordarsi all’improvviso di qualcosa. – Prima che andiate, - dice, rovistando nella sua bella pila di carte, - Il tesserino di Mario, - dice, porgendogli il suo tesserino plastificato, - La sua arma, - continua, aprendo il primo cassetto della scrivania e recuperando l’arma ancora sigillata, - E, già che siete qui, il vostro primo caso.
Davide osserva i suoi movimenti con aria incolore, fin quando non scorge come in un flash il giallo della cartellina portadocumenti passare dalle mani abbronzate di José a quelle scure di Mario.
- Un attimo. – dice, aggrottando le sopracciglia e intercettandola a mezz’aria, sottraendola alla stretta delle dita di Mario prima che possa rafforzarsi attorno al cartoncino, - Me l’hai appena affibbiato e devo già portarlo fuori?
- Anche tu sei uscito quasi subito, dopo essere stato affidato al tuo partner anziano. – risponde José, facendo spallucce.
- Due giorni dopo l’assegnazione. – precisa Davide, irritato, - Non ho avuto il tempo di testarlo. Non ho ancora neanche sentito la sua voce!
- Guarda che sono stato addestrato anch’io. – dice finalmente Mario. La sua voce è profonda e gutturale, e venata da un marcatissimo accento del bresciano. Davide la trova istintivamente antipatica. Quella cadenza strascicata, quella punta di orgoglio infantile, gli danno subito sui nervi.
Si volta verso di lui, sferzandolo con un’occhiata severa.
- Non ti ho chiesto di parlare. – dice.
Mario non la prende bene. I suoi occhi si velano di un’ombra scura, una punta di rabbia che frena evidentemente solo a fatica. Ma non compie nessun movimento brusco. Conserva il tesserino nel portafogli, lega la cintura con la fondina attorno ai fianchi e poi resta in piedi, le braccia ritte lungo i fianchi.
- Lo testerai sul campo. – chiude la questione José, alzandosi dalla propria sedia girevole ed indicando la porta in un gesto di congedo, - Quale migliore occasione.
*
Nessuno dei due dice una parola mentre attraversano i lunghi e bianchi corridoi degli uffici milanesi della SCP Foundation. Non si sente nessun suono, attorno, eccezion fatta per il ticchettio degli stivaletti di pelle di Davide, e lo scricchiolare insistente delle suole di gomma delle scarpe da tennis di Mario.
Davide cammina guardando dritto davanti a sé, stringendo la cartellina fra le dita. Fa strada attraverso l’ingresso e fuori dall’edificio, verso l’ascensore che conduce al parcheggio sotterraneo. E poi attraverso i grigi corridoi di cemento del parcheggio stesso, illuminati a stento dalle luci al neon, biancastre e tremule, fino al SUV nero e lucido dal disegno squadrato che è stato l’ultimo lascito di Zlatan prima di partire. “Dove vado, non mi servirà,” la sua risata sguaiata mentre gli lanciava le chiavi in aeroporto, “Ho una Citroën GT ad attendermi non appena metto piede a Parigi!”.
Davide respira forte, profondamente, poi fa scattare le sicure. L’automobile lo saluta lampeggiando e uggiolando di gioia un paio di volte. Davide apre lo sportello e si siede alla guida senza neanche invitare Mario ad accomodarsi. Fortunatamente, almeno per quello il ragazzo sembra non aver bisogno di alcuna direttiva, perché lo fa di propria spontanea iniziativa e, una volta sedutosi alla destra di Davide, resta composto ed immobile a fissare la parete grigia oltre il parabrezza. Davide lo imita per qualche secondo, cercando di concentrarsi, cercando di ricordare che è un uomo, ormai, che non deve lasciarsi manipolare così da suo padre, che deve essere professionale e che ha un compito da svolgere.
Solleva la cartellina e la appoggia al volante, aprendola ed esaminandone il contenuto.
- SCP di classe E, livello di pericolo due. – legge a bassa voce, scorrendo il documento di presentazione. Gli si piegano le labbra in un sorriso divertito, - Una succube! Mai vista una dal vivo? – chiede, voltandosi a guardare il ragazzo.
Lui è ancora piccato per la sua risposta sgarbata di prima, e si limita a scuotere il capo, silenzioso. Davide sospira e mette via la cartella.
- Non fare così. – gli dice, - Dobbiamo lavorare insieme.
- Sì, hai già espresso più che chiaramente il fatto che preferiresti leccare un cesso pubblico piuttosto che lavorare con me, ma sembra che non ci sia alternativa, per cui. – ribatte quello, guardando altrove.
Davide lancia un’occhiata esasperata al tettuccio e poi si passa una mano fra i capelli.
- Senti, non è una questione personale. – dice.
- Lo è diventata. – risponde Mario.
- No, non lo è diventata. – insiste lui, - Non lo diventa, se non vogliamo. Non è con te che ce l’ho.
Mario si degna di voltarsi a guardarlo. Con le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un broncio infantile, sembra più piccolo di quanto non gli sia sembrato ad una prima occhiata. L’imponenza del suo corpo e la freddezza del suo sguardo traggono in inganno, ma Davide si rende conto adesso che devono avere più o meno la stessa età.
- Ce l’hai con tuo padre? – domanda.
Davide sospira, scrollando le spalle ed appoggiandosi allo schienale del sedile.
- Anche, sì. È tutto un insieme di cose, - agita una mano a mezz’aria, - Non preoccupartene. Quello che è importante, adesso, è portare a termine questa missione e chiudere questa giornata nel modo meno disastroso possibile. Per il resto, avremo tempo. – conclude. – Pensi di potercela fare?
Mario scrolla le spalle.
- E proviamoci. – dice, - Abbiamo una foto?
- Un’illustrazione. – risponde Davide, sospirando teatralmente, - Vedi, questi sono i momenti in cui verrebbe voglia di andare negli uffici del reparto Classificazione e Identificazione, e dare fuoco a tutto. – borbotta, sollevando la fotocopia di un’illustrazione in bianco e nero visibilmente antica. Mostra un demone dalle zampe caprine e dal seno prosperoso. Ha lunghi capelli scuri e ricci, intricati come un labirinto, che svolazzano nel vento, una larga bocca piena di denti aguzzi dalla quale fa capolino una lunga lingua biforcuta ed occhi come due tagli orizzontali, privi di pupilla. Da dietro la schiena spuntano due enormi ali dalle piume nere. Ha le unghie adunche come artigli e zoccoli ai piedi.
Mario inarca un sopracciglio.
- Non andrà mica in giro così? – dice.
- Naturalmente no. – sbotta Davide. – Coi tempi che corrono, è più probabile che si sia trasformata in qualche Barbie bionda superdotata, o in una velina. Ma naturalmente non abbiamo foto della sua forma corrente. Sembra che avremo a che fare con del sangue blu, comunque.
- Prego? – domanda Mario, cercando di sbirciare i documenti. Davide ride e gli solleva davanti al viso un’altra fotocopia.
- La tipa in questione dovrebbe essere Mahalath, una delle quattro regine dei demoni.
- Yuhuu, - sbuffa Mario, senza neanche premurarsi di fingere entusiasmo, - La famiglia reale.
- Già. – ride ancora Davide, tornando a sfogliare il contenuto della cartella.
- Niente di utile, là dentro? – domanda curioso Mario.
- Mmh. – Davide scorre il testo con attenzione, - Citazioni dal Malleus, descrizioni di vittime sfuggite al rapporto per tutto il secolo scorso… roba standard. Niente di che.
- In pratica, dobbiamo arrangiarci per conto nostro. – conclude Mario, e poi annuisce. – Okay, - dice quindi, - Si va?
Davide inarca un sopracciglio, le labbra che si piegano in un sorriso furbo.
- Prima passiamo dagli alloggi. – dice. E, di fronte all’espressione poco convinta di Mario, spiega, - Non vorrai mica andare in discoteca conciato così?
*
Mario non ha niente di adatto per l’occasione, solo qualche paio di jeans sdruciti e qualche maglietta sbiadita. Le sue cose sono già state sistemate fra l’armadio e la cassettiera addossata in fondo alla stanza. Qualche cosa è stata poggiata sul letto, perfettamente rifatto come il suo gemello a qualche metro da lui.
Le due metà della stanza non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra, piena di poster e fotografie e libri che strabordano dagli scaffali della piccola libreria angolare quella di Davide, completamente spoglia ed anonima quella di Mario – nonostante le tracce di scotch sulle pareti dimostrino la presenza di qualcuno in quel luogo nel recente passato, qualcuno che ormai è andato via. Davide ha chiesto almeno cinquecento volte che le pareti venissero ridipinte, ma è stato ignorato ripetutamente, e niente riesce a togliergli dalla testa che si tratti in realtà di una delle piccole torture quotidiane che suo padre si diverte ad infliggergli nel tentativo di renderlo forte e duro e corazzato abbastanza da potergli cedere le chiavi dell’ufficio in un non troppo distante futuro.
Dopo un breve esame dei vestiti di Mario, Davide decide di prestargli qualcosa di proprio. Gli lancia addosso un paio di jeans aderenti blu scuro, una maglietta bianca così stretta da avvolgerlo come una seconda pelle ed un gilet nero, lucido e dal taglio moderno, che gli dice di indossare aperto sopra la maglietta. I jeans gli stanno corti ed il suo torace possente esplode nella maglietta, ma dovrà farsi bastare questo finché non riceverà il suo primo stipendio.
Davide prova a dargli un paio delle proprie scarpe, ma non portano la stessa misura, e Mario ritorna alle proprie sneaker consumate con un flebile sorriso di autentica gioia sul volto. Poi si alza in piedi e si sente scricchiolare tutto.
- Che palle. – borbotta, tirandosi giù la maglietta lungo i fianchi, - Perché stiamo facendo questa cosa?
- Perché i succubi frequentano esclusivamente locali notturni, preferibilmente discoteche. Dove si rimorchia meglio. – risponde Davide, sistemandogli il gilet sulle spalle e sollevandogli un’occhiata di rimprovero addosso, - Non hai studiato?
- Girano pochi libri in casa mia. – risponde Mario, guardando altrove, - I miei non credono nella parola scritta.
- Bella questa. – sbotta Davide, inarcando entrambe le sopracciglia e guardandolo adesso con curiosità, - Sai leggere, almeno?
- Sì, ovviamente. – grugnisce lui, offeso, - È solo che i miei preferiscono l’apprendimento sul campo a quello in classe.
Davide lo scruta con occhi attenti per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi scrolla le spalle.
- Che roba da pezzenti. – conclude, voltandosi e dirigendosi verso il proprio armadio per cambiarsi, - È come pretendere di diventare uno chef senza aver mai studiato come si cucina una frittata.
Irritato, Mario aggrotta le sopracciglia e serra i pugni lungo i fianchi.
- I miei genitori non sono dei pezzenti. – ringhia.
Davide si volta appena a lanciargli un’occhiata sufficiente da sopra una spalla.
- Non importa. – dice quindi, tornando ad esaminare i propri abiti, - Ragionano come se lo fossero.
- Ritira immediatamente quello che hai detto! – abbaia Mario. Davide si sente afferrare per un braccio e fa mezzo giro su se stesso. Mario lo schiaccia contro la porta chiusa dell’armadio e ringhia a due centimetri dal suo volto. – Non costringermi a ripetermi.
Davide lo affronta a muso duro, le sopracciglia aggrottate, le labbra serrate in una linea carica di disappunto. Gli pianta entrambe le mani contro il petto e lo spinge lontano da sé. Mario, sorpreso dalla sua forza inaspettata, finisce a sbattere contro la parete di fronte e gli solleva addosso un’occhiata smarrita. Davide si sposta il ciuffo da davanti agli occhi e mette le mani sui fianchi.
- Un’altra insubordinazione di questo tipo e faccio rapporto. Tre rapporti negativi sono un’ammonizione ufficiale. Tre ammonizioni sono una sospensione. Tre sospensioni portano all’espulsione. – elenca atono, - Questo giusto per avvisarti. Sono un Agente anziano, il tuo partner anziano, e devi portarmi rispetto.
- Be’, anche tu dovresti portarmene. – ribatte Mario, rimettendosi dritto e fronteggiandolo senza timore, - Sono un essere umano. O in questo posto del cazzo contano solo i gradi?
Davide non risponde subito. Lo guarda per qualche secondo, vagliando le sue parole, e poi cede.
- Ti chiedo scusa se ho mancato di rispetto ai tuoi genitori. Non li conosco e non ho il diritto di giudicarli. – dice, - Ciò non toglie, però, che ritengo il loro approccio alla materia assolutamente insufficiente. E penso che seguire i loro insegnamenti abbia fatto di te un Agente incompleto. Non so come tu abbia fatto a passare il test selettivo, ma—
- Non ho fatto nessun test per entrare. – risponde Mario, senza neanche lasciarlo finire di parlare.
Lo sguardo di Davide si incupisce, restando sempre fisso su di lui. Si illumina appena di un’intuizione indistinta quando Davide somma i fattori ed ottiene l’unico risultato possibile.
- Di chi sei figlio? – domanda.
Mario solleva il mento e gonfia il petto, prima di parlare. È una reazione ridicola ed esagerata, ma a suo modo tenera.
- Francesco e Silvia Balotelli. – risponde quindi. La voce gli trema d’orgoglio.
Davide è stupito dalla risposta. Non sapeva che i Balotelli avessero un altro bambino, oltre ai tre già da tempo entrati nella Fondazione, men che meno avrebbe mai potuto immaginare che l’avessero adottato. Quindi sì, è stupito dalla risposta, ma non esattamente sconvolto. José non avrebbe potuto accettare senza test d’ingresso nessuno che non fosse un prodotto certificato della famiglia Balotelli. Silvia e Francesco erano stati due Agenti di fama mondiale, negli anni ’80. Se ne studiava ancora le tecniche e le imprese, all’Accademia, durante l’addestramento.
A Davide non è mai piaciuto il loro stile. Sono noti per la loro intraprendenza ed il loro coraggio, ma anche per l’assoluta mancanza di programmazione e pianificazione dei loro assalti, che risultava spesso nella morte violenta dell’SCP che si sarebbe invece voluto acquisire. Lui preferisce altri tipi di tattiche.
- Capisco. – dice quindi, voltandogli nuovamente le spalle e tornando a passare in rassegna i propri vestiti. Sceglie per sé un paio di jeans neri ed una maglietta dello stesso colore, dalla profonda scollatura a v. – Insomma, un raccomandato. – conclude.
La rabbia di Mario è di nuovo chiarissima nella sua voce, quando parla.
- Sei un figlio di papà anche tu. – ringhia, i pugni che tremano lungo i fianchi.
Davide gli lancia una mezza occhiata ed un mezzo sorriso ironico. Poi si sfila la maglietta.
- Io i miei test ho dovuto sostenerli tutti. – ribatte, - Fra i banchi e sul campo.
Ignora la velocità con la quale Mario distoglie lo sguardo di fronte alla sua pelle nuda.
*
Sono di fronte all’Hollywood per le undici in punto, tardi abbastanza per trovare già un po’ di movimento ma presto abbastanza per avere di fronte almeno quattro ore buone di pattuglia. Entrano mostrando al buttafuori il tesserino e, una volta dentro, Davide si dirige dritto verso il bar, senza neanche guardarsi attorno. Almeno fino a quando non capisce di essersi perso Mario da qualche parte lungo la via.
Si volta per cercarlo in mezzo alla folla e lo trova immobile e rigido come un pezzo di legno a pochi passi dall’entrata, che si guarda intorno con aria smarrita. Sospirando e lanciando uno sguardo colmo di rassegnazione e pazienza in esaurimento al soffitto, gli torna accanto e lo strattona bruscamente, riportandolo alla realtà.
- Trovati. – borbotta, - Comportati con naturalezza.
- Con naturalezza? – esala Mario, fissandolo sconcertato, - Non riesco ad immaginare un comportamento più naturale di questo! Ma ce l’hai presente Concesio? Il buco del culo della Val Trompia! Quindicimila anime all’anagrafe! La cosa migliore che ne sia uscita dopo i miei genitori è stata un Papa! Ti pare che io possa mai aver visto cose di questo genere? – domanda, allargando le braccia in un gesto ecumenico che include tutta la discoteca, che si sviluppa di fronte a loro in un incessante rincorrersi di luci e suoni confusi, di corpi che si schiacciano fra loro al ritmo sempre uguale di tutti gli svariati successi dance dell’estate e dell’odore pesante ed avvolgente del sudore misto a quello più forte dei profumi da uomo e da donna ed a quello fruttato ed alcolico dei cocktail.
Per Davide, ambienti come questo sono la norma. È stato costretto a frequentarli più di quanto volesse per lavoro, e Zlatan ne andava matto nel tempo libero. Ma può comprendere come, per un tipo come Mario, siano invece una novità assoluta, da fissare con gli occhi sgranati e l’aria di un cieco miracolato del dono della vista che, come prima cosa dopo anni e anni di buio assoluto, posi gli occhi su un corpo di donna spogliato di ogni abito.
- Trovati lo stesso. – sbuffa Davide, afferrandolo per un polso e trascinandolo più in profondità all’interno del locale. – Concentrati sull’obiettivo, adesso. Qualunque bella ragazza è potenzialmente una succube.
- E come faccio a riconoscere quelle che lo sono da quelle che sono solo belle ragazze? – domanda lui, incerto.
Davide sbuffa, annoiato.
- Che ne so. – sbotta, - Lo percepisci, insomma. Non hai mai provato?
- Be’, abbiamo un piccolo Cerbero, a casa. – risponde lui, - So riconoscerlo rispetto a un cane normale.
- Sarà perché ha tre teste invece di una sola? – ribatte Davide con sufficienza, lanciandogli un’occhiata sarcastica.
- Intendevo ad occhi chiusi. – precisa Mario, offeso, - Dalla sua aura.
- È più complicato per i succubi. – sospira Davide, scuotendo il capo, - Sono demoni, la loro aura non è molto dissimile da quella degli esseri umani. Devi imparare a leggere le sfumature.
- Sì, certo. – sbuffa Mario, incrociando le braccia e raggiungendolo di fronte al bancone del bar, - Sono molto utili, le tue indicazioni, sai? Dimmi qualcosa di pratico, cosa stiamo cercando? Una donna eccezionalmente bella?
- Non saprei. – scrolla le spalle Davide, guardandosi intorno, - Sono tutte diverse.
- D’accordo, - insiste pazientemente Mario, - Ma nella tua esperienza, cos’hai visto? Ne avrai incontrate altre.
- Sì, - annuisce lui, - Un casino di volte.
- Bene. Ed erano belle?
Davide scrolla di nuovo le spalle, tornando a guardare altrove.
- Suppongo di sì. – dice, - Non faccio mai granché caso alla bellezza delle donne. Per me sono tutte abbastanza uguali.
- Ah. – dice Mario, lasciandosi cadere seduto su uno sgabello. – Ah. Okay.
Davide si volta a guardarlo, inarcando le sopracciglia.
- Problemi? – dice.
- No. – si affretta a rispondere Mario, - No, assolutamente.
Davide lo fissa ancora per qualche secondo, pensando che Mario dovrebbe rivedere il suo dizionario personale, visto che, chiaramente, alla definizione della parola “no” c’è quella della parola “sì”, ma taglia corto e torna a fissare la folla che sciama imperturbabile dentro e fuori dal locale quando si rende conto che una semplice occhiata non sarà in grado di scollare quello sguardo ebete dalla faccia di Mario.
- Okay. – dice quindi con una punta di presunzione, piantando lo sguardo su una ragazza dall’aspetto provocante, - Sta’ seduto qui e osserva il maestro all’opera.
Si allontana da lui senza degnarlo di un’occhiata, camminando a passo svelto a sicuro verso la ragazza. È vestita completamente di nero – pantaloni in pelle aderenti e dalla vita bassissima che mettono in evidenza le ossa appuntite del bacino e l’ombelico, top dello stesso materiale dei pantaloni incrociato sul petto, spalle nude, i capelli biondi lunghi e lisci che spiovono sulla schiena abbronzata in una cascata lucida che riflette tutto l’arcobaleno di colori che le luci stroboscopiche vomitano sulla folla. Ha un’aura appena più brillante delle altre ragazze, e sembra sola. Inusuale, per una ragazza di quell’età. A dir poco.
- Ehi. – la saluta con un mezzo sorriso, appoggiandosi al bancone vicino a dove è seduta lei, - Serata fiacca?
Lei gli solleva addosso un paio d’occhi enormi, da cerbiatta, di un colore indefinibile a causa della penombra multicolore della discoteca.
- Cosa te lo fa pensare? – domanda con un sorriso da Monna Lisa, le labbra piene dal disegno elegante appena appena arricciate agli angoli.
- Be’, - sorride Davide, avvicinandosi appena, - Una ragazza bella come te, in un posto come questo, a quest’ora, ancora tutta sola? O il mondo gira alla rovescia, o è una serata fiacca. Dimmi tu.
La ragazza ride, scuotendo il capo.
- Che fai, ci provi? – domanda.
Lui si concede una mezza risata, facendo cenno al barista di portargli la stessa cosa che sta bevendo lei, un cocktail che sa di albicocca dal colore talmente rosato e dall’odore talmente zuccherino da fargli venire la nausea senza averlo neanche assaggiato.
- Dipende. – dice, - Vuoi che ci provi?
Lei ride ancora, una risata cristallina e nitida, tentatrice. E quando ride la sua aura si illumina appena di sfumature rossastre.
- Spiacente. – dice quindi, e poi dà una risposta che Davide non si aspettava. – Non sono più sul mercato.
Deve guardarla in modo piuttosto esplicito, perché lei scoppia di nuovo a ridere, divertita, e sorseggia un po’ del proprio cocktail, chiudendo le belle labbra a cuoricino attorno alla cannuccia colorata.
- Non è possibile. – dice, e lei ride ancora.
- Dovrei offendermi? – chiede, - Mi avevi preso per una facile?
- Non esattamente. – risponde lui, passandosi le dita fra i capelli per scostarsi la frangia dalla fronte.
Lei ride un’altra volta.
- Oh. – dice quindi, - Allora i miei vecchi occhi avevano visto bene. – il suo sorriso si tinge di una sfumatura maliziosa, - Sei un Innominabile.
- Ah, per piacere. – sbuffa lui, - Ci chiamano ancora così, nei gironi infernali? È un vocabolo caduto in disuso da almeno un centennio.
- Be’, è più o meno da un centinaio d’anni che non rimetto piede all’Inferno. – risponde lei, - Quindi non saprei dire se adesso vi chiamino in altro modo. Per me siete rimasti Innominabili.
- Siamo Agenti, adesso. – sospira Davide, - E tu devi essere caduta.
- Da tempo, sì. – ride lei, allungando una mano verso di lui, - Chloé, piacere.
- Piacere mio. – risponde lui, stringendole la mano, e poi arrossisce appena, imbarazzato, - Non posso rivelare il mio nome.
- Ragioni di sicurezza? – chiede lei. La sua voce sembra ridere sempre, trilla come campanelli. – Non preoccuparti, capisco. – lui le sorride ancora e poi si abbatte sul ripiano del bar. Nel frattempo, il suo drink è arrivato, e lui ne assaggia un sorso e poi subito si ritrae con una smorfia. Come aveva previsto, troppo dolce. E lei si avvicina appena, e profuma di mandorle e zucchero filato. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando perdi l’anima, il profumo della pelle, la brillantezza dell’aura, la malizia negli occhi. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando te ne vai. – Giornata pesante? – chiede.
Davide sbuffa, chiudendo gli occhi.
- Annata pesante. – la corregge, - Ma è del tutto irrilevante, adesso.
- Immagino. – annuisce lei, e poi finge la voce grossa e misteriosa, - Sei in missione segreta?
- Già. – ride lui, voltandosi a guardarla, - Cerco un tuo superiore.
- Ah, sì, ho sentito. – Chloé piega il capo, i capelli le scivolano morbidi sulla spalla come una cascata dorata mentre lei accavalla le gambe, - Sua maestà, o almeno una delle, è scesa in campo.
- Corrono veloci le notizie all’Inferno. – commenta lui, inarcando un sopracciglio.
- Corrono più svelte in superficie. – precisa lei con un’altra risata cristallina. – Quindi sei alla sua ricerca, mh? Be’, mi spiace dirti che l’hai mancata di una manciata di secondi, letteralmente.
Davide spalanca gli occhi, piantandole addosso uno sguardo sconvolto.
- Prego? – domanda incerto.
Lei si stringe nelle spalle, gettando indietro i capelli in un gesto vezzoso.
- È appena andata via con un tipo, - dice, - Un bel ragazzo di colore, dall’aura potente. Il classico tipo che avrei preso di mira anch’io, se fossi stata ancora in servizio.
Davide ha appena il tempo di lanciarle un breve ringraziamento e una scusa impacciata, prima di saltare giù dallo sgabello e lanciarsi a rotta di collo verso l’uscita.
*
Li trova poche centinaia di metri più avanti, nascosti nell’ombra profonda di un vicolo. Segue l’odore dell’eccitazione di Mario nell’aria, prima, il suo profumo selvaggio appeso alle molecole di ossigeno. Poi comincia a sentire gli ansiti e i gemiti e a quel punto, più che seguire una traccia, imbocca una superstrada a duecento all’ora.
Mario sembra cosciente, ma è evidentemente fuori come un balcone. Ha gli occhi rossi e lucidi, le labbra dischiuse ed umide, gonfie di baci e di piccoli morsi, la maglietta strappata sul petto. La sua maglietta, pensa Davide con un certo risentimento.
Mahalath non è riuscita ad aspettare di trovarsi in un posto chiuso, in una camera d’albergo o chissà, magari proprio a casa sua. Gli Agenti hanno sangue forte da generazioni, hanno sangue potente, hanno resistenza e uno spiccato sesto senso, e non mancano in tutti loro una predisposizione verso il soprannaturale ed un’innata capacità di connettersi al paranormale molto più facilmente rispetto ai normali esseri umani. Per i demoni, rappresentano una tentazione più forte della mela per Eva. Se Mario si fosse degnato di aprire un libro e studiare, nella sua vita, lo saprebbe.
La regina dei demoni non ha avuto il tempo neanche di ritornare alla sua forma originaria, prima di iniziare l’accoppiamento. Si agita veloce, seduta sul grembo di Mario, tenendolo per il colletto stropicciato della maglietta come fossero redini e lui un cavallo che lei stesse cavalcando. La lunga e rigonfia massa dei suoi capelli riccissimi si agita lungo la sua schiena abbronzata e flessuosa, piegata in un arco elegante, quasi regale, mentre i suoi fianchi pieni ondeggiano avanti ed indietro. Dalle sue labbra dischiuse sfugge un gemito ed un sibilo da serpente ogni volta che l’erezione di Mario penetra dentro di lei e poi sguscia fuori, veloce, bagnata, pronta ad esplodere.
- Mahalath! – la chiama Davide, sperando di interromperli in tempo. Naturalmente, Mario viene in quell’esatto istante. – Merda. – ringhia lui, portando la mano alla propria arma ed estraendola velocemente dalla fondina. Un attimo dopo, Mahalat ruota la testa di centottanta gradi e gli offre uno sguardo spiritato e serpentino, poi soffia come un gatto e lui le punta la pistola addosso, l’indice già sul grilletto. – Ferma o sparo! – minaccia, il pollice che accarezza l’impugnatura decisamente, spostando verso l’alto il caricatore. Dall’arma comincia ad emanarsi un ronzio a bassa frequenza, e la bocca si illumina di un riflesso azzurrognolo.
Mahalath non reagisce bene. Si allontana dal corpo di Mario – il quale, non più sostenuto dalle sue braccia, si accascia per terra, svenuto – e gli ringhia contro. Quando parla, la sua voce è come divisa in due, una nota più bassa e cupa, l’altra acuta e stridula.
- Non puoi toccarmi, mortale! – gli urla contro, investendolo con l’onda d’urto della propria energia. Davide ha imparato a non contrastare questo tipo di colpi, a lasciarsi accompagnare dolcemente, perciò lascia che l’impatto con l’aria calda lo sollevi dal suolo e lo sposti di una decina di metri indietro. Quando sbatte contro i cassonetti in fondo alla strada e poi finisce di schiena per terra, però, fa un male fottuto lo stesso.
Si solleva da terra a fatica, stringe le dita aspettandosi di trovarci in mezzo la pistola e, quando non la trova, lancia un’occhiata allarmata tutta intorno a sé. La vede a pochi metri di distanza, per terra, spenta, probabilmente danneggiata. Mahalath non sembra interessata ad impadronirsene.
- Perché proprio ora? – le chiede, aggrappandosi ad un cassonetto per tirarsi in piedi. È persa, ormai, le possibilità che ha di catturarla viva o morta sono meno di zero. Tanto vale cercare di scucirle di dosso qualche informazione e sperare che Mario sia ancora vivo.
Mahalath si lascia andare ad un sorriso sghembo, la lingua che saetta fra le labbra.
- Il tempo è propizio. – dice semplicemente. Poi si solleva per aria, il corpo avvolto in una luminescenza rossastra. Lancia un urlo mentre getta il capo all’indietro e le si lacera la pelle all’altezza delle scapole. Due moncherini premono per uscire, sono solo ossa, all’inizio, poi le piume crescono, avvolgono la struttura e nel giro di pochi secondi sue enormi ali nere le si aprono alle spalle. Mahalath le sbatte pigramente a mezz’aria, una cascata di gocce di sangue si sprigiona dalle piume e piove su Davide, sulle pareti degli edifici, sulla strada, sull’immondizia, sul corpo di Mario disteso nell’ombra.
Le ali si chiudono svelte attorno al corpo nudo del demone, e Davide ha appena il tempo di scattare in piedi seguendo un riflesso involontario, afferrare la pistola e puntargliela contro – rendendosi conto che effettivamente non funziona – prima di vederla svanire in una fiammata rossa che divampa a mezz’aria e si consuma prima di toccare il fuoco.
Il vicolo rimpiomba nell’ombra, e Davide ripiomba seduto per terra quando le gambe lo abbandonano senza troppi ripensamenti. Fatica a processare l’enorme quantità di fallimenti che è riuscito ad impilare alla sua prima uscita senza Zlatan. È una situazione terribilmente imbarazzante. Come si possa passare da una percentuale di successo del novantanove virgola nove percento ad una catastrofe di epiche proporzioni come questa, durante la quale in meno di due ore è riuscito a sfasciare un’arma d’ordinanza, farsi rapire e violentare l’Agente di grado inferiore (cosa che potrebbe o non potrebbe avere conseguenze devastati per l’umanità se Mahalath è stata ingravidata), lasciarsi sfuggire un SCP e non riuscire neanche a strappargli dalla bocca un minimo di informazioni utili per farsi perdonare tutto il resto, è una cosa che francamente non riesce a spiegarsi, e che non ha idea di come spiegherà a suo padre.
Lentamente, si rimette in ginocchio, e poi in piedi. Barcolla fino al corpo di Mario, ancora riverso per terra, e gli si inginocchia a fianco. Ha i pantaloni calati fino alle ginocchia ed è passato direttamente dall’incoscienza al sonno profondo, almeno a giudicare dal compiacimento evidente col quale ha preso a russare.
Davide sospira, lo afferra per le spalle e lo scuote bruscamente.
- Oh! – borbotta, - Svegliati!
- Che?! – Mario apre gli occhi e glieli pianta addosso. È ancora così evidentemente confuso che, anche quando riesce a mettersi seduto, non la pianta un secondo di guardarsi intorno e sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco il posto. – Che… Cos’è successo?
- Il nostro obiettivo ha fatto di te il suo obiettivo. – sbotta, alzandosi in piedi e trascinandolo con sé nel movimento, - I succubi hanno una predilezione per gli individui con una predisposizione per il paranormale. Se ti fossi degnato di studiare su un qualsiasi testo preparatorio per meno di mezz’ora, lo sapresti.
- Ah. – biascica Mario, la bocca impastata, - Ah. – poi si ferma, si china di lato e sputa per terra, - Che schifo di sapore di merda. – sbuffa, - Zolfo.
- Chiamiamolo battesimo del fuoco, - sospira Davide, - E rivestiti, che sei nudo come un verme. Se penso che potresti essere appena diventato padre…
- Che cosa?! – sbraita Mario, voltandosi repentinamente verso di lui. Davide sospira ancora.
- Lascia perdere, - dice, - Te lo spiego dopo.
- D’accordo. – annuisce Mario, placandosi istantaneamente, ancora scosso dall’esperienza, mentre tenta con scarso successo di riabbottonare i pantaloni e continua a mancare spettacolarmente l’asola anche di cinque centimetri buoni a tentativo.
- Lascia, da’ qua, - sbuffa Davide, irritato, prendendo letteralmente in mano la situazione. – Sei un soggetto impossibile.
- Okay. – annuisce Mario, - Ma offrimi una pizza.
- Come, scusa?
- Ho questo sapore orrendo in bocca e ti giuro che se non mi offri una pizza adesso mi metto a vomitare a spruzzo come ne L’Esorcista.
- Ah. – Davide inarca un sopracciglio, - Quello lo conosci, dunque.
- Quello l’ho studiato! – ribatte Mario, annuendo, - Lo so a memoria.
- Non ne dubitavo. – sospira Davide, facendo strada.
Finisce comunque per offrirgli una pizza, ed intimargli di godersela, anche, mentre manda giù un boccone dopo l’altro come non mangiasse da mesi. Visto che, con ogni probabilità, è l’ultima che mangeranno prima dell’Apocalisse.
*
- Insomma, che dire. – sospira José, scorrendo distrattamente il report dettagliato che Davide ha posato sulla sua scrivania non più di cinque minuti fa. Lui e Mario stanno dritti in piedi di fronte a lui, le braccia dietro la schiena, le gambe unite, il mento sollevato. Davide ci ha messo tre quarti d’ora ad insegnare a Mario come posizionarsi correttamente di fronte ad un suo superiore, e adesso è abbastanza convinto che l’Apocalisse incombente non sia più una minaccia così spaventosa. Se è riuscito a far sì che Mario avesse anche solo la vaga parvenza di un Agente per bene, può fermare a mani nude tutte le Apocalissi dell’universo. – Un vero disastro. – conclude l’uomo, mettendo giù la relazione. Un’ombra di sorriso gli piega le labbra e non sembra davvero irritato dall’accaduto.
Davide inarca un sopracciglio, stringendo le mani dietro la schiena.
- Non sarebbe successo niente di tutto questo, se non mi avessi affidato un impiastro simile. – dice, - Me la sarei cavata perfettamente da solo.
- Sì, provandoci con una ex-succube decaduta. Osserva il maestro all’opera. – lo prende in giro Mario, lanciandogli un’occhiataccia.
- Mario! – sbotta Davide, arrossendo violentemente prima di poterselo impedire, - Sta’ zitto!
José scoppia a ridere, voltando le pagine del rapporto fino all’ultima ed apponendo in calce il proprio timbro e la firma.
- Non battibeccate come bambini. – dice quindi, rimproverandoli bonariamente.
- Stronzate a parte. – riprende Davide, tornando a guardare suo padre, - Non puoi ritenermi responsabile. Me l’hai consegnato, tralasciando di informarmi che era completamente sprovvisto di una anche minima istruzione teorica di base, e non mi hai neanche dato il tempo di conoscerlo, ci hai buttati per strada cinque minuti dopo averci consegnato l’incarico! Rifiuto qualsiasi conseguenza disciplinare collegata a questo evento.
José gli solleva gli occhi addosso, inarcando le sopracciglia. Richiude il report nella sua cartella e poi si solleva per inserirla nel grosso archivio metallico alle sue spalle.
- Il blob di via Sforza, aprile 2010. – dice, estraendo lentamente la propria chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni dell’abito ed aprendo il cassetto giusto, scorrendo le pratiche fino a trovare il corretto posto per il report, - A causa di una tua distrazione, sei stato contaminato dall’SCP. Ricordi su chi è ricaduta la responsabilità del fatto?
Davide si irrigidisce, serrando le labbra. Mario aggrotta le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata indagatrice, ma dal momento che nessuno aggiunge altro, evita di chiedere.
- Bene. – riprende quindi José, richiudendo il cassetto con un tonfo e poi voltandosi verso di loro e tendendo entrambe le mani, - Le vostre armi, prego.
- La mia è stata danneggiata. – confessa Davide in un borbottio, consegnando la propria.
- Lo vedo. – commenta José, esaminando la pistola ed il meccanismo di caricamento inceppato, - Il costo del pezzo di ricambio sarà addebitato sul tuo conto corrente e detratto dai prossimi stipendi in tre rate bimestrali. – lo informa, - Per quanto riguarda il resto, siete sospesi per una settimana, durante la quale dovrete sottoporvi alla consueta profilassi preventiva. Vi prego di presentarvi dal dottor Combi per iniziare la procedura quanto prima.
- Cosa?! – Davide si lascia sfuggire un gemito strozzato. Non c’è niente che odi al mondo più della profilassi post-contatto, niente, nemmeno suo padre.
- Non lasciarti ingannare dalla mia aria tranquilla, Davide. – risponde José, sollevandogli addosso uno sguardo severo, - Il casino che avete combinato mi costerà lunghe e tediose ore di spiegazioni al presidente, una fastidiosa ammissione di responsabilità di fronte al consiglio e, ultimo ma non ultimo, probabilmente un grande numero di vite umane quando la gravidanza di Mahalath sarà giunta al termine. Dal momento che tutte queste cose sono conseguenze che un tuo errore mi costringerà ad affrontare, farai il bravo bambino e la pianterai di lagnarti perché ti obbligo a sottoporti ad una procedura che sarebbe comunque uno standard nel tuo caso.
- Non è uno standard affatto! – insiste Davide, sbattendo il pugno sul tavolo, - Ti ho già spiegato che tutto questo non è una mia responsabilità, e comunque soltanto Mario è entrato in contatto con l’SCP, io non l’ho nemmeno sfiorato, non—
- Agente. – la voce con cui José interrompe il suo sproloquio è fredda, ferma come il ghiaccio. Non lo chiama per nome e questo, per qualche motivo, dà i brividi anche a Mario. – Presentatevi dal dottor Combi istantaneamente per cominciare la procedura. Dopodiché siete sospesi per una settimana. E se non vuoi che le settimane diventino due, ti converrà obbedire agli ordini all’istante.
Davide si irrigidisce istantaneamente, raddrizzando la schiena e serrando i pugni lungo i fianchi.
- Agli ordini. – risponde quindi, con una voce cavernosa che chissà da quale anfratto di quel corpicino da eterno adolescente sta tirando fuori. – Mario, vieni. – lo richiama, prima di voltarsi ed abbandonare l’ufficio.
Mario lo segue docilmente lungo i corridoi, avrebbe mille domande da fargli, ma si rende conto di non poterlo fare adesso. José li osserva andare via, in piedi dietro la propria scrivania, e sospira pesantemente. Lo aspettano un paio di giorni letteralmente infernali, per non parlare di quello che accadrà fra qualche mese. Sospirando ancora, ripone entrambe le pistole nel doppio fondo dell’ultimo cassetto della sua scrivania, premurandosi di chiuderlo a chiave prima di raccogliere le proprie cose nella valigetta portadocumenti, indossare il cappotto ed uscire.
Come al solito, è rimasto l’ultimo negli uffici. L’eco dei suoi passi rimbomba rumorosamente per i corridoi e all’ingresso, e poi ancora all’interno del garage, nel quale la sua Mercedes è rimasta l’ultima macchina parcheggiata. Sta per far scattare la serratura ed entrare quando una voce conosciuta lo raggiunge alle spalle e lo inchioda sul posto.
- Ti trovo bene. – dice Zlatan, appoggiato ad uno degli enormi pilastri di ferro che reggono la struttura.
José si volta a guardarlo, ravviandosi una ciocca di capelli brizzolati sulla fronte.
- Sei stato via appena un mese, stavolta. – commenta con un mezzo sorriso, - Dev’essere un record.
- Che posso dire, - ride Zlatan, scrollando le spalle prima di allontanarsi dal pilastro con una discreta spinta del bacino, - Mi mancava Milano. – conclude, avvicinandosi a lui.
- Lo immagino. – annuisce José. – Sai già dove andrai a dormire stanotte? – domanda.
- Non posso fermarmi. – scuote il capo Zlatan, - Blanc e Leo mi aspettano a Parigi in tarda serata.
- Davvero? – ribatte José, piccato. Non vuole darlo a vedere, ma la risposta lo delude. – Dunque? Che ci fai qui?
Zlatan gli offre un breve sorriso di scuse non richieste ma ugualmente necessarie, e si stringe nelle spalle.
- Torno adesso da una breve visita a Yolee, in quel di Istanbul. – dice, e José subito lo interrompe con una smorfia.
- Per piacere, - borbotta, - Non ci vediamo da un mese e torni per parlarmi dei deliri di una ridicola fattucchiera?
Zlatan ride, divertito.
- Ha avuto una crisi proprio mentre ero lì. – riprende, - Visioni.
- Non mi interessa. – José gli volta risolutamente le spalle, infilando la chiave nella serratura, - Il giorno che vorrò seguire le indicazioni di una veggente pazza, ne comprerò una a dieci centesimi sul mercato nero. Fino ad allora—
- Il diavolo canta, Zay. – lo interrompe Zlatan. La sua voce è seria e, quando José si volta a guardarlo, scopre che lo sono anche i suoi occhi. – Sarà padre, presto, e non sarà piacevole per nessuno che non sia lui. Ne sai qualcosa?
José deglutisce, cercando di mantenere la calma. È impossibile che la notizia della disavventura di Davide sia già giunta alle orecchie di Yolanthe. La visione dev’essere stata reale. Mahalath è incinta.
- Qualcosa, sì. – ammette con un sospiro, - Ma è tardi. Sono stanco. E non mi va di parlarne.
Zlatan annuisce, e sulle sue labbra torna ad aprirsi un mezzo sorriso. I suoi lineamenti spigolosi si illuminano tutti assieme all’improvviso.
- Può aspettare. – dice quindi, avvicinandosi di un altro passo, - Non ci siamo ancora salutati per bene.
José schiude le labbra per ribattere, ma non ha il tempo di farlo. Si ritrova schiacciato contro la portiere della macchina pochi secondi dopo, la bocca di Zlatan premuta contro la sua, il suo sapore familiare e nostalgico sulla lingua, e decide che possono aspettare anche le battute e le proteste.

continua

Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Death.
- Una telefonata nel cuore della notte, una vita che cambia per sempre. O forse più di una sola, forse la sua e tutte quelle ad essa connesse, perché ad ogni azione corrisponde una reazione, anche se l'azione non era nemmeno voluta. E questo José lo sa bene.
Note: Mentre compilavo lo schema di questa storia, più precisamente la voce sul pairing, mi sono sentita un attimino in imbarazzo, perché per quanto sia vero che due rapporti romantici si pongono alla base di quello che racconto, in realtà questa non è una storia romantica. E' una storia che in realtà non parla neanche di rapporti, o meglio, non completamente. E' una storia che parla di assenze, principalmente, di come ognuno possa reagire diversamente di fronte allo stesso tipo di perdita, di come, addirittura, la stessa perdita possa essere diversa in sé in relazione a coloro che ne subiscono gli effetti.
Sostanzialmente, lasciando da parte i seriosismi e i filosofeggiamenti, è una storia pesa, pesa e triste, ma io sono contenta di averla scritta, di essermi da lei lasciata trascinare, in un certo senso, fin quasi a provare fastidio all'idea di riprenderla in mano, o di scavare più a fondo.
Grazie al Def ed alla sua splendida coverart per averla portata alla luce. Ironicamente, sono convinta che, da qualche parte, questa storia già esistesse. Andava solo riesumata. *ride*
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HEARTS GONE ASTRAY

