rp: nyze

Le nuove storie sono in alto.

Fandom: RP: Musica
Personaggi:
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Underage, Non-con.
- "Gli assassini di mio padre io li capisco. (Scommetto che non ve lo aspettavate.)"
Note: *TOSSICCHIA* Più di un anno fa annunciavamo il ritorno del GD e la fine dell'enorme sequela di spin-off scemi che ci avevano portato verso il matrimonio del Flerkuza e tutta la follia da esso derivante. Inneggiavamo al ritorno della Trama Orizzontale, innalzavamo cori all'Altissimo e libiavamo (?) i calici in segno di festeggiamento. Be', abbiamo dovuto attendere un bel po' perché un nuovo capitolo della saga tornasse a rallegrare le nostre notti e i nostri giorni, ma finalmente la Trama è tornata fra noi, e ha scelto, per manifestarsi, di passare fra le labbra di un nuovo personaggio. Be', nuovo nuovo proprio no. Di chi si tratta? Eh. Continuate a leggere e lo scoprirete.
Scritta per la prima settimana del COW-T #5, Missione 2, a tema "qualcosa di vecchio". Mi pare evidente per quale motivo una shot del GD sia indubitabilmente "qualcosa di vecchio", almeno per chi mi conosce, ma per chi non mi conoscesse: è una saga che ha avuto inizio nel duemila... dieci? Undici? Qualcosa, ma che da un po' non ho più modo di toccare se non una volta l'anno. O una volta l'anno e mezzo, ecco. *cough*
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FIORI DI CEMENTO

Sono anni che non metto piede in un ufficio come questo, e l'ultima volta che l'ho fatto ero così piccola che ne ho conservato un ricordo da favola. L'ufficio in questione era quello dell'Ersguterjunge, che ai tempi non era ancora lo studio di lusso che è diventato nel post mortem del suo signore e padrone, ma che era già allora una roba di classe. Pareti bianche, pavimenti di marmo, mobili lucidi.
Mio padre lo adorava. Ogni tanto me ne parlava in modi che si capiva subito che l'idea di andare a incidere in un posto come quello lo rendeva orgoglioso, dava un senso alla strada che aveva percorso, a tutto quello che aveva affrontato per spostarsi dal Libano alla Germania e a tutte le sofferenze che aveva dovuto patire anche una volta trasferito, prima di incontrare Bushido e cominciare a farsi un nome.
Gli uffici dell'Aggro Berlin non sono belli come quelli dell'Ersguterjunge. E non è che Sido non abbia i soldi, ho come l'impressione che, se volesse, riuscirebbe a mettere in imbarazzo l'Ersguterjunge per dieci volte con locali degni di una major, invece del locale sotterraneo umido in cui si ostina a lavorare.
No, questi uffici non sono così per mancanza di soldi. Sono così per proteggere le apparenze. Sido e l'Aggro Berlin ci tengono ancora ad essere la crew sporca e cattiva di Berlino. Ci tengono ancora ad essere gli unici che possano dire con orgoglio "guardate Bushido, lui è tutto quello che noi odiamo, tutto quello che non vorremmo mai essere, e ne andiamo fieri".
Che poi, alla fine della storia, è il motivo per cui sono qui.
La ragazza bruna che è sparita oltre la porta cinque minuti fa finalmente si decide a tornare. Nei suoi occhi c'è un misto di preoccupazione e curiosità, che nasconde dietro un sorriso professionale.
- Prego, accomodati, - mi dice, - Terza porta a sinistra.
Io mi alzo, sistemo il cappello sulla testa e la ringrazio a bassa voce, seguendo le sue indicazioni.
Quando entro nel suo ufficio, Nyze mi guarda fisso, un sorriso divertito a piegare le labbra.
- E così, - dice, - Tu sei la figlia di Saad. Ti sei fatta grande.
Non so perché, le sue parole mi fanno scorrere un brivido lungo la schiena.
