Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Pep/Zlatan in svariate combinazioni.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst.
- "La storia della rosa dei venti non l’ha mai affascinato granché."
Note: Allora, con questa storia ho avuto un rapporto conflittuale, durante la stesura. Essa continuava ad apparirmi a tratti schifosa ed a tratti bellissima, con effetti sconvolgenti nella mia testa, che in pratica continuava a strillare "AAAAAAAAAAA" senza soluzione di continuità. Insomma, la follia.
Ci ho fatto pace, comunque, dopo averla finita. L'ho riletta ieri sera e le ho voluto bene. Son cose.
Comunque, scritta per l'Arena, iniziativa speciale della terza Notte Bianca. I miei leoncini!prompt mi chiedevano di scrivere una storia che contenesse il numero tre citato almeno per tre volte, che fosse ispirata al prompt una bussola fissa sull'Est ed all'interno della quale i protagonisti si abbracciassero. Tutto ciò è presente, e perciò io sono contenta. XD
Pairing: José/Pep/Zlatan in svariate combinazioni.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst.
- "La storia della rosa dei venti non l’ha mai affascinato granché."
Note: Allora, con questa storia ho avuto un rapporto conflittuale, durante la stesura. Essa continuava ad apparirmi a tratti schifosa ed a tratti bellissima, con effetti sconvolgenti nella mia testa, che in pratica continuava a strillare "AAAAAAAAAAA" senza soluzione di continuità. Insomma, la follia.
Ci ho fatto pace, comunque, dopo averla finita. L'ho riletta ieri sera e le ho voluto bene. Son cose.
Comunque, scritta per l'Arena, iniziativa speciale della terza Notte Bianca. I miei leoncini!prompt mi chiedevano di scrivere una storia che contenesse il numero tre citato almeno per tre volte, che fosse ispirata al prompt una bussola fissa sull'Est ed all'interno della quale i protagonisti si abbracciassero. Tutto ciò è presente, e perciò io sono contenta. XD
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(LIKE A) ROSE (IN THE) WIND
Dev’esserci una ragione per cui il tre è un numero primo. Una ragione profonda, cosmica, non matematica, una ragione a livello spirituale per cui sia possibile dividerlo solo per uno e per se stesso. Dev’esserci una ragione anche per la quale è considerato un numero perfetto, dev’esserci una ragione per cui il Cristianesimo ha deciso di dividere in tre il suo dio pur lasciandolo intatto – una cosa unica, ma divisa per tre, suona assurdo anche solo a pensarlo, eppure ha un che di intenso, di reale, di poetico – dev’esserci una ragione per cui il tre piace tanto a tutti, tranne forse agli studenti che se lo ritrovano scritto in rosso sul foglio del compito in classe corretto.
Tre è un bel numero anche per José. È uno di quei numeri che lo fanno sentire al sicuro. Primo con tre punti di scarto. Vittoria per tre a zero. Tre Champions League in bacheca. Tripletta.
Tre è anche un numero scomodo, però. E José ci pensa perfino con una certa insistenza aprendo gli occhi quella domenica mattina.
Zlatan è andato via da quasi anno, ormai. Maggio non è mai stato così caldo. E prima di giugno, lui sarà già in Spagna.
Zlatan questa cosa non l’ha mai capita. Forse perché è sempre stato sicuro di non essere lui la causa delle sconfitte delle squadre in cui giocava. Forse perché, intimamente, ha sempre creduto di aver dato il massimo, e che se qualche cosa di spiacevole accadeva non era mai, mai perché lui non aveva fatto abbastanza, ma perché lui aveva dato tutto mentre gli altri, be’, gli altri no.
Zlatan non è Nord, Sud, Est e Ovest. Zlatan è un punto nello spazio che non rispetta le leggi del magnetismo terrestre. Zlatan è un peso non soggetto alla gravità, un corpo sul quale le forze della Natura non agiscono. Non è un punto cardinale, è l’ago impazzito di una bussola che non riesce a puntare da nessun’altra parte, e perciò continua a girare su se stesso freneticamente, riuscendo a trovare un punto fisso da guardare solo saltuariamente, e solo per brevi periodi di tempo.