La telefonata arriva in piena notte. José ci ripenserà spesso, negli anni a venire, non smetterà mai davvero di pensarci. Perché è un momento quasi filmico, una di quelle situazioni surreali che nella vita vera non si verificano mai – o almeno così credi, naturalmente finché non ti capitano – ma delle quali la cinematografia, specie quella scadente, è costellata. La telefonata che arriva in piena notte. Quella che annuncia “c’è stato un incidente”. E chiunque parla, dall’altro lato della cornetta, lo fa con la voce rotta e sembra non riuscire mai ad arrivare al punto, come stesse rimandando coscientemente il momento in cui ti dirà il vero motivo per cui ha chiamato.
Nel suo caso, è Pep, il che rende la situazione ancora più assurda, perché non lo sente al telefono da sei mesi, almeno. La sua voce suona strana, irreale, tanto che in un primo momento José si chiede se sia sveglio davvero. Magari è un sogno, si dice. Perché mai Pep dovrebbe chiamarmi a quest’ora?
- C’è stato un incidente. – dice, e la sua voce è proprio come dovrebbe essere, incerta, spezzata dai singhiozzi, disperata. José si solleva a sedere. Accende la luce. Tami, accanto a lui, mugola infastidita e poi si volta su un fianco, scrutandolo attraverso il velo di sonno che ancora le annebbia la vista.
- Che succede…? – domanda, mettendosi a sedere a propria volta. José non risponde. Guarda dritto davanti a sé.
- Zay, sei lì? – chiede Pep, incerto, ed a José si ghiaccia il sangue nelle vene, perché quel soprannome riporta alla memoria troppe cose, ed in questo momento sembra troppo fuori luogo. Troppo strano, per non farlo pensare immediatamente a Zlatan, e mentre una parte del suo cervello si chiede per quale motivo dovrebbe pensare a lui proprio in questo momento, l’altra parte conosce già la risposta a questa domanda, e per questo tace.
- Sono qui. – dice, la voce rauca di sonno che gratta lungo le pareti della gola, faticando a venire fuori chiara come José avrebbe preferito. Non vuole mostrarsi debole. Non adesso, non con Pep. Ma è tutto orgoglio che in pochi secondi non gli sarà più di alcun aiuto.
- C’è stato un incidente. – riprende lui. Parla lentamente, nervosamente. José riesce solo a pensare “dillo. Dillo e basta”. – È Zlatan, Zay. È… è stato un incidente grave. Dovresti—
José non lo lascia finire. Interrompe la chiamata, e lo fa muovendosi lentamente, con pazienza. Ha tempo. Posa la cornetta, si piega oltre il comodino, stacca la presa dal muro. Poi si alza in piedi, dice a Tami di non preoccuparsi e tornare a dormire ed esce dalla stanza. Stacca ogni presa di ogni telefono che incontra sul proprio cammino. Con calma. Ha tempo. Si muove lentamente, raggiunge il salotto. Il suo cellulare è lì, poggiato sul tavolino da caffè. Lo spegne. Con calma. Ha tempo.
Si siede sul divano, davanti alla televisione. Recupera il telecomando e la accende. Con calma. Ha tutto il tempo del mondo perché non può succedere nient’altro, ormai. È tutto già finito. Prima ancora che lui potesse vederlo cominciare, è già finito.
Mentre fissa senza vederle realmente le immagini che scorrono sullo schermo del televisore – niente di particolarmente eclatanti: i due giornalisti di turno al notiziario di Sky Sport 24, i loro volti contratti, tesi in un’espressione grave e sinceramente sconvolta, la metà inferiore dello schermo sulla quale scorrono una dopo l’altra le varie notizie della giornata, in piccolo, così che quella più recente possa continuare a dominare lo schermo dal rettangolo rosso vivo che la mette in evidenza, il quadratino in alto a sinistra dal quale un giornalista infreddolito e stanco, avvolto in un cappotto che sembra non tenerlo per niente al caldo, stringendo convulsamente il microfono vicino alle labbra e sistemandosi continuamente gli occhiali sul naso in un gesto nervoso, continua a ripetere come in una cantilena “come potete vedere… l’incidente… l’uomo che l’ha causato è illeso… i rottami… le autorità… i soccorsi… l’ambulanza… non respirava già più” – mentre sta lì seduto sul divano e stringe il telecomando fra le dita come volesse strozzarlo, arriva la prima ondata di rabbia. Lo stronzo è morto sul colpo, il fottuto bastardo. La testa di cazzo che non è— che non era altro, è morto sul colpo, il maledetto figlio di puttana. Senza lasciargli neanche una speranza, senza nemmeno lasciargli la possibilità di accorrere al suo dannatissimo capezzale e piangere fino a sfinirsi stringendogli una mano e implorandolo di svegliarsi perché aveva promesso che sarebbe morto per lui, ma questo no, così no, questo non è morire per qualcosa, neanche per qualcuno, tantomeno per lui. Questa è una morte inutile, una morte del cazzo, una morte assurda, e lui non può accettarla.
- Zay?
La voce di Tami scivola dolce e sottile tra le pieghe della sua confusione mentale, si sovrappone alla immagini sullo schermo, le ricopre di una patina di irrealtà. José si volta a guardarla, e scopre che sembra sbiadita anche lei.
No, è lui che sta piangendo.
- Dio mio…
José si lascia abbracciare senza opporre alcuna resistenza. Lei se lo stringe contro, gli accarezza i capelli, gli sussurra di calmarsi, ma José singhiozza tanto forte da scuotere anche il corpo di sua moglie assieme al proprio. Lei non se ne lamenta, non si lamenta nemmeno della mani che le si chiudono attorno alla vita con violenza, con l’unico scopo di aggrapparsi disperatamente all’unica cosa viva che gli sia rimasta intorno. Lo lascia sfogare per tutto il tempo che gli serve, e José non sa nemmeno perché sta piangendo così.
Forse perché fa un male fottuto. La spiegazione semplice. Fa un male fottuto del cazzo, fa un male insopportabile, il solo pensiero che Zlatan non ci sia più gli lascia dentro un buco, un cratere, una voragine, un universo di vuoto, e José non sa gestirlo, perché fa troppo male. Non è un dolore che si sente in grado di tenere alla larga, è troppo invasivo, troppo totalizzante, troppo permanente.
È terrorizzato dalla consapevolezza senza speranza che questo dolore non andrà più via. Mai più. Dovrà imparare a vivere con la certezza che non imparerà mai a conviverci. Sarà come tenersi dentro per sempre un frammento di dolore fisico, impossibile da espellere, che non farà altro che scivolare assieme al sangue all’interno del suo apparato circolatorio. Un giorno, raggiungerà il cuore, e lo ucciderà, ed allora José potrà dire di essere morto per Zlatan, anche se lui non l’aveva mai promesso.
*
Tami lo convince a provare a dormire, almeno un po’. Lui si rifiuta di tornare a letto, però, perciò si raggomitola sul divano, la testa appoggiata sulle ginocchia di sua moglie, e si lascia accudire come fosse un bambino ammalato. Tami lo avvolge in una coperta di lana e passa tutto il resto della notte seduta ad accarezzargli i capelli, le tempie e il viso, nel tentativo di calmarlo. José ha gli occhi sbarrati, dormire non è un’opzione, sente il nervosismo montare sottopelle ma non vuole dire a Tami di lasciarlo andare, perciò rimane lì, in bilico fra la voglia di scoppiare a piangere e quella di mettersi a urlare istericamente, finché la luce del sole all’alba non comincia a riflettersi fastidiosamente sullo schermo ancora acceso del televisore. I giornalisti dietro al tavolo sono cambiati, ma la notizia scritta a caratteri cubitali in bianco su sfondo rosso è sempre la stessa. Incidente automobilistico. Zlatan è morto sul colpo. I soccorsi non sono serviti a nient’altro che a constatare il decesso.
Si alza in piedi alle sei meno un quarto. Da qualche parte nel corso della notte, Tami si è addormentata di nuovo. José la osserva, la testa elegantemente ripiegata sul petto, i lunghi capelli che le scivolano sulla fronte, lungo le guance, sul collo, incorniciandole il viso. È così bella. Gli piacerebbe riuscire a trovare in questo anche solo un minimo di consolazione. Ma non è abbastanza, non adesso. Non ancora, almeno.
Si passa una mano sul viso, cercando di scuotersi di dosso un po’ di stanchezza. Gli bruciano insopportabilmente gli occhi.
Va in bagno, si lava sommariamente, poi entra in camera e si cambia. Recupera un borsone dall’armadio, lo riempie di vestiti e biancheria pulita alla rinfusa, poi torna in salotto. Tami sta ancora dormendo. Le lascia un biglietto sul tavolino da caffè, le dice di non preoccuparsi, che la chiamerà più tardi, che deve andare a Barcellona, deve essere lì, deve esserci per Zlatan, deve farlo per forza, poi strappa via il foglio e ricomincia. Le ripete di non preoccuparsi. Che la chiamerà più tardi. Che deve andare a Barcellona. Che le spiegherà tutto. Le ultime parole le cancella. Strappa di nuovo il foglio e riscrive solo fino a “devo andare a Barcellona”. Poi aggiunge di salutargli i bambini appena si svegliano, di dire loro che papà tornerà presto. Uscendo di casa, pensa di buttare i fogli strappati nel cestino dell’immondizia, ma poi cambia idea. Li infila in tasca, li porta con sé, li butta nel primo cassonetto disponibile per strada.
Poi prende un taxi. Si fa portare in aeroporto, prende un posto sul primo volo disponibile per Barcellona. Deve attendere un paio d’ore. La ragazza al banco del check-in lo riconosce, gli dice “abbiamo una saletta privata, se preferisce aspettare lì”. José annuisce perché non ha nessuna voglia di essere assalito da chiunque possa vederlo lì.
La ragazza lo accompagna personalmente. La saletta privata è una piccola sala d’aspetto dall’aria elegante e pulita, le pareti bianche, le sedie dall’aspetto curato, praticamente nuovo. Sono nere e lucide, hanno l’aria di essere la cosa più scomoda mai concepita da mente umana.
All’interno della saletta ci sono un altro paio di persone, uomini d’affari, si direbbe, o qualcos’altro di ugualmente noioso. Nascosti dietro agli schermi dei propri tablet ed all’interno del loro involucro di cotone firmato Armani, restano appollaiati sulle loro sedie come se il mondo non fosse appena giunto al proprio capolinea. José si sente come l’unico protettore di questo terribile segreto: il mondo è già finito, ma nessuno se n’è ancora accorto. Si aspetta quasi di cominciare a vedere la realtà ridursi in pezzi sotto i suoi stessi occhi da un minuto all’altro.
È molto deludente quando, calmandosi un po’, capisce che non avverrà.
Le due ore passano in fretta, più in fretta di quanto non avrebbe mai pensato possibile. Non gli è mai capitato di veder scorrere i minuti con una tale furia, in realtà è sempre successo semmai il contrario: ogni volta che, per qualche motivo, ha desiderato che il tempo scorresse più in fretta, quello non faceva che rallentare.
Suppone che stavolta il punto fosse proprio che lui avrebbe preferito non vederlo passare mai.
Si concede di rilassarsi un po’ solo quando l’aereo prende quota. Chiede un tè all’hostess che passa fra le file di sedili, lo sorseggia solo fino a metà. Non sa di niente. È acqua sporca. Prova ad aggiungere un altro po’ di zucchero, ma resta acqua sporca. Un po’ più dolce, forse. Non abbastanza da costringersi a finire di mandarla giù.
Si accomoda meglio contro lo schienale al proprio posto, fissa fuori dall’oblò per un paio di minuti. Nient’altro che cielo e nuvole. Il sole picchia forte, adesso, costringendolo a socchiudere gli occhi. Ha le palpebre pesanti, ora che i nervi gli si distendono comincia a sentirsi stanco, assonnato. Si lascia andare, e nel sogno è in macchina con Zlatan. Forse è un ricordo, forse no. Zlatan sembra corrucciato, forse perfino offeso. “Non dovresti essere qui,” gli dice. José vorrebbe parlare ma non ci riesce. Zlatan guida piano, l’autostrada sulla quale la sua macchina sportiva viaggia sembra sistemata in un punto a caso di un universo immaginario in cui non c’è nulla a parte quella sottile striscia di asfalto che si prolunga oltre l’orizzonte in una linea retta sempre uguale. Non c’è niente a sinistra, né a destra. Solo terra bruciata dal sole.
Se è un posto che José ha visto, da qualche parte nel corso della propria vita, adesso non lo riconosce.
Zlatan continua a guidare, fissando dritto di fronte a sé. José prova ancora a dire qualcosa, ma è come se avesse le labbra incollate l’una all’altra.
“Lascia stare,” sospira Zlatan, “Perché non te ne vai?”
José vorrebbe rispondere “perché voglio stare qui. Perché voglio stare con te”, ma le sue labbra semplicemente non rispondono ai suoi comandi.
Poi, lo schianto.
José apre gli occhi, e sta piangendo silenziosamente. Fortunatamente, nessuno se n’è accorto. Si passa le mani sugli occhi frettolosamente, scacciando via le lacrime dalle guance. Si schiarisce la gola, sistemandosi più compostamente sul sedile.
Non ci sono nuvole, sopra Barcellona.
*
Pep ha un’aria distrutta. È la prima cosa che lo colpisce, anche con una certa violenza, nel momento in cui gli posa gli occhi addosso in mezzo alla folla assiepata dietro le transenne oltre la porta scorrevole agli arrivi. Lo riconosce subito. No, non è questo. Non è riconoscerlo, è naturale che l’abbia riconosciuto. Lo individua subito, questo sì è più strano, come se improvvisamente non ci fosse nient’altro da guardare, no, nemmeno, come se tutto il resto ci fosse, ma si mescolasse in una massa indistinte di forme e colori, e Pep fosse l’unica cosa chiara, quella che i suoi occhi riescono a mettere a fuoco più facilmente.
Ma non è una bella vista, perché Pep è stanco, provato, ha gli occhi di uno che si sia ritrovato controvoglia in una tragica condizione di esistenza quando tutto ciò che avrebbe voluto chiedere alla vita fosse la gentilezza di lasciarlo scomparire in modo discreto, silenzioso, indolore.
Per un attimo, viene investito da un’ondata di rabbia senza confini. È facile, pensa digrignando i denti oltre la barriera impenetrabile di labbra serrate prive di espressione, è facile lasciarsi devastare così dalla morte. Uscire per strada con la camicia scomposta, senza cravatta, gli occhi tanto rossi da costringere gli altri a distogliere lo sguardo come quando ci si ritrova per sbaglio ad essere presenti in un momento privato o imbarazzante, e per qualche motivo non si può andare via.
Ricomponiti, vorrebbe dirgli, ma poi, così com’è arrivata, l’ondata di rabbia scompare, ritirandosi con la marea. Alla fine, quella di Pep è una scelta. Ha scelto di lasciarsi calpestare. Non c’è colpa, in questo, probabilmente non c’è neanche debolezza, solo molto dolore. Al dolore, José lo sa, ognuno reagisce in maniera diversa. Ed è una materia troppo privata per rimproverare qualcuno solo perché il modo con cui lo affronta non è coraggioso, o deciso, o orgoglioso quanto il proprio.
Non sa cosa dirgli, quindi, quando si ritrova di fronte a lui in mezzo a una folla di persone vocianti e rumorose che potrebbero anche averli riconosciuti, dal modo in cui si dispongono a cerchio intorno a loro, come se non fossero sicuri se sia proprio il caso di disturbarli ma al contempo volessero restare in attenta osservazione di ciò che accade per essere pronti a saltar loro addosso nel caso l’occasione propensa dovesse presentarsi.
- Mi dispiace. – scolla a fatica, imbarazzato dalla propria stessa impreparazione.
Pep sembra non sentirlo nemmeno. Lo guarda, solleva le braccia, le avvolge attorno al suo corpo e se lo stringe contro, abbracciandolo disperatamente. José lo sente scoppiare a piangere e solleva solo un braccio, battendoglielo lievemente contro la schiena nel tentativo di consolarlo, in qualche modo. Si sente molto a disagio, inadeguato. Non riesce a percepire il dolore di Pep. Ne percepisce troppo del proprio.
Pep piange a lungo, minuti interi, e José lo ascolta mentre, intorno a loro, la vita dell’aeroporto riprende a scorrere, tornando ad ignorarli. Vorrebbe essere altrove. Per la prima volta da quando è partito da Milano, non è più tanto sicuro di voler davvero fare tutto questo. Di essere pronto, o anche solo di averne voglia. Di stare qui a cercare di consolare Pep per una perdita che non concepisce – Zlatan non è più suo da mesi, ormai, ma se José non è ancora stato in grado di accettare nemmeno questo, come potrebbe mai fare spazio nella propria mente già sufficientemente incasinata per accettare che, ormai da chissà quanto, era Pep a considerarlo proprio? E che è Pep, adesso, ad avere più diritto di piangere, se una cosa del genere esiste? – di stare qui in attesa di vedere il corpo, di stare qui in attesa del funerale, di stare qui in attesa di cosa? Che smetta di fare così male, probabilmente. Come se fosse possibile.
- Ti accompagno in albergo. – dice Pep, dopo essere riuscito a calmarsi almeno un po’. Gli tremano insopportabilmente le mani. Si regge a stento in piedi. José non ha voglia di vederlo così, probabilmente non ha voglia di vederlo affatto.
- Posso prendere un taxi. – offre, - Tu dovresti riposarti. Hai dormito, stanotte?
Pep scuote il capo.
- Ecco. – riprende José, quasi severamente, - Allora vai a casa e dormi.
Pep scuote il capo un’altra volta.
- Mi fa piacere accompagnarti. – insiste, - Lascia che ti accompagni.
José sospira, si guarda intorno, si passa una mano sulla nuca. È stanco, non gli va di litigare.
- D’accordo, - concede, tendendo il palmo della mano aperta, - ma guido io. Tu non sei in condizioni.
Pep sembra offeso, per un secondo, ma gli passa presto. Non ha forza abbastanza neanche per tenere aggrottate le sopracciglia.
Annuisce e gli porge le chiavi. José le stringe fra le dita e si concentra sul metallo gelido e appuntito che preme dolorosamente contro la sua pelle. Un dolore che può gestire. Può allentare la presa quando lo sente farsi troppo acuto, stringerla ancora quando lo sente sbiadire via. Un dolore necessario.
Il viaggio in macchina è silenzioso, almeno fino a quando Pep non decide di rovinarlo. José si era già comodamente sistemato fra le pieghe di quel silenzio duro, ostinato e innaturale, quando Pep schiude le labbra e si schiarisce la voce, e José prega fra sé che quest’idiota sia saggio abbastanza da cambiare idea e tacere, ma naturalmente non è così che va.
- È stata colpa mia. – dice a bassa voce. E José vorrebbe rispondere “sì”. Vorrebbe rispondere “sì, cazzo, lui era tuo e tu eri responsabile per la sua vita”. Ma non parla. – Non ero con lui, quando è successo. Ero a cena con la mia famiglia e lui è uscito per conto suo, e forse se fossi stato con lui sarebbe stato diverso.
“Sì,” pensa José, “sì, lo sarebbe stato. Magari saresti morto tu, al suo posto.”
- Non dire idiozie. – dice invece, severo, - L’unica cosa che sarebbe cambiata è che adesso sareste morti in due. Non è un pensiero consolante.
Pep abbassa lo sguardo, fissando un punto imprecisato di fronte a sé, e poi scuote il capo. Fortunatamente, non parla più.
In albergo, gli chiede se vuole che resti un po’ con lui. La prima cosa che José sente il bisogno di fare è spingerlo fuori dalla porta e dirgli di non farsi più vedere, ma riesce a mantenere su se stesso un controllo sufficiente a lasciare perdere.
- Preferisco restare un po’ da solo. – dice. Pep, stavolta, annuisce senza insistere.
- Verrò a prenderti più tardi. – dice, - Per… be’, è stata organizzata una veglia qui, prima del rimpatrio. I funerali sono in Svezia.
José annuisce. Deve parlare con Helena. Deve prenotare un volo. Deve restare solo.
- D’accordo, - dice, - a più tardi.
Non aspetta neanche che Pep abbia finito di salutarlo, prima di chiudere la porta e girare la chiave nella serratura.
*
Resta in quella camera d’albergo per ore. Pensa di chiamare Helena al cellulare, ma si rende conto da sé di quanto inopportuna sarebbe una cosa del genere. D’altronde, la vedrà alla veglia, per cui può aspettare. Chiama Tami, invece, e rispondendo al telefono lei scoppia a piangere. “Sei un bastardo,” gli dice, “hai idea della paura che mi hai fatto prendere?”. José la lascia sfogare, si scusa, dice “devi capire, Tami”. Non le spiega cosa, però, e lei non capisce, ma lui si scusa ancora e lei può vivere senza sapere.
La rassicura, le dice che tornerà a casa in un paio di giorni al massimo, le dice “salutami i bambini”, lei lo manda a quel paese un’altra volta, prima di interrompere la conversazione. José non sa come farà ad uscire da questo casino con Tami. Non può dirle quello che è successo, non può dirle cosa è stato Zlatan per lui, perché quello che lui è stato è ciò che lei sola avrebbe dovuto essere per sempre, e sapere di non essere stata la sola le spezzerebbe il cuore, e questo lui a Tami non può farlo. Non può farlo nemmeno a se stesso.
Ammettere gli errori non è mai stato il suo forte, preferisce correre dritto per la sua strada, coi paraocchi e i tappi nelle orecchie, passando sopra a qualsiasi ostacolo. È sempre stato convinto che il calcolo degli sbagli si potesse fare solo a partita finita, solo a fronte del risultato finale. Cosa sono un paio di errori se alla fine la vittoria è stata comunque guadagnata?
Solo che qua non c’è niente da vincere. Ma in realtà neanche niente da perdere. Ammettere di aver sbagliato ad innamorarsi di Zlatan – o forse solo ad andare a letto con lui, perché non può esserci niente di sbagliato nell’amare qualcuno di per sé – sarebbe irrilevante, in qualsiasi senso.
Rimane a fissare il telefono, per un po’. Sente il segnale sordo e regolare della linea libera, attutito dalla cornetta e dalla distanza fra l’altoparlante e le sue orecchie, e ripensa a ieri notte, alla voce di Pep, a quanto suonasse nervosa e disperata e spaventosamente distante, come facente parte di un mondo a sé, un mondo diverso dal suo, ripensa a quanto gli sia sembrato finto quel momento, surreale nella sua assurdità, e poi pensa che fra un paio d’ore sarà di fronte al cadavere di Zlatan, e la realtà lo colpisce in pieno viso con una violenza così priva di pietà, o riguardo, o rispetto, che José sente il bisogno di essere altrettanto violento nei suoi confronti, e lancia il telefono per terra, si piega su se stesso e si copre il viso con entrambe le mani, scoppiando a piangere come un bambino.
Dura solo una decina di minuti, è il massimo che può concedersi prima di cominciare a sentirsi ridicolo, fuori luogo. Zlatan ha una compagna e due figli che sono appena rimasti soli. Sono gli unici ad avere un qualche diritto di sentirsi persi e senza speranza. José vuole calmarsi anche per loro, essere d’aiuto, in qualche modo. Non ha idea del perché si senta così, adesso, come se dovesse sentirsi in colpa nei loro confronti e fosse finito a sentirsi in colpa perché non ci si sente per davvero. Ha solo voglia di risolvere le cose, di rimettere tutto a posto, e sapere di non potere lo fa sentire senza fiato.
C’è qualcosa di soffocante nell’irreversibilità della morte. Lo stringe alla gola, lo costringe a guardarsi nello specchio appeso alla parete di fronte a lui, e realizzare che è lì che non c’è niente, niente che lui possa fare per fermare questo dolore, adesso. È già tutto finito, e Zlatan non gli ha lasciato nemmeno il tempo di provare a fermare il disastro prima che si verificasse.
Come d’altronde non ha mai fatto.
*
La prima volta che si sono baciati, José s’è ritrovato schiacciato di prepotenza contro una parete, labbra ruvide e sottili premute contro le proprie, gli occhi aperti e cattivi dello zingaro fissi sui suoi. È stato un bacio senza amore, quasi perfino senza sottotesto sessuale, anche se dalle conseguenze non si sarebbe detto: no, è stato un bacio molto semplice, un bacio che faceva un punto. Io posso averti con le spalle al muro quando voglio. Quasi una dichiarazione d’intenti.
La seconda volta, è stato José a baciarlo. Dopo un allenamento di merda in cui Zlatan era sembrato del tutto incapace di produrre una qualsiasi cosa che avesse un senso, o anche solo di interagire efficacemente col resto della squadra. José l’ha trovato seduto su una panchina vicino al campo, intento a sciogliere la fasciatura attorno alla caviglia e al piede, e gli si è avvicinato. Si è chinato su di lui e l’ha baciato. Dolcemente. Lentamente. Prendendosi il tempo necessario per abituarsi alla sensazione differente che la pressione delle labbra di Zlatan sulle sue provocava in lui. Una dichiarazione d’intenti anche quella, a suo modo.
Zlatan ha risposto al bacio – a quello e a tutti i successivi, per un anno intero. Poi è finita, perché sono stati entrambi due teste di cazzo. Perché hanno, come al solito, frapposto l’orgoglio fra se stessi e tutto quanto il resto. Perché c’era un problema di obbiettivi, c’era un problema riguardo come fare a raggiungerli, c’era nello sport come nella loro vita privata. C’erano due famiglie, due mogli e quattro figli in gioco, c’era troppo da perdere, troppo sul piatto, e troppo poco a controbilanciare su cui scommettere.
E quindi è finita. Amaramente, lasciandosi dietro un senso di incompiutezza, di vuoto, di rimpianto. Di “avremmo potuto provare di più”, “avremmo potuto provare meglio”, “avremmo potuto provare e basta”.
È arrivato il Barcellona, col Barcellona Pep. José ha cancellato i loro visi dalle sue memorie perché pensarli insieme – dopo gli anni di amicizia che l’avevano legato a Pep in gioventù, dopo quello che l’aveva legato a Zlatan più recentemente – era una tortura che non si sentiva disposto a sopportare.
Poi il vuoto.
E poi lo schianto.
E mai una volta, in tutto ciò che è accaduto, Zlatan ha permesso a José si avere l’ultima parola, su qualsiasi cosa riguardasse lui o loro insieme.
Forse è proprio questo quello che tiene José inchiodato a quel letto per ore, incapace di darsi una mossa. Continua a pensare che se avesse preso delle decisioni, se Zlatan gliel’avesse lasciato fare, se avesse accettato qualche consiglio o suggerimento, se lui fosse riuscito a imporsi, in qualche modo, sarebbe andato tutto diversamente. E forse a quest’ora Zlatan sarebbe ancora vivo.
Realizza all’improvviso che si sta comportando esattamente come Pep. Non riesce a sopportarlo. Si alza in piedi mezz’ora prima che Pep passi a prenderlo, e va in bagno a prepararsi.
*
Non scambia una parola con Pep per tutto il tragitto. La veglia funebre è stata organizzata a casa di Zlatan, e José non ha idea di dove si trovi, per questo lascia che sia Pep a guidare. Per questo, e anche perché Pep sembra essersi ricomposto abbastanza da farcela. Si è cambiato, sbarbato, José può sentire l’odore forte del suo bagnoschiuma fin da lì. Per un attimo, sorride. “Così si fa,” vorrebbe dirgli, “bravo, Pep, sono orgoglioso di te,” ma non lo fa. Resta in perfetto silenzio e, quando arrivano, è infastidito quando Pep gli stringe una mano attorno al polso per trattenerlo un po’ più a lungo all’interno della macchina.
- Dovremmo parlarne, credo. – gli dice.
- Io credo di no. – risponde José. Si libera di lui con uno strattone e si dirige speditamente verso l’unica villetta del circondario col cancello aperto e il parcheggio pieno di auto. Cammina a piedi lungo il vialetto che conduce alla porta d’ingresso mentre Pep posteggia da qualche parte e, dietro di lui, arriva un’altra mezza dozzina di auto, a bordo un sacco di persone che sembrano trovarsi lì per caso, senza nemmeno capire bene come ci siano finiti. C’è una sorta di smarrimento, nell’aria, qualcosa che fa sentire José come se fosse tutto fuori posto. Si sente così per molti secondi, di fronte alla porta d’ingresso, finché non si spalanca e la figura minuta di Helena non appare sulla soglia.
- Mister Mourinho. – dice piano, un sorriso appena percettibile a piegarle le labbra, mentre tende una mano verso di lui, - Sono contenta di vederla.
Mentre lo invita ad entrare in casa, José la osserva. Indossa un abito nero, i capelli raccolti in uno chignon alto dietro la nuca, ed è perfettamente truccata. Ha l’aria di una donna stanca che non può permettersi di cedere. José vorrebbe abbracciarla, ma non ha idea di come potrebbe reagire. Non si sono mai davvero frequentati, lui e Zlatan hanno fatto il possibile per mantenere ciò che c’era fra loro ben separato dal resto delle loro vite, e sembra una forzatura fin troppo fastidiosa cercare di ricucire uno strappo tanto netto adesso che lui non c’è più.
- Condoglianze. – le dice, mentre lei attende vicino alla porta che anche Pep, dopo aver abbandonato la macchina, si avvicini, - Come stanno i bambini?
- Vincent non ne ha capito molto. – risponde lei con un mezzo sorriso affranto, - Maxi… - sospira, e poi scuote il capo. – Sono coi nonni, in questo momento. Non volevo…
- Capisco perfettamente. – annuisce José, posando una mano sulla sua e sorridendole appena. Lei risponde con un sorriso identico, tanto sottile e stentato da sembrare una smorfia di dolore. – Lui dov’è? – chiede quindi, abbassando rispettosamente lo sguardo. Helena gli fa un cenno, indica una porta. Tutta la casa è illuminata, ma quella è l’unica porta, oltre quella della cucina, dalla quale giungano voci di persone.
José annuisce e la saluta stringendole la mano un’ultima volta. Poi si allontana lungo il corridoio, e si muove lentamente. Non ha nessuna fretta di arrivare dove deve andare, non ha nessuna fretta di chiudere una volta per tutte questo capitolo della sua vita. Ci sarà il funerale, per dire addio, ma questo è il momento in cui tutto finisce. È il momento in cui c’è un corpo chiuso in una bara che lo aspetta per confermargli che non c’è più niente da fare.
Quando si avvicina, è abbastanza deluso nel notare che non l’hanno messo in una bara di vetro, di quelle col coperchio trasparente. Così, l’effetto che ha su di lui è un po’ meno forte. C’è un coperchio di legno a proteggerlo dall’immagine del suo viso immobile, inespressivo, pallido e gelido. Sa che è lì dentro, ma non vederlo lo aiuta a prenderla meglio, in qualche modo. Forse perché così può aggrapparsi a una menzogna gentile un po’ più a lungo.
- Non era in condizioni. – dice Pep, apparendo al suo fianco. José non lo guarda. Continua a fissare la bara finché le dita lunghe e scure di Pep non entrano nel suo campo visivo. Accarezzano il coperchio con tenerezza quasi imbarazzante, e José aggrotta le sopracciglia. Vorrebbe dirgli di contenersi, ma ancora una volta ha l’impressione di stare cercando di misurare il dolore di Pep con un metro troppo personale, e quindi lascia perdere. – Il suo corpo, intendo. – continua Pep, a bassa voce, - Non sono riusciti a sistemarlo abbastanza da renderlo presentabile.
Una scarica di dolore puro attraversa il cervello di José da parte a parte quando le parole di Pep gli scivolano dentro a sufficienza da essere comprese. Per un attimo riesce a vedere oltre il legno, il viso sfigurato di Zlatan, le sue membra scomposte e martoriate, il suo corpo irriconoscibile. È tutto così reale. Non ci sono più bugie. Un coperchio di legno non è sufficiente a nasconderlo.
Non sa se Pep sappia in quanti modi l’ha aiutato semplicemente con questa frase. Lo guarda, e pensa che in realtà non se ne sia reso conto. Che in realtà l’abbia pronunciata più per se stesso, per darsi qualcosa di reale a cui pensare, per non indugiare troppo col pensiero sul sorriso di Zlatan, sui suoi occhi, sul mondo in cui brillavano quando litigava con qualcuno, o sul modo in cui si muoveva dentro e fuori dal campo, ma non importa. Alle volte anche l’egoismo di qualcuno è utile per qualcun altro, così pensa José, l’ha sempre pensato. Lui ha perso il conto di quante migliaia di tifosi ha reso felici nell’egoistica rincorsa del maggior numero di titoli possibile. È così che funziona. Ad ogni azione di ognuno corrispondono conseguenze per milioni di altri. È giusto così.
- Grazie. – sussurra, guardando Pep con un mezzo sorriso a stendere le labbra. Gli appoggia una mano sulla spalla e stringe appena, nel tentativo di passargli almeno un po’ del calore che sta provando adesso. Gli occhi di Pep si riempiono di lacrime.
- Per cosa? – domanda in un singhiozzo.
- Non importa. – scuote il capo José, sorridendo, - Adesso vado.
- Dove? – insiste Pep, appoggiando la mano aperta su quella di José nel tentativo di trattenerlo.
- Torno in albergo. – risponde lui, - Sono stanco. Tu resta quanto vuoi. Prenderò un taxi.
- Posso—
- Sì, lo so che puoi. – José si sporge verso di lui, abbracciandolo per un istante. Quando si allontana, le lacrime hanno preso a scivolare lungo le guance abbronzate di Pep, scavando lunghe righe scure sulla sua pelle. – Ma io voglio che resti qui. Non preoccuparti per me. – sospira, - Preoccupati per te stesso, Pep. Tieniti molto da conto. Fallo anche per me. Mi raccomando.
Pep si morde un labbro e sembra del tutto intenzionato a continuare ad insistere fino a farlo cedere, ma poi qualcosa cambia, nei suoi occhi, mentre le dita che ancora tiene appoggiate sulla bara si serrano attorno al coperchio con uno scatto quasi spasmodico. Il suo corpo gli sta dicendo che non può ancora andare via, e José sorride perché invece le sue, di dita, sono libere, adesso.
Può andare.
*
Quella notte sogna Tami. “Perché sei qui?” le chiede, e lei sorride. È vestita di bianco, ha i capelli sciolti, è se stessa com’era a sedici anni, bellissima e pura e piena di aspettative nei confronti del futuro. Gli si avvicina, lo abbraccia, se lo stringe al petto e lo culla come un bambino.
“Perché ci sei tu,” risponde Tami, e la sua voce non è più quella di Tami. José alza lo sguardo e ci sono lui e Zlatan per strada, di notte, da qualche parte sull’autostrada. Ci sono delle fiamme che ardono in lontananza, si sollevano verso il cielo come volessero scorticarlo a unghiate. José non riesce a capire cosa le provochi. La giacca che Zlatan indossa è tutta bruciacchiata, ma lui, lui sta bene.
“Perché sei venuto?” domanda Zlatan, l’accento così forte da rendere la sua voce quasi ridicola.
José non riesce a parlare.
“Andiamo, Zay,” insiste Zlatan, l’espressione severa che si stempera in un sorriso più dolce.
José si sente piangere nel sonno. Improvvisamente, è consapevole di stare sognando, e che da qualche parte il suo corpo addormentato sta piangendo. Sente le guance bagnate, ma nel sogno non ci sono lacrime. “Volevo salutarti, zingaro,” dice. La sua voce suona incredibilmente serena mentre il sogno si trasforma in una macchia confusa e poi svanisce.
*
Il cielo sopra Malmö è di un grigiore pesante, uniforme. Sembra che qualcuno gli abbia dato una mano di cemento e poi l’abbia lasciato lì ad asciugare. José immagina che debba essere colpa delle nuvole, nessun cielo può essere di un colore simile se completamente sgombro, ma non può esserne certo perché, se quelle sono nuvole, sono talmente tante, e talmente ammassate le une contro le altre, da non riuscire nemmeno a distinguerne i contorni.
Non piove, almeno. Ma l’aria è pesante di umidità, ed onestamente, a questo punto, José non vede l’ora che tutto ciò sia finito per tornare in albergo, dormire una quantità spropositata di ore e poi tornare a Milano. Ha voglia di vedere i bambini. Ha voglia di vedere Tami. Ha voglia di tornare a lavorare, e se pensa che solo fino a un paio di giorni fa l’idea stessa di riprendere la propria vita come se niente fosse successo lo ripugnava, le labbra quasi gli si arricciano in un’ombra di sorriso amaro.
Dev’essere un meccanismo di difesa, si dice, mentre osserva distrattamente la bara sospesa sulla tomba di famiglia di Zlatan, immobile in attesa che il prete concluda le preghiere di rito. Dev’esserci qualcosa che impedisce alle persone sane di annegare troppo profondamente nel proprio dolore. Qualcosa che le salva, qualcosa che scatta, un meccanismo che entra in azione o qualcosa di simile, che a un certo punto le recupera da qualsiasi abisso nel quale sono sprofondate, e le riporta a galla.
Due giorni fa, José è riemerso da un sogno respirando a pieni polmoni come dopo una lunga apnea. Era da solo in una stanza d’albergo a Barcellona ed aveva appena perso uno degli amori più enormi della sua intera esistenza. Ne aveva salutato il cadavere dentro una bara appena poche ore prima.
Si sentiva rinato.
Ora, la bara comincia a scendere lungo il tunnel scavato nel terreno e pronto ad accoglierla. Helena piange silenziosamente a qualche metro da lui, composta nel suo dolore e bellissima nel suo lutto. Si è indurita, in questi due giorni. I suoi lineamenti sono più fieri, provati, il dolore immobile della linea netta e dritta delle sue labbra commuove José al punto da costringerlo a versare a propria volta un paio di lacrime. Non è nostalgia, è solidarietà. È condivisione di qualcosa di più grande di una semplice conoscenza. Di qualcosa di più profondo.
È amore, pensa José, lo sguardo che si sposta su Maximilian, che stringe forte la mano di sua madre, e su Vincent, disperatamente aggrappato a quella di suo fratello. È amore anche questo, in un certo senso.
- Come stai? – chiede qualcuno apparso al suo fianco. José si volta di scatto, stupito. Credeva di essersi messo abbastanza in disparte da non attirare l’attenzione.
- Deki. – esala confusamente, sbattendo un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco, come non riuscisse a capacitarsi di vederlo proprio lì in quel momento, - Cosa ci fai qui?
Dejan sorride, spostando per un attimo lo sguardo sulla bara ormai quasi completamente scomparsa sotto terra, come per un ultimo saluto.
- Eravamo molto amici. – risponde semplicemente, - E tu ci sei mancato molto, in questi ultimi giorni. – aggiunge con un sorriso appena più imbarazzato, tornando a guardarlo.
José abbassa lo sguardo sulla ghiaia che copre il vialetto secondario sul quale si è sistemato per osservare la funzione, sentendosi per qualche motivo colto in fallo, perfino a disagio.
- Dovevo—
- Non devi spiegarmi niente. – lo interrompe Dejan. José solleva nuovamente lo sguardo, e lui sta ancora sorridendo sereno, - Davvero, lo so. Non c’è bisogno. Volevo solo essere sicuro che adesso fosse tutto a posto. Perché se non lo è, noi siamo qui. Intendo, tutti. Tutti quanti. Ti aspettiamo a casa, e ci saremo.
José schiude le labbra, gli occhi che si riempiono di lacrime, le mani che tremano appena nonostante lui cerchi in ogni modo di controllarle, chiudendole a pugno lungo i fianchi.
- Non so che dire. – ammette, la voce rotta da un singhiozzo impossibile da nascondere. Dejan si concede una risatina incerta, scuotendo il capo.
- Lascia perdere. – gli dice, appoggiandogli una mano sulla spalla e battendovi sopra un paio di pacche consolatorie, - Ora scusami, vado a salutare Helena. – aggiunge, sporgendosi per abbracciarlo sbrigativamente, prima di correre dietro alla donna per evitare di lasciarsela scappare prima di essere riuscito, probabilmente, a migliorare la giornata perfino a lei, o almeno così pensa José nell’osservarlo allontanarsi.
Una volta rimasto solo, sfila il cellulare dalla tasca interna della giacca. Nessuna chiamata. Un messaggio di Pep. Dice “Grazie a te,” e José sorride, contento che finalmente anche lui abbia capito.
Compone a memoria il numero di Tami. Lei non risponde, e lui sorride ancora, perché se lo aspettava. Le lascia un messaggio in cui le dice che sta per andare all’aeroporto, che prenderà il primo aereo, che sarà a Milano in qualche ora. Di aspettarlo, perché fra poco sarà lì con lei, e tutto si risolverà.
Mentre la saluta, Tami solleva la cornetta. “Sono stufa di essere arrabbiata con te,” gli comunica in un mezzo piagnucolio che la fa sembrare per un attimo la stessa ragazzina, poco più che una bambina, che era quando José l’ha conosciuta. “Torna presto.”
José ride piano, rassicurandola. Quando interrompe la telefonata e solleva lo sguardo, accanto alla tomba di Zlatan non c’è già più nessuno. Si avvicina e, dalla lapide, una fotografia dai lineamenti sgraziati gli sorride, con l’aria di uno che è stato il più stronzo figlio di puttana di tutti i tempi e che se l’è goduta un mondo fino all’ultimo istante. José scoppia a ridere come un imbecille, passandosi una mano sugli occhi quando sente il familiare bruciore delle lacrime pungere sotto le palpebre. Non piangerà, però, basta così.
Il sorriso di Zlatan sembra salutarlo con calore, mentre lo osserva andare via.
Genere: Introspettivo, Romantico, Erotico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Bojan.
Rating: PG-13/R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack.
- ...follia estemporanea a dimostrazione della mia palese malattia mentale.
Note: Tutto ciò che dovete sapere di questa storia lo trovate riassunto qui. La Jan e la Nari saranno la mia fine. Sappiatelo.
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Sweet, Sweet, Sweet, Could You Taste It?