- Ho quattordici anni. - dico. Non so perché lo dico. Per un secondo mi fa sentire protetta, il fatto di avergli detto quanti anni ho, il fatto che adesso lui lo sappia. Ma il suo sorriso non cambia di un millimetro, ed io torno a rabbrividire.
- Perché non mi racconti la tua storia, tesoro? - mi chiede lui, mettendosi comodo sulla sedia girevole.
Non mi ha invitato a sedermi. Penso l'abbia fatto apposta, per cui resto in piedi. E comincio a raccontare.
*
Gli assassini di mio padre io li capisco. (Scommetto che non ve lo aspettavate.)
Il mio nome è Nyzaad El-Haddad. Ho quattordici anni. Quasi quindici. Ma è irrilevante. Quello che vi racconterò fa schifo, e fa schifo per una ragazzina di quattordici anni come lo farebbe per una di quindici. O di sedici. O di venti.
Non importa, comunque, non me ne frega niente, io le scelte che ho fatto le ho fatte da persona libera. Non mi pesa niente addosso. Non mi pesano gli anni, avere abbandonato mia madre, le cose a cui ho rinunciato, la vita che avrei potuto avere.
(Che vita, poi? Sono libanese, e resto libanese anche se sono nata a Berlino, com’è rimasto libanese mio padre fino all’ultimo, anche se in Germania ci si era trasferito con tutta la famiglia da ragazzino. Come resta tunisino Bushido. Come resta turco Eko Fresh. La Germania ti accoglie, lo fa, è vero. Ma non ti permette mai di dimenticare che avrebbe potuto non farlo. Che non sei roba sua. Che quello che prendi te lo devi guadagnare, anche se tua madre è bianca e bionda e bella come un’attrice degli anni ’40, anche se tuo padre ha fatto i soldi col rap. Tanto vale. È morto come l’ultimo dei criminali. E probabilmente lo era anche.)
Il mio nome è Nyzaad El-Haddad, ho quattordici anni, quasi quindici, sono nata a Berlino il venti gennaio millenovecentonovantanove e mio padre è morto ammazzato sulla terrazza di qualche palazzo nella stessa via dove abitavamo due anni fa. Quale palazzo non lo saprò mai, perché non c’ero e mia madre non ha voluto saperne niente.
Mio padre è morto ammazzato anche se nessuno lo sa. Mia madre non ha mai sporto denuncia. Io so che non l’ha fatto perché ha ricevuto una visita da parte di Fler e Chakuza. Che sono gli assassini. Che sono probabilmente anche le stesse persone che, a cose fatte, il corpo di mio padre l’hanno gettato nel canale, che poi se l’è mangiato.
Ma lo ripeto. Non importa. Io lo so cos’è successo. Ero una bambina, allora, quindi era impossibile che capissi perché stava accadendo mentre stava accadendo. Ora sono cresciuta, però. Quando ti muore un genitore non puoi restare bambino a lungo. È come se qualcuno ti svegliasse a schiaffoni, così, all’improvviso. Tu non hai fatto niente per meritarlo, stavi solo dormendo, ma succede lo stesso. E, frastornato, ti guardi intorno, cercando di capire cosa ti ha colpito, cercando di capire da dove venga il dolore, finché poi non t’importa più, t’importa solo che è ingiusto, la senti come un’offesa, dormivo, ti dici, cazzo, cos’avrò fatto di male per meritarmelo, non posso aver fatto niente di tanto brutto da meritarmelo, eppure è successo.
E t’incazzi.
E infatti non è il dolore che ti spinge a crescere, è la rabbia.
È questo il punto: io gli assassini di mio padre li capisco, mio padre aveva ammazzato Bushido, Bushido era morto, mio padre doveva morire. Solo che Bushido non era morto, non davvero. E mio padre invece sì.
E quindi io li capisco. Ma sono comunque incazzata.