Quando l’ago della bussola di Zlatan ha cominciato a puntare insistentemente verso Est, verso l’alba di un nuovo giorno che, curiosamente, nasceva ad Ovest, dalle terre assolate e verdi della Spagna, José l’ha capito subito. E ha provato a fermarlo, ma non c’è riuscito.
Pep non l’ha davvero mai perdonato per aver lasciato Barcellona. Quell’“oggi, domani e sempre col Barça nel cuore” lui non l’ha mai dimenticato, e José ha sempre saputo che, se mai quella frase avrebbe rappresentato un pericolo per lui, non sarebbe stato perché qualche giornalista l’aveva tirata fuori dal baule, tutta impolverata, e l’aveva rimessa a nuovo per attaccarlo, ma perché Pep non l’avrebbe mai dimenticata. Perché Pep aveva sostituito se stesso al Barça, perché quella frase, alle sue orecchie, non era mai suonata come lui l’aveva davvero pronunciata, ma come lui aveva voluto intenderla.
José aveva avuto le sue parti di colpa, naturalmente. Non aveva mai cercato di spiegargli, ad esempio, che “per sempre” è solo un’unità di misura, ma di quelle impalpabili. “Per sempre” non vuol dire niente, “per sempre” è una cosa vaga. Quanti anni sono “per sempre”? Quanti mesi, giorni, ore, minuti, secondi? E quando dici “per sempre”, poi come fai a dimostrare che è davvero così? E come fai a dimostrare il contrario, se anche credi che qualcuno, dopo aver promesso di ricordarti in eterno, in realtà ha smesso?
José quella promessa l’ha dimenticata. Lo sa. È convinto di avere un cuore grande, ma sa perfettamente di non avere più spazio per il Barcellona. O per Pep. Forse ne ha avuto, un tempo, ma quel tempo è passato. Se “per sempre” fosse un’unità di misura seria, immagina José, sarebbe talmente enorme da potere definire perfettamente da quanto tempo il Barcellona ha smesso di battere nel suo cuore.
José lo sa, e lo sa anche Pep. Ma quando Pep gli ruba Zlatan, strappandoglielo da sotto le dita – ed è ancora più doloroso sapere che in realtà non si tratta davvero di un furto, perché in quale tipo di furto la refurtiva si muove sulle proprie stesse gambe per correre incontro al ladro? – José non riesce a pensare ad altro che a questo.
Ti avevo detto che sarebbe stato per sempre. Oggi mi rubi la cosa più grande e importante che ho perché credi che il mio per sempre sia già finito, ma con che diritto lo affermi? Per quale motivo ne sei convinto? Che prove puoi portare a suffragio della tua tesi? Ridammelo. Ridammelo, è mio, non hai alcun diritto su di lui. Rivuoi il tuo per sempre? Ridammi il mio.
- Ed Helena? – gli chiede, mentre scambiano quattro parole più per cortesia che per altro.
- Ci aspetta lì, è partita un paio di giorni fa. – risponde Zlatan. Con gli occhi lo sfida a chiedergli di più. Lo sfida quasi ad odiarlo di più. Fisicamente, si mantiene distante, ma sono gli occhi ad invadere lo spazio. Gli spazi. Tutti.
- E Pep? – domanda invece José. Gli basta prendere nota della sfumatura lievemente più rosata delle guance di Zlatan, per capire ogni cosa, fin nel più minuscolo dettaglio.
- Storia chiusa. – risponde comunque lo svedese, prima di scrollare le spalle e distogliere lo sguardo. È una piccola resa, ma José non riesce ad andarne orgoglioso come vorrebbe. Né a considerarla una vittoria, di qualunque tipo possa essere.
È un grave errore.