Quando José vede apparire Pep sulla soglia della sua porta, inizialmente non può crederci. È arrivato in Spagna da meno di una settimana ed è teoricamente ancora troppo in vacanza per poter tollerare un’invasione simile della sua privacy, soprattutto da un collega che ben presto diventerà il suo peggior nemico.
- È una fanfiction? – chiede dubbioso, allungando il collo e scrutando il corridoio a destra e a sinistra, come aspettandosi di vedere spuntare da ogni lato fangirl intente a cambiare il corso della storia scrivendo forsennatamente al computer. È quasi deluso quando non ne trova nemmeno una.
- Una che? – biascica Pep, costringendolo a scansarsi per lasciarlo entrare, - No, comunque. Di che diavolo sta parlando?
- Cioè sei reale? – insiste José, allungando perfino una mano per toccarlo, incredulo. – Sei vero?
- Ma— Mister Mourinho, cosa ha bevuto prima che arrivassi?
- Scusami tanto, ma non sono affaracci tuoi! – sbotta sconvolto, - Tu, semmai, cosa hai ingurgitato per poter anche solo pensare di poterti presentare qui nel cuore della notte ed entrare in camera mia come niente fosse?
Pep si guarda intorno, circospetto, come avesse paura di essere stato seguito fin là. Poi chiude con cautela la porta della camera, rigirando la chiave nella serratura un paio di volte, giusto per sicurezza, e solo alla fine di queste operazioni torna a guardare José, con estrema serietà.
- Sono in fuga. – confessa, cupo come un bollettino di guerra.
- …in fuga. – ripete José, come se ripeterlo potesse servire a dargli un senso, - E sei venuto fino a Madrid per fuggire da… qualsiasi cosa tu stia fuggendo?
- Era necessario. – annuisce l’uomo, cominciando a camminare per la stanza in cerchi ampi e nervosi, - Se fossi rimasto a Barcellona, lui mi avrebbe trovato.
- …naturalmente. – gli dà corda José, ipotizzando di avere a che fare con un pazzo e scegliendo la via della condiscendenza, - E perché non sei andato a rifugiarti da qualche amico? O in un albergo, ad esempio. Cioè, un albergo che non ospitasse anche me, intendo.
- Lei non capisce! – scatta Pep, esasperato, - Non potevo andare da nessun amico, lui li conosce tutti! Sarebbero stati i primi dai quali mi avrebbe cercato, e anche gli alberghi— quanto pensa ci metterà prima di stilare un elenco e cominciare a chiamare ogni singolo dannato hotel di Spagna per vedere se alloggio lì?!
- Ma non lo so! – sbraita a propria volta José, allargando le braccia ai lati del corpo con aria sconfitta, - Cosa vuoi che ne sappia, non ho neanche idea di chi sia questo famigerato lui di cui vai cianciando!
Pep si lascia scuotere da un brivido di puro terrore, prima di lasciarsi ricadere su una poltrona e congiungere le mani ai lati del naso, pensoso.
- Bojan. – racconta quindi, la voce ridotta a un rantolo tremante, - Io e lui… stiamo insieme. – confessa. José spalanca gli occhi. Tutto ciò è insano e lui non vuole esserne parte. Vorrebbe fermare Pep e buttarlo fuori dalla finestra a calci, ma per qualche motivo non riesce. – Non so cosa sia successo nelle ultime settimane, lui è sempre stato un ragazzo così dolce… - narra con una certa tenerezza, - eppure, - riprende, più cupamente, - ultimamente, qualcosa è cambiato. E lui ha… Dio.
- Ha cosa? – chiede José, a questo punto un po’ curioso, un po’ preoccupato e un po’ morbosamente attratto da quanto sta accadendo in camera sua.
- Lui ha… - esita ancora Pep, deglutendo a fatica, - ha cominciato a nutrirmi solo con fragole e limone.
José inarca un sopracciglio.
- Ti nutre solo con fragole e limone. – ripete ancora una volta, - E perché?
Pep rabbrividisce ulteriormente, stringendosi nelle spalle.
- Vuole… Dio, non posso dirlo.
- Parla, Pep! – insiste José con tono di comando, e Pep chiude gli occhi, rassegnato.
- Vuole che il sapore delle fragole con limone diventi il mio sapore. – dice, e solleva lo sguardo con fare eloquente, - E non sto parlando del sapore dei miei baci o della mia pelle.
José inarca anche l’altro sopracciglio, incerto. E poi, d’improvviso, comprende. E impallidisce.
- Santo Dio. – esala, muovendo qualche passo all’indietro, spaventato dalla portata di tale rivelazione, - È raccapricciante.
- Lo è. – annuisce Pep, sempre più sconvolto, - Io… non ce la facevo più. Se solo mi avesse dato da mangiare fragole e limone un’altra singola volta
- Oh. – dice una voce proveniente dalla porta un po’ defilata che conduce al bagno. Entrambi alzano lo sguardo per trovare Zlatan immerso nella luce giallastra dell’altra stanza, ancora umido di doccia e con indosso solo un asciugamano avvolto attorno ai fianchi. – Quindi Boji sta mettendo in pratica il mio consiglio.
- Il tuo… - sillaba Pep, sconcertato, mentre José cerca di ricordare cosa ci faccia Zlatan nel suo bagno, si chiede ancora una volta se non si tratti di una fanfiction e poi realizza di averlo invitato a passare la notte con lui solo un paio di ore prima. – Il tuo consiglio?
- Sì. – sorride Zlatan, sereno come gli avessero appena ritoccato l’ingaggio aggiungendo cinque milioni ai dieci già presenti, - È una tecnica che ho imparato a Milano. Ti ricordi, Zay? – chiede innocentemente, voltandosi a guardarlo, mentre lui gli ricambia l’occhiata con l’intensità di una triglia sottovuoto al banco dei surgelati, - Quando ti portai per una settimana tutte le sere da Pino a mangiare le fettuccine al ragù? Ecco.
Pep si solleva dalla poltrona, ergendosi in tutta la sua altezza. Le sue dita si contraggono e si ridistendono come stesse cercando di scaricare la tensione, ma è evidente dai lineamenti tirati del suo volto che non ci sta riuscendo nemmeno in parte.
Due minuti dopo, José lo osserva con occhi vacui saltare alla gola di Zlatan come una bestia inferocita, e non riesce neanche a curarsene. Seduto sulla sponda del proprio letto, riflette amaramente sul proprio sapore – il sapore delle fettuccine al ragù. “E non sto parlando del sapore dei miei baci o della mia pelle”, si ripete.
Tutto ciò è inaccettabile. Mentre Pep gli devasta la stanza, usando Zlatan come il Martello di Thor, lui solleva la cornetta del telefono e chiama il servizio in camera, ordinando una bottiglia del loro migliore champagne. Poi ci ripensa.
- Copiose bottiglie del vostro migliore champagne. – precisa. E quando appoggia la cornetta al proprio posto, è di nuovo in pace con se stesso.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: AU, Slash, Lemon.
- A causa del bullismo dei suoi colleghi medici, Zlatan, ultimo arrivato all'ospedale, si ritrova costretto ad effettuare un turno alle visite ordinarie. E' qui che, invece, riceverà una visita che di ordinario non ha proprio nulla.
Note: Storia nata principalmente perché io ho dei problemi seri, ma anche perché pure i pubblicitari spagnoli hanno problemi seri. (Il bonus, invece, è perché Jan rompeva le palle.) (♥) Titolo rubato a una canzone di Nancy Sinatra che in realtà faceva "another gay sunshine day", ma insomma.
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Another Gay Hospital Day


- Quello che non capisco – sbuffa Zlatan, incrociando le braccia sul petto, - è perché dovrei farlo io.
- Perché sei un novellino. – risponde serafico Gerard, sorridendogli come se niente nel mondo potesse rovinare lo stato di pace interiore in cui si crogiola la sua candida anima, - Quindi ti tocca.
- Ci sono dei turni da rispettare. – borbotta lui in risposta, tirando giù le maniche del camice evidentemente troppo piccolo per la sua taglia, - E comunque Bojan è più piccolo di me.
- Ma è arrivato diversi anni prima. – gli fa notare Lionel, scorrendo la lista degli impegni giornalieri, - e comunque—
- Krkic. – chiama il primario Guardiola, passando puntualmente a qualche metro di distanza mentre Zlatan rotea gli occhi e Bojan sorride splendente come un bambino a Natale, fra le risatine di tutti gli altri colleghi raggruppati attorno al banco dell’accettazione, - Nel mio ufficio. Adesso.
- Arrivo, dottor Guardiola! – cinguetta Bojan, poggiando la cartella che stava visionando sul banco e trotterellandogli dietro, dimentico di chiunque fosse il paziente di cui si supponeva dovesse prendersi cura.
- Giuro che un giorno qualcuno ci lascerà le penne perché Boji ha preferito correre dietro all’esimio culo del dottor Guardiola piuttosto che prendersi cura di lui. – commenta Andrés, seduto sullo sgabello dietro il banco, controllando meccanicamente che tutte le cartelle siano ai loro rispettivi posti.
- Dagli torto. – ridacchia Xavi, stringendosi appena nelle spalle, mentre tutti si voltano a guardarlo inarcando le sopracciglia in un movimento così sincronico da rasentare il capolavoro artistico. – Cosa? – chiede lui, ridendo con maggiore divertimento, - Era un giudizio di valore come un altro.
- …sì, certo, un giudizio di valore. – sospira Zlatan, roteando gli occhi, - Questo non elimina il problema principale.
- Che sarebbe? – chiede Lionel, quasi annoiato, continuando a scorrere l’elenco e spuntandone delle voci apparentemente a caso di tanto in tanto.
- Sarebbe che io non posso andarmi a smazzare le visite ordinarie come un qualunque pivello! Nell’ospedale in cui stavo prima—
- Lo sappiamo, lo sappiamo. – lo liquida Gerard, gesticolando distrattamente, - Eri il primo fra tutti i medici, come te non c’era nessuno, i pischelli ti guardavano come fossi dio in terra e le infermiere si bagnavano al tuo passaggio.
- Io non ho mai detto questo! – sbotta Zlatan, aggrottando le sopracciglia, - Però sì, è esattamente quello che accadeva. – sbuffa contrariato, il naso puntato verso il soffitto e una smorfia altera ad indurire i tratti del viso.
- Non fare quella faccia che già sei brutto, mi spaventi i bambini. – lo riprende Lionel, e Zlatan gli tira una schicchera in piena fronte.
- Parla quello che quando i pazienti arrivano chiedono “dov’è il dottore”, e devono chinarsi per notarlo. – sbotta, e Lionel si massaggia la fronte, lanciandogli occhiatacce infastidite.
- Be’, almeno io passo attraverso le porte senza sbattere il mio enorme naso contro gli stipiti e anche contro la parete alla fine del corridoio. – gli fa notare supponente, ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Senti, tu-- - comincia Zlatan, ma il dottor Puyol li ferma entrambi, afferrandoli per i rispettivi colletti e tirandoli indietro.
- Sentite tutti e due, - li rimprovera, - qua si viene per lavorare e per curare la gente, non per battibeccare come bambini delle elementari o peggio. Per cui, - conclude, lasciandoli andare con uno strattone deciso, - al lavoro. E basta schiamazzi.
Zlatan ringhia sommessamente e si massaggia la nuca, neanche Puyol l’avesse afferrato per la collottola, ma si rende conto che ha ben poco da protestare ancora: il nonnismo plateale che regna sovrano in quell’ospedale è troppo potente perfino per lui, perciò – mentre tutti i suoi colleghi, lo sa, gli ridono dietro – china il capo e s’infila nella prima sala visite a portata di mano, sperando non sia già occupata.
Non lo è, o meglio, lo è, ma non da un altro medico. Un paziente, tuttavia, sta seduto sul lettino e si guarda intorno con aria annoiata, come non vedesse l’ora di andarsene. Zlatan può comprendere il suo stato d’animo e, in un impeto di empatia – qualcosa che non si verificherà più per almeno altri dieci anni – gli sorride bonario. L’uomo, però, non risponde con altrettanto calore, e si limita a lanciargli un’occhiata vaga, scendendo dal lettino e mettendosi in piedi davanti a lui.
Sarà sulla cinquantina, è più basso di lui ma questo non lo stupisce – quasi tutti sono più bassi di lui, generalmente, nell’universo. Ha una bella linea ma il viso provato di uno che nella vita ne ha viste abbastanza da non volerne vedere più. I capelli sono brizzolati, ma ancora molto scuri soprattutto alla base. Tutto sommato, con quei jeans e quella polo scura e quell’aria da riccone abbronzato che non deve chiedere mai, sembra in salute.
- Allora? – chiede il tizio, interrompendo la sua scansione oculare della sua persona, - Vogliamo restare lì imbambolati ancora a lungo o cosa? L’ha preso il suo caffè, stamattina?
Zlatan aggrotta le sopracciglia, infastidito dal suo tono supponente e dalle sue parole nient’affatto concilianti il buonumore.
- Che l’abbia preso o meno io non deve preoccuparla, ma è evidente che, se l’ha preso lei, ha dimenticato di aggiungere la giusta dose di zucchero. – commenta ironico, scrollando le spalle ed avvicinandoglisi.
- Io prendo il caffè sempre amaro. – dice il tipo.
Zlatan sogghigna, allungandosi a recuperare la cartella clinica appoggiata alla scrivania.
- Non mi stupisce. – dice, scorrendo la cartella con lo sguardo. – Insomma, signor… Mourinho? Non è di qui?
- Sono portoghese. – spiega lui, - Ma questo non dovrebbe interessarle. E non ho nessun malanno, se è questo che si sta augurando.
Zlatan inarca un sopracciglio, picchiettando con la penna sul lato della cartella.
- Potrà sembrarle strano, ma non auguro a nessun essere umano di stare male, sa? – dice, ma il tipo lo liquida con un gesto della mano.
- Come preferisce. Comunque mi serve solo un certificato di sana e robusta costituzione, perciò diamoci una mossa e cominciamo questa visita, che ho da fare. – stabilisce, accennando a sfilare la polo dopo averne sciolto un bottone del colletto, ma viene fermato dall’occhiata incredula e vagamente ilare che Zlatan gli lascia scorrere addosso.
- Un cert— per lei? – chiede, indicandolo con la penna, - Ma quanti anni ha?
- …c’è scritto sulla mia cartella. – borbotta lui, perplesso, - Quarantasette, comunque. Dottore, c’è qualche problema?
- Sì, evidentemente. – risponde Zlatan, amplificando l’ovvietà della propria risposta con un ampio gesto del braccio, - A cosa le serve un certificato di sana e robusta costituzione?
- Non sono affaracci suoi. – risponde l’uomo, burbero. Zlatan ride.
- No, se permette lo sono. – insiste, - Dal momento che devo essere io a rilasciarglielo, e che su quel pezzo di carta ci sarà la mia firma, ho bisogno che lei mi fornisca tutte le informazioni che io riterrò opportuno richiederle, indipendentemente da quanto lei ritenga opportuno rivelarmele. Non voglio ritrovarmi con una denuncia fra due giorni, né scoprire dal giornale che un cinquantenne è morto d’infarto facendo dio solo sa cosa perché un medico incompetente non è stato abbastanza bravo da impedirglielo.
L’uomo si prende qualche secondo per guardarlo come guarderebbe una ballerina di flamenco uscita all’improvviso dalle fogne facendo saltare il tombino con una sventagliata decisa, e poi schiude le labbra.
- …io non sono un cinquantenne, tanto per cominciare. – precisa piccato, - E lei indubbiamente ha una spiccata fantasia. – aggiunge atono, annuendo impercettibilmente, - Ma non accadrà niente del genere. Devo solo allenare la squadra di calcio di mio figlio per i campionati scolastici, niente di—
- Oh, bene, quindi ci sono di mezzo dei bambini. – prende nota Zlatan, serissimo, - Ancora peggio, dunque. Lo sa quanti genitori avanti con l’età muoiono stroncati da un infarto mentre inseguono la progenie? No? Be’, non glielo dico perché non voglio spaventarla, ma sono tanti.
- Oh, ma per favore! – lo interrompe l’uomo, roteando gli occhi, - Sopravvivrò senza alcun problema, ora se vuole—
- No, lei non ha capito. – insiste Zlatan, - Io in genere non occupo questo posto all’interno della struttura ospedaliera. E—
- E questo l’avevo anche capito da solo, guardi.
- E non posso proprio – riprende Zlatan, ignorando la sua interruzione, - non posso proprio rilasciarle questo certificato se non mi fornirà specifiche esatte su quello che andrà a fare sul campo, sul ruolo che andrà a ricoprire, sul numero delle ore che si suppone lei debba impiegare al seguito di questi bambini e—
Zlatan non si era mai reso conto di quanto i lettini ospedalieri fossero scomodi. Probabilmente perché non ne aveva mai utilizzato uno prima d’ora. E, in effetti, non ricorda di aver permesso esplicitamente o anche implicitamente all’uomo che ha di fronte di prenderlo e ribaltarlo sul suddetto lettino, men che meno di baciarlo, poi, perciò si sente pienamente in diritto di ribellarsi, agitandosi come un’anguilla dentro la sua presa ferrea malgrado l’età e provando a spingerlo all’indietro, tutto sommato con scarsi risultati.
- Ma che sta facendo?! – strepita, piantandogli le mani sul petto, non appena lui gli lascia abbastanza spazio da tirarsi indietro, sottrarsi al bacio e ricominciare a respirare. L’uomo non si muove di un millimetro, resta piantato fra le sue cosce e si spinge contro di lui in un gesto secco e immediato, che gli tira via quel po’ di fiato che ancora conservava nei polmoni.
- Volevo zittirla, e questo m’è sembrato il modo più sbrigativo. – si giustifica lui, scostandogli di dosso il camice e tirandoglielo indietro abbastanza da incastrargli fastidiosamente le braccia dietro la schiena. – Adesso però vedo che l’idea potrebbe avere risvolti perfino più positivi di quanto avessi immaginato. – aggiunge con un ghigno in parte sarcastico e in parte compiaciuto.
Zlatan spalanca gli occhi, il respiro che si fa più svelto mentre cerca invano di liberarsi e, dimenandosi insensatamente, non ottiene altro che continuare a strusciarsi con maggior forza contro il suo bacino.
- Che cosa avrebbe intenzione di fare? – chiede, cercando di allontanarsi il più possibile, ma l’uomo gli si avvicina e lo bacia ancora, quasi con violenza.
- Le dimostro la mia sana e robusta costituzione. – risponde lui, soddisfatto.
Zlatan ha appena il tempo di provare a spostare le gambe per, magari, chiuderle, che si ritrova ribaltato, lo stomaco schiacciato contro il materasso sottile e scomodissimo del lettino e le braccia ancora incastrate dietro la schiena, solo che adesso può esercitare su di esse un controllo addirittura minore rispetto a prima, dato che il tizio lo tiene ben saldo con una mano per le maniche e con l’altra per un fianco, rendendogli impossibile qualsiasi tipo di movimento. A meno che non sia un movimento che lo costringa ad urlare per il dolore, ed urlare vorrebbe dire attirare l’attenzione, e attirare l’attenzione vorrebbe dire portare almeno la metà dei suoi cosiddetti colleghi a fare irruzione nella stanza per trovarlo immobilizzato e sottomesso da un nonnetto, in pratica, e se Zlatan vuole avere qualche speranza di sottrarsi al bullismo imperante che Guardiola, con tutte le sue distrazioni, non riesce ad arginare, be’, questa non è una possibilità ammissibile.
- Mi lasci andare immediatamente! – ordina, col più deciso dei toni che riesce a tirar fuori dal fondo dello stomaco, ma tutto ciò che esce dalle sue labbra è un’implorazione impaurita e un po’ strozzata. Il tipo gli sorride sulla nuca, e la schiena di Zlatan si ricopre di brividi.
- Faremo in modo che questa visita duri il più brevemente possibile. – gli sussurra all’orecchio con tono rassicurante, e Zlatan sente il bisogno quasi fisico di urlare. Gli esplode nel petto, gli fa perfino male, ma non cede. E il tipo ride. – Non hai ancora chiesto aiuto. – gli fa notare, e Zlatan sente stridere fastidiosamente nelle orecchie il tu confidenziale che s’è sentito in diritto di usare con lui senza nemmeno chiedergli il permesso. Come non gli ha chiesto il permesso di ribaltarlo sul lettino, d’altronde, e come non chiede il permesso quando gli sfibbia i jeans e li lascia scorrere lungo i suoi fianchi magri e poi lungo le sue gambe, liberandosene celermente per poi tornare a schiacciarsi contro le sue natiche.
Zlatan sente la sua erezione nonostante il tessuto spesso dei jeans, ed il primo pensiero che formula è anche il più assurdo, nonché il più imbarazzante, e cioè che sì, l’uomo qui sembra davvero di sana e quanto mai robusta costituzione. Vorrebbe avere le mani libere per potersi coprire il volto con vergogna, ma sono ancora bloccate, e lui non può fare altro che abbassare lo sguardo e cercare di reprimere i gemiti quando il portoghese lo accarezza fra le natiche con due dita umide, cercando la sua apertura.
- Cristo! – ansima agitato, ed è felice, nell’infelicità, naturalmente, di essere carponi contro il lettino. Così, almeno, non dovrà giustificare di fronte al dannato sorriso supponente di quell’uomo l’erezione prepotente che sta schiacciando sul materasso.
Il tizio, comunque, lascia andare una risatina lieve, impalpabile, terrificante, e spinge le dita in fondo al suo corpo. Senza fretta, quasi senza attrito, costringendolo col movimento del proprio bacino a strisciare lungo la superficie del letto. Zlatan geme a bassa voce quando il materasso accarezza la sua erezione, e geme ancora più forte quando le dita dell’uomo trovano la sua prostata. Può sentire il suo sorriso estremamente soddisfatto sulla pelle del collo, sente la sua lingua tracciare disegni insensati appena sotto il suo orecchio e rabbrividisce, e poi geme ancora, e a quel punto il portoghese sfila entrambe le dita – costringendolo a un mugolio sofferto e impaziente – e subito dopo le sostituisce con la propria erezione, spingendosi a fondo in un unico colpo deciso che spinge Zlatan di parecchi centimetri in avanti sul materasso.
Zlatan annaspa, spalanca gli occhi e schiude le labbra, cerca di inspirare quanta più aria possibile ma è dura, è durissima quando si sente pieno fino a scoppiare e così genuinamente e profondamente sorpreso da tutto da rendersi conto già da solo che dentro di lui non c’è più spazio per nient’altro che non sia lo stupore e il cazzo dello sconosciuto che se lo sta scopando. È la cosa più disturbante che gli sia mai capitata, la più dolorosa e, al contempo, la più eccitante.
Il portoghese gli lascia libere le braccia, e Zlatan le usa immediatamente per ancorarsi ai lati del lettino, cercando di assicurarsi alla struttura metallica per avere la certezza che non cadrà per terra. Continua a gemere ad ogni spinta, sputando fuori l’aria per la quale dentro di lui non c’è più posto, e ad ogni spinta avanza un po’ di più sul materasso, e la sua erezione struscia contro il tessuto plastificato che riveste il lettino, e la frizione, dentro e fuori e attorno a lui, è talmente forte da bruciare, da fargli quasi male, e se non fosse così devastantemente piacevole Zlatan è certo che a questo punto, a dispetto di tutto, comincerebbe a urlare davvero.
E invece l’uomo lo aiuta a sollevarsi dal lettino, a rimettere i piedi per terra, a trovare una posizione migliore, e quando i loro corpi sembrano essersi incastrati così perfettamente da non poter proprio chiedere di più comincia ad accarezzarlo lentamente, per tutta la sua lunghezza, rifiutandosi ostinatamente di seguire lo stesso ritmo delle proprie spinte per frustrarlo ancora di più, per costringerlo a mordersi le labbra e implorare, e Zlatan lo fa, si morde le labbra e implora, ancora, di più, più forte, e il portoghese lo afferra saldamente per un fianco e spinge, spinge, spinge, mentre l’altra mano lo accarezza più velocemente, e quando Zlatan trattiene il respiro ed inarca la schiena e cerca in tutti i modi, in tutti i dannatissimi modi, di non lasciare andare l’uggiolio stremato che spinge per uscire dal fondo della sua gola quando viene, il dannato bastardo si allunga a mordergli la nuca così forte che, un po’ per lo stupore e un po’ per il dolore, Zlatan perde il controllo sul proprio corpo, e quello stupido gemito viene fuori, e Zlatan è senza forze, e si accascia sul lettino come privo di vita, scosso dal suo stesso respiro spezzato e pesante.
È stata la cosa più orribile della sua vita. È stata anche la più bella. Quando entri a medicina non ti dicono che potresti finire a lasciarti scopare da uno sconosciuto stronzo su un lettino scomodissimo il giorno in cui le palle ti girano a mille perché per i tuoi colleghi eri e resti il pivello da bastonare ad ogni occasione favorevole.
Imprevisti che rendono piacevole il mestiere, si dice con un mezzo ghigno, rimettendosi dritto e sistemandosi addosso i vestiti mentre il portoghese, perfettamente soddisfatto e tanto pieno di sé che se l’ego fosse fatto d’elio prenderebbe sicuramente il volo, tira su i pantaloni e li spiega lungo le gambe in pochi gesti mirati e decisi.
Zlatan si siede alla scrivania – non senza qualche difficoltà, ma cerca di non darlo a vedere – recupera un modulo, lo compila, lo firma, sorride serafico e lo passa al bastardo.
- Congratulazioni, signor Mourinho, lei è in perfetta salute. Spero che si diverta, coi suoi bambini.
Il tipo sbuffa una risata divertita, afferra il foglio con un movimento spiccio e lo saluta sbrigativamente.
- Potrei aver bisogno di controlli periodici. – dice, poco prima di abbandonare la stanza.
Zlatan resta immobile per parecchi secondi, giusto per assicurarsi di non trovarlo lì fuori una volta uscito dalla stanza. Poi si alza in piedi, abbandona la sala visite e torna all’accettazione. Alcuni dei suoi colleghi non ci sono più, altri sono andati e tornati, altri non si sono mai mossi. Bojan è seduto sul banco, mangia un enorme muffin al cioccolato e finge di arrossire pudicamente alle battute dei ragazzi sulla sua misteriosa sparizione di più di un’ora.
Quando lo vedono arrivare, sono tutti stupiti del sorriso che gli increspa le labbra.
- Be’? – chiede Gerard, inarcando un sopracciglio, - Ti sei divertito?
Zlatan scrolla le spalle, vago.
- È stata un’esperienza interessante. – risponde, - A voi non dispiace, vero, se lo rifaccio anche domani, mh?
I suoi colleghi lo guardano spalancando gli occhi, increduli.
- Ma dici sul serio? – chiede Xavi, sporgendosi a guardarlo per capire se stia male o meno. Zlatan si limita a sorridere con maggiore convinzione, stringendosi serenamente nelle spalle. Quella delle visite ordinarie potrebbe davvero essere la sua vocazione, dopotutto.
 
 
Bonus.
Bojan si chiude la porta alle spalle e, per qualche secondo, vi rimane appoggiato, cercando di non sorridere come invece vorrebbe fare. Non è mai stato bravo a trattenere dentro di sé le espressioni di gioia – o di qualsiasi altro tipo – comunque, per cui un angolo della sua bocca si ostina a piegarsi verso l’alto in un sorrisino colmo di ansia, emozione e impazienza che è felice Guardiola non possa notare, preso com’è a fingere di interessarsi agli incartamenti che sta visionando, pur di non interessarsi a lui.
- Hai lasciato da parte qualcosa d’importante, prima di venire qui? – chiede atono, firmando documenti senza sollevare lo sguardo dai fogli.
Bojan ci riflette su. Il signor Ortega probabilmente non vedrà la luce di domani, ma al momento non importa.
- No. – risponde placido, - Tutti i pazienti sono stabili e fuori pericolo. – a parte il signor Ortega che è stabile e in pericolo, ma qualcuno troverà sicuramente il  tempo e il modo di occuparsi di lui, dovesse peggiorare ancora.
- Ottimo. – risponde Guardiola, annuendo soddisfatto. Dopodiché si mette in piedi e fa il giro della scrivania, appoggiandosi al bordo con entrambe le mani e guardandolo dritto negli occhi. Bojan comincia a sentire quel familiare formicolio che lo prende sempre al bassoventre e che poi si diffonde in tutto il suo corpo, anestetizzandolo, ogni volta che lui lo guarda in questo modo. – Avvicinati. – dice soltanto, e per Bojan è una richiesta più che sufficiente: si avvicina, sì, e sfila il camice, che lascia cadere a terra senza un pensiero di più, e si inginocchia di fronte a lui non appena è abbastanza vicino da poter sfiorare il suo profilo col proprio.
Accarezza con la punta del naso la sua erezione, ancora nascosta dentro ai jeans, e lascia andare un mugolio grondante di voglia quando una mano di Guardiola scende ad accarezzargli lo zigomo ed il mento, costringendolo a guardare in alto per poi sfiorargli le labbra col pollice in una carezza a tratti riverente e a tratti perfino profanatrice, tanta è la forza con la quale s’impone sulla morbidezza della sua bocca.
Bojan lascia passare il pollice, lo accarezza con la punta della lingua, lo succhia con forza e lo lascia andare solo quando Guardiola geme, e comunque non prima di averlo mordicchiato giocosamente ed averlo trattenuto fra i denti, sorridendo, per un paio di secondi.
Slaccia la cintura, sbottona i jeans e tira giù la zip, gioca con la sua erezione per qualche secondo, prima di sporgersi in avanti ed accoglierla fra le labbra. Guardiola lo afferra per i capelli, dimentico di ogni premura, e Bojan lo lascia fare, permettendogli di essere lui a stabilire il ritmo con cui lui lo prende disinvoltamente fino in gola, senza neanche un gemito  che non sia di puro apprezzamento.
Guardiola ride, scopandogli la bocca senza gentilezza.
- Sei un portento. – commenta divertito, e poi lo costringe ad allontanarsi dal suo cazzo ancora teso, aiutandolo ad alzarsi in piedi. Le sue labbra sono gonfie, arrossate ed umide, ed i suoi occhi sono lucidi di voglia. Guardiola lo trae a sé in un gesto brusco e lo bacia affamato, mentre le mani di Bojan tornano automaticamente a cercare la sua erezione e la accarezzano lente, provocanti, insopportabili.
Guardiola grugnisce, Bojan sorride e, quando osserva tutti i documenti cadere sul pavimento, spinti dalla furia dell’uomo, impaziente di fargli posto sulla scrivania, si lecca le labbra, colmo d’impazienza.
Guardiola lo afferra per i fianchi, lo solleva e lo mette seduto di peso sul tavolo, infilandosi fra le sue cosce e quasi strappandogli via i pantaloni di dosso. Bojan inarca la schiena quando sente la sua erezione premere contro la propria, ed espone il collo ai suoi baci e ai suoi morsi. Le labbra di Guardiola sono calde, insaziabili, lo confondono fino a fargli perdere il senso del tempo, e tutto ciò che riesce a fare è dimenarsi sotto il suo corpo per far sì che le loro erezioni sfreghino l’una contro l’altra ancora e ancora e ancora, e continuerebbe volentieri così all’infinito se Guardiola non decidesse di riprendere in mano la situazione e tirarsi indietro abbastanza da posizionarsi fra le sue natiche.
Il suo cazzo è ancora umido e scivola dentro di lui in una spinta lenta, aiutato anche dall’abitudine e dalla voglia matta che lo scuote da dentro, portandolo a spalancare le gambe e poi serrarle attorno ai suoi fianchi, incrociando le caviglie dietro la sua schiena al solo scopo di trarlo più decisamente contro di sé, per sentirlo più in fondo.
- Piano… - mormora Guardiola, quando lo sente gemere a voce più alta, ma Bojan scuote il capo, i capelli umidi di sudore che gli si appiccicano alle tempie ed al collo, e continua a muoversi sempre più velocemente, tanto che per qualche minuto Guardiola non deve neanche fare la fatica di spingere. Riprende a muoversi, sorridendo intenerito, solo quando il respiro del ragazzo si fa affannoso e stanco, anche se non per questo Bojan rinuncia a dimenare il bacino: gli occhi serrati e le labbra umide appena dischiuse, continua a muoversi e si accarezza distrattamente fra le cosce, mentre Guardiola pianta entrambe le mani sulla scrivania, ai lati del suo corpo, e detta al loro amplesso un ritmo diverso, più forte, quasi animalesco. E Guardiola ringhia, piegandosi sul corpo di Bojan scosso dai brividi dell’orgasmo che esplode fra le sue dita e i loro corpi, e gli morde le labbra, il lobo, il collo, la spalla, spingendosi con più forza possibile dentro di lui finché non sente l’orgasmo scaldargli il ventre. Solo a quel punto smette di muoversi, esce dal suo corpo e si masturba sbrigativamente, fino a venirgli addosso, qualche schizzo che sfugge al controllo andando ad imbrattargli il viso, e Bojan è semplicemente splendido mentre strizza un occhio, più per posa che per paura di essere colpito davvero, e si passa provocatoriamente un dito sopra la guancia, raccogliendo qualche goccia del suo piacere per portarla alle labbra, in un timido tentativo di assaggio, guardandolo dritto negli occhi.
Guardiola ride, scuote il capo, gli accarezza una guancia e lo bacia celermente sulle labbra, prima di porgergli una salvietta ed aiutarlo a ripulirsi e risistemarsi.
- Sei un portento, davvero. – gli ripete, - Un vero talento nel tuo campo.
- Sta per caso lasciando intendere che il mio campo non sarebbe quello della professione medica, dottor Guardiola? – ridacchia lui, un po’ prendendolo in giro e un po’ semplicemente flirtando. Guardiola ride ancora e lo bacia un’ultima volta.
- Torna al lavoro, Krkic. – lo saluta con un cenno del capo, mettendosi a raccogliere i documenti sparsi per terra. Bojan saluta a propria volta, recuperando il camice e abbandonando la stanza, e per un secondo pensa al signor Ortega e si chiede se non dovrebbe per caso magari passare a trovarlo.
Lo farà più tardi, decide alla fine. Prima ha voglia di un muffin.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bojan Krkic/José Mourinho, nominati/accennati/presenti in qualche modo Bojan Krkic/Pep Guardiola, José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic, Pep Guardiola/Zlatan Ibrahimovic. Troiaio, we haz it.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash, Outdoor!Sex.
- "Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti."
Note: Questa storia è nata dalla suggestione visiva della mia icon e di quella della Jan che si susseguivano ossessivamente su Twitter. Pareva che si guardassero, e la cosa mi turbava profondamente. Cioè, dovevo scriverci su. Ed a darmi un pretesto ci ha pensato il mio cervello, spruzzando ovunque Pep, Zlatan e tutta una serie di altre robe di cui non ha senso parlare adesso, perché tanto le troverete all'interno della storia, se avrete voglia di leggerla.
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Easier Than The Truth


– Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti.
Bojan guarda Thierry, poi la vodka alla fragola che gli è appena stata poggiata sul tavolo senza che lui avesse bisogno di ordinarla, poi Mourinho, qualche tavolo più in là, apparentemente intento a guardare altrove e farsi i fattacci propri, e solo alla fine torna a guardare Thierry.
– Ma è solo stato gentile. – prova, stringendosi nelle spalle, mentre tutti i suoi compagni di squadra lo fissano come gli fosse improvvisamente sbocciato un fiore in mezzo alle cosce.
– Boji, – mormora Lionel, massaggiandosi stancamente le tempie, – lascia che ti spieghi una cosa, sugli uomini: non conoscono gentilezza, non saprebbero neanche sotto quale lettera cercarla sul vocabolario. Tutto quello che vogliono è portartisi a letto e andarsene alle prime luci dell’alba senza neanche salutare.
Numerosi sguardi gli si posano addosso, quando smette di parlare, ed in particolare a nessuno sfugge il “ma parla per esperienza personale?” di Pedro, che viene prontamente zittito da Gerard, il quale si premura di ficcargli in bocca la cannuccia del suo succo di pera lievemente corretto prima che, dopo aver sbraitato un “checcosa?!” pressoché animalesco, Lionel decida di abbattere la propria furia sulla sua svampita persona.
Bojan si disinteressa quasi subito della dinamica della faccenda – più o meno nell’esatto momento in cui Lionel si alza in piedi, salta sul tavolino e poi lo usa come rampa di lancio per scaraventarsi addosso a Pedro e cominciare poi a rotolare senza senso per il pavimento di tutto il locale – prima di tutto perché sta con Pep da ormai quasi un anno ed è abbastanza convinto di poter dare lezioni su cosa si possa aspettare un ragazzo da un uomo, e secondo poi perché preferisce voltarsi verso Mourinho, alla ricerca di un qualsiasi segno del suo supposto interesse.
Il problema è che lo trova: Mourinho lo sta guardando con attenzione, e i suoi sono occhi invadenti, quasi maleducati, perché non esitano a dosare l’intensità che possiedono per spogliarlo tutto e farlo sentire completamente nudo in mezzo al locale, al punto che lui sente quasi il bisogno fisico di stringersi in un abbraccio protettivo, come a cercare di schermarsi da quello sguardo così insistentemente indiscreto da dargli perfino fastidio.
Non sa se sia stato il discorso di Lionel ad influenzarlo, ma a questo punto non conta neanche tanto: ciò che conta è che, quando esce dal locale diretto alla macchina ed attraversa il parcheggio ormai semivuoto, non si stupisce nel vedere Mourinho appoggiato contro lo sportello chiuso della propria autovettura, le braccia incrociate sul petto e sul volto la tipica espressione vacua di chi, annoiato, aspetta qualcuno già in ritardo.
– Ce ne hai messo, di tempo. – gli fa notare, il tono quasi irritato. Bojan si volta verso di lui ed abbassa immediatamente gli occhi, in imbarazzo.
– Mi dispiace. – mormora, senza sapere effettivamente per cosa dovrebbe dispiacersi, – La ringrazio per il drink che mi ha offerto prima, anche se non ho ben capito perché—
– Perché voglio portarti a letto. – dice lui, senza attendere un secondo. I suoi occhi sono caldi e decisi, così come il tono della sua voce. Bojan non sa se sia colpa della suggestione, della situazione o solamente della vodka, ma la schiena gli si riempie di brividi ed il cuore gli salta in gola nell’esatto momento in cui Mourinho si allontana dalla propria macchina, dirigendosi verso di lui.
– Mi— Mi dispiace, – biascica, – ma io non—
– Tu non? – sorride Mourinho, avvicinandoglisi abbastanza da sfiorare il suo profilo col proprio. Bojan sente il suo corpo pressato contro, e la sua erezione, prepotente ed evidente anche sotto i pantaloni che indossa, gli sfiora una coscia.
– Io non… – prova a insistere, ma non trova le parole, perciò si morde un labbro e cerca di cambiare argomento. – Perché? – chiede con un filo di voce. José sorride ancora e si allontana da lui, solo qualche centimetro, lo spazio necessario per far passare un braccio fra i loro corpi, afferrarlo per un gomito e spingerlo senza la minima delicatezza contro lo sportello chiuso della macchina.
Il metallo della portiera ed il vetro del finestrino sono freddi, e quel freddo passa attraverso il cotone leggero della polo che indossa, gelandogli lo stomaco.
– Perché – risponde José, pressandosi contro di lui finché Bojan non sente la sua erezione quasi fra le natiche, – sei bellissimo. – le sue labbra umide sfiorano la sua nuca ad ogni parola. Bojan trema e non può impedirsi di gemere. – Non ti sembra una motivazione sufficiente?
– Neanche… – balbetta a corto di fiato, – Neanche mi conosci.
– E dovrei? – chiede lui, quasi divertito, stringendogli un braccio dietro la schiena e vagando con la mano libera nello spazio minuscolo che c’è fra il suo bacino e lo sportello. Bojan ascolta il lieve suono della cintura slacciata, del bottone sfilato dall’asola e della zip tirata giù con calma, quasi con troppa cura, e poi chiude gli occhi e si morde un labbro quando la mano di José scivola oltre l’elastico dei suoi slip, fra cosce che nemmeno si premura di fingere di tenere serrate. – Non mi sembra che il tuo corpo abbia problemi, col trovarmi uno sconosciuto.
Bojan geme ancora, più forte, quando le sue dita si chiudono attorno alla sua erezione. Tira su il braccio che Mourinho non gli tiene serrato contro la schiena e lo appoggia al tetto della macchina, nascondendovi contro il viso. Una parte di lui si vergogna terribilmente: sente il venticello notturno accarezzargli la pelle umida e bollente e si rende conto di essere all’aperto, in un luogo incredibilmente esposto come un parcheggio sul retro di un locale, e poi se si concentra abbastanza riesce a sentire la voce di Pep, che poi è la stessa voce con cui lo accoglierà quando riuscirà a tornare a casa, a chissà che orario, una voce un po’ stanca ma tutto sommato felice che gli chiede “ti sei divertito fuori con i ragazzi?”, e tutte queste cose insieme lo confondono e lo irritano e lo imbarazzano e lo fanno sentire una troia.
D’altra parte, la mano di Mourinho si muove con tanta disinvoltura attorno alla sua erezione che ogni particolare spiacevole si scioglie in una nuvola leggera come il vapore, ed è facile per Bojan dissiparla con un gesto quando Mourinho, consapevole del fatto che non scapperà di certo adesso, lascia andare il braccio – che peraltro cominciava a dolere – per abbassargli i pantaloni e gli slip e cominciare ad accarezzarlo fra le natiche, senza per questo dover smettere di prendersi cura della sua erezione.
Bojan chiude gli occhi e lo lascia fare, ma il suo atteggiamento non è quello tipico di un succube che si sottopone a qualcosa di sgradevole perché lo trova inevitabile: un succube non si dimenerebbe contro l’eccitazione di un altro uomo per averla dentro di sé il più presto possibile, un succube non geme oscenamente per ogni carezza e per ogni cambiamento di ritmo solo perché le scariche di piacere che lo assalgono vanno facendosi sempre più violente, al punto da dargli l’impressione di potere impazzire, un succube non si volta indietro a cercare labbra di cui ancora ignora il sapore, e non viene fra dita praticamente sconosciute non appena quelle stesse dita stringono un po’ la presa e lo accarezzano più velocemente, con maggiore decisione, inseguendo il ritmo erratico delle spinte di un bacino diverso a quello cui è abituato, che ama, che non avrebbe mai desiderato tradire in quel modo.
Quando Mourinho viene dentro di lui, stringendolo per i fianchi con tanta forza che da lasciarlo quasi pietrificato per l’irrazionale paura dei segni che potrebbero rimanergli stampati sulla pelle, Bojan si lascia andare ad un singhiozzo stremato, abbattendosi contro la macchina come privo di forze, e se non piange è solo perché prova troppa vergogna perfino per versare anche una sola lacrima.
– Non darti troppa pena. – lo rassicura Mourinho, ripulendolo con una salvietta umida tirata fuori da chissà dove, con una cura quasi paterna, senza che a lui neanche passi per l’anticamera del cervello la possibilità di fermarlo. D’altronde, riflette distrattamente, sarebbe ridicolo fermarlo adesso quando fino a pochi secondi fa l’ha lasciato disporre del proprio corpo come fosse suo. – Non è stato che sesso. Non significa niente.
Bojan si volta a fatica, scrutandolo con aria un po’ incerta.
– Perché? – chiede di nuovo, e Mourinho gli lascia scorrere addosso un’occhiata lunga e penetrante, come volesse spaventarlo al punto da farlo desistere da quella sciocca intenzione di provare a sondare i suoi pensieri. Bojan, comunque, non cede.
– Perché il tuo uomo ha messo le mani su qualcosa di mio. – concede quindi José, pulendosi le mani con un’altra salvietta, – Ed io non sono uno che si lasci rubare qualcosa di proprio da sotto il naso senza ristabilire istantaneamente le posizioni. Fallo sapere, questo, a Pep.
Bojan non risponde. Sconvolto, gli occhi sgranati, resta immobile senza neanche terminare di rassettarsi i vestiti. La cinghia della sua cintura, quando José gli chiede di spostarsi per lasciarlo libero di rientrare in macchina e poi partire, allontanandosi sgommando nella notte, tintinna come un campanello, e lo riporta alla realtà più del rombo del motore della Mercedes.
Deglutisce a fatica e cerca il proprio cellulare nella tasca posteriore dei jeans. Lo estrae, compone a memoria il numero di Pep e, quando lui non risponde, controlla l’orario. Sono le dieci e mezza, gli aveva detto che non sarebbe tornato a casa prima di mezzanotte. Qualcosa, nel centro del suo petto e, contemporaneamente, all’altezza delle sue tempie, comincia a pulsare. È solo un fastidio, in un primo momento, e quando comincia a diventare dolore Bojan non se ne accorge. Sale in macchina, scaccia via le lacrime e parte.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Pep Guardiola/José Mourinho.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Come tutte le cose complicate, la tua relazione con mister Mourinho potrebbe essere decisamente più semplice se solo provaste a parlare."
Note: Anche questa è nata praticamente su richiesta, nel senso che quando hai un Def che ti si mette lì a piangere miseria perché ama il Jo2 e nessuno glielo scrive e bla bla bla per forza ti viene voglia di dargliene un po', anche solo per zittirlo. Poi, insomma, capita anche che ti prendi bene, perché voglio dire, stiamo parlando di Pep e José, e quindi capita che ti esca del porno un po' zozzo e un po' deprimente, come dire. Insomma. Capita. *soccombe*
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A Rush Of Blood To The Head