Quando mia madre mi ha presa da parte per spiegarmi cos'era accaduto davvero, in realtà era già passato un anno dalla morte di mio padre. Nel mentre ci eravamo trasferiti. Per me era stato un colpo su un altro colpo, capite, prima mi dici che papà se n'è andato, non mi spieghi perché, non mi spieghi dove, per tenermi buona mi spingi giù per la gola con l'imbuto la stessa storiella di merda che hai spinto giù per la gola con l'imbuto anche a tutti gli altri, e poi mi dici che dobbiamo trasferirci. "È meglio così," mi dici, e siccome sei mia madre, e siccome ho dodici anni, e siccome sto male e piango da quando mi sveglio a quando vado a dormire perché mi manca papà e mi manca la mia vecchia vita e mi aggrappo a te perché ti voglio bene e sei l'ultima persona che mi è rimasta, ti seguo. Ti credo e ti seguo.
Vivevamo a Buckow da qualche mese (a quel tempo Bushido era già tornato dal mondo dei morti e gran parte della merda che ne era seguita aveva già avuto luogo, ed io avevo osservato il tutto con sconcerto, pensando a mio padre che era andato via proprio dopo la morte del suo più caro amico, e che si rifiutava di tornare anche adesso che Bushido era di nuovo fra i piedi), quando mia madre mi si avvicina portandomi una tazza di cioccolata calda, tutta piena di dignità ed eleganza com'era sempre anche in casa, avvolta nella vestaglia di raso bianco e coi capelli perfettamente acconciati alti dietro la testa, e mi fa "Nyzaad, amore, dobbiamo parlare. Sei grande abbastanza."
Grande abbastanza.
Avevo tredici anni e vivevo in un posto che odiavo, tutta campagna e solitudine, senza compagnia, senza un amico. Mi mancava la città, mi mancava ancora papà, il mondo come lo conoscevo prima. Frequentare l'Ersguterjunge, gli amici e i colleghi di papà, gente alla quale guardavo con ammirazione. Mia madre è bellissima ma non sono mai voluta essere quello che lei aveva sempre voluto essere. Una donna di classe, una donna ricca, non lo so. Sono fatta di un'altra pasta, io, della stessa pasta di papà. Non ne faccio una colpa a mia madre, siamo solo persone diverse, lei non ha torto e io non ho ragione, non la vedo in questi termini. Però per lei la vita a Buckow era sufficiente, le lunghe passeggiate, sorseggiare tè leggendo un libro, guardare un film in televisione, andare a cena fuori o uscire in serata per un gelato. Per lei andava bene così, mentre io nel mentre ero accesa come una miccia, e bruciavo, mi consumavo, aspettando di esplodere.
Avevo solo bisogno di una scusa, e mia madre lo sapeva. Mi vedeva agitarmi irrequieta, tornare a casa tardissimo dopo scuola, che poi non è che fossi stata chissà dove, non c'erano posti in cui andare, non c'erano possibilità di cacciarsi nei guai, ma si vedeva, lei lo vedeva, lo capiva, che lì non ci volevo più stare, che volevo chiederle di lasciarmi tornare a Berlino per il liceo.
Forse s'immaginava che raccontarmi la storia di papà, quello che aveva fatto, come era morto, potesse farmi cambiare idea. Che mi mettesse paura, mi facesse decidere che la vita a Buckow era più sicura, faceva più per me.
È successo l'esatto contrario. Ero un fuoco d'artificio. Sono diventata una polveriera.
Mio padre ha ammazzato Bushido per un motivo di merda. Dove Bushido ficcasse l'uccello non avrebbe dovuto essere affar suo. Specie dopo che era stato Bushido stesso a impedire che una sorte anche peggiore capitasse a suo cognato.
(Lo zio Thomas. Ogni tanto mi chiedo che fine abbia fatto. Eravamo tanto vicini, prima di tutto questo casino. Andando via, mia madre ha preso le distanze anche da lui, nonostante fosse una delle pochissime persone al mondo alle quali tenesse davvero.