José, in quel momento, è solo in camera. Una camera d’albergo spoglia e decisamente poco confortevole, che odia dal profondo del proprio cuore. Dal bagno arriva il rumore bassissimo dell’acqua nella doccia. Pep fischietta. È un suono vagamente confortante.
Tre, pensa José, sospirando pesantemente, è un numero del cazzo. Lo costringe a pensare ai triangoli. Vorrebbe che potessero esistere delle linee lunghe abbastanza da congiungere lui, Pep e Zlatan nonostante le distanze. Vorrebbe che fossero flessibili abbastanza da piegarsi ai loro capricci, e allo stesso tempo vorrebbe che fossero spesse e salde abbastanza da non spezzarsi mai.
Loro, però, non sono i vertici di un triangolo. Sono tre persone che avrebbero dovuto pensare a quello che stavano facendo molto tempo prima di cominciare a farlo. E non è un “molto tempo” che si concluda nel giro di due, tre, quattro, cinque o sei anni. Si parla di dieci, quindici, vent’anni, di epoche in cui non erano ancora nati, si parla del momento esatto in cui il mondo si è formato, in cui minuscoli frammenti di materia destinati a diventare quello che loro sono oggi portavano già in sé il seme di ciò che sarebbe stato.
Avrebbero dovuto pensarci allora, e al contempo è ironico pensare che naturalmente non avrebbero mai potuto.
- Torni a Milano. – constata José, seduto sul letto, osservandolo mentre, ancora seminudo, prepara la valigia. Alle volte, quando pensa alla vita che ha fatto nell’ultimo mese, si chiede come uno come lui, alla sua età, possa ancora reggersi in piedi. E la stagione non è neanche cominciata.
- Che c’è, vuoi venire con me? – borbotta Zlatan, sorridendo incattivito. È ancora arrabbiato. Non c’è stato modo di fargliela passare. Lui, di per sempre vari ed eventuali, non ha mai neanche voluto sentire parlare, ma evidentemente deve averne uno bello grande conficcato nel centro del petto, perché è quello a renderlo così uggioso e infastidito.
- Sono appena arrivato. – risponde José, e quando si rende conto che come risposta non è sufficiente aggiunge: – No, non voglio venire con te. Ma se mi saluti Milano mi fai contento.
- Vado dall’altra parte, portoghese. – gli ricorda Zlatan, - Quella che non ti piace.
José sorride.
- Non importa, - scrolla le spalle, - in fondo è quello che hai sempre fatto.
Zlatan scuote il capo, scoppiando a ridere di gusto. Sospira, lasciando perdere la valigia e sedendosi con uno sbuffo morbido sul letto accanto a lui. José ci riflette per un paio di secondi e poi capisce che se ha continuato a sbagliare fino ad adesso non c’è alcuna possibilità che possa smettere di farlo da questo momento in poi, e solleva le braccia per stringerlo a sé.
Zlatan si lascia abbracciare. Non c’è il minimo calore, fra di loro, in quel momento.
- Sono tutti così gli addii? – domanda a bassa voce, nascondendo il viso contro il suo collo. Basta che la punta del suo naso gli sfiori la pelle perché quel calore che sembrava essersi improvvisamente spento riprenda a divampare con una violenza quasi devastante. Adesso sì. José sorride.
- Già. – annuisce. E sorride anche Zlatan.
José ridacchia, sporgendosi a tirargli una spallata discreta.
- Meglio così, tanto non ho intenzione di sparire in fretta.
Pep si volta a lanciargli uno sguardo brillante e pieno di storie e sentimenti di cui José preferirebbe evitare il ricordo.
- Non promettere. – dice a bassa voce.
José annuisce.
- Stavolta no.
Forse è perché il tre si basta da solo, pensa José a fine stagione, di fronte al bivio più pericoloso della sua carriera – restare o tornare indietro? – forse, pensa, il tre non ha bisogno d’altro. A parte che di se stesso.
Scegliendo di restare, José stabilisce che è così per davvero. Il tre basta a se stesso. E anche lui, imparerà a farselo bastare.