Come tutte le cose complicate, la tua relazione con mister Mourinho potrebbe essere decisamente più semplice se solo provaste a parlare. Se solo quella mattina, dopo gli allenamenti, invece di saltarvi addosso come fosse una cosa del tutto prevedibile e naturale, aveste discusso ed aveste cercato di spiegarvi cos’è che vi stava succedendo – già da un po’, anzi, da parecchio; tu, almeno, non ricordi un singolo minuto da quando gli hai posato gli occhi addosso in cui guardandolo tu non abbia automaticamente pensato che volevi sentirtelo dentro fino in gola, cazzo – probabilmente ci sareste caduti lo stesso, probabilmente parlarne non sarebbe stato abbastanza per placare la voglia e il bruciore folle che sentivi sulla pelle appena lui si faceva abbastanza vicino da poterne respirare l’odore, però forse cadendoci avreste evitato di farlo inciampando, senza pensare alle conseguenze e ritrovandovi perciò con ben più di un ginocchio sbucciato ed il culo per terra.
Naturalmente, essendo entrambi chi siete, era improbabile che le cose tra voi potessero muoversi secondo ritmi pacati, in crescendo lenti e contenuti. Essendo voi chi siete, era ovvio che ogni vostro incontro sarebbe stato uno scontro, ogni carezza una collisione, ogni bacio una battaglia. Ricordi perfettamente la prima volta in cui ti ha toccato, ricordi i brividi che ti hanno percorso la pelle come una febbre ma soprattutto ricordi la sua carezza lenta lungo il tuo torace umido e il tuo collo teso in uno spasmo nervoso, e ricordi che, prima ancora di baciarti, la prima cosa che ha fatto è stata afferrarti per i capelli e tirarti indietro, esponendo il tuo collo alla carezza del suo respiro rovente. Lo ricordi perfettamente sfiorarti appena con le labbra risalendo impercettibile lungo la linea curva della tua gola, lo ricordi soffermarsi sulle tue labbra dischiuse in un gemito di dolore e aspettativa e scrutarti con quegli occhi gelidi, profondi e impossibili per un tempo lunghissimo, vite intere, prima di decidersi a coprire le tue labbra con le proprie in un bacio da subito aperto e bagnato e caldissimo e furioso, come una punizione o una tortura.
Da quel momento in poi, per ogni volta in cui ti ha toccato tu hai chiuso gli occhi e per un singolo istante, prima di concentrarsi sulla pressione dei suoi polpastrelli sulla tua pelle, hai ripensato alla sua mano fra i tuoi capelli, al suo respiro addosso e ai suoi occhi nei tuoi. Questo da solo, in genere, è sufficiente per riaccendere in te la scintilla che poi lui è tanto bravo a far divampare con niente. Come tutti i grandi incendi, d’altronde, non ha bisogno che di una fiammella per attecchire dove l’erba è già secca e non chiede altro che una fiamma più grossa per andare in fumo.
Alle volte ti sembra di essere un suicida seriale, rincorri la piccola morte che trovi ogni volta fra le sue braccia – quel momento tremendo e divino in cui dopo l’orgasmo cerchi il respiro e lo trovi sulle sue labbra – come un disperato, come fosse l’unica cura ad ogni tuo dolore. Eppure la tua vita è piena e soddisfacente per una svariata quantità di motivi – sei celebre, sei ricco, sei amato – non dovresti avere motivo di sentirti così perso e così vivo solo fra le braccia di quest’uomo, per quanto affascinante, per quanto bello, cazzo, non è nessuno. El Traductor, così lo chiamano. E tu, la sua puttana, così mormora lo spogliatoio.
Sarebbe falso dire che non t’importa dei loro pettegolezzi, in realtà ti vergogni come un ladro. Dai tutto sul campo, ti dreni per non pensare, e quando ne vieni fuori stai sulle tue, eviti la gente, non vuoi sentirti bisbigliare alle spalle cose che sai già ti faranno male, e sai che fanno male perché sono vere, è questo che le rende ancora più odiose. D’altro canto, sarebbe falso anche dire che di quanto dicono t’importa ancora quando senti le mani di José scorrere lente lungo la tua schiena sudata, o quando la sua voce soffice, con quell’accento portoghese che rende ogni sua parola più sensuale, ti dice di piegarti sulle ginocchia e inarcare la schiena. No, non t’importa più niente quando le sue dita scendono fra le tue natiche accarezzandone dapprima il solco e poi scivolando più profondamente alla ricerca della tua apertura, e potrebbe perfino esplodere il mondo quando si spingono dentro di te con la certezza di aver già il loro posto scavato dentro il tuo corpo, sì, potrebbe esplodere l’universo, che tu continueresti a gemere a corto di fiato, muovendoti al ritmo delle sue carezze per venirgli incontro, nel tentativo di fargli capire che così non ti basta, che vuoi di più, che lo vuoi tutto.
José non è mai tenero, non ti tratta mai come se fossi la sua amante o altra robaccia simile. Siete necessari l’uno all’altro, e questo l’avete ormai capito da tempo – da quando tu ti sei accorto che respirare accanto a lui era impossibile eppure quelli in cui lo avevi vicino erano i momenti migliori della tua giornata, da quando lui s’è reso conto che malgrado i pericoli e le difficoltà e i pettegolezzi non riusciva a starti lontano per più di qualche ora, prima di tornare a cercare il tuo calore con le dita e il tuo sapore con la lingua – avete bisogno estremo della presenza fisica dell’altro al vostro fianco, ma non per questo la vostra relazione è ammantata da chissà che sciocchi cliché romantici, come servissero a qualcosa, poi, come un mazzo di fiori o una carezza più dolce delle altre possa bastare a cancellare il fatto che siete due uomini e scopate fra voi solo perché vi piace la sensazione fisica dei vostri cazzi che si sfiorano quando strofinate i bacini l’uno contro l’altro. Come se a te potesse bastare qualche premura per dimenticare che alle volte la sensazione magnifica del suo cazzo che si fa strada dentro di te è tutto ciò cui riesci a pensare lucidamente da quando ti svegli al mattino, e come in crisi d’astinenza non fai che attendere il momento in cui potrai avere la tua dose giornaliera, e quasi ansimi a corto d’aria quando tarda ad arrivare, perché è a questo punto che sei arrivato, è così che ti sei ridotto, ti senti ribollire il sangue nelle vene solo quando José ne ridisegna la traccia sulle tue braccia, sul tuo ventre, sulla tua eccitazione, e ti spegni come una fiamma privata d’ossigeno quando lui si allontana da te.
Non glielo dici, naturalmente, perché José non ha alcun bisogno di saperlo, e d’altronde lo sente nell’urgenza dei tuoi baci e nella fretta con cui ti dimeni sotto di lui per cercare di accoglierlo il più profondamente possibile, ma è comunque una consapevolezza che aleggia sopra di voi, si allarga come una macchia d’olio sopra le vostre teste e rende tutto incredibilmente più duro e ruvido e difficile e doloroso.
Quando esce dal tuo corpo, quando si stende al tuo fianco – stando bene attento a non toccarti, perché sa che non sei una donnicciola, sa che le coccole non ti servono, sa che lo getteresti giù dal letto a calcioni se solo provasse a blandirti con cazzate simili – José recupera un po’ di fiato guardando il soffitto, e sempre guardando il soffitto di dice “lo sai che me ne andrò, eh, Pep?” e lo dice con una tale calma che ti spezza il cuore. “Non posso restare qui,” continua, “non posso restare El Traductor per sempre.”
Tu sorridi appena, tirando solo un angolo della bocca. Sai che Barcellona non dimentica – Barcellona è come il tuo corpo, José proverà a scappare e rimarrà sempre piantato dentro di te così a fondo che potrai ancora sentire la forma del suo sesso ogni volta che proverai a ripensarci chiudendo gli occhi, ed allo stesso modo rimarrà per sempre il traduttore per tutta quella gente, niente di più, niente di meno. Trovi futile che riesca a credere di potersi smarcare da quel soprannome fuggendo altrove, ma non glielo fai notare perché sai che ogni rimostranza suonerà alle sue orecchie come niente di diverso del piagnisteo di una ragazzina innamorata che non vuole farsi lasciare dal fidanzato.
“Lo so,” rispondi quindi, anche se è una bugia. Avrai tempo per capire, o almeno, è questo quello che ti ripeti, cercando di convincerti mentre pian piano il tuo corpo torna ricettivo, tutti i nervi tesi e la pelle ipersensibile e accaldata, e vai rendendoti conto che niente ti toccherà più come t’ha toccato lui, nient’altro in tutto il resto della tua vita.
“Quando ci rivedremo,” ti sussurra sulla pelle, “promettimi che avrai conservato qualcosa, di me. Il mio odore, il mio sapore, la forma delle mie mani,” continua, scivolandogli sul ventre in una carezza appena accennata e fermandosi al primo tocco del ciuffo di peli del pube, “promettimi che sarò ancora da qualche parte sul tuo corpo, indelebile.”
Tu inspiri ed espiri, cerchi di mantenere il controllo sui brividi che corrono su e giù per la tua schiena, ma non riesci granché bene. “Credevo non ti piacessero queste romanticherie,” sussurri agitato, gli occhi socchiusi e le palpebre che tremano, mentre ti mordi incerto il labbro inferiore, sperando che lui si faccia avanti, allungandosi a baciarti.
“Non è una romanticheria,” risponde invece lui, tornando a stendersi più comodamente sul materasso ed allontanandosi abbastanza da impedire alla tua pelle di percepire ancora il suo calore, “è smania di possesso, probabilmente. Non sono uno che si accontenta di avere solo il novanta percento di qualcosa.”
“Ed è per questo che vai via?” non puoi impedirti di chiedergli, “Perché il novanta percento non ti basta?”
“È per questo che ritornerò,” risponde lui senza neanche un’esitazione, tornando a fissare il soffitto, “A tempo debito. Tornerò per prendermi anche tutto il resto.”
Sul momento, non ci fai caso, a quanto sia serio. Ridi, gli tiri una mezza spallata, poi ti rimetti in piedi e ti rivesti.

*

Così tanti anni dopo che non riesci nemmeno a contarli, siete entrambi molto più vecchi e le vostre esperienze di vita sono state diversissime, ma tu rabbrividisci ancora allo stesso modo quando lo vedi arrivare alla sede centrale del club. Quando ti sorride e ti stringe la mano come il vostro rapporto non avesse mai valicato il confine del professionale per tuffarsi in qualcosa di molto più pericoloso, per un secondo hai come l’impressione di esserti sognato tutto, di non essere mai andato a letto con lui, di non averlo mai baciato. Questo ti spaventa, perché i ricordi che il suo odore – sempre lo stesso – scatenano dentro di te sono troppo vividi per essere fasulli, e ti chiedi brevemente se per caso, da qualche parte nel corso della tua vita, tu sia impazzito.
Ascolti le ragioni di Laporta e non fai una piega, lui andrà via, il nuovo presidente non ti vede tanto di buon occhio, vuole un vincente più arrabbiato, vuole Mourinho, in pratica. Non è che non lo sapessi, quindi non ti stupisce. Annuisci senza dire una parola, poi gli stringi la mano con calore, lo ringrazi per tutto ciò che ha fatto per te nel corso degli ultimi due anni, per la fiducia, per l’incoraggiamento, per i soldi ben spesi e anche per quelli spesi un po’ meno bene e poi esci dall’ufficio, imbocchi il corridoio e alla fine non riesci ad andartene davvero. Resti lì, sospeso fra realtà e irrealtà e supponi dovresti chiederti cos’è che farai adesso, dove andrai e come, ma non t’importa davvero.
La voce di José ti raggiunge come in un’eco lontana, qualche minuto dopo.
“Te l’avevo detto” sussurra divertito, “che sarei tornato a prendermi tutto il resto.”
E sorridi anche tu, lasciando scivolare il brivido giù fino alla punta dei piedi ed accogliendolo come un amico ritrovato, mentre la mano di José si fa strada sul tuo fianco e tu, quasi sottovoce, un po’ vergognandoti, ma in realtà, davvero, no, gli chiedi se per caso ha intenzione di mostrarti il suo nuovo ufficio.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, if you squint, ma non è neanche evidente.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Drabble, Slash (sempre if you squint).
- Storia di un paio di guanti dai colori poco raccomandabili.
Note: Giusto per dire che i guanti esistono davvero e io li amo con passione trascinante e mi viene sempre da ridere, quando ci penso, perché mi dico che anche se fossero un equipaggiamento standard dei giocatori del Barça (d’altronde, le sedie della panchina del Camp Nou sono nerazzurre *lolla*), ci vuole comunque un bel coraggio ad andare in campo – unico fra tutti i tuoi compagni – con un paio di guanti nerazzurri addosso mentre la tua nerazzurrissima ex squadra si gioca la qualificazione agli ottavi di Champions in quello stesso esatto momento a Milano XD Zlatan, ti vu bi.
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Gloves
5. I get the privilege to enlighten you (The Radio Dept.)


– Stai scherzando?
Josep lo guarda come fosse un criminale o qualcosa di addirittura peggiore, ma Zlatan non si scompone e risponde con un sorriso elusivo, inclinando appena il capo mentre sistema i parastinchi sotto i calzettoni.
– In che senso? – chiede con simulata innocenza, e Josep sbuffa, chinandosi a recuperare una delle sue mani e sollevandola all’altezza del viso, così che possa rendersi conto di possederla, in primo luogo, e di averla abbigliata con colori che non le competono in secondo.
– Questi. – precisa, scrollandogli la mano proprio davanti al naso, - Dimmi che stai scherzando.
Zlatan osserva i guanti nerazzurri con minimo interesse, e poi scuote le spalle.
– Sento freddo. – risponde a mo’ di giustificazione, e Josep sospira esasperato e si allontana, che tanto non c’è niente da fare con questa testa calda di uno zingaro svedese, e lui lo conosce da poco ma almeno questo l’ha capito.

– Allora non stavi scherzando! – ride José, e la sua voce, dall’altro capo del telefono, suona deliziosamente allegra. Zlatan sorride e pensa che è valsa la pena di allontanarsi per sentirle toccare queste note che, negli ultimi mesi, purtroppo s’erano un po’ perdute.
– Ero assolutamente serio. – risponde, – E poi, visto? Vi hanno portato fortuna.
– A te un po’ meno. – sorride più teneramente lui, – Eri praticamente invisibile in campo. Quasi mi dispiace. – ghigna divertito. Zlatan ghigna a propria volta.
– Questo perché in campo non c’ero. – risponde naturalmente.
José resta in silenzio, come non comprendesse ciò che ha appena detto.
– Ma ti ho visto, con gli stessi occhi con cui ho visto l’assist di tacco di Mario. Se è successa una co-- – si interrompe, riflette un paio di secondi e poi scoppia a ridere. – Sei un cretino. – stabilisce alla fine, – Va’ a dormire.
Zlatan sorride ancora, e prima di interrompere la conversazione risponde con una pernacchia.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Bojan/Josep, accennato Davide/Mario.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Lunedì 31 Agosto 2009, Zlatan Ibrahimović fa il suo debutto nella Liga spagnola, con la sua nuova squadra, il Barcellona. Ad osservarlo dagli spalti, anche uno spettatore d'eccezione: José Mourinho, ex-allenatore e - purtroppo per Zlatan - ex anche in qualche altro scomodo senso. La sua presenza agita Zlatan, ma non gli impedisce di segnare il suo primo gol in maglia blaugrana, e proprio quando è convinto di aver dimostrato qualcosa a José, con quel gol - anche se non sa esattamente cosa - i suoi compagni gli fanno sapere che Mourinho è uscito dallo stadio dieci minuti prima della fine dell'incontro, motivo per cui ha perso il suo gol. Amareggiato, Zlatan non riesce a nascondere la sua delusione. Tanto quanto non riesce a nascondere la sua sorpresa quando, dopo la partita, José gli si avvicina e lo invita a salire in macchina con lui.
Note: Questa fanfic è ridicola per due motivi: prima di tutto, è ridicolmente lunga per quello che racconta; secondo poi, è stata scritta in un tempo ridicolmente breve (tre giorni, more or less) per quanto è lunga e per quelli che sono i miei ritmi di scrittura effettivi XD
Nonostante le sue caratteristiche di ridicolaggine intrinseca – e forse in parte anche per quelle – questa storia vuol dire molto, per me, anche perché è un missing moment *_* E io trovo adorabili i missing moment nell’universo RPF, perché non sapere cosa sia accaduto davvero ti dà modo di fingere che ciò che hai scritto tu sia accaduto davvero *balla felice* XDDD
Scherzi a parte, ho cercato di mantenermi il più possibile aderente alla realtà, sia per quanto riguarda ovviamente José che va a guardare Barcellona-Sporting Gijon, sia per quanto riguarda l’andamento della partita. In particolare, tipo, l’esultanza dopo il gol di Ibra l’ho riportata esattamente come è avvenuta nella realtà XD (La verità è che quell’esultanza mi è piaciuta da morire perché è stata di una tenerezza che a) mi ha conquistata, b) mi ha fatto pensare “ok, a questa gente posso lasciare Zlatan, so che se ne prenderanno cura <3” Pathetic!Fangirl iz pathetic, Y/Y? Y.)
E insomma \o/ Spero che nonostante la ridicolaggine di cui sopra questa fic possa esservi piaciuta.
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QUESTIONE DI ATTESE


Zlatan ha cambiato squadra per una questione di attese. Ricorda un periodo lontanissimo – doveva avere cinque, sei anni – in cui le attese erano ancora una gioia. Attendere il ritorno di papà dal lavoro sperando portasse con sé qualche dolcetto da rubacchiare prima di cena e dividere con Sapko, Sanela e Alexander subito dopo, attendere che la torta in forno fosse pronta, sbirciare attraverso lo sportello trasparente per osservarla gonfiarsi e dorarsi, e naturalmente Natale, aspettare i regali – il nuovo paio di scarpini o la nuova palla per sostituire quella dell’anno prima ormai distrutta.
Da quando gioca a calcio a livello professionale, Zlatan ha dimenticato il valore delle attese. Ha un talento e sa come metterlo a frutto, perciò – da quando gioca ai massimi livelli – naturalmente Zlatan è sempre in campo,naturalmente non manca un gol, naturalmente è la stella della squadra, ne è il regista, ne è il cuore, ne è l’essenza. È stato così all’Ajax come alla Juve come all’Inter, ed è durata – ed è andata bene – finché Zlatan un giorno non s’è svegliato con nelle narici l’odore della torta di sua madre, e sulla lingua il sapore dei dolcetti di suo padre, e sui polpastrelli la sensazione incredibilmente fisica di un paio di scarpini nuovi e lucidi da indossare subito per correre fuori e tirare quattro calci al pallone coi suoi fratelli.
Quando ha capito di cosa aveva bisogno, quando ha capito ciò che il suo corpo stava cercando di comunicargli, come prima cosa ha parlato con Helena. “Mi piace Milano”, ha detto lei, gli occhi lucidi, “I bambini sono felici”, ha aggiunto, e poi ha mormorato “Zlatan…” e la sua espressione non ha fatto una piega. Perciò Helena ha accettato la possibilità di trasferirsi. Quindi, Zlatan è andato dal presidente e gli ha chiesto se esistesse una minima possibilità di essere venduto. “No”, ha riso il presidente, e Zlatan ha riso assieme a lui. Poi hanno sorseggiato un po’ dei loro caffè e il presidente ha sospirato quietamente. “Vuoi andartene, Zlatan?”, ha chiesto con un sorriso indulgente. “Sì”, ha risposto lui, svelto, così da non lasciare che quello sguardo da padre bonario e intimamente un po’ deluso potesse costringerlo a cambiare idea e ritornare sui propri passi. “E dov’è che vuoi andare?” ha chiesto il presidente, e Zlatan ha fatto un paio di calcoli – chi può permettersi di acquistarmi? Dove sarebbe incerta la mia possibilità di entrare in campo? Dove potrei combattere almeno un po’, dove potrei ritrovare le mie attese? – e poi ha risposto. “Al Barça”, ha detto, annuendo deciso. Moratti ha annuito assieme a lui, soppesando la sua figura intera con lo sguardo prima di terminare il proprio caffè. “D’accordo, allora. Se il Barça ti vorrà, al Barça e solo al Barça ti venderò”.
La cosa successiva che ha fatto è stata mandare un messaggio a Mino. “Mettiti al lavoro”, gli ha detto. “È difficile, Ibra”, gli ha risposto lui. La sua replica è stata lapidaria: “rendilo possibile”. E no, da José non è andato. Perché sapeva che la sua, di risposta, sarebbe stata un no, e non era disposto ad ascoltarne uno, in quel momento, specie perché non stava chiedendo alcun permesso. Era una sua decisione e pretendeva che fosse rispettata, ma José era tanto bravo a rispettare a parole quanto poi falliva miseramente nel seguire coi fatti dichiarazioni simili, perciò sapeva che il suo sarebbe stato un no di quelli duri e secchi, senza scampo, conditi da scorrettezze e ripicche d’ogni tipo, e no, non era davvero disposto a tollerarla, una cosa simile. Perciò José è stato l’ultimo a saperlo, solo quando nasconderlo non era proprio più possibile. A ripensarci adesso gli viene da ridere – l’uomo con cui andava a letto da quasi un anno è stato l’ultimo a sapere che presto l’avrebbe abbandonato. L’uomo che amava da quasi un anno – a voler essere per una volta completamente sinceri con se stessi – è stato l’ultimo a sapere che Zlatan sarebbe andato via.
E poi non c’è stato più tempo per pensare a niente, le sfide sono ricominciate. Imparare lo spagnolo – da quanto non cercava di imparare una nuova lingua? Anni – lottare per un posto in prima squadra, lottare per il primo gol in blaugrana. Le attese, le attese infinite per la lingua che non gli entrava in testa, il gioco che non si creava, il gol che non arrivava. La sfida, l’impegno, le delusioni, anche, ma una lotta continua. Esattamente quello che voleva.
Per Zlatan la vita è tornata ad essere una questione di attese, e questo gli piace.
- Indovina chi viene a guardare la partita, stasera? – sghignazza Guardiola passandogli accanto con aria falsamente casuale, durante l’allenamento, mentre le note di Viva la Vida si diffondono tintinnanti per tutto il Camp Nou, fra i fischiettii compiaciuti di Bojan e i grugniti decisamente meno compiaciuti di Daniel.
- Mh? – chiede lui, piegandosi sulle gambe e poi rimettendosi in piedi per guardarlo curiosamente , - Chi?
Josep ride divertito, incrociando le braccia sul petto. Il suo sorriso sghembo, tirato più da un lato che dall’altro, gli ricorda quello di José.
- Mister Mourinho. – rivela infine, e il cuore di Zlatan fa un tuffo in fondo al suo stomaco, e poi torna al proprio posto rivoltato al contrario, - C’è una macchina che sta già dirigendosi all’aeroporto per recuperarlo. È ospite graditissimo del presidente, e starà con lui in tribuna d’onore. – si prende una pausa, osserva Zlatan boccheggiare e lo fa con divertimento davvero malcelato, quasi derisorio, perfino fastidioso. – Emozionato?
Zlatan richiude le labbra e deglutisce a fatica.
- Non me l’aspettavo. – risponde confusamente.
- Be’, - scrolla le spalle Josep, lanciando un’occhiata e poi un’altra a Bojan che caracolla da un lato all’altro del campo inseguito da Carles per chissà che motivo, - il sedici abbiamo un incontro, nel caso te lo fossi dimenticato, - lo prende in giro con un ghigno supponente, - starà proponendosi di fare un po’ di spionaggio. Zero zero sette, così dicono le news in Italia.
- Segui le news italiane? – sbotta Zlatan, tornando a fare stretching come a voler dare a Josep la sensazione di non interessarsi minimamente al fatto. Provandoci, almeno.
- Aha. – annuisce lui, candido come un giglio, - E dovresti anche tu. – rincara poi, - C’è chi giura che stia venendo per vedere te.
Zlatan scrolla le spalle e ringhia un po’, infastidito.
- Non ha molto da vedere. Non sono ancora al cento percento.
Josep ride un’altra volta, e Zlatan sopprime il desiderio di rimettersi dritto e tirargli un cazzotto sul naso.
Ufficialmente – riprende, ancora quel sorriso irritante a increspargli le labbra, - viene qui per dare un’occhiata alla squadra che si troverà di fronte in Champions. Altrettanto ufficialmente, però, - continua con una mezza risatina, - la squadra che giocherà stasera, senza Titi e Leo, non c’entra niente con quella che scenderà in campo a Milano contro l’Inter. – Zlatan deglutisce, Josep attende una reazione, la reazione non arriva. Josep sorride più apertamente e conclude. – Fai due calcoli e vedi se alla ragione ufficiosa ma probabilmente veritiera per cui viene ci arrivi da solo. Ora scusami- Carles! – strilla, correndo dietro al capitano fermamente intenzionato a far soffocare Bojan a colpi di solletico sulla pancia, - Ti spiacerebbe non farlo fuori? Stai cercando di ammazzare il futuro della tua squadra, nel caso non te ne fossi reso conto!
Zlatan si rimette dritto e sospira pesantemente, immobile in mezzo al campo, il sole che picchia forte sulle braccia e sulla testa e sulle gambe. Solleva il viso e socchiude gli occhi. Il cielo è terso, la luce abbagliante.
- Puoi sempre fingerti malato. – ride Max, dandogli una pacca sulle spalle.
Zlatan sospira ancora. E ricomincia ad attendere – solo che stavolta sta aspettando qualcos’altro.

*

Zlatan è stanco. Ha segnato Bojan, ha segnato Seydou, lui sta bombardando la porta avversaria – o almeno ci sta provando – da almeno dieci minuti e la fottuta palla non si decide ad entrare nella fottuta porta. Questa era una cosa che non ricordava, delle attese: quanto potessero essere frustranti. Ora che è lì e tira tira tira tira di continuo e la palla finisce fuori parata altrove, fanculo anche a lei, ricorda che ogni tanto papà i dolcetti non li aveva e lui scoppiava a piangere, che ogni tanto la torta si bruciava e lui e i suoi fratelli restavano senza merenda, che ogni tanto a Natale arrivava uno stupido robottino giocattolo e lui passava la settimana successiva a guardare quella cosachiedendosi se potesse prenderla a calci al posto del pallone che non c’era, e poi scoppiava a piangere ancora, e i suoi genitori non capivano perché.
All’inizio del secondo tempo, dopo essere riemerso dagli spogliatoi – nelle gambe la fatica di un primo tempo tutt’altro che brillante e nelle orecchie i complimenti dell’allenatore a qualcuno che indubbiamente non era lui – rientrando in campo ha preso il coraggio a quattro mani ed ha sollevato lo sguardo, cercando la figura familiare di José fra la folla della tribuna d’onore. L’ha individuato subito, elegante ed ordinato nonostante il caldo, giacca blu e jeans dello stesso colore abbinati a una camicia di un giallino improbabile che è quasi certo possa indossare solo lui senza apparire un cretino cosmico. José gli ha ricambiato lo sguardo, apparentemente tranquillissimo. I suoi occhi scuri e profondi, così come la piega severa delle sue labbra, non gli hanno comunicato alcuna emozione – sembrava davvero solo un allenatore in cerca di informazioni utili per la preparazione di un incontro importante. A Zlatan s’è stretto il cuore. Ha continuato a non segnare.
Ora succede qualcosa – qualcosa cambia, all’improvviso. La palla parte dal piede di Dani, sfiora la testa di uno sconosciuto del Gijon, Zlatan la vede, forse è partito in fuorigioco ma nessuno sta dicendo niente, quindi si fotta il fuorigioco e la paura e pure le attese: si tuffa in avanti senza pensare che potrebbe anche mancare il colpo e cadere di faccia per terra, farsi un male cane, battere il polso sinistro e fottersi l’esistenza per una vaccata random simile, non gli importa. La palla la becca. Quando alza lo sguardo, la palla è in porta. Cazzo, in porta.
Si volta a pancia in su, solleva le mani, punta il dito. Spera di stare puntando a José, da qualche parte – ha perso il senso dello spazio, non sa in che punto preciso del campo si trovi. Spera di beccarlo e basta, sorride e l’attimo dopo ha tutti addosso, Gerard gli si avvicina e gli stringe le mani, Carles gli si spalma sopra e lo stringe, grato e protettivo, qualcuno gli accarezza una guancia, gliela pizzica, poi gli sistema una ciocca di capelli dietro un orecchio, e lui è felice. Quando lo aiutano a rimettersi in piedi, lascia che Dani combini un casino scompigliandogli irrimediabilmente i capelli, e sorride.
Poi cerca José. E non lo trova.

*

- Sei anche troppo palese. – lo rimbrotta Max, sospirando pesantemente mentre Zlatan lo sorregge facendosi passare un suo braccio sopra le spalle, aiutandolo a camminare, - Il mister mi ha detto che è andato via una decina di minuti prima che finisse la partita.
- Non mi interessa affatto. – risponde lui a bassa voce, perché nessuno possa sentirli, guardando dritto davanti a sé.
- E sei anche troppo bugiardo! – ride Max, tirandogli uno schiaffetto impietoso contro la nuca, - Mica male, per uno che dice sempre di essere l’incarnazione stessa della sincerità.
- Io sono sincero. – ringhia Zlatan, e poi si allontana appena. – Ce la fai a reggerti da solo?
- Sì, sì. – ride ancora Max, e Zlatan si chiede perché il mondo intero si senta in diritto di ridere, quando si tratta di lui e José. Non c’è proprio nulla di divertente nel punto, e nessuno dovrebbe permettersi di trovare qualcosa da ridere in una storia che a lui fa solo venire voglia di urlare. – Zlatan, se ci credi davvero… - riprende Max, sospirando ancora, - se credi davvero di essere sincero, quando dici che non t’importa, allora ti conosci molto poco. E io non credo che sia così.
Lo svedese non osa neanche sollevargli gli occhi addosso.
- Ma cos’avete voi due da cospirare sempre? – borbotta Gerard avvicinandosi e tirando una guancia a Zlatan, - È una cosa ingiusta, non condividete mai!
Dietro di lui c’è mezza squadra. Carles sta parlottando animatamente con Dani, sembra che stiano litigando su un locale – Zlatan non afferra molto del loro discorso in spagnolo strettissimo, ma pare che stiano cercando di decidere dove andare a festeggiare la vittoria. Bojan sta letteralmente appeso al collo di Guardiola, saltella su un piede solo e gli si chiudono gli occhi per la stanchezza.
- Mister, non viene con noi? – chiede Max, provando a stare dritto sulla gamba sinistra per vedere se fa male e sorridendo tranquillo quando si accorge che il dolore sembra passato.
- No. – sorride bonario Josep, - Boji non sta bene, potrebbe essere qualcosa di grave. Lo porto a farsi controllare e poi direttamente a dormire. – commenta con un sorriso ancora più dolce, e quando Max fa per lagnarsi Carles scuote il capo, e Max lascia perdere.
Quando il clacson scuote rumorosamente l’aria silenziosa del parcheggio riservato, inizialmente nessuno ci fa caso. Può essere chiunque, può voler dire qualunque cosa – nessuno di loro è abituato ad essere richiamato dal clacson di un’automobile, dannazione – perciò lo ignorano. Ma poi il clacson suona ancora, due, tre volte. Josep alza lo sguardo e borbotta un “ma chi cazzo” risentito che però si interrompe a metà, quando l’allenatore si rende conto di chi è che stia aspettando una risposta da dietro il vetro della BMW un po’ defilata lateralmente, seminascosta dall’ombra del Camp Nou.
- Uh. – dice, inumidendosi le labbra, - Ecco perché è uscito prima.
Zlatan collega il commento a José, segue con lo sguardo l’occhiata di Josep e, al termine delle operazioni, ha voglia di scappare a gambe levate il più possibile lontano da lì. Fosse anche Milano l’unica meta disponibile, pur di non ritrovarsi nello stesso spazio in cui si trova José in questo preciso istante, ci tornerebbe.
- Temo che ti stia aspettando. – gli fa notare Max, e stavolta non ride affatto.
- Certo che in Italia gli allenatori sono ostinati. – commenta distrattamente Gerard, inclinando un po’ il capo in una posa curiosa. Zlatan vorrebbe rispondere che in realtà non è così, gli allenatori in Italia in genere non sono ostinati. Non a questo punto, almeno. È José, il problema. Come sempre, è sempre lui il dannatissimo fottuto problema.
Si avvicina alla BMW, lasciandosi alle spalle sia lo sbuffo esasperato di Max che la risatina di Guardiola, ed anche il commento un po’ stupito di Gerard, quel “ma ci va davvero?” che in effetti esprime ad alta voce quello che anche lui sta pensando con una certa insistenza. Ci sta andando davvero, sì. Perché?
Aspetta che José abbia abbassato per metà il finestrino dal lato del passeggero, e poi lo guarda, inarcando un sopracciglio. José si sporge appena, ricambiandogli l’occhiata poco convinta. Quando Zlatan piega un po’ il capo e sbuffa, come a dire “oh, andiamo”, nello stesso preciso istante José fa esattamente la stessa cosa, e Zlatan scoppia a ridere. José si concede solo una risatina sommessa, e non smette un secondo di guardarlo intensamente, come volesse scavargli dentro.
- Che diavolo ci fai qui, me lo spieghi? – scuote il capo Zlatan, ridacchiando ancora. Il tono della sua voce è molto più indulgente di quanto non avrebbe mai creduto possibile, e non capisce se sia un bene o un segnale di debolezza. José, comunque, tira fuori il taccuino dalla tasca interna della giacca, e lo agita un po’ a mezz’aria.
- Prendevo appunti. – risponde, prima di rimettere il taccuino al suo posto. – Non che mi sia granché divertito, a dirla tutta. Siete un tantino noiosi.
- Non c’era Leo. – risponde immediatamente Zlatan, convinto che sia quello il fulcro del problema, ma José ride amaramente, scuotendo il capo.
- Tu non brilli. – commenta, allungandosi ad aprire lo sportello dalla sua parte e spalancandolo con una spintarella decisa, così che Zlatan è costretto a farsi un po’ indietro per non essere colpito in pieno. – Leo Messi… - continua José, con aria vagamente trasognata, tornando a mettersi seduto composto e poggiando entrambe le mani sul volante, - cosa vuoi che sia Leo Messi? – chiede in uno sbuffo divertito, - È solo un uomo. Tu sei Zlatan.
- Anche io sono un uomo. – gli fa notare, appena risentito. Non ha mai capito esattamente quanto pretendesse da lui José, finché José non gli ha detto che sostituirlo era impossibile, serviva una squadra per sostituire lui da solo. Ma non è così che dovrebbero essere i calciatori, è stato questo il suo primo pensiero sul punto. Poteva sentirsi lusingato da quella frase quanto voleva, ma giocare a calcio è una questione di squadra, e lui non poteva fare squadra a sé. È anche per questo che è andato via, attese a parte, e José adesso non ha il diritto di farsi vivo apposta per ricordargli cosa si prova ad essere il centro assoluto dell’attenzione – non quando Zlatan sta faticando davvero per reinventarsi in maniera completamente diversa.
- Tu sei Zlatan. – ripete José, e Zlatan non ne è sorpreso. – Sali?
Lo svedese si volta indietro. I suoi compagni di squadra lo stanno guardando chiedendogli silenziosamente cosa intende fare. Zlatan sospira e li saluta con un cenno della mano, prendendo posto accanto a José e chiudendo celermente lo sportello, per poi perdersi nello scricchiolio delle gomme quando la macchina parte a tutta velocità verso la statale.