La morte di papà non ha spezzato qualcosa solo dentro di me. Spesso me ne dimentico perché, in queste situazioni, è più facile essere egoisti. Ma la morte di papà ha spezzato qualcosa anche dentro la mamma. Che era una persona affettuosa, prima, e si è chiusa come un riccio subito dopo. Tutta aculei, mi abbracciava spesso, ma i suoi abbracci facevano male.)
La cosa avrebbe potuto essere più comprensibile se Bushido avesse messo a repentaglio gli affari dell'etichetta, cominciando a scoparsi Bill Kaulitz. Ma questo non era accaduto, e d'altronde per mio padre ammazzare Bushido non era stata una questione di soldi, ma di principio, di questo ero sicura. Un principio di merda, ma pur sempre un principio. La gente muore ogni giorno per principi di merda. I fondamentalisti religiosi, i disgraziati che vengono picchiati per le strade. Non sono sicura che Bushido fosse una vittima dell'omofobia perché non credo che quella di mio padre fosse omofobia in senso stretto (talvolta ci penso e sono contenta che sia morto prima di vedere quello in cui si è trasformata l'Ersguterjunge oggi, se fosse ancora vivo sono abbastanza sicura che il colpo in testa se lo sparerebbe da solo pur di risparmiarsi l'oltraggio, ma non credo si tratterebbe proprio di omofobia, più che altro una sorta di attaccamento a un'immagine del ghetto, del rap, delle bande, che affondava le sue radici in una parte antica della sua vita, prima ancora di Berlino), ma in ogni caso. Era la vittima di un principio del cazzo. Un principio che mio padre aveva deciso di seguire. Che in ultima analisi l'aveva portato a farsi ammazzare e gettare via come un sacco della spazzatura.
Ma Bushido era vivo. Era vivo, e mio padre invece no.
Ecco, fossero rimasti morti entrambi, forse sarebbe stato tutto diverso. Forse la mia reazione non sarebbe stata la stessa. Non posso saperlo, non lo saprò mai. Ma Bushido era vivo e mia madre mi aveva appena offerto della cioccolata calda, la cui tazza bollente stringevo tra le mani, tremando, scottandomi i polpastrelli e rifiutandomi di lasciarla andare, e mi aveva detto che invece mio padre non lo era, che non era scappato, che era morto ammazzato, morto per vendicare un uomo che non era mai morto davvero.
E per me era inaccettabile. Non c'era nessun principio dietro. Niente con cui potessi consolarmi dando una parvenza di logica a quello che era successo. Cosa m'importava che mio padre quel colpo l'avesse sparato davvero? Che Bushido fosse davvero stato colpito, che fosse davvero quasi morto, che si fosse davvero salvato solo per miracolo? Qualsiasi cosa fosse successa, un uomo che avrebbe dovuto essere morto per giustificare la morte di un altro uomo, di mio padre, era ancora vivo. E mia madre aveva accettato tutto questo, aveva accettato la morte di mio padre perché ne condivideva il principio ma non aveva visto quel principio farsi a pezzi e sbriciolarsi quando Bushido era tornato in Germania, e io non potevo più vivere con lei. Non potevo più nemmeno guardarla negli occhi, pensare di poterla ancora chiamare mamma.
Sono scappata una notte, mentre dormiva. Non avevo voglia di salutarla, sapevo che in qualche modo, con le buone o con le cattive, sarebbe riuscita a trattenermi. Volevo solo andare via, ricominciare da zero, trovare qualcosa, qualcosa che potesse darmi pace, in qualche modo. Volevo aspettare, forse, aspettare che sulla mia strada si presentasse senza chiederla l'occasione di riequilibrare la bilancia un'altra volta, in qualche modo. Non pensavo avrei mai avuto le palle di ammazzare Bushido per bilanciare l'equazione, ma qualcosa dovevo farla per forza, ed anche solo aspettare che si presentasse l'occasione mi obbligava quantomeno a muovermi. Su quale strada avrebbe dovuto presentarsi, se stavo chiusa in casa a Buckow?