*

- Non voglio farmi i fatti tuoi, - dice sarcastico, mentre la strada scorre sotto i suoi occhi al di là del finestrino, - ma dal momento che sono anche fatti miei, me li faccio lo stesso: dov’è che stiamo andando? – José gli concede una risata divertita, imboccando una stradina sterrata e scarsamente illuminata. – Mi porti nel fitto del bosco, - ironizza Zlatan, aggrottando le sopracciglia in una smorfia infantile, - e poi ti approfitti della mia verginità. – e stavolta la risata di José è molto più bella, tonante, compiaciuta. Zlatan sorride a propria volta e per un secondo lo fa con spensieratezza, perché stava dimenticando quanto bello potesse essere questo suono e quanto appagante potesse essere provocarlo.
- Tanto per cominciare, vedi boschi qua intorno? – chiede José, fermando la macchina a qualche metro da una costruzione di due piani che sembra decisamente provenire dal secolo scorso, con tutti i mattoni in vista e il tetto spiovente. – E poi- verginità? – ride ancora, e Zlatan fa un gesto con la mano, come a dire “dettagli”. – Andiamo in un bel posto. – conclude quindi José, spegnendo il motore ed uscendo dall’auto. Zlatan lo segue pochi secondi dopo, osservando la casa con curiosità. Sembra carina, ha anche i gerani alle finestre.
- È tua? – chiede, sinceramente stupito, il naso per aria e gli occhi fissi sul comignolo che spunta dal tetto come un dito puntato alle stelle.
- È un bed & breakfast. – risponde José con un’altra risata. Dal momento che ride tanto anche lui, Zlatan comincia a pensare che forse non è la sua storia con José che diverte tanto il mondo. Probabilmente è solo lui molto ridicolo. – Conosco la proprietaria da un po’. Quando eravamo giovani e avevamo voglia di starcene un po’ per conto nostro, è qui che venivamo io e Tami.
- …okay, in che misura dovrebbe lusingarmi esattamente il fatto che mi porti nello stesso posto in cui portavi tua moglie?
- Nella misura in cui – risponde secco José, salendo i gradini verso l’entrata della casa, - sto condividendo con te una cosa così profondamente intima e privata che non credo tu abbia nemmeno idea di quanto mi costi. – si ferma di fronte alla porta, voltandosi a guardare Zlatan con aria severa. – Queste persone conoscono me, conoscono la mia famiglia. Io potevo venire qui, oggi, prendere atto del fatto che tutti i dannati alberghi della città sono assediati dai giornalisti per un mio commento sulla partita di oggi e rinunciare al proposito di stare con te. E invece ti sto portando da persone che mi conoscono e potrebbero distruggermi con mezza parola, e tutto questo perché non intendo rinunciare a te. – si prende una pausa, inspirando ed espirando profondamente. Zlatan lo guarda come lo stesse vedendo per la prima volta dopo anni, e invece sono solo un paio di mesi. Ma sono stati lunghi, lunghi davvero, quindi probabilmente il tempo è una misura relativa, e quella manciata di giorni è stata davvero una manciata di anni, per lui. – In questa misura, - conclude José, passandosi una mano fra i capelli, - in questa misura dovrebbe lusingarti, ecco.
Zlatan vorrebbe davvero avere qualcosa di intelligente da dire, ma non trova niente di adatto, perciò tace e si limita a seguire José quando suona il campanello, la porta si apre con uno scatto secco e lui avanza all’interno dell’abitazione, sorridendo sicuro. Dietro il bancone della reception – un tavolo in legno scuro, sul cui ripiano riposa un piccolo registro bianco, davanti ad una libreria dall’aria molto casalinga, con qualche vaso pieno di fiori finti qua e là – c’è un ragazzo che, appena solleva lo sguardo e capisce chi ha di fronte, impallidisce. Guarda Zlatan a lungo, boccheggiando discretamente, e poi posa gli occhi su José, deglutendo a fatica.
- Zay, - lo chiama, la gola un po’ secca che rende roca la voce, - …ciao, immagino.
José ride teneramente, sollevando una mano in segno di saluto.
- Fabio, - lo chiama, chinando un po’ il capo, - come stai? E come stanno tua madre e tua sorella?
Il ragazzo riflette un po’, prima di rispondere.
- Dormono. – decide quindi, con un sorriso un po’ imbarazzato, - Per tua fortuna.
José ride ancora, divertito.
- Già. – annuisce, - Ce l’hai una stanza libera, sì?
- Oh, sì. – risponde subito il ragazzo, prendendo a sfogliare il registro. E poi, più cautamente, aggiunge: - Anche più di una.
José sorride indulgente.
- Una basterà.
Fabio si rassegna e scrive qualche appunto veloce su una pagina bianca.
- Per quanti giorni?
José finge di rifletterci.
- Io sono libero fino a mercoledì. – annuisce, e poi si volta verso Zlatan. – Tu hai da fare?
- …no. – ammette. È la prima parola che dice da quando è entrato, e viene fuori ruvida e impacciata, fastidiosa. – Intendo, - corregge il tiro, schiarendosi la voce e grattandosi nervosamente la nuca, - ci sarebbe la Nazionale, ma non è un problema. Non davvero.
José sogghigna, tornando a voltarsi verso Fabio senza però guardarlo, preferendo concentrarsi su un punto a caso sul ripiano del tavolo: infila una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne tira fuori il portafogli, estraendone immediatamente la carta di credito.
-  Stai attento. – lo avverte, e Zlatan capisce immediatamente, dal tono della sua voce, che sta parlando con lui, - Stavolta il tuo allenatore probabilmente non sarà disponibile quanto lo sono stato io, a coprirti per l’assenza in nazionale.
- Tu non mi hai coperto. – aggrotta le sopracciglia lui, - Tu mi hai proibito di andare.
- Tu non volevi andare.
- Questo è completamente un altro discorso.
- Sarete stanchi. – s’intromette Fabio con un sorriso che trabocca disagio, - Ho visto la partita, dev’essere stata estenuante. Se mi metti una firma qui, Zay, vi mando a letto. Magari senza per questo dover svegliare tutti, ecco, continuando a litigare così all’ingresso.
José ride a bassa voce ed allunga un braccio a scompigliargli i vaporosi  riccioli neri.
- Non tirare troppo la corda, - lo rimprovera, - o dico a tua madre che sei stato scortese.
- Non tirarla tu! – lo rimbecca il ragazzo, divertito, - Potrei dire a mia madre ben di peggio, sul tuo conto!
José ride perché sa già che Fabio non dirà una parola, prende le chiavi che il ragazzo gli porge e fa cenno a Zlatan di seguirlo al piano di sopra. Lui obbedisce, e gli parla solo quando hanno terminato di salire le scale, ed è sicuro che nessuno possa sentirlo.
- Fino a mercoledì – riflette, - sono un giorno intero e due notti! Cosa cazzo ci stiamo a fare qui un giorno e due notti?
- Oh, - ghigna José, aprendo la porta di una stanza e tenendola dischiusa perché Zlatan possa entrarvi per primo, - sono sicuro che troveremo come occupare il tempo.
- Non dirlo con quel tono… - si lamenta Zlatan, schioccando la lingua, infastidito, - …allusivo. È rivoltante.
Ti prego. – borbotta José, chiudendosi la porta alle spalle con due giri di chiave, - Risparmiami la lezione di morale, d’accordo? Decisamente non è il momento.
- Fosse per te, non lo sarebbe mai. – sospira lui, lasciandosi ricadere seduto sul letto e saggiando sotto i polpastrelli la fresca morbidezza del copriletto in raso. – Grazie, comunque.
- Uh? Perché sto pagando io? – chiede José, sorridendo compiaciuto, - Guadagno più di te, mi sembra il minimo.
- No, non per quello, stronzo che non sei altro. – ringhia, sferzandolo con un’occhiataccia infastidita, - Per avermi portato qui. Voglio dire, ho capito cosa stavi cercando di dirmi per le scale, di fuori. E… mi lusinga, davvero.
- Ti lusinga. – gli fa eco José, sfilando la giacca e rimanendo in maniche di camicia, - Parli come una liceale che sta per scaricare il cesso sfigato che ha osato trovare le palle di confessarle il suo amore.
- Non è così! – sbotta Zlatan, allargando le braccia in un gesto esasperato, - Cristo, perché devi sempre distorcere tutto in questo modo?! Fanculo! – si mette in piedi, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - È insopportabile. Sei insopportabile. Forse dovrei scaricarti davvero.
José gli si avvicina con cautela. Lo abbraccia da dietro, e respira lentamente sulla pelle del suo collo mentre Zlatan si scioglie nella sua stretta, sospirando arreso.
- L’hai fatto, in realtà. – gli ricorda, lasciando un bacio lievissimo sulla sua nuca, nella poca pelle che riesce ad emergere fra una ciocca e l’altra dei suoi capelli.
- E siamo comunque ancora qui. – commenta lui, amaramente, come se si rendesse conto solo in quel momento di quanto possa essere sfiancante la realtà.
- E ti dispiace? – chiede José, una mano che scivola lungo il suo ventre, sotto la maglietta. Zlatan scatta ad afferrarlo per il polso, bloccandolo e aggrottando le sopracciglia. Si allontana senza una parola, perché non può dire che gli dispiaccia, ma neanche di esserne felice. Vorrebbe essere meno confuso, vorrebbe che José lo confondesse di meno, ma sembrano entrambi desideri irrealizzabili. E José resta immobile nel centro della stanza, guardandolo severamente. – Perché mi hai seguito, Zlatan? – chiede secco, quasi irritato.
Zlatan si appoggia con la fronte contro la finestra. Il vetro fresco abbassa un po’ la temperatura del suo corpo – la sua pelle sembra bruciare, da quando José gli ha messo le mani addosso – e gli permette di respirare meno faticosamente, scrutando con distrazione il paesaggio scuro di fuori. Il buio si spezza appena quando un’altra macchina arriva e si ferma a qualche metro dalla BMW di José, Zlatan cerca di concentrarsi su quello, cerca di concentrarsi sui visi delle persone che occupano la vettura, ma non fa in tempo a metterli a fuoco che i fari si spengono e tutto torna scuro e irriconoscibile.
- Non lo so. – ammette a bassa voce, - Non lo so, non potevo non farlo.
- E questo non dovrebbe suggerirti qualcosa? – ipotizza José, incrociando le braccia sul petto.
- Mi suggerisce che sono molto più debole di quanto pensassi. – risponde Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Mi suggerisce che devo crescere ancora. Mi suggerisce-
- Ti manco. – lo interrompe José. Lo dice lui perché sa che a Zlatan sarebbe servita almeno un’altra mezz’ora di sproloquio senza senso per arrivarci, e una volta che ci fosse arrivato sarebbe probabilmente crollato chiedendosi cosa abbia fatto della sua vita e perché si sia messo in un guaio simile. José non vuole vederlo crollare, tutto ciò che vuole è riaverlo per sé, ecco perché lo salva, prendendosi la responsabilità di essere lui a dire le cose come stanno, come sempre.
- …sì. – annuisce Zlatan, abbassando lo sguardo, - Mi manchi. E questo è sbagliato.
José inarca un sopracciglio, offeso.
- Perché?
- Perché me ne sono andato! – replica Zlatan, gesticolando, - Cristo, come fai a non afferrare un concetto tanto semplice?! Sono andato via, mi sono lasciato tutto alle spalle, tutto, vittorie, sconfitte, stress, una villa da svariati milioni, amici, conoscenti e tutto il resto, e non sono stato dannatamente in grado di lasciarmi indietro te, e questo è ridicolo assurdo e doloroso e odio te e me stesso per questo!
José non si scompone minimamente, dopo il suo sfogo. Lo osserva respirare a fatica, il suo riflesso si sfuma sul vetro della finestra alle sue spalle e i suoi occhi sono rossi e un po’ umidi, ma non vuole piangere – sarebbe una cosa da ragazzini, sarebbe una cosa così incredibilmente sciocca!, e José lo conosce bene, sa che Zlatan si strapperebbe gli occhi dalle orbite a mani nude, piuttosto che farsi vedere in condizioni simili. Eppure lo sta facendo, gli sta sputando addosso cose che lui neanche immaginava – perché oh, c’è differenza, ce n’è eccome, fra lo sperare che la persona che ti ha abbandonato possa ancora sentire un certo trasporto nei tuoi confronti, e il renderti conto che quel trasporto c’è ancora, sì, ma gli sta spezzando il cuore – e José sa bene che Zlatan non vorrebbe dirgli niente di tutto questo, ma lo sta facendo comunque, e quale che sia il motivo probabilmente c’è semplicemente da ammettere che qui José non è l’unico che sta sacrificando qualcosa.
- Potevi restare. – gli ricorda, cercando di mantenersi freddo e razionale.
- Non era quello che volevo. – risponde immediatamente Zlatan, ricacciando indietro un singhiozzo e coprendolo con un ringhio di gola, - Io volevo andarmene, e volevo andare avanti con la mia vita. Volevo qualcosa di diverso, Milano non poteva darmelo.
- Io-
Neanche tu potevi darmelo. – si passa una mano sugli occhi, esausto. – José, Cristo. Perché non mi capisci?
José deglutisce a fatica, esitando appena, prima di avvicinarsi. Gli appoggia una mano sulla spalla, massaggia un po’ i muscoli rigidi sotto la maglietta e sospira.
- Zlatan. – lo chiama, e Zlatan scuote il capo. – Guardami.
- No. – risponde, pressando con più forza la mano sugli occhi, - Tu non hai idea di cosa mi fai. Non saresti mai dovuto venire qui.
- Sono venuto per la partita.
- Sei venuto perché sei uno stronzo. – ringhia lui, il volto ancora coperto, - Potevi guardare la partita e tornartene a casa. Sarebbe stato molto meglio.
- Zlatan. – ripete José, stringendo la presa sulla sua spalla, - Ho preso un dannato aereo alla prima sosta di campionato disponibile. Ho fermato per due giorni il lavoro dei ragazzi rimasti a Milano per fiondarmi qui in tempo per vederti, cazzo, prima di dire che non ho idea di cosa ti faccio, prova a guardare un po’ al di là del tuo naso! – si interrompe, arriccia le labbra in un anticipo di risata, e poi aggiunge: - Mi rendo conto che ti sto chiedendo di guardare ad una ragguardevole distanza, ma…
- Stronzo! – lo spintona poco delicatamente Zlatan con la mano che non è impegnata a fargli da scudo nei confronti del resto dell’universo. Il tono della sua voce è cupo e offeso, ma la risata che nasce spontanea nel fondo della sua gola non riesce ad essere fermata e inghiottita prima di raggiungere le labbra e sfuggirne, rassicurando José e convincendolo a lasciarsi andare ad un sorriso meno teso.
Zlatan si appoggia al davanzale della finestra. Il respiro che lascia andare è così profondo da dare l’impressione di lasciarlo senza neanche una molecola d’aria in corpo, completamente sgonfio.
- Puoi guardarmi, adesso? – chiede a bassa voce José, sporgendosi un po’ per sfiorargli la guancia in un bacio leggero.
- Non ne sono ancora sicuro. – risponde Zlatan con un mezzo sorriso, ma abbassa la mano, anche se non solleva gli occhi nei suoi. – Non pensavo che sarebbe andata così. – dice quindi, - Ovviamente immaginavo che ci saremmo rivisti e non sarebbe stato semplice, ma questo… cavolo. È molto più difficile del previsto.
- Potrebbe essere più semplice. – replica José, asciutto, e Zlatan lascia andare una risatina disillusa.
- No, non potrebbe. – risponde sicuro, - Tu continui ad essere convinto di poter risolvere tutto in base a chissà che decreto divino. Tu sei convinto che ti basti parlare di qualcosa per sistemare qualsiasi problema. Non è così, io vivo in un altro mondo, adesso. Quello che c’era non può tornare. – solleva lo sguardo e lo fissa a lungo, José ha l’impressione che Zlatan stia cercando di prendergli le misure per riacquistare familiarità con la sua figura. Si ritrova a chiedersi se sia possibile che, da qualche parte nel corso degli ultimi due mesi, Zlatan sia effettivamente riuscito a dimenticarlo. Si chiede se sia possibile che il suo piombargli all’improvviso fra capo e collo possa averlo destabilizzato al punto da non capire davvero più nulla – si chiede, per la prima volta da che è al mondo, se non abbia sbagliato. Se non abbia scelto troppo avventatamente, quando s’è trattato di decidere se andare a trovarlo o meno. Si chiede se non sia stato più egoista che maturo, si chiede se sia stato giusto. Si chiede cosa ci fa lì in quel momento.
- Non dirlo. – sibila, e Zlatan si rimette dritto, sottraendosi alla sua stretta.
- Ho bisogno di una boccata d’aria. – esala, allontanandosi di qualche passo guardandolo negli occhi, prima di rassegnarsi a dargli le spalle e tirare un paio di volte la porta verso di sé, senza ricordarsi che è chiusa a chiave. Quando lo realizza, deglutisce e pensa che José non sta approfittando di quest’incertezza per avvicinarsi e cercare di trattenerlo. Gira la chiave e si chiude la porta alle spalle.
La luce nel corridoio è fioca e giallastra. È tutto molto quieto e, in un primo momento, Zlatan coglie solo di sfuggita i due corpi avvinghiati contro una porta, tanto stretti da sembrare un’unica ombra. Quando, però, uno dei due sbotta un “merda” terrorizzato, Zlatan si volta e cerca di metterli a fuoco più distintamente. Ed allora risulta incredibilmente semplice riconoscerli.
- Mister. – boccheggia sconvolto, nel lasciar scivolare lo sguardo prima sul proprio allenatore e poi su Bojan, ancora stretto a lui, le labbra rosse e gonfie ed il segno evidente di un succhiotto appena sotto l’orecchio destro. – Boji.
Josep ansima faticosamente, stringendo possessivo le mani attorno ai fianchi di Bojan. Non sembrano intenzionati a separarsi, e se da un lato questo porta Zlatan a chiedersi cosa diavolo abbiano intenzione di fare, dall’altro, riflettendoci, anche lui capisce che non potrebbero fare nient’altro.
La porta alle sue spalle si apre lentamente, seguita da un sospiro stremato. Ha appena il tempo di realizzare che José sta uscendo dalla stanza per venirlo a cercare, che è costretto a fronteggiare un fatto ben più grave – José sta per vedere ciò che sta vedendo anche lui, e questo è molto probabilmente ben più di quanto Guardiola fosse intenzionato a lasciargli intuire della sua squadra, prima della partita del sedici. Zlatan vorrebbe sentirsi in grado di provare una qualche spinta protettiva nei confronti dei due uomini che si stringono a qualche metro da lui, ma non ci riesce.
Poi realizza che c’è qualcosa di ancora più grave perfino di questo: al di là di quanto possa vedere adesso José, c’è quello che invece potrà intuire Guardiola. E se la segretezza di una relazione passata può permettersi di sfociare in una bonaria consapevolezza all’interno di uno spogliatoio unito qual è quello dell’Inter a Milano, lo stesso non si può dire di ciò che potrebbe pensare il suo nuovo allenatore trovandolo in compagnia del suo ex in un bed & breakfast solitario subito dopo una partita di campionato.
- Oh. – dice la voce liscia e sicura di José, la mano ancora sulla maniglia e solo un piede oltre la soglia della porta. – Ho dovuto fare meno strada del previsto.
Josep si allontana da Bojan e il ragazzo si appoggia alla parete, probabilmente per non cadere a terra.
- Che situazione curiosa. – commenta divertito José, avanzando fino a sistemarsi al fianco di Zlatan e girargli un braccio attorno alla vita, traendolo possessivamente verso di sé. – Bella serata, mh?
Josep serra le labbra e Bojan distoglie lo sguardo, imbarazzato oltre il sopportabile. A Zlatan viene voglia di prendere José a pugni fino a fargli dimenticare come si chiama, perché si trova lì e perfino come si organizza un discorso di senso compiuto, ma le sue dita tozze chiuse con forza sulla sua pelle gli tolgono il respiro in modi che non riesce nemmeno a capire. Non sa se sia perché lo sta toccando o perché sa perfettamente che l’atteggiamento sbruffone e indisponente di José è, come sempre, una tattica di protezione nei confronti di ciò che ha di più caro – lo usa con tutti coloro cui tiene, con la sua famiglia, con la sua squadra, con lui – sa solo che al momento lo trova intollerabile, che gli dispiace vedere Josep e Bojan comportarsi così colpevolmente quando lui stesso non si sente meno colpevole, quando sa che anche José dovrebbe sentirsi colpevole allo stesso modo. Ma non dice una parola, resta immobile al fianco di José ed osserva Guardiola borbottare qualcosa di incomprensibile mentre Bojan si copre il viso con entrambe le mani.
- Coraggio, coraggio. – sorride José, allungandosi a sfiorare la spalla del ragazzo in un gesto paterno e rassicurante, - Può capitare. Non deve necessariamente uscire da queste quattro mura. – aggiunge comprensivo, e il sottotesto minaccioso delle sue parole è tanto chiaro da non aver bisogno di sottotitoli: una sola parola su me e Zlatan, e presto il mondo intero saprà chi si porta a letto la stellina appena maggiorenne del Barça.
Bojan non ricambia il suo sguardo ed anzi, sotto il suo tocco, si irrigidisce e si allontana impercettibilmente, come José scottasse. Probabilmente è solo l’imbarazzo a renderlo elettrico. Zlatan vorrebbe – non lo sa nemmeno lui. Abbracciarlo, probabilmente, come ha fatto con Davide quella volta che suo nonno è stato male e loro erano in ritiro e lui non poteva muoversi neanche per questioni di vita o di morte. O come ha fatto con Mario quando la convocazione per la Nazionale – che aspettava con l’eccitazione di un bambino a Natale, la sua stessa attesa, quella che non riusciva più a ritrovare, dipinta nei suoi occhi neri come il carbone – non è arrivata a lui ma al suo migliore amico. Ricorda le lacrime soffocate di Davide, quei suoi terribili “cosa faccio se muore, come faccio se muore?”, e ricorda anche le lacrime di Mario, profondamente diverse, quasi animalesche, ringhianti e furiose mentre si appendeva con entrambe le mani alla sua maglietta, tirandola spasmodicamente, e la sua tristezza priva di possibilità di sfogo, perché per quanto potesse essere deluso non riusciva neanche a prendersela con il suo Dade.
Gli fa male pensare che, se si fosse trattato di Mario o di Davide – se si fosse trattato della sua squadra – nemmeno la stretta di José sarebbe bastata a fermarlo. Se ne sarebbe liberato e sarebbe corso a stringerli,  e l’avrebbe fatto serenamente, perché José avrebbe capito e l’avrebbe perdonato. Adesso è diverso, non sente la stessa spinta nei confronti di Bojan. Vorrebbe poterla sentire, vorrebbe – dannazione – poter dire “sono a casa”, finalmente, ma tutto ciò che riesce ad associare alla parola casa è la sua stanza con Adri – e poi con nessun altro – in Pinetina, l’appartamento a Milano, via Montenapoleone, il Duomo che poteva sempre incrociare solo di sfuggita, tali erano i rischi che poteva correre nel caso qualcuno lo riconoscesse e si mettesse ad urlare in mezzo alla piazza che c’era Zlatan Ibrahimović lì a passeggiare come niente fosse, perfino la villa in ristrutturazione in cui non ha mai nemmeno messo piede sembra più casa di Barcellona. E casa di José, naturalmente, le  decine di stanze di villa Ratti e le decine di volte in cui lui, Helena e i bambini si sono fermati a dormire lì dopo una giornata passata tra piscina e salotto. E le decine di volte in cui è scivolato fuori dal letto, nella stanza degli ospiti, ed uscendo in corridoio ci ha trovato José. E i suoi baci, le sue carezze, il modo spiccio e rude che aveva di tirarlo verso la prima stanza disponibile per scopare.
Questo è tutto quello che riesce a realizzare quando pensa a casa, e quindi la spinta per abbracciare Bojan in questa situazione non arriva. E se anche arrivasse, Zlatan non è sicuro che non la lascerebbe spegnersi per paura di non ottenere da José la stessa comprensione che gli avrebbe riservato se, al posto di Bojan, ci fosse stato Mario o Davide.
- Io… - comincia Josep, ma è stato in silenzio così a lungo che la voce esce fuori roca e spiacevole. La schiarisce con due colpetti di tosse, prima di ricominciare. – Io penso che si possa risolvere questa questione in modo amichevole, mister Mourinho. – azzarda, e lo fa col tono di voce e con lo sguardo di chi sta chiaramente pensando “quello che vuoi. Dimmi ciò che vuoi e sarà tuo, purché tu tenga la bocca chiusa”. E per un secondo Zlatan ha davvero paura che la risposta di José potrebbe essere “ridatemelo”.
- Ma non c’è niente da risolvere. – lo tranquillizza invece José con un sorriso spaventoso, - Io sono a posto così, se anche lei è a posto così. Non sprechiamo ulteriore tempo prezioso in questioni così sciocche, vuole?
Josep annuisce e passa un braccio sopra le spalle di Bojan, attirandolo verso di sé e dandogli modo di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, stringendogli forte la maglia all’altezza del petto. Zlatan si aspetterebbe quasi di vederli entrare nella stanza di fronte alla loro, come non fosse successo niente, e invece Josep si volta e conduce Bojan lungo il corridoio, verso le scale, per scendere al piano di sotto ed abbandonare il bed & breakfast.
José schiocca la lingua, sbuffando appena.
- Mi spiace per loro. Che sfortuna, poi, scegliere lo stesso posto che ho scelto io. – e poi tira Zlatan verso la stanza in un gesto spiccio così tipico di lui che a Zlatan viene quasi voglia di sorridere. – Vedi, se non fossi uscito, tutto questo non sarebbe successo.
- Perché non mi sembri stupito? – chiede, seguendolo in camera ed osservandolo chiudere di nuovo la porta a chiave.
- Perché dovrei esserlo? – rimbecca José, sfilando la chiave dalla serratura e infilandosela nella tasca posteriore dei jeans, per ogni evenienza.
Zlatan indica la porta con aria allucinata.
- Il mio allenatore ed uno dei miei compagni di squadra stavano praticamente per scopare in corridoio. Secondo te perché dovresti essere stupito?
José inarca un sopracciglio e lo guarda, dubbioso.
- Devo ricordarti in quanti corridoi abbiamo scopato noi nel corso dell’anno che abbiamo trascorso insieme a Milano? – chiede ironico, e Zlatan lo manda a fanculo, irritato.
- Noi siamo una cosa diversa! – cerca di spiegarsi, - Insomma, non credevo che qualcun altro-
- Credi anche tu alla favoletta di Lippi? Niente omosessualità nel calcio? Andiamo, Zlatan. Cosa credevi di essere, una specie di unico esponente della razza dei calciatori bisessuali? Che guarda caso aveva trovato l’unico esponente della razza degli allenatori bisessuali col quale scopare in santa pace? Ti prego. Oltretutto, – aggiunge divertito, - devo dire che la tua perspicacia è rimasta agli stessi bassissimi livelli cui si trovava mentre stavi all’Inter. Andiamo, che quei due avessero una storia era evidente perfino a me che non li conoscevo.
- Ma che… - annaspa Zlatan, scioccato, - Prima di tutto, evidente un cazzo!
- Ma dai! – rimbecca José, sfilando la giacca e lasciandola ricadere morbidamente ai piedi del letto, - Non hai visto come se lo coccola quando è in panchina? Sono gesti molto teneri.
- Paterni! – specifica Zlatan, e José ride.
- Be’, come hai potuto osservare poco fa, mica poi tanto. E comunque-
E comunque lo dico io! – riprende Zlatan, osservandolo sciogliere un paio di bottoni della camicia con naturalezza quasi disturbante, - Che cosa vorrebbe dire quel discorso sulla perspicacia?
José scrolla le spalle, terminando di sciogliere i bottoni della camicia e sfilandola lentamente, per poi appoggiarla con cura sullo schienale dell’unica sedia presente in camera.
- Che non mi stupisce che tu non ti sia accorto di cosa c’era fra Guardiola e quel ragazzo, considerando che non ti sei mai reso conto della più evidente relazione omosessuale che ti passava sotto gli occhi dentro lo spogliatoio.
- Che…? – biascica Zlatan, spalancando gli occhi, - Ma di chi stai parlando?
- Mi dispiace, - ride José, - ma decisamente non sono più fatti tuoi. – gli dice, sapendo di fargli male, mentre sfibbia la cintura e la lascia sfilare lenta fra i passanti dei jeans, prima di arrotolarla e posarla sulla sedia. – Posso solo dirti che il signor Lippi sarebbe stupito di scoprire quanto bene possa funzionare sul campo e fuori una coppia omosessuale, in barba alle sue opinioni sull’equilibrio dello spogliatoio.
Zlatan boccheggia per qualche secondo come un pesce fuori dalla propria boccia, e poi si passa una mano sugli occhi, in tempo per evitare di guardare José che sfila i jeans e li piega sommariamente, riponendo anche loro sulla sedia e restando in boxer.
- Non sono sicuro di aver capito, ma se ho capito non voglio saperlo. – biascica. Poi sente due dita afferrarlo delicatamente per il mento e sospingerlo verso l’alto. Se ne lascia guidare, mordendosi il labbro inferiore mentre i suoi occhi scorrono su tutta la superficie del corpo di José, prima di terminare la loro corsa sul suo viso. – Perché lo stai facendo? – chiede a bassa voce.
- Cosa? – chiede a propria volta José, inclinando il capo, un po’ stupito.
- Spogliarti. – precisa Zlatan, - Potrei chiederti le chiavi e dirti che non ho la benché minima voglia di venire a letto con te. Non guardarmi così, - si lamenta, aggrottando le sopracciglia quando scopre una sfumatura ironica nel brillio che rende scintillanti gli occhi scuri di José, - la possibilità c’è! E tu invece-
- Zlatan. – lo interrompe José, poggiando entrambe le mani sui suoi zigomi e stringendo la presa abbastanza da zittirlo ma non tanto da fargli male, - Ma tu davvero credi che io sia venuto fino a qui pensando che questa fosse una possibilità concreta?
Zlatan lo fissa con disappunto, cercando di liberarsi dalla presa – con poca convinzione, in realtà.
- Poteva accadere. – insiste, - Può accadere ancora.
- Se fosse stato possibile, non mi sarei mai mosso. Non ho abbastanza pazienza per sopportare altri no, Zlatan.
- Potrei dirtelo, adesso.
- No, non potresti.
- E cosa te lo fa pensare?! – quasi urla, esasperato, scattando in piedi e liberandosi, - Cosa, fra tutto ciò che ho detto da quando sono qui, ti ha fatto pensare che io potessi essere ancora innamorato di te?! Dimmelo! Così avrò cura di non ripeterlo in futuro, e risolverò il problema alla radice!
José lo guarda curioso, in silenzio, per qualche secondo.
- Non ho ascoltato nemmeno una delle tue dichiarazioni, da quando sei qui. – dice alla fine, - Semplicemente, i tempi erano maturi. – e poi sorride con indulgenza, sollevando una mano a sfiorargli una guancia. – Se pensi di aver detto qualcosa di fraintendibile, forse dovresti ripeterla adesso. Magari non era solo fraintendibile. Magari era esattamente quello che volevi dire, tutto qua.
Zlatan però non dice niente. E non dice niente perché, se ripercorre con la memoria tutte le dichiarazioni che ha rilasciato ultimamente, gli sembrano tutte dichiarazioni d’amore, senza eccezione alcuna. E questo lo disturba, e non vuole che José lo sappia, perciò si china e lo bacia lievemente sulle labbra, perché alla fine l’unica cosa che vuole far sapere a José – l’unica cosa che conti davvero – è quella. Che ha ragione, che c’è ancora qualcosa, che no, non può stargli lontano, che gli è grato per essere venuto a trovarlo, che vorrebbe poter restare con lui per sempre, che il solo pensiero di vederlo tornare a Milano fra un paio di giorni lo distrugge, e cerca di mettere tutto nel bacio che gli appoggia sulle labbra. Solo che un bacio tanto infantile e asciutto non è abbastanza per far passare nulla di tutto questo, e quindi è José a pretendere di più. È José che lo afferra per la nuca e se lo tira contro, obbligandolo a schiudere le labbra con la propria lingua ed assaggiandolo lento, con affetto e un pizzico di soddisfazione, mentre lo sospinge dolcemente verso il letto. Zlatan si lascia guidare, si lascia adagiare fra le lenzuola come fosse troppo stanco per combattere ancora, ed è nel momento in cui José scende lungo il suo petto e gli respira addosso attraverso il cotone sottile della maglietta già umida di sudore, che Zlatan capisce che non è “come se” fosse troppo stanco per opporsi, lui lo è e basta. È stanco di dire no, è stanco di dirsi no, è stanco di scappare ed è stanco anche di aspettare.
Solleva il bacino per agevolare i movimenti di José. Le sue mani scorrono abili e leste lungo i suoi fianchi, ne seguono la linea dritta disegnata dai muscoli ed afferrano delicatamente i jeans, lasciandoli scivolare verso il basso in una carezza che somiglia a una tortura. Ansima con forza, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra, mentre solleva una mano ad arpionare José dietro la nuca nello stesso preciso istante in cui le sue labbra si chiudono addosso ad un suo capezzolo, stringendo e accarezzando e succhiando con la solita calma – ed è strano pensare in questi termini, “le solite cose” erano le cose che più credeva di odiare, una routine consolidata, noiosa e immobile e inflessibile, che non si sentiva più in grado di tollerare, e invece ora che José lo bacia e lo sfiora ovunque a Zlatan fa piacere ritrovare lo stesso identico sapore, lo stesso identico ritmo, le stesse identiche sensazioni.
Realizza che non si era mai veramente stancato di José, mentre lui si sistema fra le sue gambe ed accarezza la sua erezione, guardandolo dall’alto come fosse un’opera d’arte. Non riesce più a ricordare di cosa fosse stanco con esattezza, quando José sfiora con due dita il profilo del suo volto. Zlatan schiude gli occhi e cerca quelli di José, e non li trova perché sono persi da qualche parte fra la linea dritta del suo collo e quella curva della sua spalla, e scendono giù lungo il braccio, fanno la conta dei tatuaggi per vedere se c’è qualcosa di nuovo, e si illuminano di un sorriso che sulle sue labbra non affiora quando si rendono conto che non è cambiato niente, è tutto uguale a due mesi prima. È arrivato in tempo, è arrivato in tempo per impedirgli di perdersi, per impedirsi di perderlo.
Gli ricambia lo sguardo solo quando le sue dita, seguendo la curva del mento, si appoggiano lievissime sulle sue labbra, in una richiesta muta. Zlatan obbedisce senza pensarci, lasciando scivolare la propria lingua sulle falangi di José e godendo del suo mugolio un po’ stupito e un po’ compiaciuto, prima di lasciarlo andare e seguire il movimento di quelle stesse dita mentre tracciano una scia umida di saliva lungo il suo petto, il suo ventre e il suo fianco. E quando le perde di vista chiude gli occhi e stringe i denti, solleva ancora il bacino puntando i piedi sul materasso e la sensazione successiva che percepisce somiglia al ricordo di un sogno che non s’è mai sbiadito, nella sua memoria. Quella sensazione di pienezza mista al desiderio di avere di più lo confonde e lo eccita, ed è meglio dei dolcetti di papà, è meglio della torta di mamma ed è meglio anche dei regali di Natale: è l’attesa di José che continua a dargli sempre le stesse sensazioni. Perché potrà essere una stella ed avere assicurato il posto in campo, e potrà avere tutti i gol che vuole, potrà giocare con tutti i fuoriclasse che stima, sono cose che s’è guadagnato col talento, con l’età e con l’esperienza, e a meno di trovare il modo di viaggiare indietro nel tempo e tornare nel Malmö BI nulla potrà ridargli la sensazione di incertezza che provava quando aveva otto anni e non era sicuro che il mister lo chiamasse né tantomeno sapeva cosa gli sarebbe toccato fare nel caso in cui il mister l’avesse chiamato – ma oh, José resta l’unica incognita fissa nella sua vita, il modo che ha di guardarlo senza che Zlatan possa riuscire a decifrare se lo stia studiando o stia cercando di sedurlo, il modo che ha di toccarlo, come fosse una cosa propria ma non volesse trattenerlo per non imprigionarlo, il modo che ha di spingersi con forza contro e dentro di lui per ricordargli che anche se non lo stringe fino a soffocarlo, anche se lo lascia volare via, c’è solo una cosa per la quale varrà la pena di lottare per sempre, e quella cosa è lui.

*

José sta riscrivendo con un dito il nome di Maximilian sul suo braccio. Segue il contorno delle lettere vagamente gotiche che scendono giù lungo il bicipite, fino al gomito, e aggiunge ghirigori di tanto in tanto – quando gli sembra di non aver insistito abbastanza su un determinato centimetro di pelle, ad esempio. Zlatan crede che José non voglia ripartire finché non si sarà impresso sulle mani la forma di ogni singolo angolo ed ogni singola curva del suo corpo. Continuando di questo passo, però, non sarà l’unico a restare con una traccia addosso – sarà lo stesso per Zlatan, che probabilmente si porterà dietro il peso della pressione dei suoi polpastrelli per molti mesi, anche dopo che José sarà tornato a Milano.
- Non ti perdonerò mai per essere uscito dallo stadio prima della fine della partita. – dice guardando il soffitto. S’è sistemato così comodamente nell’incavo del suo collo che ha quasi l’impressione di esserci nato, in questa posizione. – Ti sei perso il mio primo gol al Barça.
- Ma non mi dire, - ride José, spostandosi a giocare in punta di dita sul disegno tribale che copre la spalla, - hai segnato? – Zlatan annuisce, trovando perfino il coraggio di mettere su un mezzo broncio offeso, e José ride ancora. – E com’è stato questo gol? – chiede a bassa voce. Il suo respiro agita appena i capelli sul suo collo, Zlatan ha i brividi ovunque.
- Mmh. – commenta con una scrollatina di spalle, - Diciamo che è stato meglio se non l’hai visto, forse.
- E allora con che faccia tosta ti arrabbi? – rimbrotta lui, dandogli uno schiaffetto lieve sulla fronte, - Dinamica?
- La palla è arrivata, - spiega Zlatan, - diciamo in modo rocambolesco.
Diciamo?
- Sì, be’, - biascica, adesso vagamente imbarazzato, - diciamo che non è stato proprio un passaggio pulito pulito. C’era di mezzo la testa di uno del Gijon, non so, non c’ho fatto molto caso, in realtà. – aspetta che l’ennesima risata divertita di José torni a spegnersi, prima di continuare. – E poi niente, mi sono buttato in avanti e ho sperato di prenderla. E l’ho presa.
- Normale amministrazione, quindi. – lo prende in giro con un ghigno che Zlatan non vede ma intuisce perfettamente nel tono della sua voce. Risponde con una gomitata nelle costole, neanche troppo gentile, e sbuffa teatralmente, fra le risate di José che non sembrano intenzionate a fermarsi neanche a causa del dolore. – Scusa, scusa. – gli dice, quando finalmente la pianta di ridacchiare, - Ascolta. C’è una cosa che non ho avuto il tempo di dirti, quando sei andato via.
- Non hai avuto il tempo? – sbotta Zlatan, piegando indietro la testa e guardandolo da sotto in su, - Ci ho messo tipo due settimane ad andarmene!
 - Già. – annuisce José con un’altra risata, stavolta un po’ amara, - Io ce ne ho messe tre per venirci a patti. – confessa, e Zlatan serra le labbra e smette di guardarlo. José, comunque, non smette di parlare. – Ci ho messo un po’ a capirlo, perciò non potevo dirtelo subito. E dirtelo al telefono sarebbe stato assurdo. Comunque il punto della questione è che non deve per forza cambiare tutto, Zlatan. Ci siamo un po’ persi perché ci siamo… come convinti che vederti cambiare squadra sarebbe stata una specie di fine del mondo. Di quelle piccole, che sconvolgono solo gruppi ristretti di persone, ed alle quali nessuno su grande scala bada. Il nostro piccolo Armageddon personale.
- E invece non lo era? – chiede, e la voce esce fuori con difficoltà, perché un po’ ci spera ancora. Un po’ – è assurdo, ma ci spera davvero – spera che José adesso gli dica “sì, va tutto di merda, è un’apocalisse di proporzioni devastanti, stiamo giocando male, abbiamo bisogno di te. Torna a Milano con me”. E lui partirebbe, cazzo. A costo di mettersi a litigare col presidente in persona e farsi tirare fuori dalla rosa fino a dicembre, dannazione, troverebbe un modo per tornare a Milano. Lo troverebbe lui o convincerebbe Mino a trovarlo, o in qualche altro modo comunque risolverebbe la questione, perché se ripensa alle attese adesso che sta fra le braccia di José non è poi davvero tanto sicuro di sentirne così tanto la mancanza.
Sa che non è possibile, però.
- No, non lo era. – risponde José con naturalezza, - Stiamo giocando bene. Abbiamo faticato un po’ a trovare il ritmo, sai?, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Non so se hai visto il derby, ma-
- L’ho visto. – sospira lui. – Siete stati grandi.
José ride piano.
- Avevi detto di non passare tanto tempo davanti alla tv.
Zlatan torna a guardarlo da sotto in su.
- E tu avevi detto di non aver ascoltato neanche una mia dichiarazione, da quando sto qui.
Ridono entrambi, contemporaneamente, rotolando un po’ sul letto e scombinando tutte le lenzuola.
- Comunque non l’ho vista in tv. – precisa Zlatan, ridendo ancora mentre José torna a scrivergli cose sul braccio, - L’ho vista al pc. E non hai idea di che fatica sia stata trovare un dannato streaming funzionante.

*

Le ultime parole di José, prima di salire sull’aereo per Milano, sono state “Al prossimo giro vieni tu, io sono troppo vecchio per queste sfacchinate mordi e fuggi, anche se quello che mordo mi piace”. Zlatan ha risposto tirandogli una spinta spalla contro spalla e promettendogli che la prossima volta non solo sarà lui ad andare a Milano, ma sarà anche lui a mordere. José ha fatto un sorriso storto e poi se n’è andato, e Zlatan si ritrova ad imitare quello stesso identico sorriso mentre raccoglie gli scarpini e un po’ di roba dalla quale non si separa mai all’interno del borsone. Fra un paio d’ore ha il volo per Stoccolma e naturalmente è in ritardo. Lagerbäck già lo odia perché ha chiesto di potersi presentare un giorno dopo a causa di un fantomatico dolore al ginocchio che, per via dei suoi precedenti, non è stato preso granché sul serio, e quindi appena metterà piede sul suolo svedese comincerà a sentire urla che non si esauriranno fino alla fine di questo turno di qualificazioni.
Sospira pesantemente, passandosi una mano fra i capelli e districando qualche nodo all’altezza delle punte. Sono troppo lunghi e da quando è a Barcellona non li ha lisciati nemmeno una volta, li ha sempre lasciati liberi di andare un po’ dove volevano, ma probabilmente è arrivato il momento di tagliarli. Lo segna sulla lista come prima cosa da fare una volta tornato in patria, Lagerbäck o meno.
Il lieve colpetto di tosse che lo coglie all’improvviso alle spalle lo costringe a girarsi di scatto, tirandosi un po’ i capelli nel movimento.
- Ahi… - si lamenta, liberando la mano dall’intreccio di boccoli all’altezza del collo, - Boji? – chiede quindi, un po’ incerto. Il ragazzo non lo guarda, resta lì a qualche metro da lui e fa fatica perfino a rimanere fermo, tanto è nervoso. Continua a spostare il peso da un piede all’altro, come non riuscisse a trovare pace. Zlatan sospira: Guardiola l’ha ignorato per tutto il giorno e la situazione s’è fatta pesante. È un bene che debba partire per gli impegni in Nazionale: se tutto va come deve, per il momento in cui sarà tornato, tutta questa faccenda se la saranno lasciata entrambi alle spalle. – Bojan, ti prego, non fare così. È già abbastanza imbarazzante anche evitando queste scene, ti pare?
Lui risponde con un sorriso minuscolo, avanzando di qualche passo e poi, finalmente, guardandolo.
- Pep non sa che sono qui… - mormora incerto, - Voglio dire, l’ha presa male, è molto preoccupato e- - Zlatan lo interrompe con una risata tonante, riprendendo a sistemare la propria roba nel borsone come niente fosse stato. Bojan inarca un sopracciglio ed arriccia le labbra in una smorfia infantile ed offesa. Zlatan lo ferma prima ancora che possa parlare.
- È tutto ok, Boji. – sorride, chiudendo il borsone ed avvicinandoglisi. Gli lascia passare un braccio attorno alle spalle, se lo tira contro e gli scompiglia i capelli, teneramente. – José non dirà una parola, garantisco io per lui. Di’ al mister di stare tranquillo.
Bojan ridacchia, un po’ imbarazzato, e poi solleva lo sguardo mentre, ancora abbracciati, si muovono insieme verso l’uscita dello spogliatoio.
- Sai che è la prima volta che lo chiami mister? – gli chiede. Zlatan sorride, guardando il cielo terso di Spagna non appena si ritrovano all’aria aperta.
- Davvero? – gli scompiglia ancora i capelli, inspirando ed espirando profondamente, - Non me n’ero accorto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Pep/Bojan, Zlatan/Gerard, accenni di Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst.
- Bojan ha paura.
Note: Potete crederci o no, ma questa storia è nata esclusivamente perché la Jan un di', tipo quattro giorni fa, disse "ho voglia di Pejan". Siccome io sono così, mi piace rendere il mondo felice <3 *si bulla* ho pensato bene di accontentare lei e chiunque altro potesse aver voglia di un po' di sano Pejan nel mondo. Poi l'Ibraqué ci si è infilato involontariamente, ed è tutta colpa di una foto ormai famosa in modo nauseante, che non mi prenderò la briga di linkare qua, che tanto anche se vivete sotto un sasso sicuramente il vostro Gazzettino del Sasso si sarà premurato di mostrarvela mentre voi vi affogavate col vostro caffè.
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(Un)Resolved Sexual Tension


Le labbra di Pep sono calde ed asciutte sulla sua pelle umida di sudore. I suoi vestiti sono fradici, e quando gli si avvicina per abbracciarlo Bojan ha come l’impressione di sentirsi nudo contro il suo corpo. Il tessuto della divisa è sottile, non pesa niente, è quasi impalpabile, anche quand’è così bagnato. Arrossisce istintivamente quando Pep lo stringe a sé e gli sussurra qualche complimento sulla tempia, proprio nello stesso punto in cui l’ha baciato poco prima. In mezzo al clamore della folla ed al battito convulso del proprio cuore, Bojan non coglie neanche una delle sue parole, ma gli tremano ugualmente le ciglia quando lo sente sorridergli addosso e massaggiargli piano una spalla col pollice da sopra la maglia bagnata, un attimo prima di lasciarlo andare ed allontanarsi di qualche centimetro, per cercare i suoi occhi ed anche una risposta alla domanda che ha formulato e che Bojan s’è colpevolmente lasciato sfuggire.
- Cosa… - boccheggia, mentre tutto intorno a lui i compagni festeggiano e lui non riesce a vedere nient’altro oltre agli occhi di Pep e al suo sorriso piccolo e dolce, - Cosa hai detto?
Pep inarca un sopracciglio ed il suo sorriso si allarga appena, divertito.
- Ti ho chiesto se ti va di fermarti da me, stanotte. – ripete senza imbarazzi di sorta, - Devo mettermi nel cerchio di centrocampo, rubare un microfono a qualcuno e urlarlo a tutto il Camp Nou? – ridacchia, scompigliandogli i capelli.
- No! – ride per riflesso anche lui, abbassando lo sguardo mentre le guance gli si arrossano e lui è grato di poter fingere sia solo a causa della fatica per la partita appena conclusa, - No, ho… ho capito.
- E intendi anche darmi una risposta da qui alla fine del secolo? – lo prende in giro Pep, tirandoselo contro ancora una volta in un gesto rassicurante.
- Sì. – sbuffa lui in un sorriso più sereno, - Voglio dire, sì che intendo risponderti. E sì anche che… che mi fermo da te. – annuisce distogliendo lo sguardo. Pep sorride ancora, Bojan non lo vede ma può sentirselo addosso.
- Bene. – gli sussurra sulla pelle in un altro bacio, stavolta sulla guancia, - E smetti di tremare, dai. – consiglia ridacchiando ancora e spintonandolo lievemente spalla contro spalla, prima di allontanarsi verso la postazione per le interviste post-partita.
Bojan lo osserva muoversi, farsi più piccolo e poi sparire nel tunnel, e vorrebbe davvero smettere di tremare, ma non ci riesce.

*

Sta ancora tremando quando Pep gli apre la porta di casa e lo invita ad entrare. Non è la prima volta che si trovano da soli in casa dell’uno o dell’altro: Bojan ormai dovrebbe essere abituato a questa loro routine da fidanzatini casti e puri – può ancora ricordare quanto forte fosse il profumo della pelle di Pep quando, dopo averlo baciato a lungo, un pomeriggio di tanti e troppi mesi prima, gli ha detto “solo quando sarai pronto, Boji, io non ho fretta” – eppure per qualche motivo non riesce a sentirsi meno che terrorizzato ogni volta che la porta si chiude alle sue spalle, specialmente in quel breve istante in cui si ritrovano all’ingresso ancora immersi nel buio, prima che uno dei due si allunghi sbrigativamente ad accendere la luce per annegare l’imbarazzo in una risatina nervosa, incamminandosi a passo svelto lungo il corridoio.
Questa volta tocca a lui: stende un braccio lungo la parete, dove sa già di trovare l’interruttore della luce, e lo schiaccia. Di colpo, all’oscurità spazzata appena dalla luce della luna a filtrare dalla finestra in fondo alla stanza, si sostituisce la luminescenza giallastra della lampadina alta sul soffitto sopra di loro. I contorni delle cose si fanno più definiti – più spaventosi – e Bojan si sente quasi costretto ad abbassare lo sguardo mentre si rende conto dell’estrema facilità con cui riconosce il posto di ogni singolo mobile e soprammobile in quella stanza, così come prima le sue dita hanno trovato la via per l’interruttore della luce con una naturalezza perfino disturbante.
Imbocca il corridoio come fosse a casa propria, e combatte a stento il desiderio di fermarsi ogni due passi per ricordarsi che così non è, lui non vive lì, e dovrebbe ricominciare a comportarsi da ospite, sempre ammesso che l’abbia mai fatto prima d’ora. Entra in camera di Pep senza chiedergli se può, indovina a memoria la strada per il letto senza mai accendere la luce, e quando le sue ginocchia sfiorano il fianco del materasso vi si appoggia e molleggia un po’ contro quella morbidezza familiare, prima che qualcosa di meno morbido ma ugualmente familiare – il corpo di Pep, le sue mani, l’erezione prepotente fra le cosce che ogni volta cerca con scarso successo di nascondergli per non spaventarlo – lo raggiunga alle spalle, sfiorandolo con circospezione.
Bojan trattiene il respiro mentre Pep se lo stringe contro e scivola con le labbra lungo il profilo del suo viso e del suo collo, sfiorandogli la curva della spalla con la punta del naso da sopra la maglietta e respirandogli addosso per un tempo indefinito prima di chiamarlo piano per nome e scendere con il palmo della mano bene aperta lungo la sua pancia, sotto la maglia, soffermandosi appena qualche secondo sull’ombelico giusto per fingere di non essere terrorizzato all’idea di scavalcare l’orlo di pantaloni e boxer e scenderne al di sotto, per toccare ciò che le sue dita, vagando apparentemente senza meta sulla sua pelle, stanno segretamente cercando da quando hanno cominciato ad accarezzarlo.
Bojan non sa cosa Pep si aspettasse dalla serata; o forse sì, forse lo sa ed è proprio questo a spaventarlo tanto: il fatto che Pep si aspettasse qualcosa mentre lui, da qualche parte neanche troppo nascosta della propria testa, non faceva altro che sperare che, invece, non s’aspettasse niente.
Dovresti averne voglia, si dice impietoso mentre, con uno scatto quasi isterico, si allontana dal suo corpo e si volta per non dargli le spalle, guardandolo dritto negli occhi come un animale braccato che ha estremo bisogno di guardare il suo cacciatore in faccia, per cercare di comprenderne i piani. Dovresti tenerci anche tu, si ripete, dovresti volerlo, dovresti lasciarti toccare. E invece non vuole.
- Boji…? – lo chiama Pep, confuso, allungando una mano nel tentativo di raggiungerlo. Bojan si stringe nelle spalle e chiude gli occhi di scatto, come avesse paura di veder divampare fiamme dalla punta delle sue dita. Pep spalanca gli occhi e le labbra, e si ritrae, sconvolto.
Quando Bojan torna a guardarlo, si rende conto di sentirsi troppo in colpa perfino per restare lì a respirare la sua stessa aria, ed è per questo che si volta, esce dalla stanza e ripercorre il corridoio al contrario, afferrando la giacca alla cieca dall’attaccapanni e fuggendo da casa sua senza mai guardarsi indietro, e senza aver mai sentito il bisogno di accendere la luce.

*

Il tempo pazzo della primavera in Catalogna gli si riversa addosso con furia mentre corre per le strade di Barcellona. Gli piove addosso uno sproposito d’acqua, il vento gli scompiglia i capelli sollevandoglieli dalla fronte per poi lasciarglieli ricadere sul viso con la violenza di uno schiaffo. Bojan piange, ma non riesce a distinguere le lacrime dalle gocce di pioggia, per cui l’unica cosa che gli permette di capire quanto profondamente stia male è un dolore diffuso nel petto e i singhiozzi che gli scuotono le spalle, sfiancandolo più di quanto non stia facendo la sua corsa matta verso casa di Gerard.
Avrebbe potuto andare da chiunque avesse voluto, nessuno dei suoi compagni gli ha mai negato ospitalità o sostegno, solo che sono tendenzialmente tutti più grandi di lui – a parte Pedrito, ma Pedrito è un cretino babbione che chissà dove e come starà festeggiando la vittoria, proprio stasera – e per questo motivo si sentono come in dovere di fargli da vice-padri, e la prima cosa alla quale pensano quando lui si presenta a far loro visita con un “ho un problema” sulle labbra è “vediamo come possiamo risolverlo”.
Geri no, invece. Geri ha ventitre anni ma per certi versi – per molti versi – è rimasto un ragazzino. Dice sempre la prima cosa che gli salta sulla lingua, ride per ogni stupidaggine, e soprattutto non si è mai sentito grande abbastanza da poter risolvere i propri casini, figurarsi quelli degli altri. In compenso, è sempre disposto a distribuire un po’ di coccole a caso quando necessarie, e il suo letto nella stanza degli ospiti è sempre pronto all’uso, per quanto spesso Bojan si sia ritrovato triste abbastanza da costringersi all’imbarazzo di abbandonare quelle lenzuola neutre e un po’ deprimenti per spostarsi in punta di piedi in camera del suo ospite, trovandolo il più delle volte ancora sveglio, sorridente e in perfetta attesa che qualcosa di simile accadesse, pronto a dargli accoglienza al proprio fianco, fra le coperte calde che profumano di lui – di casa, di consolazione, di abbracci.
Per questo, non si preoccupa dell’ora tarda quando si attacca al campanello di casa di Gerard, e si stringe nervosamente nelle spalle, sotto la tettoia, cercando di scrollarsi di dosso un po’ di pioggia mentre si prepara a saltargli al collo nell’esatto momento in cui avrà aperto la porta e potrà ritrovarselo davanti. Solo che quello che apre la porta non è Geri, non gli assomiglia nemmeno. È Zlatan ed è seminudo e lo sta guardando come fosse un ostacolo imprevisto ma inevitabile, di quelli che poi ricordi con odio per tutto il resto della tua esistenza.
- Zlatan…? – sillaba incerto, scrutandolo terrorizzato mentre lui sospira, poi sbuffa e rientra in casa, lasciandosi la porta socchiusa alle spalle per permettergli di entrare.
- Hai visite. – lo sente sussurrare rivolgendosi a Gerard, un secondo prima di scostare le lenzuola con un gesto brusco e poi tornare a stendersi sul letto, nello stesso identico posto che presumibilmente occupava prima del suo arrivo.
- Boji! – lo chiama Gerard, sfoggiando un entusiasmo del tutto ingiustificato e saltando giù dal letto per correre ad abbracciarlo, nonostante sia fradicio di pioggia. – Ma santo Dio, dove diavolo sei stato? Sarai mica venuto a piedi?
Bojan annuisce senza davvero pensarci, e non riesce a staccare gli occhi di dosso da Zlatan che, dal canto proprio, continua a sfogliare Marca con aria annoiata, interrompendosi solo quando il suo sguardo comincia a farsi abbastanza pesante da impedirgli di ignorarlo ancora.
- Che hai da guardare? – chiede bruscamente, e Bojan distoglie immediatamente lo sguardo, arrossendo imbarazzato.
- Niente… - biascica incerto, - Solo che, insomma, credevo che fosse tutta una bufala, quella foto… sembrava così strana, credevo fosse finta.
- Finta! – sospira Zlatan, sollevando gli occhi al cielo, - L’unica cosa finta in tutta questa storia è il cervello che questo cretino mi aveva detto di avere quando invece ne era palesemente privo.
- Non essere il solito stronzo, Zlatan. – borbotta Gerard, spalancando cassetti a caso e tirandone fuori un telo di spugna nel quale lo avvolge quasi completamente, sfregandolo come fosse un cucciolo appena trovato per strada, nel tentativo di riscaldarlo. – Che succede, Boji? Ci sono stati problemi?
Il suo sguardo si fa immediatamente cupo e adombrato da un velo di lacrime, motivo per cui Gerard lascia andare un mugolio preoccupato al quale Zlatan fa subito eco con una lamentela disperata.
- Ma non poteva restarsene a casa sua? – sbotta infastidito, scalciando via le lenzuola e mettendosi in piedi vagamente stizzito.
- Zlatan, ma che palle! – lo rimprovera Gerard, sedendosi sul letto e trascinandosi dietro Bojan perché possa accomodarsi di fronte a lui, - Il piccolo qui ha evidentemente problemi d’amore, come puoi non capire che ha bisogno di conforto?
- Il conforto non serve! – protesta lui, ad un passo dalla porta del bagno, voltandosi a guardarli incredulo, - Non è che una menzogna che ti raccontano per farti credere che da qualche parte, nel mondo, ci sia speranza per la bontà umana, cosa assolutamente falsa. E poi, amore, che paroloni.
- Sì, be’, in effetti chiedere a te di comprendere un concetto simile è impensabile. – lo prende in giro con un ghigno sardonico, al quale Zlatan risponde con una smorfia inviperita.
- Io so esattamente cos’è l’amore, e per tua informazione lo conosco anche!
- Eccome! – risponde a tono lui, - Quando t’ho conosciuto eri già più sfondato di un traforo montano, non so se esista qualcun altro nel mondo che conosca l’amore più profondamente di te.
Zlatan si prende qualche secondo per fingersi più oltraggiato di quanto realmente non sia, e poi gli tira addosso una pantofola.
- Fottiti. – conclude, chiudendosi a chiave in bagno, non senza portare Marca con sé, e Gerard ride sotto i baffi mentre torna a concentrarsi esclusivamente su Bojan.
- Coraggio. – dice, accarezzandogli teneramente una spalla in segno di conforto, - Di’ a zio Geri cos’è successo.
Bojan non riesce a guardarlo tranquillamente negli occhi, motivo per il quale tiene gli occhi fissi sull’orlo del lenzuolo e lo stropiccia infantilmente fra le mani, mordicchiandosi un labbro. Cerca di concentrarsi su quello e spera che le parole vengano fuori da sole, senza bisogno di doverle spingere, perché non ha forza a sufficienza per farlo.
- Ho paura. – confessa in un soffio di voce, - Ho una paura folle, non riesco neanche a pensarci senza avere voglia di scappare. – si copre il viso, dimentico di non aver dotato la frase di un soggetto cui Gerard potesse appellarsi per capire a grandi linee di cosa stesse parlando, ma Gerard non insiste, lo lascia sfogare, sa che il momento giusto per chiedergli di spiegarsi arriverà, e se non dovesse arrivare sa che in qualche modo lo capirà da sé. – Non ho mai pensato che prima o poi saremmo arrivati a questo punto— cioè, è ovvio che ci ho pensato, - precisa arrossendo ancora, - però, insomma, non ci ho pensato davvero, a quello che potrebbe comportare, a cosa potrebbe significare, ma soprattutto… - si morde ancora il labbro inferiore, con più forza, come servisse a provarsi qualcosa, - non ho mai pensato al dolore, e— e mi fa paura. Mi fa paura tantissimo, non riesco— mi irrigidisco tutto, divento un pezzo di ghiaccio appena mi tocca, ed è solo perché ho una paura tale che non riesco a sbloccarmi. E continuando così manderò a puttane tutto, lo so, ma-- - singhiozza appena, trattenendo il respiro per non scoppiare a piangere come una ragazzina, - ma non ci posso fare niente, non riesco. Non riesco.
Gerard resta silenzioso e immobile a lungo, prima di decidersi a fare qualcosa. Lo prende delicatamente per le spalle e lo trae a sé, incurante dei suoi vestiti bagnatissimi che il telo di spugna non è riuscito ad asciugare neanche parzialmente, e se lo sistema sul petto, tirandogli giù l’asciugamani dalla testa per accarezzargli i capelli, lasciando sfilare le dita fra le ciocche che gli gocciolano sul viso, in parte per scacciare l’acqua, in parte per tranquillizzarlo.
- Sei così piccino. – gli sussurra dolcemente all’orecchio, coccolandolo un po’, - È normale avere paura, Boji, è giusto avere paura. È quella sirena che l’istinto di conservazione mette n moto perché tu possa chiederti se vuoi davvero qualcosa, o se sei pronto per ottenerla, in ogni caso.
Bojan annuisce distrattamente, più che altro perché ora ha voglia di ricominciare a piangere, e chiude gli occhi mentre si lascia cullare, sperando che questo possa aiutarlo magari ad addormentarsi lì e mettere un punto a questa nottata disastrosa, ma la chiave che gira nella toppa del bagno e la porta che si apre subito dopo, mentre Zlatan torna in camera con uno sbuffo esasperato, gli impedisce di portare a termine i suoi progetti.
- Quante sciocchezze. – sbotta lo svedese, avvicinandosi al letto con aria bellicosa e sedendosi sul materasso, per poi afferrarlo impetuosamente per le spalle e piantarselo dritto proprio di fronte, in modo da poterlo guardare negli occhi. – La paura è una stronzata con cui il tuo corpo ti spiega che non sai abbastanza di ciò in cui ti stai andando a ficcare. Scompare completamente quando sai cosa aspettarti. A te non servono coccole, ti serve informazione.
- Zlatan! – cerca di fermarlo Gerard, col solito tono petulante che, Bojan se n’è accorto, utilizza spesso con lui, ma Zlatan lo zittisce con un gesto infastidito, e torna a parlargli.
- Non sto parlando di sciocchezze tipo preservativo, lubrificante e cose simili, queste le saprai già, figurarsi se non le sai già. – quasi lo prende in giro, e Bojan abbassa lo sguardo, - No, sto parlando di informazione vera. Tipo quello che succede. – e prende un gran respiro, e lo prende anche Gerard, e quindi Bojan si sente autorizzato a prenderlo a propria volta: - Farà male. Farà un bel po’ di male, e specialmente se è la prima volta sarà strano e frustrante e confuso, e se durerà troppo a lungo non vedrai l’ora che finisca, il più presto possibile. E dopo vi sentirete sciocchi e non riuscirete nemmeno a guardarvi negli occhi, ma – e sorride, per la prima volta da quando Bojan è arrivato, e si allunga perfino a scompigliargli comicamente i capelli, come una specie di padre imprevisto che mai avrebbe creduto di potersi ritrovare a svolgere una funzione simile per un semi-sconosciuto, - sarà per sempre vostro. E sarà per sempre tuo. E ripensandoci più avanti potrai dire di essere stato felice di averlo fatto.
Bojan guarda il suo sorriso sereno e per un secondo riesce a trovarlo perfino bello, mentre Gerard ridacchia per motivi che non comprende e si allunga prima ad accarezzargli i capelli e poi a dargli un bacio sulla guancia. Li osserva agire con tanta tenerezza dopo i continui battibecchi in cui li ha visti esibirsi nel corso dell’ultima ora, e improvvisamente gli sembra tutto molto meno assurdo e sbagliato di quanto non avrebbe mai creduto possibile.
- Torna a dormire. – dice Gerard, rivolgendosi a Zlatan mentre lui, con uno sbuffo, obbedisce, e si stende tranquillamente sul materasso, - Hai rivangato anche troppo per una sera sola. Boji, - lo chiama quindi, sorridendogli sereno, - aspettami di là. Mi vesto e ti riporto da lui.

*

Ha salutato Gerard più di cinque minuti fa, ma non è ancora riuscito a trovare il coraggio di suonare il campanello, perciò è rimasto immobile di fronte alla porta in legno massiccio dell’appartamento, immerso nel buio, fino ad adesso, e l’unica cosa che gli sembra di aver imparato da questa serata, dopotutto, è che le parole sembrano avere un gran peso nel momento in cui le ascolti o le dici, ma finiscono per perdere in consistenza man mano che il momento in cui sono state pronunciate va allontanandosi nel tempo.
Si mordicchia distrattamente un pollice, spera di non fare troppo rumore – ma come?, si chiede anche, e poi lascia perdere perché è il meno irrazionale di tutti i pensieri irrazionali che l’hanno intrattenuto negli ultimi cinque minuti ormai quasi dieci – e riesce a scansarsi appena in tempo per non prendere la porta sul naso quando Pep la spalanca con un’urgenza inaudita, e poi si blocca sulla soglia, identificandolo lì in piedi sul suo zerbino, perso nell’oscurità più totale a non fare assolutamente niente.
- Boji. – sillaba incerto, - Ero… ero preoccupato! Stavo venendo a cercarti, di fuori c’è il diluvio e tu sei tutto bagnato! Senti, mi dispiace se ho sbagliato, non intendevo metterti paura, stavo solo-- - ma Bojan non lo lascia finire, riconosce in un secondo il peso delle parole e quelle di Zlatan tornano a farsi così presenti nella sua testa da assumere quasi una consistenza fisica, nel momento esatto in cui osserva le sopracciglia di Pep corrugate, i suoi occhi velati d’ansia, le sue labbra piegate in una smorfia preoccupata e tutti i suoi lineamenti tesi dal senso di colpa.
Si slancia in avanti anche a rischio di fargli male, e lo bacia d’impeto, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra. Pep è stupito dalla sua fretta, è stupito anche dall’atto in sé, ma riesce a restare presente a se stesso abbastanza da ricordarsi di chiudere la porta alle loro spalle, e poi resta lì nel mezzo dell’ingresso, incerto sul da farsi, stringendoselo contro perché sembra che sia questo ciò che Bojan vuole, mentre continua a baciarlo come se le ultime molecole d’ossigeno esistenti nell’universo fossero tutte concentrate sulla superficie delle sue labbra.
- Ti amo. – gli sussurra addosso, quando riesce ad allontanarsi abbastanza da tornare a respirare autonomamente, - Ti amo, ti amo, ti amo tantissimo, scusa se sono scappato. Sono un cretino e non avevo capito niente, scusami.
Pep lo guarda inarcando un sopracciglio, confuso, come non riuscisse a trovare neanche nell’anfratto più recondito della propria mente un singolo motivo per il quale Bojan dovrebbe volersi scusare con lui. E Bojan pensa che è felice che le parole abbiano un peso anche adesso, e sorride serenamente, un po’ commosso da quanto sciocco sia l’uomo che ama. Torna a baciarlo, stavolta con meno furia, e le sue mani scendono quasi di soppiatto ad afferrare l’orlo della sua maglietta, tirandolo su. Pep si allontana da lui e lo guarda ancora, se possibile più confuso di prima, ma i suoi occhi si soffermano nei propri abbastanza a lungo da lasciargli intendere tutto ciò che è necessario intenda. Poi, la maglia cade ai loro piedi, e Bojan si sofferma un attimo ad osservare la linea del torace di Pep, i pettorali definiti e gli addominali disegnati sul ventre. Quasi ipnotizzato, si sporge fino a lambirli appena, scivolandogli addosso in una carezza umida ma lievissima. Sente la sua pelle tremare in punta di lingua in concomitanza col gemito di gola che si lascia sfuggire, e si permette di sbirciare in alto il suo capo reclinato all’indietro, le labbra dischiuse mentre le inumidisce con la lingua e lascia correre una mano ad accarezzargli la nuca, un po’ in un gesto tenero e un po’ in un’inconscia richiesta.
È una richiesta che Bojan non intende rifiutare, dopotutto, perciò nonostante la paura s’inginocchia sul pavimento e poggia le dita sull’orlo dei suoi pantaloni. Fissa imbarazzato il rigonfiamento evidente all’altezza del cavallo di Pep e poi, senza prendersi un solo secondo in più per riflettere – d’altronde, sarebbe inutile, e probabilmente anche controproducente – lo spoglia, avvicinandosi timorosamente alla punta della sua erezione tesa verso le sue labbra in un invito muto. L’accoglie quasi perfettamente in silenzio, lasciandosi sfuggire solo un singhiozzo appena accennato quando, provando a prenderla più in fondo, si rende conto che non ci riesce bene. Probabilmente, si dice, perché non ci ha mai provato, e la cosa lo riempie di imbarazzo ancora più degli ansiti che Pep non riesce ad impedirsi di soffiare fra le labbra, perso da qualche parte sopra di lui che non può vederlo, perché si ostina a tenere gli occhi serrati.
Si allontana da lui poco dopo, perché in tutta onestà non saprebbe cos’altro fare. Gli occhi di Pep – che trova subito, persi nei suoi – sono offuscati e un po’ lucidi, e il suo respiro è affannoso. Lo aiuta a sollevarsi in piedi e poi resta lì, inerte fra le sue mani, mentre Pep gli sfila lentamente gli abiti di dosso. Gli si appiccicano alla pelle, tanto sono bagnati. Oppongono resistenza, lasciano tracce umide su tutto il suo corpo e Bojan si ritrova scosso più dai brividi di freddo che da quelli dell’imbarazzo, quando si ritrova completamente nudo di fronte a lui.
Pep lo guarda come fosse un’opera d’arte, ammirato e perso. Si allunga a sfiorarlo con devozione, Bojan chiude gli occhi e gli viene da piangere per essere stato così stupido da non permettergli di farlo prima. Si chiede come abbia potuto pensare anche solo per un attimo che il dolore potesse essere una ragione sufficiente per rinunciare alla sensazione perfetta di sentirsi completo e felice fra le sue dita. Si chiede come abbia potuto essere così sciocco da fingere che la vita non gli avesse insegnato niente, fingere di non sapere che per qualsiasi cosa bella bisogna sudare e stringere i denti e ignorare la sofferenza, sperando di riuscire a conquistare ciò che si vuole davvero. Sono cose che sa, cose che non ha mai dubitato di avere imparato, eppure con Pep per qualche minuto aveva perso questa consapevolezza, ed ha rischiato di perdere tutto per la cecità di un istante.
Si lascia stendere sul materasso, sente il cuscino sotto la testa inumidirsi per la pioggia che ancora cola dai propri capelli, ma sorride quando Pep – che di solito per queste cose è il primo a rompere le palle – invece di farglielo notare gli chiede se sia proprio sicuro di volerlo. Annuisce tranquillo e poi si lascia trasportare dalla sensazione stupenda delle dita di Pep che lasciano una traccia bagnata sul suo petto e sul suo stomaco, prima di scendere ad accarezzarlo fra le natiche, esplorandolo prima all’esterno e poi appena all’interno, per permettergli di abituarsi a quella presenza nuova e invadente.
Bojan sente l’altra sua mano chiudersi delicatamente attorno alla propria erezione, ed inarca la schiena, affondando tra i cuscini e mugolando deliziato quando quella stessa mano comincia a muoversi in una carezza sempre più decisa, seguendo il movimento delle sue dita che frugano dentro il suo corpo, si piegano e gli tolgono il respiro. La sensazione è così bella che accoglie quasi con disappunto il momento in cui le dita di Pep lo abbandonano, ma non ha veramente modo di pensarci troppo a lungo, perché la pressione di quelle dita viene sostituita immediatamente da una pressione ben più grande e profonda.
Spalanca gli occhi, schiude le labbra, e la bocca di Pep è lì, immediatamente pronta a coprire la sua, ed ogni più piccolo gemito di dolore. La sua lingua accarezza la propria teneramente, come volesse consolarlo, e la sua mano non smette un secondo di masturbarlo con attenzione, seguendo le proprie spinte ed anche i movimenti naturali del suo bacino, mentre cerca di abituarsi alla novità senza piangere troppo. Qualche lacrima gli sfugge, e non può fare a meno di sentirsi un ragazzino idiota per questo, ma la risata intenerita e senza fiato di Pep lo consola, come lo consolano i suoi baci, come lo consolano perfino le sue spinte dapprima lente e caute, poi sempre più svelte. E lo inorgoglisce essere lui la causa di quella temporanea perdita di controllo, il motivo per cui Pep smette di affidarsi alla propria razionalità e si lascia portare avanti dal proprio istinto, e quando stringe forte gli occhi perché la presa di Pep si fa più forte sulla propria erezione e la sua carezza si fa decisa al punto da costringerlo a venire con un gemito acuto e liberatorio, vede bianco per una quantità infinita di secondi, e si rende conto che la traccia umida delle lacrime sulle guance s’è già asciugata.
Pep gli si stende addosso esausto il secondo successivo. Bojan lo sente respirare a corto di fiato sul suo collo, e solleva una mano ad accarezzargli la nuca. Sorride, fissando il soffitto. Si sente a casa. E non ha più paura.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, (vaghi) Riferimenti Sessuali, (vago) Underage.
- "Quando Pep si sveglia, istintivamente allunga un braccio alla propria sinistra, convinto di trovare ancora Bojan addormentato."
Note: Randomica come una cosa molto randomica. Titolo da Father And Son di Cat Stevens. Dedicata alla Jan per il Colacao e ad Any perché la voleva. Prompt: No/Sì @ It100.
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I WAS ONCE LIKE YOU ARE NOW// (NO)
Quando Pep si sveglia, istintivamente allunga un braccio alla propria sinistra, convinto di trovare ancora Bojan addormentato. Così non è, per qualche strano motivo, per cui apre gli occhi e si guarda intorno con aria un po’ persa, per qualche secondo, mentre aspetta di realizzare chi è, dove si trova e per quale motivo abbia avuto il bisogno di cercare la presenza del corpo di un ragazzino non ancora maggiorenne avvolto a palla sotto le coperte come prima cosa al mattino.
Poi sente qualcuno trafficare in cucina, per cui si alza e, nella gloria del proprio pigiama a righe, attraversa il corridoio, trovandosi ben presto davanti allo spettacolo vagamente disturbante di Bojan in canottiera e pantaloncini che spalanca qualsiasi anta incontri al proprio passaggio alla ricerca di Dio solo sa cosa.
- Boji…? – lo chiama, e lui si volta a guardarlo con un broncio spettacolarmente offeso ad arricciare le labbra piene e rosa.
- Ma non fai colazione, tu? – borbotta, e quando Pep gli indica il bricco del caffè in un angolo del ripiano accanto ai fornelli, Bojan rotea teatralmente gli occhi, - Ma una colazione vera, dico! – si lagna, - Non ce l’hai del Colacao?
Pep scuote il capo, Bojan si accascia come un peluche improvvisamente svuotato della sua anima in ovatta e poi ondeggia tristemente per quei pochi passi che li separano, andando a poggiarsi con la fronte sulla sua spalla. Lui sorride, gli scosta la frangia dalla fronte e lo bacia piano su una tempia, ma quando Bojan, un po’ incerto, allunga le mani a stringerlo alla vita e poi cerca di infilarne una oltre l’elastico dei suoi pantaloni, lo afferra velocemente per un polso, fermandolo.
- No. – dice severamente, - Ne abbiamo già parlato. Non ancora.
Bojan potrebbe protestare, ma non lo fa, e si allontana mesto.

(SÌ) //AND I KNOW THAT IT’S NOT EASY
Da allora è passato più di un anno, e lui e Bojan si sono mossi parecchio dal punto in cui si trovavano. Adesso, quando il ragazzo si ferma a dormire da lui, non è più solo per dormire, e quando al mattino Pep si sveglia il suo pigiama a righe è ancora appallottolato ai piedi del letto o sul pavimento – e questo sempre che abbia avuto il tempo di indossarlo alla sera, prima che Boji decidesse di saltargli addosso.
Nonostante tutto, ogni volta che Pep allunga la mano sul materasso per cercare il suo corpo, non lo trova, perché Bojan si sveglia sempre prima di lui. E il tramestio proveniente dalla cucina è ormai diventato una specie di familiare colonna sonora di ogni suo risveglio.
Pep si alza pigramente, attraversa il corridoio e quando i suoi occhi si posano sulla figura di Bojan la trovano tutta accartocciata sul tavolo, ancora vagamente sonnolenta. Bojan beve il suo Colacao – che Pep ha ormai preso l’abitudine di fargli trovare nel terzo stipetto a destra - col naso quasi del tutto affondato nella tazza. Ogni tanto sbadiglia, ogni tanto puccia un biscotto nel latte scuro di cioccolato.
- Buongiorno. – lo saluta con un mezzo sorriso. Bojan si volta a guardarlo e ride come non lo vedesse da un secolo, inghiotte in un sorso il Colacao rimanente e poi gli vola fra le braccia, tempestandolo di piccoli e dolcissimi baci sulle labbra.
- Ti va…? – chiede allusivo, le dita che indugiano appena oltre l’orlo dei boxer, accarezzandogli pigramente il ventre.
Bojan sa di cioccolato, ed è un sapore buonissimo. Pep ricorda un tempo lontanissimo in cui a dire no per un’infinità di tempo non è stato lui, e pensando che quel no non s’è mai trasformato in niente di diverso si china a baciare Bojan più profondamente, prima di sussurrargli “sì” sulle labbra.
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno in particolare, accenni a José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Crack, What If?, pseudoSlash.
- "Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione."
Note: Dunque, questa storia è a) totalmente inutile, b) totalmente folle. E' nata quando s'è cominciato vagamente a parlare del fatto che il Barça non avrebbe potuto raggiungere Milano in aereo, al che il mio cervello non poteva proprio starsene lì buonino ad osservare i fatti, no, doveva inventare XD E, insomma, questo è quello che è venuto fuori. Dedicata alla Jan perché sì, ecco XD
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Pepissea


Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione. Il commento di Pep alla questione, dopo aver appreso la notizia al telegiornale, era stato: “Ma porca di tutte quelle troie, dopo centottantasette anni doveva risvegliarsi e rompere i coglioni proprio adesso?”, al quale era seguito a distanza ravvicinata il commento di Bojan che, guardando il cielo con aria assorta come dovesse vedersi piovere una rana sulla testa da un momento all’altro, aveva detto “Non mi meraviglia che stia spargendo tutta questa robaccia in giro… inutilizzato da tutto questo tempo, doveva essere così impolverato.” Il minuto di silenzio che aveva seguito questa deduzione sarebbe rimasto nella storia di tutti i più importanti minuti di silenzio mai verificatisi a Barcellona per lungo, lungo tempo. Ma questa è un’altra storia.
Dopo due rinvii di un paio di giorni e poi una settimana, era altresì parso evidente che se anche le benedette semifinali fossero state spostate nello spazio e nel tempo fino ad essere organizzate in un universo parallelo, ucronico e geograficamente traslato su un pianeta vicino, le ceneri non sarebbero scomparse ed avrebbero continuato ad affliggere i cieli europei rendendo impossibili le tratte aeree ancora a lungo, ed era stato in forza di questo che, esattamente tre settimane dopo il disastro, Michel Platini aveva chiamato Joan Laporta e gli aveva spiegato che continuare a rinviare sarebbe stato del tutto inutile. “De scioeu mast go on, monsieur Laportà”, aveva detto.
“Laporta,” l’aveva corretto lui, infastidito. “E comunque ne parli col mio allenatore, che io il culo dalla Catalogna lo schiodo solo in casi di estremo bisogno – ed una semifinale di Coppa dei Campioni decisamente non rientra nella casistica indicata.”
“Si chiama Sciampions Lig,” aveva borbottato lui, e poi, rassegnato, s’era fatto passare Pep. “Monsieur Guardiolà!” l’aveva salutato con entusiasmo, “Comment ça va?”
“È Guardiola,” l’aveva corretto anche Pep con un ringhio sommesso, “E non intendo portare la mia squadra in Italia in queste condizioni.”
Il battibecco che ne era seguito sarebbe entrato anche lui nella storia di tutti i più importanti battibecchi mai verificatisi a Barcellona, ma si era nondimeno dovuto concludere con la sconfitta plateale di Pep per esigenze superiori, fra i sospiri rassegnati di tutta la squadra.
Fissata una nuova data per la partita – una che stavolta fosse definitiva – la prima questione da dirimere era stata quella dei biglietti aerei.
- Cosa vuol dire che non ci sono voli? – aveva chiesto Pep, fissando con aria incredula e anche vagamente pallata l’operatrice dell’agenzia di viaggi, seduta di fronte a lui tutta stretta nelle spalle come volesse scusarsi anche solo di esistere.
- Non è colpa mia, signor Guardiola… - aveva mugolato la ragazza, continuando a scrollare con la rotellina del mouse, pressando F5 sulla tastiera di tanto in tanto per aggiornare l’elenco di voli desolatamente vuoto, - Le ceneri sono ancora alte e pesanti, gli aerei non sono sicuri. Nessun mezzo in realtà lo è, dato che ultimamente i temporali si sono fatti sempre più frequenti e intensi, e-
- Senta, - l’aveva quindi interrotta Pep, massaggiandosi stancamente le tempie, - noi dobbiamo essere in Italia fra meno di due settimane, e non possiamo certo andarci a piedi. E lei capisce che non posso ficcare trenta persone fra giocatori e staff tecnico e medico in un treno per poi mandarli in giro per l’Europa fino a Milano. Mi trovi una soluzione.
La ragazza aveva abbassato lo sguardo, mortificata.
- Temo non ce ne siano, signor Guardiola. – aveva affermato tristemente.
Era stato allora che Carles si era avvicinato ed aveva proposto un modo per sfangarla.
- Guardi, mister, - aveva detto con aria professionale, - io non prometto niente, ma c’è un cugino di un fratello di un amico di un compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di mia cugina Dolores che ha una barca.
- Una barca. – aveva ripetuto Pep, come a cercare di convincersi della fattibilità dell’impresa, - Una cosa tipo uno yacht? Una piccola nave?
- No, una barca. – aveva insistito Carles, grattandosi la sommità della testa, - Da pesca, tipo.
- …ma come ci dovremmo arrivare noi in Italia con una barca da pesca?! – aveva strillato Pep, agitando le braccia, - Santo Dio, Carles!
Le cose si erano fatte anche più complesse quando, dopo aver appurato che nessun battello in condizioni umane sarebbe salpato in tempo utile, non certo col mare continuamente martoriato da tempeste in quel modo, la squadra s’era recata in pompa magna a prendere atto delle condizioni dell’imbarcazione che avrebbe dovuto condurli sani e salvi a destinazione, nonché di colui che sarebbe stato il loro timoniere nella buona e nella cattiva sorte, che i venti fossero favorevoli o no.
Il cugino del fratello dell’amico del compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di Dolores, cugina di Carles, viveva la propria vita in un costante stato di ubriachezza che gli concedeva tregua solo per pochi minuti al giorno, e si trascinava in stato semicomatoso dal pontile mezzo coperto di alghe sul quale pareva vivere al ponte della sua pseudo-barca da pesca le cui travi si tenevano palesemente attaccate con lo sputo. Arrivando, Pep e i suoi ragazzi lo trovarono piegato in due oltre il parapetto a vomitare alimenti di incerta provenienza sia quanto a conformazione molecolare sia quanto a tempo trascorso all’interno dello stomaco. Quando gli chiesero se si sentisse male, lui rispose “È solo un po’ di mal di mare”, ed i ragazzi preferirono evitare di fargli notare che la barca era ferma.
- Signor… - provò a chiamarlo Pep quando lo vide scivolare come senza vita lungo il fianco della barca, per poi tornare a sedersi sul pontile, - Signore, mi chiamo Josep Guardiola, piacere. – disse porgendogli una mano, che l’uomo ignorò platealmente, continuando a fissare laconico l’orizzonte oltre il quale nubi nere cariche di pioggia si addensavano inesorabili. Bojan tirò su il cappuccio, sempre pensando alle rane. – Ehm, posso sapere come si chiama? – proseguì Pep, incerto.
- Ho dimenticato il mio nome molti anni fa. – rispose l’uomo tetro, dando i brividi a tutti, - Non serve un nome, quando si è soli col Mare. Il Mare non ti chiama per nome.
- …no, naturalmente. – rispose Pep, deglutendo a fatica, - Senta, a noi serve un passaggio in barca fino, facciamo, in Italia. – disse, gesticolando a caso per darsi un tono. – Lei sarebbe disposto?
L’uomo si voltò a guardarlo e poi, non senza una certa fatica, si erse sulle gambe, torreggiando su tutti loro.
- Josep Guardiola, - disse sempre più cupo, - temi tu la morte?
Pep inspirò profondamente.
- In realtà sì. – rispose con un certo imbarazzo, - Ma vede, non stiamo organizzando una missione suicida, davvero. Vogliamo solo andare in Italia. Speravamo che lei potesse esserci d’aiuto, tutto qua.
L’uomo si grattò il mento, gli occhi distanti persi in chissà che scenario mortifero.
- Potrei. – rispose quindi, e una nuova luce illuminò i visi di tutti i presenti, - Ma ho perso le chiavi della barca. – confessò, tornando a portare l’oscurità su di loro, - Sono finite dentro quella grotta. – disse, indicando un punto moderatamente lontano della scogliera, - Mentre inseguivo un cerbiatto.
- …un cerbiatto? – chiese Pep, gli occhi enormi.
- I misteri del Mare sono molti. – grugnì l’uomo.
- Sì, e quelli delle allucinazioni post-sbornia anche. – commentò in un sospiro Thierry, scuotendo teatralmente il capo mentre Pep gli lanciava un’occhiataccia volta a zittirlo.
- Senta… - disse l’allenatore, pinzandosi la radice del naso, - Noi dobbiamo assolutamente partire, in un modo o nell’altro. Dobbiamo recuperare quelle chiavi. La pagheremo profumatamente, se solo lei-
- Ci ho già provato. – disse l’uomo, solenne, - Ma il pertugio fra le rocce è troppo piccolo perché un essere umano di statura normale possa passarci.
Simultaneamente, tutti gli occhi si voltarono a fissare Lionel, che sbocconcellava un panino appoggiato a un palo di legno poco distante.
- Cosa? – chiese l’argentino, mandando giù un boccone. Venti minuti dopo, stava appeso con una corda alla vita, dondolante a picco sul mare, dando indicazioni ai compagni che lo tenevano da sopra perché lo indirizzassero il più precisamente possibile verso l’ingresso della grotta.
- Va bene così? – strillò Gerard dall’alto, sollevando una mano perché Dani e Victor, impegnati a manovrare la corda, si fermassero. Lionel aspettò di riprendersi dalle svariate botte in testa che aveva preso rimpallando da uno scoglio all’altro come in un flipper impazzito, e poi piantò i piedi contro la roccia bagnata e scivolosa, sollevando un pollice in direzione dell’amico prima di avventurarsi all’interno della grotta.
Alto non più di una cinquantina di centimetri, l’ambiente era stretto e angusto, e perfino il minuscolo argentino ebbe serie difficoltà a strisciare prono verso la fine della galleria e tirarne fuori le chiavi. Quando, mezz’ora dopo, fu riuscito a tornare in cima alla scogliera, stringendo forte fra le dita il frutto del proprio sacrificio umano, la prima cosa che chiese all’uomo senza nome fu di spiegargli come diavolo ci fossero finite quelle chiavi così in fondo, ma l’uomo non rispose, e sorrise in modo così inquietante che a nessuno passo neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di insistere sul punto.
L’imbarcazione – senza nome come il suo proprietario e capitano – salpò nella notte spagnola, la stiva piena di viveri solo a metà, dal momento che l’altra metà era ingombra di tutte le bottiglie di vino catalano senza il quale il capitano non sembrava capace nemmeno di respirare, figurarsi camminare o ragionare lucidamente. Anche se, poi, pure in queste ultime due attività non è che brillasse, vino catalano o meno.
I primi problemi cominciarono a palesarsi quando le nubi scure, che li avevano minacciati quando erano ancora ancorati a terra, misero in atto i loro propositi guerrafondai scaricando sulle loro teste ettolitri d’acqua, tuoni e fulmini senza che loro potessero nemmeno ripararsi – a parte Bojan, che indossava ancora in cappuccio ma più per difendersi dall’eventuale caduta di rane che per altro.
- Finiremo alla deriva a mangiarci a vicenda per cercare di sopravvivere! – presagì immediatamente Pedro, agitando le braccia sopra la testa.
- Sta’ zitto, Pedrito. – lo minacciò Pep, stagliandosi contro il cielo scuro scosso a tratti da lampi lunghi e irregolari, abbaglianti come improvvisi fari nella notte, - O ti tengo fuori squadra fino all’anno prossimo.
- Non ci sarà una squadra e non ci sarà nemmeno un anno prossimo, per tutti noi! – continuò ad agitarsi Pedro mentre Bojan, spaventato dalle urla come un neonato, si metteva a piangere in un angolo, consolato da Thierry e Gerard, - Saremo già fortunati se arriveremo a vedere l’alba di domani mattina!
- Carles. – ordinò Pep, continuando a scrutare l’orizzonte appeso a una cima, gli occhi sottili e la pioggia che si faceva beffe del suo principio di calvizie, - Legalo. Ci serve una polena.
Le ultime parole che Pedro sentì prima di essere afferrato, imbavagliato e legato alla prua dell’imbarcazione furono “e spera che non si incontrino iceberg lungo il cammino”, suggerimento che il ragazzo accettò immediatamente cominciando a pregare in tutte le lingue a lui conosciute, che fendere le acque, per quanto agitate e violente, era una cosa, ma andare a sbattere di naso contro granitici blocchi di ghiaccio di svariate dimensioni era un affare del tutto diverso.
La tempesta cessò di infuriare solo l’indomani mattina. Stanchi e distrutti, i giocatori del Barça si aggiravano come marinai ubriachi sul ponte della nave, incerti sulle gambe, così come il capitano senza nome, che aveva dormito fino a dieci minuti prima ed aveva preso a bere non appena aperti gli occhi.
- Ma dove cazzo siamo? – si chiese Pep, gettando occhiate incuriosite in giro. Tutto attorno alla barca si apriva un corridoio di acque adagiato in mezzo a due rigogliose ali di vegetazione tropicale, con piante e fiori che mai avevano visto prima di quel momento.
- Ad occhio e croce, nella Foresta Amazzonica. – suppose Zlatan dopo essere riemerso dalla cabina del capitano della quale aveva preso possesso nell’esatto istante in cui erano saliti a bordo della barca, - Oppure su un altro pianeta. – scrollò le spalle, tirando fuori dal borsone il cellulare e componendo un numero a memoria. – Zay? – chiamò poco dopo, - Sì, siamo in viaggio. No, non ci crederai mai, ma ti racconterò appena sarò tornato a Milano. Senti, ma avete mica posto lì da voi? Perché io non ci ritorno a Barcellona in barca, beninteso. Aspetterò che la nube del cazzo si tolga dalle palle e poi tornerò in aereo, faranno a meno di me da qui a fine campionato.
Pep si voltò a guardarlo con aria sconcertata e anche un po’ oltraggiata.
- Potresti smetterla di parlare col tuo ex allenatore mentre siamo dispersi a risalire il corso del Rio delle Amazzoni che non si capisce come abbiamo raggiunto in una notte di viaggio col mare in tempesta?! – strillò, muovendosi tanto concitatamente da far ondeggiare la barca e pucciare Pedro nell’acqua come un savoiardo nel caffè.
Zlatan lo guardò malissimo, arricciando le labbra in una smorfia grandemente disapprovante.
- No. – rispose, prima di tornare a rivolgersi al suo interlocutore dall’altro lato dell’oceano, - Zaaaay, mi hai dato in mano a della gentaglia! – cominciò a lagnarsi, passeggiando nervosamente lungo il ponte, - Voglio tornare a casa, quando finisce il prestito? Sì, lo so che non è un prestito, ma potresti parlare col presidente…
Pep scosse il capo, sospirò profondamente e sollevò gli occhi al cielo plumbeo del Brasile – a quel punto, tanto valeva considerarsi davvero lì, se volevano avere una qualche speranza di venirne fuori – chiedendosi quanto ancora sarebbe durato quel supplizio.
La risposta tardò ad arrivare, perché mai, quando una risposta ti serve immediatamente, essa immediatamente arriva. Il viaggio durò tre giorni e tre notti, fu intenso e spossante, continuamente disturbato dal chiacchiericcio di Zlatan al telefono – chiacchiericcio che s’era poi trasformato in piagnisteo quando per qualche ragione le comunicazioni s’erano interrotte lasciandolo privo della sua dose di Mourinho quotidiana – dall’ondeggiare scomposto del capitano da un lato all’altro del ponte al solo scopo di sporgersi oltre il parapetto e vomitare e dalla rabbia e dalla frustrazione di un gruppo di uomini che pensava di costituire una squadra di calcio e che invece, per quel periodo di tempo, dovette dimostrare di essere in grado di pescare, nutrirsi dei crudi frutti del mare e sopravvivere a delle tempeste tali da lasciare incredulo chiunque sulle possibilità di sopravvivenza di quell’imbarcazione tanto malmessa quanto resistente.
Per tutta la durata del viaggio, attraversando oceani e osservando dalla barca gente sulle sponde delle terre che costeggiavano e che cercava di comunicare con loro tramite versi strani assimilabili a un certo “ma cu minchia sugnu?” che nessuno di loro era riuscito a interpretare, Pep rimase al proprio posto a prua, un piede ben piantato sulla punta della barca e il gomito poggiato sul ginocchio, lo sguardo sempre oltre l’orizzonte e la posa tipica dei comandanti colmi di onore e coraggio, quale lui d’altronde era.
Arrivarono a Genova sfiancati, smagriti, lerci e rattoppati come pantaloni vecchi, ma temprati da tutte le difficoltà che avevano superato e pronti ad affrontare l’Inter – e divorarne i calciatori, più per fame che per effettivo spirito combattivo. Una delegazione del club nerazzurro li accolse al porto come da programma. Furono rifocillati da deliziose cameriere in abitino nero e grembiule, furono loro donati dei vestiti umani e decenti e furono loro offerte brandine in un centro di prima accoglienza per immigrati, perché potessero riposarsi.
Solo dopo che si furono risvegliati José Mourinho in persona andò a porgere loro gli omaggi del presidente e della squadra tutta, ottenendo in cambio di essere schienato contro il pavimento dall’assalto del suo svedese preferito all’urlo di “ossantoddio, Zay, tienimi con te nella tua enorme villa con centinaia di servi per sempre”, robe che mai gli si erano sentite dire e probabilmente mai gli si sarebbero sentite ripetere.
Una volta ricompostosi, José si rimise in piedi e, accarezzando Zlatan placido al suo fianco come fosse un cucciolo di cane o qualcos’altro di spaventosamente simile, sorrise.
- Benvenuti! – li salutò, spalancando le braccia in un movimento quasi ecumenico, - L’Italia vi accoglie, o prodi giocatori del Barcellona. Prodi quanto stupidi, peraltro. – commentò, scoppiando a ridere come un cretino, - Gli aeroporti sono stati riaperti il giorno dopo la vostra partenza dalla Spagna.
Il silenzio calò sul dormitorio ricolmo di calciatori in pigiama appena riemersi da un sonno lungo dodici ore dopo aver attraversato il Mediterraneo su una barcarola piena di buchi come un groviera.
- …ma tu e Zlatan siete stati continuativamente al telefono per dei giorni… - balbettò Pep, le labbra tremule e lo sguardo vacuo, - Perché non avvertirci, perché… perché non mandare qualcuno…?
- E perderci lo spettacolo meraviglioso delle vostre urla in vivavoce per tutto il tempo? – chiese José, sorridendo placido e sistemandosi la cravatta, - Siamo la squadra più odiata d’Italia, che diamine, un motivo ci sarà pure. A proposito, - disse casualmente, avviandosi tranquillo verso l’uscita della camerata, - viste le ottime condizioni metereologiche, la partita è stata anticipata. Giochiamo stasera alle venti e quarantacinque a San Siro. Vi converrà partire al più presto. – numerosi ringhi di protesta accompagnarono la sua affermazione, così che lui si sentì quasi obbligato a sorridere più apertamente e precisare: - Però almeno potrete prendere l’aereo!
Pep e i suoi giocatori lo osservarono allontanarsi e poi scomparire oltre la porta, e fu solo dopo un paio di minuti che l’allenatore ritrovò la parola.
- Giocheremo sì alle venti e quarantacinque a San Siro, - grugnì, gli occhi scintillanti di furia omicida, - ma con la fascia nera al braccio. Avanti, miei prodi!
La rissa e il placcaggio della polizia che susseguirono sarebbero rimasti nella storia di tutte le risse e di tutti i placcaggi della polizia mai accostati alla stirpe del glorioso club catalano blaugrana, ma anche questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Genere: Erotico.
Pairing: José/Pep.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, PWP, Dub-con, Violence (più o meno), Flashfic.
- "Qual era l'accordo?"
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), José Mourinho/Pep Guardiola, abuso di potere. Quanto sono originale io coi titoli, nessuno.
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Abuso Di Potere