Sono tornata a Tempelhof. Che può non sembrare il viaggio della vita quando ti muovi da Neuekölln, ma lo è. A Tempelhof è tutto diverso. Gli oceani d'asfalto, i muri ricoperti di manifesti sbriciolati dalla pioggia e tag scolorite e coperte cento volte con tag più nuove, che si scoloriranno e verranno ricoperte a loro volta negli anni a venire, e la commistione di etnie, gente di tutti i colori del mondo, gente da tutti gli angoli del mondo. Che non è che ti accolgano con più piacere, non è che facciano comunità, sono bande di ragazzini soli, bande di uomini soli, ma sei un ragazzino solo anche tu e finché conviene resti con loro, solo in mezzo a loro più soli di te, finché non ti senti in grado di tornare ad essere solo per conto tuo.
Mi sono fermata in una comunità di accoglienza per adolescenti disadattati, perché quando sono arrivata le due donne che la gestivano hanno capito che ero scappata di casa ed hanno promesso che avrebbero gestito il mio caso con discrezione. Che in sostanza voleva semplicemente dire che era a posto, potevo anche dare un nome falso, non avrebbero indagato. Chissà cosa devono aver pensato, vedendomi arrivare. Questa ragazzina con le trecce lunghissime e bionde e addosso vestiti nuovi che generalmente non vedevano addosso agli altri ragazzini a cui di solito davano aiuto.
Era un posto squallido, non è che sono rimasta con piacere. A gestirlo era un'associazione di volontariato senza il becco di un quattrino, sovvenzioni dallo stato non ne ricevevano come non ne riceveva quasi nessuno da quelle parti, ma se era quello il prezzo da pagare per la più assoluta discrezione a me stava bene. Non volevo dare il mio nome, non volevo che provassero a contattare mia madre. Avevo già deciso che, nel momento in cui avrebbero cominciato a fare troppe domande, sarei scappata via. Fino ad allora, però, potevo restare.
Stavo in una camera con tre letti ma spazio a sufficienza per sole due persone, e solo volendosi stringere. (Nessuna di noi voleva.) Le mie compagne di stanza si chiamavano Sandra e Leda, e della loro vita, dei motivi per i quali erano finite in quel buco assieme a me, non me n'è mai fregato niente. Infatti non ho mai chiesto.
In genere, sia che avessi qualcosa da fare sia che invece non avessi niente, uscivo la mattina, subito dopo colazione, per ritirarmi solo a pranzo, e poi uscivo di nuovo nel primo pomeriggio, per ritirarmi solo all'ora di cena. Le giornate potevano essere noiose, a volte, o freddissime e bagnate, ma stare in quel posto non mi piaceva, preferivo considerarlo una specie di appoggio, e d'altronde non c'erano riscaldamenti, né attività comuni organizzate dalle volontarie per cercare di tenerci occupati. Al morso della noia preferivo quello del gelo delle strade di Berlino, alle facce sempre uguali degli adolescenti che vivevano in quel posto preferivo quelle sempre diverse e inedite degli immigrati che a migliaia sciamavano per le strade del quartiere, immersi nelle attività più disparate. Giorno dopo giorno, ho imparato ad amare la strada più di quanto amassi il letto nel quale dormivo la notte, e quando mi sono resa conto di avere imparato tutto, di Tempelhof, dai nomi delle vie ai locali pubblici, dai punti d'incontro segreti delle bande ai nomi degli spacciatori di quartiere, riuscendo a riconoscere alla prima occhiata la loro nazionalità per ricondurli al gruppo etnico da cui provenivano, che poi alla fine era come riuscire a capire con uno sguardo a quale banda appartenessero e nelle mani di chi finivano i soldi del loro spaccio, ho pensato a mio padre, e seduta sull'argine in cemento sporco del canale ho pianto, quasi aspettandomi di vedere il suo cadavere riemergere sfigurato dalle acque, chiedendomi se sarebbe stato orgoglioso di me, adesso, se mi avrebbe detto che ero stata una brava bambina o mi avrebbe rimproverata per avere abbandonato mamma senza neanche un ripensamento.