Lo fissa con odio sincero, profondo e affilato, mentre José ricambia la sua occhiata con una strafottenza altrettanto sincera, altrettanto profonda e altrettanto affilata, entrando dentro di lui con un colpo secco, di quelli che fanno male perché vogliono farlo. Josep digrigna i denti, stringendo con forza le mani attorno al tessuto morbido del divano, ansimando appena.
- Stronzo. – ringhia, mentre José lo afferra per i fianchi e si spinge più in profondità dentro di lui, - Fa’ piano.
- Qual era l’accordo? – lo prende in giro l’uomo, indugiando sulla sua erezione senza accarezzarla davvero.
- L’accordo era per scopare, non per farmi violentare a caso quando tu ne avevi voglia, pezzo di merda che non sei altro. – protesta lui, e José lo zittisce tirandoselo contro con violenza, obbligandolo a scivolare lungo tutto lo schienale e ritrovarsi con la testa incastrata fra i cuscini, così piegato su se stesso da sentirsi mancare l’aria.
- Mi pare di non aver violentato nessuno, fino ad ora. – gli fa notare José, sempre con quel sorriso di merda sulla faccia, - Sbaglio? – chiede allusivo, degnandosi finalmente di accarezzarlo piano fra le cosce, senza seguire affatto il ritmo delle spinte e frustrandolo fino all’inverosimile.
Josep vorrebbe, una volta tanto, smetterla di limitarsi a vomitargli addosso ingiurie, ed allontanarlo. Dirgli in faccia “col cazzo che mi lascio scopare ancora, tu come si scopa non lo sai, tu sai solo fare male e basta, e provo pena per chiunque finirà nel tuo letto da questo momento in avanti”, ma poi la mano di quest’uomo di merda che continua ad approfittare di lui – perché, cazzo, non sarà mica il primo scoperto a masturbarsi nelle docce, non è giusto, cazzo cazzo cazzo, non è giusto che solo lui debba sopportare un ricatto simile – quella mano, merda, si chiude attorno alla sua erezione e finalmente lo fa per bene, e si muove più velocemente, seguendo il ritmo delle spinte poderose ed aiutandolo a dimenticare il male che fa, e Josep chiude gli occhi, esausto, e quando viene lo fa trattenendo il respiro, un attimo prima che José si chini a baciarlo per rubarglielo tutto dalle labbra.
Si allontana senza neanche aspettare che l’erezione cominci a scemare, e lo fa perché sa che gli farà più male così, proprio ora che le sue difese sono tutte abbassate e il suo corpo è un unico, sensibilissimo fascio di nervi sovraeccitati. 
- A domani, quindi. – lo saluta risistemandosi brevemente prima di abbandonarlo sul divano. Josep ci mette un po’ a rimettersi dritto, e l’unica cosa per cui ringrazia Dio, davvero, è essere solo in casa, perché per muoversi e rivestirsi gli servirà decisamente più tempo.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bojan/Pep.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Flashfic.
- "L’8 Marzo 2010 è una data che verrà ricordata negli anni a venire, l’incredibile nevicata che ha bloccato Barcellona. Ad appena 13 giorni dalla Primavera, la neve ci ha sorpresi imbiancando la città."
Note: Il titolo assurdamente lungo (e rubato a Megalomania dei Muse) non giustifica nemmeno in parte questa vaccatella scritta in una ventina di minuti semplicemente perché le foto di Pep e Boji persi nella bufera a Barcellona erano troppo amabili per ignorarle XD E la verità, se proprio la volete sapere (scommetto che altrimenti non ci dormireste la notte!), è che se Any non me l'avesse chiesta, io non l'avrei mai scritta u.u
C'è Zlatan, dentro, e sto ancora cercando di capire perché. Bah.
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Paradise Comes At A Price That I Am Not Prepared To Pay


Osservare la neve cadere fitta fitta sulla Masia non è sconvolgente come osservare il Sahara coprirsi di bianco, naturalmente, ma non è nemmeno un evento tanto comune. Per questo motivo, Josep non cerca di forzare i suoi giocatori a concentrarsi sull’allenamento, e li lascia girovagare per il campo, tutti presi dall’osservazione dei fiocchi di neve e da quel modo idiota che hanno tutti di mettersi a giocare in ogni momento, riuscendo a far sembrare agli occhi del mondo di stare invece lavorando – solo, divertendosi un po’ più di tanti altri.
Zlatan passeggia tranquillamente per il campo. Ogni tanto ride, e quando Leo gli si avvicina e – con aria quasi offesa, neanche fosse merito suo se sta nevicando e si sentisse perciò oltraggiato dalla mancanza di rispetto che Ibra riserva all’evento – gli chiede perché non sia stupito, i suoi occhi per un secondo si fanno lontani e gli si allarga un sorriso sincero sulle labbra.
- A Milano ci allenavamo con la neve che ci arrivava alle ginocchia. – racconta con aria persa, e Josep rotea gli occhi, grattandosi la testa e muovendo qualche passo in giro dopo aver distolto lo sguardo. Il ragazzo è problematico e non capisce che non puoi avere le gambe in un posto e il cervello in un altro. Non capisce, soprattutto, che finché continuerà a giocare con mezzo cuore in blaugrana e mezzo cuore in nerazzurro – se davvero metà del suo cuore è riuscito comunque ad arrivare in Spagna, cosa di cui Josep non è affatto sicuro – dalla sua permanenza a Barcellona non potrà mai venir fuori nulla di buono. E a farne le spese sarà lui, perché è stato lui a pretenderlo al Camp Nou al posto di Samuel, ed a fine stagione sarà da lui che Laporta andrà esponendo il proprio libretto degli assegni e chiedendogli quale sia stato il frutto dell’investimento unico più cospicuo della sua intera vita.
- Sei buffo quando fai questa faccia qui. – ride Bojan alle sue spalle, e Josep si ferma, voltandosi indietro per osservarlo mentre lo affianca.
- Che faccia? – chiede, riprendendo a camminare accanto a lui.
- Questa. – ride ancora il ragazzo, e poi solleva un dito e lo usa per seguire i contorni del suo viso, stendendo le rughe sulla fronte. – Quella di quando sei preoccupato per qualcosa e non vuoi dirlo.
- Non sono preoccupato per nulla. – sorride Pep, stringendo la sua mano nella propria ed avvicinandoglisi, di modo che le loro mani intrecciate restino nascoste fra le pieghe del giubbotto che indossa. La neve cade anche su Boji, i suoi occhi grandi e chiarissimi sembrano voler seguire il tragitto di ogni fiocco dal cielo alla terra. – Non senti freddo?
- A-ha. – scuote il capo Bojan, sorridendo appena, - È bellissimo, non trovi?
Josep si ferma un attimo prima di rispondere col “sì” che Bojan meriterebbe, rendendosi conto da solo di quanto sarebbe estremamente ridicolo e melenso anche per uno come lui che in realtà è parecchio romantico, e quando Boji capisce perché lui si stia rifiutando di rispondere, scoppia a ridere.
- Sei una peste. – lo rimprovera, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca. Bojan gli si stringe contro, divertito.
- Che sono bellissimo anche io già lo so. – gli fa notare, tirando fuori la lingua, e Pep si sporge in avanti fermamente intenzionato a baciarlo per zittirlo e poi trascinarlo da qualche parte per fargli capire esattamente quanto bello sia, ma Carles passa loro davanti proprio in quel momento e si ferma di fronte a loro con aria seria, le braccia incrociate sul petto e le gambe leggermente divaricate.
- Mister, - lo riprende, battendo un piede per terra, - non siamo mica in vacanza. E soprattutto, per carità, non qui fuori!
Bojan ride, divertito oltre il legale, e si allontana da Josep solo per saltare addosso al suo Capitano, che per tutta risposta – ridendo come il ragazzino che è sempre rimasto nonostante l’età, che l’aria di Spagna è buona e rende eternamente giovani, è evidente – se lo carica in spalla e lo trasporta come un sacco di patate fino al cerchio di centrocampo, dove i loro compagni di squadra sono riusciti fra una risata e l’altra ad ammonticchiare un po’ di neve, sul quale la lascia cadere, costringendolo a una capriola mentre scivola lungo il fianco della montagnola, per poi risollevarsi in piedi fradicio e imbiancato dalla punta dei capelli alla punta dei piedi.
Josep sorride, lo guarda scuotersi come un cucciolo dopo un temporale e non si accorge per niente di Zlatan che appare al suo fianco, improvviso come la nevicata di oggi, e ghigna con aria saputella, senza guardarlo.
- Be’? – gli chiede, allontanandosi a disagio, - Coraggio, muoversi, stiamo cominciando l’allenamento, non te ne sei accorto?
Zlatan si volta a guardarlo per un attimo, e sorride più apertamente, improvvisando una seduta di stretching sul posto.
- Mister, - dice quindi, tornando a guardare i suoi compagni che saltellano e corricchiano per riscaldarsi a centrocampo, - lei non sbircia nella mia testa, e io non sbircio nella sua. Patti chiari, amicizia lunga.
Josep lo osserva allontanarsi spalancando gli occhi, e realizza che Zlatan è perfino più imprevedibile della neve alla Masia. Ma Bojan sorride, fiocchi di neve ovunque e capelli scompigliati e vestiti tutti stropicciati, e finché quello che c’è nella sua testa è al sicuro, a Josep non importa – che nevichi pure.
Genere: Romantico, Erotico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Underage, PWP, Hurt/Comfort.
- "Con quella tua fottuta faccia da femmina, è difficile credere che tu abbia veramente un uccello."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), Bojan/Pep, “Con quella tua fottuta faccia da femmina è difficile credere che tu abbia veramente un uccello.”.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A Helping Hand


Quando lo trova rannicchiato in un angolo, vicino alla fila di lavandini in ceramica un po’ defilati rispetto all’entrata degli spogliatoi, sotto la tettoia scura che lo ripara dal sole garantendogli anche quei pochi centimetri d’ombra in cui può illudersi di scomparire del tutto, Pep in un primo momento non capisce di chi si tratti. Gambe e braccia magre, vita sottile – ci mette poco ad immaginare si tratti di uno dei ragazzi del Barça B, ma riconoscerlo fra i tanti è dura, e non perché non li ricordi più – dato che, peraltro, ad allenare quella squadra c’ha passato una stagione intera – quanto piuttosto perché il ragazzino ha il volto affondato fra gli avambracci e non si fa vedere.
Gli si avvicina discretamente, esitando un po’ prima di chinarsi ed accucciarsi al suo fianco, poggiandogli una mano sulla spalla.
- Ehi… - lo chiama, - Che ti è successo?
Il ragazzo alza lo sguardo, ed a quel punto riconoscerlo è semplicissimo: gli occhi chiari, il faccino pulito, le labbra piene e la frangetta umida che scende a coprire la fronte quasi del tutto – Bojan, le sue lacrime e il suo incubo ricorrente da almeno un anno lo salutano con impeto quasi violento, tanto che Pep è costretto a ritrarsi di qualche centimetro, nell’irrazionale paura di ricevere un pugno in faccia. Non da Bojan, naturalmente. Da un educatore, magari, o da uno psichiatra, o da Dio in persona, se si occupa di queste faccende anche lui, ogni tanto, nel tempo libero.
- Mister… - lo chiama con voce rotta, e Josep non ha cuore di dirgli che dovrebbe smetterla di chiamarlo così, che lui non è più il suo mister, almeno finché gioca ancora per il Barça B, e che per quanto lui e il suo corpicino slanciato da adolescente in boccio gli siano mancati questo non lo autorizza ad usurpare il posto di lavoro di un uomo onesto che onestamente si guadagna il pane allenando ragazzini – e facendolo meglio di lui anche solo per il fatto che probabilmente non desidera scoparsi il migliore fra di loro.
- Boji, - cerca di consolarlo battendogli qualche pacca amichevole sulla spalla, per il semplice fatto che almeno allontanando periodicamente la mano dalla sua pelle un po’ sudata può illudersi di non essere già dipendente dal suo profumo e dal suo calore, - che è successo? Qualcosa di grave?
Le guance del ragazzino si imporporano vistosamente, mentre lui distoglie lo sguardo mordicchiandosi il labbro inferiore, palesemente a disagio.
- No, io non-- - farfuglia confuso, - Non è successo niente.
- …Boji. – insiste Pep con aria di rimprovero, - Senti, se è andato male l’allenamento e Luis ti ha rimproverato, possiamo--
- No! – lo interrompe il ragazzino, strizzando gli occhi e scuotendo vigorosamente il capo, - Non è successo niente di simile, mister. – e poi prende un respiro enorme, allontanandosi di qualche centimetro come non si sentisse sicuro a continuare il proprio discorso restandogli tanto vicino. – Sono… i ragazzi, il problema. – biascica, torcendosi le dita in grembo.
- I ragazzi? – chiede Pep, inarcando un sopracciglio, - In che senso?
Bojan sospira profondamente, prima di incurvare le spalle e rilasciare un sospiro profondissimo che lo sgonfia quasi del tutto.
Con quella tua fottuta faccia da femmina - dice, la voce bassa e cupa in una grottesca imitazione di quella di qualche compagno, - è difficile credere che tu abbia veramente un uccello
Si ferma che gli tremano le labbra e lo sguardo vaga ansioso in giro per il cortile vuoto che li circonda. Si sente solo il cinguettio degli uccelli – e il battito del cuore di Pep è tanto forte che vorrebbe soffocarlo con un cuscino per scongiurare la possibilità che Bojan possa sentirlo.
Invece, tutto ciò che fa è allungare un braccio ed accarezzargli il viso, più per costringerlo a fissare gli occhi nei suoi che per altro.
- Tu – dice sicuro, stringendogli il mento fra il pollice e l’indice per impedirgli di stornare lo sguardo, - sei un maschio. Mi pare evidente. – Bojan, in imbarazzo, socchiude gli occhi, e Pep lo strattona un po’ per ricordargli che lui è lì e vuole i suoi occhi. – Non permettere a un mucchio di stronzetti di rovinarti le giornate per queste cose, Boji. – e dopodiché allenta la presa sul suo viso e lascia la mano libera di scorrere lungo il collo liscio e il fianco coperto dalla maglia umida di sudore, fino ad affondare fra le sue gambe.
Bojan solleva repentinamente lo sguardo, cercando i suoi occhi in un misto di ansia e stupore, incapace di dire una parola che sia una. Si lascia sfuggire un gemito di sorpresa e piacere quando la mano di Pep, dopo averlo accarezzato con cura da sopra l’acrilico dei pantaloncini della divisa, ne scende al di sotto, scostando gli slip per stringere la sua erezione bollente fra le dita e cominciare a pompare lentamente.
- Vedi? – dice Pep, cercando di sorridere per sdrammatizzare e sperando che nessun educatore, nessuno psichiatra e, possibilmente, nemmeno Dio, stia assistendo a questo momento, - Decisamente maschio.
Bojan ride senza fiato, gli occhi chiusi e il bacino che si muove appena, strusciando contro il gradone ruvido sul quale è seduto, nel tentativo di seguire i suoi movimenti. Quando si rende conto di non riuscirci agevolmente, pianta entrambe le mani sulle sue spalle, facendo leva per sollevarsi in ginocchio e cercando di muoversi lentamente abbastanza da non costringerlo a mollare la presa o variare il ritmo. 
Mordendosi un labbro, gli si avvicina il più possibile, appoggiandosi al suo corpo come in cerca di sostegno – o forse semplicemente di calore e consolazione e comprensione e oddio, niente riuscirà a togliere dalla testa di Pep l’oscuro quanto fastidioso e doloroso pensiero di starsi approfittando di un suo momento di debolezza per esaudire un desiderio custodito nel silenzio troppo a lungo per poter essere trattenuto oltre – e Pep solleva il viso in cerca della sua bocca, trascinandolo in un bacio umido e impacciato che si protrae mentre le sue carezze si fanno sempre più svelte e disinibite e i movimenti di Bojan più concitati e ritmici, fino a che lo sente mugolare fra le sue labbra e stringere convulsamente la presa sulle sue spalle, mordendogli quasi la lingua nello spasmo improvviso e devastante che gli scuote il corpo quando viene, in un brivido bollente da cui Pep si sente invaso nonostante l’erezione insoddisfatta che preme insistentemente sotto i pantaloni.
Bojan resta appoggiato contro di lui ed ansima un po’, prima di ritrovare un ritmo meno indecente per il proprio respiro, e Pep lo attende pazientemente, esitando perfino a ritrarre la mano, che resta lì, avvolta attorno al suo sesso la cui eccitazione lentamente scema, ed è il ragazzino che, dopo almeno un paio di minuti, si allontana, le labbra piegate in un sorriso splendido.
- Grazie. – dice in un soffio, sporgendosi a baciarlo fugacemente sulle labbra prima di rimettersi in piedi e correre via, le ali ai piedi. Pep resta seduto e guarda la propria mano sporca del suo piacere, chiedendosi se sia il caso di appartarsi da qualche parte e darsi un po’ di soddisfazione prima che il suo profumo abbia smesso di impregnare i suoi vestiti, ma poi sospira e scuote il capo, pensa che Dio lo puoi ingannare una volta ma alla seconda giochi pericoloso e si mette in piedi, sciacquandosi velocemente ma accuratamente le mani prima di allontanarsi mestamente verso il campo su cui i ragazzi più grandi, da soli, si stanno già allenando da almeno mezz’ora.
Genere: Comico, Erotico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Underage, Flashfic, PWP, Crack.
- "Sembravi così innocente."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), Bojan/Pep, "Sembravi così innocente.".
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
L'Innocenza E' Negli Occhi Di Chi Guarda


- Oh-- cazzo! – ansima Josep, e la prima cosa che fa, anche se sa che sarebbe in teoria idealmente più o meno forse scorretto, è poggiare una mano dietro la nuca di Bojan e attirarlo contro di sé, perché possa accoglierlo più in profondità, fino a sentire il cazzo premere contro la parete della gola, e l’unica cosa che spera e per cui prega è che non soffochi né qualcos’altro di altrettanto drammatico o sconveniente – anche se si chiede, pure con qualche ragione, se possa essere più sconveniente soffocarsi mentre si fa un pompino al proprio allenatore o fargli un pompino e basta.
Alla fine decide che la cosa più sconveniente di tutte in assoluto è quella che si verifica, e che poi si traduce non solo in Boji che continua a succhiare tranquillamente, ma che lo fa pure con un certo gusto, cosa che lo porta a chiedersi un mucchio di cose sensate e giustissime, tipo quali siano gli hobby di questo ragazzino, come sia arrivato al punto in cui è adesso e soprattutto la cosa più importante e anche la più idiota, cioè chi gli ha insegnato a muovere in questo modo la lingua, dannazione anche a lui, e se è autodidatta merita un premio e promozione in prima squadra a tempo di record, perché i talenti, insomma, vanno incoraggiati.
Si accascia sul materasso e riprende a respirare con tanto affanno da chiedersi se per caso non sia andato in apnea da qualche parte fra la prima e la seconda volta, ma è troppo sconvolto dal desiderio immediato che lo prende quando pensa alla possibilità di un terzo tentativo per potercisi concentrare davvero. 
Boji resta lì fra le sue gambe, struscia il musino incredibilmente pulito contro la sua mezza erezione già in procinto di riprendersi e Pep guarda il soffitto, cercando di pensare a nonna Consuelo, buonanima, nel tentativo di impedire il disastro che potrebbe avere luogo se cedesse alla tentazione di lasciar decidere l’uccello come già sta facendo da un paio d’ore circa. Chissà se così si può morire, si chiede, sarebbe indubbiamente una splendida morte.
Boji ridacchia, forse indovinando i suoi pensieri o, più probabilmente, soltanto divertito dalla situazione in generale. Pep torna a guardarlo quando sente le sue labbra morbidissime schioccare un bacio apparentemente innocente sulla punta della sua erezione ormai tornata in piena potenza.
- Sembravi così innocente. – commenta con un certo stupore.
Boji ridacchia felice come un bambino.
- E’ quello che dicono tutti.
Genere: Erotico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Underage, Flashfic, PWP.
- "Sei minorenne?!"
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), Bojan/Pep, "Sei minorenne?!".
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Underage


Il caldo asfissiante dell’estate spagnola amplifica gli odori e i sapori. La pelle di Bojan sa di zucchero e sale, e Josep la assaggia in punta di lingua mentre il ragazzo si struscia contro di lui, premendoglisi addosso fino a togliergli l’aria dalla bocca con un bacio profondo e lento. Josep, seduto sul letto, piega il viso all’indietro per seguire Bojan nel movimento quando lui solleva una gamba e lo scavalca, per sederglisi in grembo. Il tocco della sua pelle è caldo come fuoco vivo su una ferita aperta, e altrettanto brucia. Le sue cosce bianche come il latte si serrano attorno ai suoi fianchi mentre si solleva un po’ – solo un po’, non allontanarti troppo, Boji, resta qui, Boji - e stringe piano la sua erezione fra le dita piccole e sottili, per indirizzarla agevolmente verso la propria apertura, senza mai smettere di baciarlo.
Il suo corpo, dentro, è perfino più caldo. Chiudendo gli occhi, Josep gli lascia scorrere le mani lungo la schiena, tirandoselo contro e penetrandolo in profondità con un gemito gutturale, mentre il miagolio di risposta del ragazzo gli risale il collo fino alle orecchie, tremando sulla pelle come elettricità, dandogli i brividi. Bojan è fatto della stessa sostanza del sole: è splendido, accecante, e brucia. È pericoloso tanto quanto è bello, perché sono passati solo pochi minuti da quando si stanno accarezzando e già Josep teme di non poterne fare più a meno. Morde le sue labbra morbide come fossero caramelle, stringe la sua erezione fra le dita e la accarezza con cura, quasi amorevolmente. Bojan è carino, merita di essere protetto. Bojan lo fa impazzire, e Pep vorrebbe ribaltarlo sul materasso, spalancargli le gambe e scoparlo con violenza mentre lo morde ovunque, ma si trattiene. Stringe la presa sui suoi fianchi, ma lascia che sia Bojan a decidere ritmo e velocità, mentre si solleva e poi ridiscende sulla sua erezione, attirandolo così profondamente dentro di sé che Pep se ne sente risucchiato senza speranza, fino a sciogliersi in un gemito strozzato che Bojan accoglie sul proprio petto, mentre allo stesso tempo accoglie il suo orgasmo dentro di sé, con un sorriso da bimbo sul quale Josep si concede di lasciare l’unico morso davvero forte di quella mezz’ora.
Ricadendo su un fianco e poi sistemandosi fra le lenzuola a pancia sotto, Bojan sfiora il labbro arrossato e gonfio e ridacchia, succhiandolo appena all’interno della bocca, un po’ per alleviare il fastidio e un po’ per mantenere intatta un po’ più a lungo quella sensazione a metà fra il dolore e il piacere che sente tanto potente quando lo stringe fra i denti.
- Senti… - dice poi, allungandosi a disegnare fantasiosi ghirigori senza senso sul suo petto, - La settimana prossima faccio il compleanno.
- Aha. – ride Pep, seguendo con gli occhi quei disegni immaginari e poi stringendo la sua mano fra le proprie in una carezza ruvida. – Quindi?
- Quindi, - ridacchia il ragazzo, stiracchiandosi come un gatto e rotolandogli addosso in un gesto falsamente casuale, - magari potresti farmi debuttare in prima squadra, quando comincia il campionato. – si struscia contro di lui, osservandolo con quegli occhioni enormi da cerbiatto e sorridendo appena. – Che ne dici?
- Dico che è un regalo importante e impegnativo. – ride Josep, scuotendo il capo con estremo divertimento.
- Be’, compio diciassette anni, in fondo! – borbotta lui, atteggiando le labbra in un broncino adorabile, - Sono abbastanza grande per prendermi questa responsabilità.
- Ah, sì, indub- diciassette anni? – quasi si strozza Pep, lanciandogli un’occhiata a metà fra il terrorizzato e l’allucinato, - Tu devi ancora compiere diciassette anni? Cioè sei minorenne?!
Bojan inclina il capo e sbatte le lunghe ciglia, come cadendo dalle nuvole.
- Credevo lo sapessi. – risponde con naturalezza, scrollando le spalle sottili.
Pep fissa il muro con occhi vacui. Pensa che sì, la prima squadra può anche regalargliela, per il compleanno. Ma più che altro per evitare una denuncia, e sul fatto che Bojan sia o meno abbastanza grande per prendersi determinate responsabilità piuttosto che altre-- be’, su quello eviterà di riflettere, almeno per ora.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Drabble, Slash, Underage.
- "Alle volte, Pep si sente sporco."
Note: *w* Pejan *w* Era tanto che volevo scrivere qualcosa su questi due – cioè, in realtà qualcosa su loro due l’ho già scritta, ma il fulcro della narrazione era talmente spostato che a stento me lo ricordo XD Comunque questo concetto del sentirsi un po’ “sporchi” di fronte al pensiero di fare cosacce con Boji è una cosa che sento molto mia. E non solo perché sono intimamente ed ostinatamente convinta del fatto che sia una ragazzina. =P
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Magnificent
8. You look light on your feet (Snow Patrol)


Alle volte, Pep si sente sporco. Lo guarda, bello come il sole, felice come il bambino che è e così dannatamente piccolo da dargli i brividi, e si sente male. Ripensa alla sua pelle tenera, morbida e profumata, a quanto sia dolce sotto i denti e sotto i polpastrelli, e vorrebbe morire. Il suo sapore è zuccherino, quasi eccessivo, sa di tutte le caramelle di cui s’ingozza come tutti i ragazzini della sua età. I suoi occhi sono tanto grandi che ci si può leggere dentro di tutto – e, Dio, è così facile cedere quando sono spalancati e un po’ umidi e carichi di voglia tanto da riflettere perfettamente la sua. E Pep cede, e si sente uno schifo, si sente male, si sente sporco, vorrebbe morire, non è giusto così e non può essere giusto nemmeno in nessun altro modo.
Bojan lo guarda, dall’altro lato del campo. Si allena in mezzo a Titì e Gerard che continuano ad infastidirlo perché lui si lascia infastidire volentieri e gli regala uno di quei sorrisi dolci e pieni e tremendamente infantili che solo lui riesce a regalargli, e Pep scosta lo sguardo altrove, sentendosi mancare.
Vorrebbe poter dire che sarà altrettanto forte più tardi, quando Boji gli si schiaccerà contro sul suo letto e lui non potrà vedere né sentire altro che la sua pelle nuda sopra, sotto e ovunque contro di sé.
Genere: Comico.
Pairing: Zlatan/José, un minimo di Davide/Mario, se proprio vi ostinate a volercelo vedere.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Parodia, Slash.
- Roberto Scarpini è emozionato: finalmente José Mourinho s'è concesso ai microfoni di Inter Channel, e per ben dodici minuti! Se non che...
Note: Storia assurda nata in chattina come solo le storie assurde possono nascere in chattina XD Stavamo guardando alcuni filmati di interviste recenti del Mou – o meglio: io guardavo e riferivo in chattina la straniante verità per la quale quando chiedi al Mou qualcosa, su qualunque argomento dello scibile umano, lui trova un modo per ricondurla a Zlatan. Quindi io ero lì che ironizzavo dicendo “eh, il Mou va in mensa, la signora gli chiede cosa vuole da mangiare e lui attacca a parlare di Ibra…” e qualcuno (credo Fae) disse “al povero Zlatan fischieranno continuamente le orecchie”. Ed io ho aggiunto “sì, e starnutirà anche di continuo”. Che, per chi non lo sapesse, sono le due cose che, nella tradizione popolare, indicano che qualcuno sta parlando di te da qualche parte nel mondo.
Poi non saprei dire in realtà come ci sia caduto dentro Scarpini °_° Cioè, immagino dipenda dal fatto che quell’intervista l’ha fatta lui, ma potevo anche risparmiarglielo. E invece no. *sospira*
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CAUGHT A LITE SNEEZE


Quando Scarpini si presenta in albergo, Boston è tutta un rombare di automobili e ticchettare di tacchi femminili e strisciare di scarpe da tennis e urlare di venditori ambulanti e tutto un altro milione di rumori molesti che naturalmente lui non sente neanche per sbaglio, perché se solo fosse un tantinello più leggero fluttuerebbe sicuramente a mezz’aria, tanta è la gioia che prova in vista della prima intervista ufficiale di Mourinho ai microfoni di Inter Channel. Perciò, di tutti i rumori molesti di cui sopra lui non ne sente nessuno: il verso di Boston è il cinguettio degli uccelli, il canto melodioso delle ragazzine che vanno al mare e lo scampanellare felice del baracchino dei gelati all’angolo, fine.
La hall sarebbe praticamente deserta, non fosse per Mario e Davide che stanno in un angolo a perdere tempo. Roberto sorride, perché coi ragazzini ha un bel rapporto, e si avvicina, notando nel mentre che Davide ha un broncino molto dolce che gli piega le labbra in una smorfia infantile e Mario, per tutta risposta a quella maschera di tenera offesa, sta ridendo come un deficiente, pressandosi entrambe le mani sul ventre e piegandosi in avanti, molleggiando sulle gambe per non perdere l’equilibrio e mettersi a rotolare sul pavimento.
- Che succede? – chiede, mentre le risate di Mario cominciano a contagiarlo, - Successo qualcosa di buffo?
- Sì! – risponde subito Mario, salutandolo con un’amichevole pacca sulla spalla, - Il deficiente qui s’è di nuovo tirato addosso tutto il succo alla ciliegia! – lo prende in giro, mentre Davide cerca invano di coprire un’evidente macchia rossa in centro e rosata ai bordi, proprio lì nel bel mezzo del cavallo dei pantaloncini bianchi – ed è già il secondo paio che distrugge irrimediabilmente in questo modo.
- Mario! – cerca di rimproverarlo il giornalista, con poca convinzione, visto quando sta ridendo a propria volta mentre il povero Davide, rosso in viso come un pomodoro, distoglie lo sguardo, - Non si prendono in giro i compagni!
- Ma scusa! – continua a ridere Mario, afferrando Davide con un braccio attorno al collo e tirandoselo contro per scompigliargli amichevolmente i capelli, - È lui che se le tira dietro, le prese per il culo!
Davide lo guarda come volesse fare una pessima battuta, e Roberto è molto felice che lui non la faccia, nel momento in cui lo vede sospirare, abbassare lo sguardo e scuotere la testolina castana, rassegnato.
- Com’è che sei qui? – chiede invece, rivolgendosi a lui e cominciando sistematicamente ad ignorare Mario, che ovviamente parte subito ad inquietarlo nei modi più assurdi, tipo cercando di ficcargli le dita fra le costole o mollargli pizzicotti illegali lungo i fianchi e le cosce.
- Ho un’intervista col Mou. – risponde Roberto, gonfiandosi come un galletto, - Ho un sacco di domande e mi ha concesso ben dodici minuti. Non vedo l’ora!
Mario smette subito di infastidire Davide e si irrigidisce come una sarda salata nella propria scatoletta, guardando il giornalista dapprima con sincero stupore – come lo stesse vedendo per la prima volta – e poi con un’aria accigliata che non promette nulla di buono. Il secondo dopo, sta già allontanandosi a passo marziale verso l’uscita dell’albergo, borbottando maledizioni incomprensibili probabilmente in ghanese, sempre ammesso che lo conosca.
Davide sospira e Roberto lo guarda curiosamente, una domanda palese negli occhi.
- Ce l’ha col mister. – spiega il difensore, occhi al cielo e tono lamentoso, - Oggi l’ha chiamato Ibra durante un’azione.
Il che, riflette Roberto, non senza un certo stupore, dovrebbe sembrare molto più assurdo di quanto già non sia. Come si fa a chiamare un giocatore con un altro nome durante un’azione di gioco? È come chiamare qualcuno col nome del tuo ex quando… ma è un argomento che Roberto non vuole davvero approfondire, perciò scuote il capo e lascia andare una risatina un po’ imbarazzata, mentre Davide riprende a parlare.
- A questo proposito, non aspettarti di riuscire a cavare un ragno dal buco, per tutte le tue domande, perché il mister ultimamente è un po’ in fissa.
Roberto gli risponde con un’occhiata da triglia confusa, inclinando lievemente il capo nell’ottima imitazione di un cane che non abbia ben capito cosa voglia da lui lo strano essere umano che gli agita davanti agli occhi un bastoncino dal dubbio valore artistico o nutrizionale.
- In che senso? – chiede, cercando di esprimere le proprie perplessità il più chiaramente possibile, di modo che anche un ragazzino il cui hobby è sporcarsi i pantaloni di succo alla ciliegia possa capirlo senza fraintendimenti di sorta: l’appuntamento col mister è fra poco meno di dieci minuti e lui vuole arrivare preparato, qualsiasi sia il problema.
- Nel senso che… non è che ne sia uscito proprio benissimo, da questa cosa di Zlatan. – riflette Davide, dubbioso, cercando nella memoria esempi da fornire al giornalista disorientato, - Per dire, ieri stavamo in mensa, no? E la cuoca, che è ‘sta signora con un paio di tette allucinanti, che te le raccomando, veramente, sono grandi come due panettoni e le tiene sempre… va be’, comunque, la signora gli fa “Mister Mourinho, carne o pesce?” e lui “A Zlatan piaceva tanto il pesce”, con tipo un’espressione vacua.
- Vacua? – chiede Roberto, sempre più confuso.
- Vacua, vacua! – insiste Davide, annuendo con sicurezza, - Come il pesce che ti guarda dall’acquario aprendo e chiudendo la bocca, ma più malinconico. Un pesce triste.
- Un pesce triste. – ripete Roberto, come se il ripeterlo servisse a dargli senso, mentre un senso probabilmente nemmeno esiste.
- Esatto. – annuisce ancora Davide, - Volevo dirtelo per spiegarti che non puoi pensare di avere con lui una conversazione normale, al momento. Per dire, la signora alla fine mica ha ricevuto risposta. Ha chiesto di nuovo “carne o pesce?” e il mister era perso in chissà che pensieri e ogni tanto ripeteva “cinquanta milioni… potevo vendere la Lamborghini”, ed è dovuto intervenire il signor Baresi che ha risposto “carne, perdio, carne” al posto suo, sennò restavamo tutti in fila come dei cretini fino all’indomani, eh.
- Oh. – deglutisce confusamente Roberto, annuendo appena. – Credo di capire.
- No. – scuote teatralmente il capo Davide, - Non puoi capire finché non vedi di persona. Per renderti conto di quanto è profondo l’abisso, devi guardarlo dal ciglio del burrone. – lo avverte con aria tetra, e Roberto indietreggia di qualche passo.
Okay, la partenza di Ibra deve aver mietuto più vittime di quanto pensasse.
- E ora scusami, – lo liquida Davide con un breve cenno del capo, - devo andare a recuperare Mario prima che si chiuda in qualche bagno a piangere perché il mister non lo ama e non vuol dargli il dieci prima dell’anno prossimo. – aggiunge con un altro sospiro rassegnato. Per la prima volta da quando gioca coi titolari, Roberto è contento di vederlo andare via.
Dopodiché, cerca di lasciarsi tutta questa palese follia alle spalle e, rinvigorito al solo pensiero di rivedere finalmente il mister per parlare con lui faccia a faccia, si dirige trotterellando verso la sala ricreativa all’interno della quale il set per l’intervista è stato preparato. Il mister, come al solito, sfoggiando grande professionalità, è già lì.
Solo che Roberto comincia ad averne paura nel momento esatto in cui gli posa gli occhi addosso e vede disegnarsi sul suo viso un’espressione così estatica e felice da essere possibile solo in caso di pesante uso di droghe. O antidepressivi. O alcool. O tutte e tre le cose insieme.
- Mi-Mister…? – lo chiama incerto, deglutendo pesantemente.
- Sìììì? – chiede José, voltandosi verso di lui con un gesto fluido e immediato del solo collo, terrorizzandolo a morte, - Oh, ciao, Roberto. – e il giornalista può quasi sentire dei cuoricini rosa librarsi dalle note calme e soavi della sua voce, per esplodergli tutti intorno come lievissime bolle di sapone, - Che piacere rivederti.
- Mister, la… - accenna lui, sempre meno sicuro di aver avuto l’idea del secolo a prenotare quell’intervista così presto, - la trovo… bene, credo.
- Oh, sto benissimo. – annuisce José, sorridendo felice come un bambino, chiudendo gli occhi, schiudendo le labbra e piegando lateralmente il capino brizzolato, - E tu? Ti piace l’America?
- La… uh, sì, suppongo. – balbetta, grattandosi la fronte con aria persa. – È sicuro di voler…
- Ma naturalmente, naturalmente! – lo invita José, allontanando un po’ la sedia ed indicandola perché lui possa prendere posto, - Cominciamo pure quando vuoi.
Roberto si siede e tira fuori il blocchetto con le domande appuntate in pessima calligrafia sulla prima pagina vuota disponibile, e si dice che d’accordo, magari è un po’ strano, ma almeno non sta parlando ossessivamente di Ibra come da Davide così tremendamente profetizzato, perciò può anche andare bene, forse, tutto sommato.
- Be’, allora… entriamo subito nel vivo! – comincia scoppiettante Roberto dopo un breve cenno d’intesa scambiato col cameraman, - Parliamo subito di Eto’o. Bel giocatore, eh?
- Be’, be’, sì. – ride José, vagamente imbarazzato?, spostandosi sulla sedia per mettersi più comodo, - Naturalmente Ibra era un’altra cosa. – e Roberto non ha il tempo di spiaccicarsi una manata depressa sulla faccia, che il mister si lancia nella dichiarazione d’amore del secolo. – Ibra era più un attaccante di riferimento, capisci cosa intendo?, gli piaceva inventare, aveva fantasia, costruiva, prendeva palla, era veloce… - si ferma un secondo, come cercando di ricordare di cos’è che dovesse parlare prima di cominciare a blaterare di tutt’altro. Roberto lo guarda allusivo, cercando di ricordargli telepaticamente che è di Eto’o che dovrebbe discutere, e José sembra capire, sorride e aggiunge – Eto’o è completamente diverso. – prima di chiudere la discussione con un altro sorriso infantilmente felice.
- Ehm… sì. – annuisce Roberto, a disagio, - Naturalmente. E… insomma… come… come ha visto l’acquisto di Milito e Motta? Come si stanno comportando i due giocatori? – per la verità, subito dopo la domanda su Eto’o c’era una domanda che chiedeva un parere circa il trasferimento di Ibra, ma a conti fatti meglio evitare.
José riflette un po’, prima di rispondere, cosa che dà modo a Roberto di illudersi della possibilità di avere una risposta che abbia effettivamente un senso.
- Ti dirò la verità, - comincia José, e un coro di cherubini comincia a cantare l’alleluja nella testa del giornalista, - sono due ottimi giocatori, ma sono stanchi morti. – e Dio in persona si unisce ai cherubini in un’improvvisazione hard rock dell’Osanna, - È dura abituarsi ai nostri ritmi di lavoro. – continua il mister con un sorriso, e la Vergine in persona balla la lap dance ai cancelli del Paradiso. E poi tutto crolla inesorabilmente nel buio. – Niente a che vedere con quanto era elastico e pronto Ibra di fronte a qualsiasi cambiamento gli si presentasse.
- …si capisce. – si abbatte Roberto, guardando con aria pietosa il cameraman che, dietro la telecamera, risponde con un’occhiata ugualmente pietosa e una solidale scrollatina di spalle. – D’accordo, mister. – sospira alla fine Roberto, rassegnato: dal momento che continua ad ottenere risposte assurde a domande tutto sommato intelligenti-barra-interessanti, tanto vale fare l’unica domanda alla quale Mourinho sembra essere quantomeno predisposto. Sia mai si riesca a cavarne qualcosa di buono. – Cosa può dirci in merito al trasferimento di Ibra al Barça? Si sente molto la sua mancanza, in questi ultimi giorni di ritiro?
Il viso del mister, per un secondo, si fa di pietra, cristallizzandosi – in modo invero inquietante – su quell’espressione di beata spensieratezza che l’ha contraddistinto da quando lui e Roberto si sono incontrati. Poi all’improvviso tutto cambia, le sue sopracciglia si inarcano verso il basso, le sue labbra si contraggono in una smorfia triste e i suoi piccoli ma espressivi occhi scuri si riempiono di una luminosità che sarebbe perfino tenera e romantica se, nel contesto attuale, non fosse anche del tutto fuori luogo.
- …perché ha dovuto farlo?! – sbotta quindi il mister, portandosi le mani ai capelli e saltando in piedi come un invasato, - Perché mi ha lasciato?!
- Mi-Mister?! – chiama allarmato Roberto, chiedendosi se il cameraman stia ancora filmando e stabilendo il secondo successivo di non volerlo davvero sapere, - Che succede?! – e soprattutto, perché quest’intervista sembra destinata ad avere solo risposte assurde che non vogliono dire niente e per le quali niente di tutto questo potrà mai finire in televisione senza prima passare sotto una devastante sequenza di taglia e cuci in post-produzione?!
- Dimmi perchééééé! – insiste José, afferrandolo per il bavero della polo e scuotendolo con una certa enfasi, - Gli ho dato tutto quello che ha chiesto! Anche cose che-
- Mister!!! – cerca di fermarlo Roberto, disperato, e fortunatamente in quel momento Mario e Davide fanno irruzione in sala.
- Mister! – lo chiamano con una sincronia non meno inquietante di tutto il resto.
- È successo di nuovo. – sospira Mario, avvicinandosi a José, che nel mentre s’è accasciato in un angolo e sta mormorando qualcosa a proposito di un ultimo preservativo ancora conservato in qualche luogo di cui Roberto decisamente non vuole conoscere l’ubicazione.
- Robi, - lo chiama Davide, esasperato, - non gli avrai mica chiesto direttamente di Ibra?
- Be’, sì! – cerca di darsi un contegno Roberto, visibilmente scosso, - Sembrava intenzionato a parlare solo di lui, perciò ho pensato… ho pensato…
- Hai pensato male! – sbraita Mario, tirandogli addosso un microfono che fortunatamente finisce sul fondo della sala senza uccidere nessuno. – Coraggio, coraggio. – lo sente cinguettare poi il giornalista, mentre torna a chinarsi su José, cullandolo come un padre, - È passata, è passata.
Davide sospira ancora, allargando le braccia in segno di resa.
- Te l’avevo detto, io. – sbotta rassegnato, - Non ne è ancora venuto del tutto fuori.
*
Frattanto, dall’altro lato dell’oceano Atlantico, Zlatan Ibrahimović vive un attimo di confusione nel momento in cui, improvvisamente, il suo corpo decide di ribellarsi al suo comando e lui si ritrova con le orecchie che fischiano e uno starnuto che pressa per uscire dal fondo di un naso irrimediabilmente irritato. Fa appena in tempo a coprirsi la bocca, prima di starnutire rumorosamente, obbligando il suo nuovo allenatore a voltarsi per guardarlo con aria un po’ confusa.
- È tutto a posto? – chiede Pep, facendoglisi più vicino e mollandogli una pacca amichevole sulla spalla, - Non ti farai mica venire il raffreddore appena arrivato, mh? – ironizza prendendolo in giro.
- Ma no, ma no… - abbozza un sorriso Zlatan, scrollando le spalle e dirigendosi verso la sala in cui lo aspettano i medici, per le prime visite, mentre Mino, al suo fianco, gli porge un fazzoletto per asciugare il naso, - È stato solo un momento di confusione. È già passato.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Pep/Zlatan in svariate combinazioni.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst.
- "La storia della rosa dei venti non l’ha mai affascinato granché."
Note: Allora, con questa storia ho avuto un rapporto conflittuale, durante la stesura. Essa continuava ad apparirmi a tratti schifosa ed a tratti bellissima, con effetti sconvolgenti nella mia testa, che in pratica continuava a strillare "AAAAAAAAAAA" senza soluzione di continuità. Insomma, la follia.
Ci ho fatto pace, comunque, dopo averla finita. L'ho riletta ieri sera e le ho voluto bene. Son cose.
Comunque, scritta per l'Arena, iniziativa speciale della terza Notte Bianca. I miei leoncini!prompt mi chiedevano di scrivere una storia che contenesse il numero tre citato almeno per tre volte, che fosse ispirata al prompt una bussola fissa sull'Est ed all'interno della quale i protagonisti si abbracciassero. Tutto ciò è presente, e perciò io sono contenta. XD
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(LIKE A) ROSE (IN THE) WIND

Dev’esserci una ragione per cui il tre è un numero primo. Una ragione profonda, cosmica, non matematica, una ragione a livello spirituale per cui sia possibile dividerlo solo per uno e per se stesso. Dev’esserci una ragione anche per la quale è considerato un numero perfetto, dev’esserci una ragione per cui il Cristianesimo ha deciso di dividere in tre il suo dio pur lasciandolo intatto – una cosa unica, ma divisa per tre, suona assurdo anche solo a pensarlo, eppure ha un che di intenso, di reale, di poetico – dev’esserci una ragione per cui il tre piace tanto a tutti, tranne forse agli studenti che se lo ritrovano scritto in rosso sul foglio del compito in classe corretto.
Tre è un bel numero anche per José. È uno di quei numeri che lo fanno sentire al sicuro. Primo con tre punti di scarto. Vittoria per tre a zero. Tre Champions League in bacheca. Tripletta.
Tre è anche un numero scomodo, però. E José ci pensa perfino con una certa insistenza aprendo gli occhi quella domenica mattina.
Zlatan è andato via da quasi anno, ormai. Maggio non è mai stato così caldo. E prima di giugno, lui sarà già in Spagna.
*
La storia della rosa dei venti non l’ha mai affascinato granché. A José piace volare via dopo le grandi vittorie, gli piace lasciare il campo da grande condottiero, ma è profondamente convinto di non poter abbandonare il luogo in cui si trova prima di aver compiuto la propria missione. Per Zlatan è sempre stato tutto molto diverso, e sì, naturalmente lui e Zlatan hanno avuto una vita completamente differente, anche due tipi di fortuna completamente differenti, ma se è vero questo, è altrettanto vero che José, la sua fortuna, se l’è costruita con le proprie mani, con pazienza, senza mai scappare dopo un fallimento, tenendo duro. Se non vinci, come puoi pensare di riuscirci andando via? È restando che ottieni la vittoria. Prima o poi arriva.
Zlatan questa cosa non l’ha mai capita. Forse perché è sempre stato sicuro di non essere lui la causa delle sconfitte delle squadre in cui giocava. Forse perché, intimamente, ha sempre creduto di aver dato il massimo, e che se qualche cosa di spiacevole accadeva non era mai, mai perché lui non aveva fatto abbastanza, ma perché lui aveva dato tutto mentre gli altri, be’, gli altri no.
Zlatan non è Nord, Sud, Est e Ovest. Zlatan è un punto nello spazio che non rispetta le leggi del magnetismo terrestre. Zlatan è un peso non soggetto alla gravità, un corpo sul quale le forze della Natura non agiscono. Non è un punto cardinale, è l’ago impazzito di una bussola che non riesce a puntare da nessun’altra parte, e perciò continua a girare su se stesso freneticamente, riuscendo a trovare un punto fisso da guardare solo saltuariamente, e solo per brevi periodi di tempo.
Quando l’ago della bussola di Zlatan ha cominciato a puntare insistentemente verso Est, verso l’alba di un nuovo giorno che, curiosamente, nasceva ad Ovest, dalle terre assolate e verdi della Spagna, José l’ha capito subito. E ha provato a fermarlo, ma non c’è riuscito.
*
Il problema, sostanzialmente, è Pep. Che sarebbe come dire che in realtà il problema sono loro due – loro due intesi come José e Zlatan, ma anche come Zlatan e Pep stesso, o ancora come Pep e José – ma la condizione determinante che ha scatenato il tutto è stato lui. Lui da solo.
Pep non l’ha davvero mai perdonato per aver lasciato Barcellona. Quell’“oggi, domani e sempre col Barça nel cuore” lui non l’ha mai dimenticato, e José ha sempre saputo che, se mai quella frase avrebbe rappresentato un pericolo per lui, non sarebbe stato perché qualche giornalista l’aveva tirata fuori dal baule, tutta impolverata, e l’aveva rimessa a nuovo per attaccarlo, ma perché Pep non l’avrebbe mai dimenticata. Perché Pep aveva sostituito se stesso al Barça, perché quella frase, alle sue orecchie, non era mai suonata come lui l’aveva davvero pronunciata, ma come lui aveva voluto intenderla.
José aveva avuto le sue parti di colpa, naturalmente. Non aveva mai cercato di spiegargli, ad esempio, che “per sempre” è solo un’unità di misura, ma di quelle impalpabili. “Per sempre” non vuol dire niente, “per sempre” è una cosa vaga. Quanti anni sono “per sempre”? Quanti mesi, giorni, ore, minuti, secondi? E quando dici “per sempre”, poi come fai a dimostrare che è davvero così? E come fai a dimostrare il contrario, se anche credi che qualcuno, dopo aver promesso di ricordarti in eterno, in realtà ha smesso?
José quella promessa l’ha dimenticata. Lo sa. È convinto di avere un cuore grande, ma sa perfettamente di non avere più spazio per il Barcellona. O per Pep. Forse ne ha avuto, un tempo, ma quel tempo è passato. Se “per sempre” fosse un’unità di misura seria, immagina José, sarebbe talmente enorme da potere definire perfettamente da quanto tempo il Barcellona ha smesso di battere nel suo cuore.
José lo sa, e lo sa anche Pep. Ma quando Pep gli ruba Zlatan, strappandoglielo da sotto le dita – ed è ancora più doloroso sapere che in realtà non si tratta davvero di un furto, perché in quale tipo di furto la refurtiva si muove sulle proprie stesse gambe per correre incontro al ladro? – José non riesce a pensare ad altro che a questo.
Ti avevo detto che sarebbe stato per sempre. Oggi mi rubi la cosa più grande e importante che ho perché credi che il mio per sempre sia già finito, ma con che diritto lo affermi? Per quale motivo ne sei convinto? Che prove puoi portare a suffragio della tua tesi? Ridammelo. Ridammelo, è mio, non hai alcun diritto su di lui. Rivuoi il tuo per sempre? Ridammi il mio.
*
Lui e Zlatan si vedono di sfuggita agli inizi di luglio. José è appena arrivato in Spagna, lui invece sta partendo per Los Angeles, come ogni estate. Ci sono i bambini, con lui.
- Ed Helena? – gli chiede, mentre scambiano quattro parole più per cortesia che per altro.
- Ci aspetta lì, è partita un paio di giorni fa. – risponde Zlatan. Con gli occhi lo sfida a chiedergli di più. Lo sfida quasi ad odiarlo di più. Fisicamente, si mantiene distante, ma sono gli occhi ad invadere lo spazio. Gli spazi. Tutti.
- E Pep? – domanda invece José. Gli basta prendere nota della sfumatura lievemente più rosata delle guance di Zlatan, per capire ogni cosa, fin nel più minuscolo dettaglio.
- Storia chiusa. – risponde comunque lo svedese, prima di scrollare le spalle e distogliere lo sguardo. È una piccola resa, ma José non riesce ad andarne orgoglioso come vorrebbe. Né a considerarla una vittoria, di qualunque tipo possa essere.
*
All’inizio, Pep si rifiuta di incontrarlo, e José accetta di buon grado. Non è sicuro che uno dei due riuscirebbe ad uscire vivo dalla stanza, se finissero per mettersi le mani addosso.
*
Devono incontrarsi, comunque, prima o poi. Quando succede non se lo aspettano, è una sorpresa e questo annulla per qualche secondo la loro capacità di intendere e di volere.
È un grave errore.
*
Zlatan si arrabbia, pur non avendo alcun diritto di farlo. José non ha la minima idea di come sia riuscito a venire a saperlo, dagli Stati Uniti, ma non può ignorare il dato di fatto, così evidente quando Zlatan lo chiama e lo tiene al telefono due ore, urlandogli di tutto e mandandolo a fanculo quelle trecento volte, prima di interrompere bruscamente la chiamata dopo avere esplicitamente chiarito di non volerlo vedere mai più.
José, in quel momento, è solo in camera. Una camera d’albergo spoglia e decisamente poco confortevole, che odia dal profondo del proprio cuore. Dal bagno arriva il rumore bassissimo dell’acqua nella doccia. Pep fischietta. È un suono vagamente confortante.
Tre, pensa José, sospirando pesantemente, è un numero del cazzo. Lo costringe a pensare ai triangoli. Vorrebbe che potessero esistere delle linee lunghe abbastanza da congiungere lui, Pep e Zlatan nonostante le distanze. Vorrebbe che fossero flessibili abbastanza da piegarsi ai loro capricci, e allo stesso tempo vorrebbe che fossero spesse e salde abbastanza da non spezzarsi mai.
Loro, però, non sono i vertici di un triangolo. Sono tre persone che avrebbero dovuto pensare a quello che stavano facendo molto tempo prima di cominciare a farlo. E non è un “molto tempo” che si concluda nel giro di due, tre, quattro, cinque o sei anni. Si parla di dieci, quindici, vent’anni, di epoche in cui non erano ancora nati, si parla del momento esatto in cui il mondo si è formato, in cui minuscoli frammenti di materia destinati a diventare quello che loro sono oggi portavano già in sé il seme di ciò che sarebbe stato.
Avrebbero dovuto pensarci allora, e al contempo è ironico pensare che naturalmente non avrebbero mai potuto.
*
Da Barcellona, Zlatan passa appena per prendere la propria roba.
- Torni a Milano. – constata José, seduto sul letto, osservandolo mentre, ancora seminudo, prepara la valigia. Alle volte, quando pensa alla vita che ha fatto nell’ultimo mese, si chiede come uno come lui, alla sua età, possa ancora reggersi in piedi. E la stagione non è neanche cominciata.
- Che c’è, vuoi venire con me? – borbotta Zlatan, sorridendo incattivito. È ancora arrabbiato. Non c’è stato modo di fargliela passare. Lui, di per sempre vari ed eventuali, non ha mai neanche voluto sentire parlare, ma evidentemente deve averne uno bello grande conficcato nel centro del petto, perché è quello a renderlo così uggioso e infastidito.
- Sono appena arrivato. – risponde José, e quando si rende conto che come risposta non è sufficiente aggiunge: – No, non voglio venire con te. Ma se mi saluti Milano mi fai contento.
- Vado dall’altra parte, portoghese. – gli ricorda Zlatan, - Quella che non ti piace.
José sorride.
- Non importa, - scrolla le spalle, - in fondo è quello che hai sempre fatto.
Zlatan scuote il capo, scoppiando a ridere di gusto. Sospira, lasciando perdere la valigia e sedendosi con uno sbuffo morbido sul letto accanto a lui. José ci riflette per un paio di secondi e poi capisce che se ha continuato a sbagliare fino ad adesso non c’è alcuna possibilità che possa smettere di farlo da questo momento in poi, e solleva le braccia per stringerlo a sé.
Zlatan si lascia abbracciare. Non c’è il minimo calore, fra di loro, in quel momento.
- Sono tutti così gli addii? – domanda a bassa voce, nascondendo il viso contro il suo collo. Basta che la punta del suo naso gli sfiori la pelle perché quel calore che sembrava essersi improvvisamente spento riprenda a divampare con una violenza quasi devastante. Adesso sì. José sorride.
- Già. – annuisce. E sorride anche Zlatan.
*
- Non mi dispiace. – commenta Pep, grattandosi la nuca, - Non del tutto, almeno.
José ridacchia, sporgendosi a tirargli una spallata discreta.
- Meglio così, tanto non ho intenzione di sparire in fretta.
Pep si volta a lanciargli uno sguardo brillante e pieno di storie e sentimenti di cui José preferirebbe evitare il ricordo.
- Non promettere. – dice a bassa voce.
José annuisce.
- Stavolta no.
*
Dev’esserci un motivo per cui il tre è un numero primo. Un motivo per il quale non è possibile dividerlo per altri numeri che per uno e per se stesso.
Forse è perché il tre si basta da solo, pensa José a fine stagione, di fronte al bivio più pericoloso della sua carriera – restare o tornare indietro? – forse, pensa, il tre non ha bisogno d’altro. A parte che di se stesso.
Scegliendo di restare, José stabilisce che è così per davvero. Il tre basta a se stesso. E anche lui, imparerà a farselo bastare.
Genere: Erotico.
Pairing: José/Pep.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon.
- "Assaggia il sapore della sua pelle calda in punta di lingua. È salata e, se la luce del sole avesse un sapore, sarebbe questo."
Note: Allora, tutto parte da Def, ovviamente, che è sempre stato un uomo molto buono, con me, al punto di aiutarmi con tutta una serie di robe a fare le quali io non sono per niente capace. Nello specifico, arriviamo al momento in cui io decido che voglio un layout un po' particolare per l'archivio di fic, e ciò porta Def a lavorare sul codice per ore e ore e ore, chiedendomi poi in cambio del Jo2 "sporco e slut come non se n'è mai visto nel fandom e dieci volte più slut di quello che hai già scritto in passato". Ora, sulla sporcizia non mi sento di poter confermare, dal momento che l'altro era molto più zozzo (ma era una dub-con, quella, e più zozzo del dub-con c'è solo l'underage, solo che non mi tornavano i tempi XD), ma quanto alla sluttiness questo Pep ne ha da insegnare, a quell'altro, per cui, Def, spero tu possa ritenerti soddisfatto, nonostante il ritardo che mi permette di regalarti questa fic appena in tempo per il tuo compleanno XD :***
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NO GIVING UP WHEN YOU'RE YOUNG AND YOU WANT SOME

Lo aspetta per più di un’ora, dopo la fine dell’allenamento. È incredibile quanto tempo possa perdere José attardandosi al centro sportivo anche dopo l’orario di chiusura ufficiale: chiunque, giunto a quell’ora della sera, dopo una giornata sfiancante come sono sfiancanti tutte le giornate da quelle parti – e da qualsiasi altra parte – non chiede nient’altro alla vita che un divano molto comodo, un telecomando molto vicino ed un televisore acceso a volume molto basso; al più, se c’è di mezzo una moglie molto compiacente, una bella bottiglia di birra molto fredda in una mano ed un seno molto grosso e morbido stretto nell’altra.
Ma José no, José è uno che sembra non averne mai abbastanza. In tutto quello che fa si conserva, di fondo, questa caratteristica fondamentale: se sta facendo qualcosa che gli piace, José non si ferma fino a quando non si è annoiato. La stanchezza, per lui, non esiste. Ed è terribilmente affascinante osservarlo mentre, con gli occhi arrossati e stanchi e le mani che un po’ tremano perché sono ore che sta in piedi e va in giro senza riuscire a darsi pace, si ferma in ufficio per controllare se il programma del giorno è stato rispettato e prendere nota del programma del giorno successivo, copiandolo religiosamente nella propria agendina e poi sedendosi furtivamente alla scrivania dell’allenatore a sbirciare i suoi appunti, per riassumerli in quella specie di logoro quadernetto nero – la sua bibbia, così lo chiama – che porta sempre con sé e che, Pep può scommetterci, continua a leggere e rileggere anche quando torna a casa, ignorando quella povera moglie che si ritrova e, che se non sarà fatta santa in vita, sicuramente lo diventerà per decreto divino un secondo dopo la morte.
Appoggiato al cancello, con il cappello ben calato sulla fronte e gli ampi occhiali scuri a renderlo praticamente irriconoscibile agli occhi del mondo, Pep lo aspetta fino a quando non lo vede uscire dall’edificio principale del centro sportivo, salutando il custode con un cenno del capo. L’ometto si affretta a spegnere le luci e chiudere tutto a chiave, e Pep è convinto che, mentre José attraversa il sentiero sterrato che porta fino ai cancelli, dietro le sue spalle il custode ne sta dicendo di tutti i colori.
D’altronde, al povero custode fatica a dare torto: Pep è stanchissimo, ha una fame da lupi ed a stento si regge in piedi; la doccia, dopo l’allenamento, sembra averlo privato della poca forza che ancora gli era rimasta in corpo prima di entrare negli spogliatoi, e se è rimasto ad aspettare è stato solo per testardaggine, e non più per voglia.
Pazienza, si dice con un sorriso, parandosi davanti a José nel momento in cui lo vede varcare i cancelli, la voglia farà in fretta a tornare. E così, effettivamente, è. Nello stesso istante in cui José gli solleva addosso quegli occhi di un colore impossibile a volte castano, a volte verde, a volte qualcos’altro nel mezzo che Pep non riesce mai ad identificare con certezza e che possibilmente un nome non ce l’ha nemmeno, una scarica di brividi allo stesso tempo bollenti e freddissimi gli corre giù lungo la schiena, dalla nuca alle caviglie, facendo pizzicare fastidiosamente la pelle della prima e rendendo molli e gracili le seconde. Tutto il resto del corpo che sta in mezzo alle due cose, invece, s’infiamma come l’avessero cosparso di benzina e poi gli avessero lanciato addosso un fiammifero acceso.
- José. – lo saluta con un cenno del capo, facendo il gesto di sfilare il cappello anche se in realtà non ha la minima intenzione di farlo. L’uomo lo sferza con un’occhiata incredibilmente gelida e distante, stringendosi nell’impermeabile grigio.
- Che ci fai ancora qui? – chiede burbero, - Non ti avevo chiesto di aspettarmi.
- D’altronde, non lo fai mai. – ridacchia Pep, affiancandoglisi e prendendo a camminare accanto a lui visto che José non sembra intenzionato a fermarsi, - Se dovessi aspettare un tuo cenno di incoraggiamento ogni volta che mi viene voglia di avvicinarmi a te, non ci riuscirei mai.
José solleva gli occhi al cielo, aumentando lievemente la velocità dei propri passi mentre cerca di raggiungere la macchina nel minor tempo possibile.
- Forse questo dovrebbe suggerirti qualcosa. – gli butta lì col tono infastidito ma paziente di un padre. Pep fa schioccare la lingua, disturbato da quell’inflessione così inappropriata: comprende appieno la differenza di età e di posizione che li separa, ma quella stessa differenza non è certo sufficiente per concedere a José di rivolgerglisi in maniera tanto paternalistica. Pep ha venticinque anni e nessun bisogno di un padre. E se pure ne avesse bisogno, per ricoprire il ruolo di certo non individuerebbe proprio José, visto che sono ormai sei mesi che, con scarsi risultati, c’è da dire, prova a portarselo a letto.
- Stranamente, non sento nessun campanello, invece. – scrolla le spalle, fermandosi proprio accanto alla sua macchina. – Mi accompagni a casa? – domanda con un mezzo sorriso, piegando appena il capo. José gli lancia un’occhiata infastidita, aggrottando le sopracciglia.
- No. – risponde quindi, spalancando lo sportello.
- Oh, andiamo! – insiste Pep in un lieve lamentio, - Non vorrai mica lasciarmi a piedi! Sto dall’altra parte della città!
- In qualche modo sarai pur venuto, stamattina. – taglia corto lui, prendendo posto. Pep è velocissimo a girare attorno alla macchina ed impedirgli di chiudere lo sportello.
- Sì, e se mi accompagni a casa ti racconto come. – dice a bassa voce, un sorriso suadente a increspargli le labbra. José spalanca gli occhi, perfino vagamente imbarazzato, e tira con più forza lo sportello verso di sé per provare a chiuderlo.
- Intendevo venuto qui da casa tua! – puntualizza irritato, - E togliti di mezzo!
Pep ride, insistendo ad impedire allo sportello di chiudersi utilizzando tutta la superficie del proprio stesso corpo.
- Dai, sto scherzando. – cerca di rabbonirlo, parlandogli più dolcemente, - Stamattina mi ha accompagnato Luís, quindi è vero che non ho la macchina. Non vorrai lasciarmi qui per tutta la notte?
- Magari il custode ti apre una stanza in dormitorio. – sbuffa José, ma si capisce che sta scherzando, è evidente nel modo in cui il suo capo si piega appena verso il basso, mentre lui lo scuote in segno di decisa esasperazione. – Dai, monta. – Pep inarca le sopracciglia e ridacchia, e José arrossisce di nuovo. – Monta in macchina, deficiente palesemente affetto da una grave forma di priapismo che non sei altro.
Pep ride con maggior gusto, girando attorno alla vettura in quattro balzi e sedendosi con un tonfo al suo fianco non più di cinque secondi dopo, mettendosi comodo e chiudendo lo sportello mentre lo ascolta borbottare su come sia geneticamente impossibile nonché ingiusto che un tale idiota sia tenuto in così alta considerazione da tutta la squadra, al punto da affidargli perfino la fascia di capitano.
- Allora, - chiede, una volta che José ha messo in moto e la macchina è partita, - dove mi porti?
- A casa tua, ovviamente. – risponde immediatamente lui, senza degnarlo di un’occhiata.
- Oh, andiamo! – borbotta Pep, incrociando le braccia sul petto, - Dopo tutta la fatica che ho fatto per convincerti a lasciarmi salire!
- E mi hai convinto solo perché abbiamo messo bene in chiaro che devo solo accompagnarti a casa tua. – puntualizza José, - Perché, se le implicazioni fossero state altre, non saresti salito affatto.
- Certo che tu non ti sai divertire proprio per niente, mh? – considera lui, vagamente indispettito, - Non ti ho chiesto mica di farti legare ad un Berkley Horse e poi sottometterti a me fino al sopraggiungi mento della morte, santo cielo.
- Non ho neanche idea di che cosa sia questo cavallo di cui parli. – borbotta José, imboccando la strada più breve che, tagliando la città in due, arriva a casa di Pep evitando il traffico tipico di quell’ora della sera, quando tutti si ritirano nelle proprie case dopo il lavoro.
Pep ride divertito, scrollando le spalle.
- Lascia perdere. – dice, - Intendo solo che una scopatina di tanto in tanto potresti pure fartela. Non è mica un reato.
Infastidito, José inchioda nei pressi di un piazzale completamente deserto, ed accosta, per poi inspirare profondamente e voltarsi a guardare Pep negli occhi, prendendosi un secondo per ordinare per bene i concetti prima di esporli.
- Pep, vediamo di chiuderla qui, questa storia, stasera stessa. – dice seriamente, - Io sono sposato, e fedele. E comunque non mi piacciono i maschi.
- Allora è una fortuna che tu non debba andarci a letto! – ride Pep, e José aggrotta le sopracciglia, lo sguardo che, cupo, non si allontana mai dal suo viso. – Quello che intendo dire – sospira quindi Pep, scuotendo il capo, - è che io non sono “i maschi”. Sono Pep. E ti ho detto che mi piaci un milione di volte.
- E un milione di volte io ti ho risposto che noi due non andremo mai a letto insieme. – sospira José, pronunciando le parole con una certa stanca meccanicità, - Non possiamo.
- Sì, d’accordo, forse non possiamo, - concede Pep annuendo, - ma se davvero vuoi che ti lasci perdere, non devi dirmi che non puoi. Devi dirmi che non vuoi.
- Non voglio. – scolla quindi José, con la massima tranquillità, - Adesso ti sei convinto?
- Oh, andiamo! – si lagna Pep, abbattendosi contro il sedile e roteando gli occhi, - Sei assurdo, uno butta lì la frase epico-romantica da Harmony di serie Z, e deve sentirsi rispondere così? – sbuffa contrariato. José sospira profondamente, rimettendo in moto e riprendendo la strada verso casa di Pep.
- Magari le frasi epico-romantiche da Harmony di serie Z con me non funzionano, - butta lì con un mezzo sorriso, - che ne dici?
- Dico che vorrei proprio saperlo cos’è che funziona con te. – sospira Pep, un po’ abbattuto, mentre scruta i palazzi avvicendarsi veloci fuori dal finestrino. Riesce già quasi a vedere il proprio, in fondo alla strada. – Almeno potrei usarlo.
- Non funziona niente, Pep. – sospira a propria volta José, frenando lentamente davanti al portone del palazzo giusto, - Quando lo capirai, sarà meglio per tutti. – conclude, voltandosi a guardarlo ed aspettando qualche secondo in silenzio che lui si decida ad aprire lo sportello ed uscire. Quando ciò non avviene, prova prima a schiarirsi la gola per ridestare Pep, che nel mentre pare assorto in chissà che pensieri, ed infine si decide a parlare chiaro, sospirando pesantemente. – Non vai? Sei arrivato.
Pep lo guarda di sottecchi, stendendosi meglio contro lo schienale del sedile.
- No, prima devo sistemare una cosa. – dice, sollevando la maglietta per sbottonare i jeans e tirarne giù la cerniera.
- …Pep? – lo chiama José, allarmato, stringendo la presa delle dita attorno al volante, - Che cazzo—
- Interessante scelta di parole. – sorride Pep, infilando una mano oltre l’orlo dei boxer fastidiosamente tesi sulla sua erezione ed accarezzandosi lentamente per tutta la propria lunghezza, rilasciando il capo all’indietro. – Suppongo che la risposta sia “il mio”.
- Adesso basta! – tuona José, battendo i palmi delle mani contro il volante in un gesto stizzito, - Fuori di qui! Puoi tranquillamente farlo a casa tua, se proprio non riesci a resistere.
- Stai scherzando? – chiede Pep in un gemito basso e profondo, gli occhi chiusi, inumidendosi le labbra, - C’è Cristina, in casa.
- Be’, chiuditi in camera tua! – insiste José, distogliendo lo sguardo quando Pep, infastidito dalla pressione della biancheria sopra il proprio sesso duro e già umido di liquido preseminale, si libera dei boxer lasciandoseli scivolare lungo le cosce assieme ai pantaloni quel tanto che basta per concedersi un po’ di sollievo ed una maggiore libertà di movimento, - O scopati lei, santo Dio, è lì anche per questo!
Pep si volta appena a guardarlo, gli occhi velati di piacere e desiderio.
- Non andrò mai a letto con Cristina se non sarà lei l’unica cosa che avrò in testa in quel momento. – risponde, la voce continuamente spezzata da ansiti sempre più rochi e confusi mentre la sua mano scivola veloce per tutta la sua lunghezza, - E in questo momento nella mia testa ci sei solo tu.
José si volta a guardarlo appena le sue ultime parole si spengono in un gemito più forte degli altri. Pep non ci fa caso: sta quasi per venire, sente già l’orgasmo montare in lunghe onde calde nel proprio bassoventre, e tutto il mondo esterno sembra fondersi in una macchia colorata della quale lui non riesce a distinguere i contorni.
Se riesce a percepire il tocco deciso di José sulla propria mano, è solo perché quel gesto gli impedisce di continuare ad accarezzarsi, costringendolo a fermarsi mentre i brividi si smorzano e l’orgasmo sembra retrocedere, esattamente come il mare si ritira dopo l’alta marea.
- Una volta. – dice José a bassa voce, le dita che si stringono appena attorno a quelle di Pep e poi scivolano lentamente a sfiorare la punta della sua erezione, facendolo tremare fin nelle ossa. – Una volta sola, e poi basta. Io posso darti quello che vuoi, se tu prometti che dopo non me lo chiederai più.
Pep ci mette qualche secondo a trovare fiato a sufficienza per rispondergli.
- Non chiedo altro. – dice a mezza voce, sporgendosi in avanti verso di lui con un’ansia e un desiderio quasi infantili, di quelli che portano i bambini a perdere il controllo ed allungare le mani su ciò che vorrebbero prendere con foga, anche se sanno di dovere aspettare.
Cerca freneticamente le sue labbra, ma José posa le dita sulla sua bocca, invitandolo a restare lontano e scuotendo lievemente il capo.
- Niente baci, - dice, - sarebbe troppo strano.
Pep si lascia sfuggire un mugolio frustrato, ma non intende mettersi a protestare proprio adesso che si sente così vicino a raggiungere ciò che per tanti mesi ha rincorso senza mai riuscire a concedersi di sperarci davvero. José è lì, bello come la prima volta che l’ha visto, più vicino che mai, una mano stretta attorno alla sua erezione e l’altra che indugia con imbarazzo evidente sulla sua spalla e poi sulla pelle del braccio lasciata scoperta dalle maniche corte della maglietta che indossa.
Pep si solleva sulle ginocchia, spingendosi nel suo pugno chiuso con movimenti lenti e regolari, e si disfa della maglietta, premendosi contro José e deviando le proprie labbra sulla sua guancia e poi lungo il profilo del suo viso e del suo collo, concedendosi una mezza risatina perché José lo sta masturbando e il pensiero di non poterlo baciare è davvero troppo ridicolo.
Assaggia il sapore della sua pelle calda in punta di lingua. È salata e, se la luce del sole avesse un sapore, sarebbe questo. Chiude gli occhi e si perde nel suo profumo, che è pungente e forte, quasi prepotente, esattamente come lui, e si ritrova a pensare che anche se le luce del sole avesse un odore sarebbe questo. Probabilmente, se la luce del sole avesse un aspetto, un viso, un paio d’occhi e una bocca, sarebbero quelli di José.
Si allontana da lui quando sente di stare per venire, e per la seconda volta in pochi minuti il suo orgasmo si allontana. La sensazione si sta facendo dolorosa, in questo preciso istante ha una tale voglia di venire che la tentazione di spegnere il cervello e farlo, semplicemente, gli confonde le idee. Ma non abbastanza da impedirgli di appoggiare la fronte contro quella di José e riprendere fiato, tenendo gli occhi chiusi ed appoggiandosi alle sue spalle con le mani bene aperte, come in cerca di un sostegno.
- Voglio sentirti dentro di me. – sussurra a pochi centimetri dalle sue labbra. José trattiene il respiro, e nel brivido che gli scivola lungo la pelle Pep intuisce il turbamento che questa richiesta gli provoca. Ma il suo sguardo resta lucido, serio, presente.
- Voltati. – gli dice, e Pep si allontana da lui solo per obbedire, appoggiandosi al finestrino, il cui vetro caldo a contatto con la fronte lo aiuta a schiarirsi i pensieri, tornare presente a se stesso ed assaporare ogni singolo istante di attesa mentre José si inginocchia a propria volta sul sedile e poi gli stringe un fianco con una mano, mentre le dita umide dell’altra scivolano ad accarezzarlo fra le natiche, preparandolo. I primi con tocchi lievi e appena percettibili attorno alla sua apertura si trasformano presto in carezze ben più decise, e quando le dita di José si introducono all’interno del suo corpo, frugandolo con attenzione e un pizzico di impazienza, Pep non riesce più a trattenere i gemiti.
- José. – lo chiama senza fiato, spingendosi all’indietro contro le sue dita e singhiozzando un mugolio liquido e denso quando le punte dei suoi polpastrelli sfiorano quel punto nascosto che, se non fossero in macchina e sostanzialmente in mezzo a una strada, lo porterebbe ad urlare di piacere.
È quasi deluso quando le dita di José si allontanano, e per un secondo la sua confusione è tale da non permettergli di realizzare che si tratta solo di un momento che precede l’ingresso nel suo corpo di ben altro, perciò volta il capo, lanciando a José un’occhiata sofferente da sopra una spalla e restando poi imbambolato ad osservarlo, perso nei suoi occhi così concentrati, nella piega delle sue labbra e nei lineamenti tesi del suo volto.
Inarca la schiena quando l’erezione di José comincia a farsi strada dentro di lui, e la smania di sentirlo di nuovo sfiorare quel punto profondo è tale da costringerlo ad avvicinarsi a lui in uno scatto quasi doloroso. Soffia pianissimo, chiudendo gli occhi e stringendo i pugni, le mani che scivolano sulla superficie del finestrino resa umida dal suo fiato che, in ogni ansito spezzato, s’infrange contro il vetro, appannandolo.
- Piano. – cerca di calmarlo José, spingendosi ritmicamente dentro di lui ed accarezzando lentamente la curva sudata e liscia della sua schiena.
- No. – ribatte Pep, forzandolo ad andare più veloce andando incontro alle spinte del suo bacino con foga, - Non devi trattarmi con riguardo. Non sono un ragazzino. Posso— ah—
- Ssh. – dice José, chinandosi sulla sua nuca e lasciando sulla sua pelle un bacio umido che gli fa il solletico. Sta sorridendo, Pep se lo sente addosso, e non può fare a meno di sorridere a sua volta, anche se la piega delle sue labbra si trasforma presto in una smorfia contratta di piacere ed impazienza quando le dita di José tornano a serrarsi attorno alla sua erezione e riprendono ad accarezzarlo velocemente, in sincronia con le spinte del suo bacino.
Pep viene per primo, abbandonandosi all’orgasmo con soddisfazione e sollievo, gli ansiti ed i respiri spezzati che hanno accompagnato il suo piacere negli ultimi minuti che si sciolgono finalmente in un mugolio perso e prolungato, che resta l’unico suono che sia possibile sentire all’interno dell’automobile: José non viene molto più tardi, ma trattiene anche il più piccolo dei gemiti, e quando accade Pep è comunque troppo confuso, felice e soddisfatto per badare al particolare.
Si lascia sfuggire un altro gemito minuscolo quando il sesso di José abbandona il suo corpo, e resta appoggiato al finestrino ancora per un paio di minuti, crogiolandosi nel calore diffuso dentro tutto il suo corpo, mentre i suoni che José produce rivestendosi sembrano lontani, come in un sogno.
La sensazione è così piacevole che, quando la mano di José si appoggia sulla sua spalla, per riscuoterlo, Pep spalanca gli occhi allarmato e subito si raddrizza, sistemandosi addosso i vestiti e lasciandosi ricadere sul sedile per terminare di riprendere fiato. Stava quasi per addormentarsi. Sarebbe stato incredibilmente imbarazzante.
- Grazie. – riesce a sillabare dopo un po’, le dita già strette attorno alla maniglia e pronte a farla scattare per aprire lo sportello. José non lo guarda, ma gli concede un mezzo sorriso.
- Domani non fare tardi all’allenamento. – lo redarguisce, mettendo in moto, - E vieni con la tua macchina.
Pep ridacchia, grattandosi nervosamente la nuca ed uscendo in strada.
- D’accordo. – annuisce salutandolo. Ha appena il tempo di richiudere lo sportello, che José è già ripartito. La sua macchina diventa piccolissima e lontana in pochi istanti, e subito dopo scompare ad un incrocio, ingoiata dal traffico e dalle luci della città.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, (doppio) Drabble.
- "[...] si tratta di Bojan e per lui ha sempre avuto un occhio di riguardo, così, senza un motivo particolare, o forse sì, uno di quei motivi che sai da sempre ma che ti fa paura dire ad alta voce."
Note: Scritta per la Notte Bianca @ maridichallenge, su prompt Pep Guardiola/Bojan Krkic; "Ho un problema.".
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WRAPPED AROUND YOUR FINGER

- Che tipo di problema? – chiede Pep, inarcando un sopracciglio. Il cortile è vuoto e gli unici suoni che si possono sentire sono quelli lontanissimi che vengono dal campo sul quale il Barça B si sta allenando, in un gran vociare di ragazzini e membri dello staff.
Bojan si morde il labbro inferiore, gli occhi che vagano ovunque purché non sulla figura di Pep ferma di fronte a lui. Si stringe nelle spalle, si ravvia una ciocca di capelli dietro un orecchio con aria nervosa, inspira ed espira profondamente. È nervoso, non ci vuole molto a capirlo. È teso, e non serve un grande intuito per comprendere nemmeno quello. E ha paura, e quello Pep lo sente sulla pelle e sulla lingua in modi che non riesce a spiegare, semplicemente perché si tratta di Bojan e per lui ha sempre avuto un occhio di riguardo, così, senza un motivo particolare, o forse sì, uno di quei motivi che sai da sempre ma che ti fa paura dire ad alta voce.
Quando Bojan gli si avvicina ed appoggia una mano sul suo petto, Pep rabbrividisce fin dentro le ossa. Gli si asciuga la gola e le immagini di fronte ai suoi occhi si fanno confuse. Il rumoreggiare dei ragazzini dal campo si annulla, sente solo il proprio cuore battere all’impazzata. Si sente teso, e nervoso, e ha paura.
Le labbra di Bojan si posano lievissime sulle sue. Pep comprende quale sia il problema. Ma non è sicuro di poter trovare una soluzione.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Thierry/Bojan, accenni Pep/Bojan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Prima, ora, per sempre."
Note: La verità pura è semplice è che la Jan dovrebbe amarmi molto più di quanto non mi ami già. Hah. (A parte questo, però, il Thiejan mi ha preso dolorosamente bene e-- e oddio, Boji, da quanto sognavo di farti chiamare principessa da qualcuno. *piange lacrime di commozione pura*)
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PRINCESA


“Patti chiari, amicizia lunga, principessa,” gli aveva detto la prima volta che i suoi baci s’erano fatti troppo audaci per non urlare a gran voce la voglia di farsi più profondi, preferibilmente su un letto o su qualunque altra superficie orizzontale, “io non amo te, tu non ami me. È soltanto una cosa che facciamo.”
Bojan aveva grugnito deluso, poggiandogli le mani sulle spalle per costringerlo a chinarsi abbastanza da tornare alla portata della sua bocca.
“Smettila di chiamarmi principessa,” aveva risposto lagnoso, ignorando la sua raccomandazione e preferendo di gran lunga allacciarlo al collo e strofinarglisi contro, bollente di desiderio, prima di sfiorare le sue labbra con le proprie.
“Ma lo sei,” aveva sussurrato Thierry, ridendo di quel suo broncio infantile e spingendolo contro una parete, schiacciandosi con forza contro di lui prima di allontanarsi di qualche centimetro, solo per inginocchiarsi al suo cospetto in un gesto teatrale mitigato nelle intenzioni e nella serietà solo dal suo sorriso estremamente divertito. Godendo della sorpresa di Bojan, enorme in quei suoi occhi spalancati così impossibilmente da bimbo, aveva preso una delle sue mani fra le proprie e se l’era rigirata fra le dita, guardandola da ogni lato con devozione quasi bruciante. “Prima, ora, per sempre,” aveva continuato, baciandone il dorso con le labbra umide e appena dischiuse.
Gli occhi di Bojan avevano brillato, solo per un attimo. Thierry ne aveva colto il bagliore improvviso ma non vi aveva dato troppo peso. Aveva immaginato dovesse essere normale, un ragazzino così piccolo, un ragazzino così innamorato, anche se non di lui, non poteva che rimanere colpito da un gesto simile, da una dichiarazione simile.
Gli aveva sorriso, rimettendosi in piedi e traendolo a sé in un abbraccio in parte giocoso e in parte protettivo.
“Grazie,” gli aveva sussurrato Bojan sulle labbra, chiudendo gli occhi ed abbandonandosi all’ennesimo bacio mentre Thierry lasciava scivolare le mani sotto il tessuto leggero della sua maglietta, “Grazie davvero.”
*

Sono passati quasi due anni da quel giorno, e la cotta di Bojan nei confronti di Guardiola – quella cotta che l’aveva quasi reso pazzo due anni prima, quella cotta folle e assurda e indomabile che poi era stata il motivo che aveva spinto le mani di Thierry a posarsi sul suo corpo, prima che il ragazzino desse di matto del tutto – è ormai scemata quasi del tutto. Thierry non s’è accorto di cosa stava accadendo, non è nemmeno riuscito a prevederlo in tempo, e ora la mano pallida di Bojan scivola fra le sue e lui ne bacia il dorso con la stessa passione di due anni prima, ma Boji è steso sul letto accanto a lui, e piange.
- Non c’è niente che posso fare per trattenerti? – chiede a voce bassa. Parla così perché sta cercando in tutti i modi di non fargli capire quanto copiosamente stia piangendo, ma Thierry non ha bisogno di guardarlo per capire che ha ragione, e in realtà nemmeno di ascoltarlo. Le lacrime di Bojan se le sente scorrere sulla pelle, sono calde e umide e salate e sanno di nostalgia, e lui sarebbe felice di poter dire di non sentirle così profondamente, ma purtroppo sarebbe una menzogna.
- No, principessa. – risponde con un mezzo sorriso, le labbra ancora premute contro la sua mano, - È passato il tempo in cui si poteva fare qualcosa per impedirlo. O forse non è mai venuto.
Bojan singhiozza con forza, tutto il suo corpo si scuote in uno spasmo doloroso contro il fianco di Thierry, e lui non può farci proprio niente.
- Ma io—
- Io non ti amo. – dice Thierry, voltandosi a guardarlo e sentendosi torcere lo stomaco ad ogni parola, - E tu non ami me. – gli ricorda, forzando un sorriso triste. – Patti chiari, amicizia lunga, principessa.
Bojan si morde un labbro, si asciuga le lacrime con la manica della maglietta enorme che indossa e poi annuisce ostinato, come un bambino orgoglioso di mostrare al papà quanto sia diventato coraggioso mentre lui era via.
- Però smettila di chiamarmi principessa. – si acciglia, poggiando il capo contro la sua spalla.
Thierry ride, passandogli un braccio dietro la schiena e stringendolo forte.
- Ma lo sei. – ripete, giusto nel caso Bojan abbia deciso di dimenticarlo, - Prima, ora, per sempre. – perché lui no, non ha davvero intenzione di dimenticare alcunché.