Nel giro di qualche settimana, dover tornare indietro anche solo per i pasti aveva cominciato a diventare un obbligo insopportabile. Non ne avevo voglia, avrei fatto di tutto per smettere di doverlo fare, per potere uscire la mattina presto e ritirarmi solo a tarda sera, risolvendo il problema alla radice.
Dovevo trovarmi un lavoro. Qualcosa che mi permettesse di pagarmi i pasti da me, qualcosa che mi tenesse sulla strada più a lungo.
Sapevo anche cosa.
Mi tagliai i capelli. Da sola, davanti allo specchio. Combinai un disastro, ma tanto non era importante, non lo stavo facendo per nessuno, nemmeno per me stessa. Coi capelli corti e i lineamenti duri che avevo preso da mia madre, non era difficile passare per un ragazzo. Non era un'affermazione di mascolinità, o una negazione di femminilità, o un gesto in contrasto con quello che mia madre era sempre stata e avrebbe sempre voluto per me, il motivo per cui si prendeva personalmente cura dei miei capelli, spazzolandoli a lungo ogni sera ed intrecciandoli perché non si rovinassero durante la notte, era pura convenienza. Da femmina, nessuno mi avrebbe mai presa a lavorare per sé. I quattordicenni maschi che saltavano la scuola per spacciare per le strade invece erano decine, centinaia, e sarebbe stato facile mischiarmi fra di loro.
Andare dai libanesi non era un'opzione, era l'unica scelta possibile. Papà mi aveva insegnato un po' di arabo, quand'ero bambina. Era un po' arrugginito, ma l'avevo rispolverato passando le giornate in mezzo a gente che praticamente parlava solo quella lingua più per una presa di posizione che per reale necessità. Ero indecisa se avrei dovuto dire di chi ero figlia o meno, avevo paura che qualcuno, in qualche modo, avrebbe potuto avvertire mia madre, per cui, in definitiva, non dissi niente. Dissi di chiamarmi Nizar, che avevo quattordici anni ed avevo bisogno di soldi. Speravo che qualcuno mi avrebbe preso sotto la sua ala protettiva, che la mia avventura nel ghetto avrebbe magicamente potuto trasformarsi in una di quelle favole di rivincita e affermazione personale che spesso sentivo raccontare come leggende sia da papà che dagli altri della crew, ma non successe niente del genere. La gente della banda non voleva saperne niente, di me, ero loro utile solo finché potevo tenere uno zaino in spalla e muovermi discretamente da una parte all'altra della città per fare le consegne, che poi finissi ammazzata o in riformatorio per loro era del tutto irrilevante, com'era del tutto irrilevante dove andassi a dormire, o se avessi soldi abbastanza per comprarmi da mangiare quando avevo fame.
Se fosse sempre stato così e dunque tutte le storie che da bambina avevo sentito fossero solo bugie, o che semplicemente fosse cambiato qualcosa negli ultimi anni, quando il quartiere aveva cominciato a sovrappopolarsi e le etnie a mischiarsi sciogliendo legami che fino a quel momento erano stati tenuti insieme dal sangue e dall'unità familiare, io questo non lo so. Man mano che andavo abituandomi a quella nuova vita, mi accorsi anche che non m'interessava. Non ho bisogno di una famiglia, mi dicevo. I soldi, che qualcuno si preoccupasse per me o no, ce li avevo. Non soffrivo la fame. Se avevo bisogno di qualcosa, potevo quasi sempre permettermelo. E di quello che facevo durante il giorno non dovevo rendere conto a nessuno.
Era una vita difficoltosa, ma era una vita libera, e finché continuavo ad essere indecisa su cosa fare di me stessa, su come trovare un modo per rimettere in pari i piatti della bilancia, mi stava bene.
Aspettavo. Qualcosa succederà, mi dicevo, e se non dovesse succedere, vuol dire che non era cosa fin dal principio. Quando mi fermavo a pensare al passato, a mia madre e alle cose che mi ero lasciata alle spalle, pensavo che in fin dei conti preferivo un’eternità sulle strade rispetto a un’eternità in campagna. Non mi lasciavo sfiorare dalle opportunità che scegliere questa via mi aveva precluso. Finire la scuola, frequentare l’università, trovare un lavoro, incontrare qualcuno, formare una famiglia. Avevo tredici anni, quasi quattordici, e non pensavo a niente di tutto questo. L’unica cosa importante era arrivare intera a fine giornata. Imparare a rispondere quando mi chiamavano Nizar. Trovare qualcosa da fare quando i libanesi mi davano tregua, fosse anche bighellonare per ore lungo il canale o per i viali di Alter Park.
E poi, un giorno, mentre aspettavo di essere pagata, è successo.
Akeem, il tizio per cui spacciavamo, io ed altri cinque ragazzini del quartiere, aveva una panineria in Wölfertstraße, sul retro della quale ci riunivamo ogni lunedì mattina per fare un po’ di conti e ricevere la paga. Era un posto schifoso al quale non mi sarei avvicinata neanche con la pistola puntata alla tempia, non fosse stato per il fatto che lui pagava bene e non faceva troppe domande. Lo frequentavano pochissimi clienti, tutti libanesi, tutti di quelle parti, tutta gente in qualche modo imparentata fra loro e con Akeem stesso. Sospettavo che il posto fosse solo una copertura perché si cucinava pochissimo, e la roba che si cucinava non sembrava volerla mangiare mai nessuno (e a ragione). C’era sempre un gran viavai di gente, però, e un sacco di casino perché tutti chiacchieravano ad alta voce fra loro in arabo, e Akeem non spegneva mai la radio.
Io e gli altri cinque stavamo aspettando a pochi passi dalla porta di servizio, ed anche da lì si poteva sentire quella moltitudine di voci che si intrecciavano, sul sottofondo costante della musica rap.
È stato lì che l’ho sentita. La diss di Nyze.
Nyze era stato uno dei più cari amici di papà. Fra la gente dell’Ersguterjunge, era quello con cui andava più d’accordo. La vedevano allo stesso modo su un sacco di argomenti, e visto che Nyze non era sposato e non aveva figli molto spesso papà lo invitava a fermarsi a cena da noi, per stare un po’ in compagnia e discutere cose che magari non si sentiva ancora pronto a discutere con Bushido, o cose simili.
Il rap di Nyze non mi aveva mai fatto impazzire, per cui non furono i suoi meriti musicali ad attirarmi. (D’altronde, nel rap non lo sono quasi mai.) Fu quello che diceva. Era una vita che non si sentiva una diss seria alla radio, e non era difficile immaginare perché quella avesse generato una simile eco: attaccava Bushido, picchiandolo su tutti i nervi più scoperti (Bill Kaulitz, la finta morte, la resurrezione, tutta la merda con Fler e Chakuza), accusandolo di aver trasformato l’etichetta indipendente più importante del panorama hip hop tedesco in un circo di freak. (Come dargli torto.)
Per di più, lo faceva sotto l’etichetta dell’Aggro Berlin. Era passato con loro. (Una cosa per cui mio padre non l’avrebbe mai perdonato. Ma tant’è. Lui è morto. Nyze no. Bushido nemmeno. Ognuno fa quello che deve.)
Sono scappata senza neanche aspettare che Akeem uscisse a portarci i soldi. “Che cazzo fai?” mi gridavano gli altri ragazzini, “Dove te ne vai?”
Non li sentivo più. Avevo aspettato per mesi, rifiutandomi di credere anche solo per un momento che stessi aspettando a vuoto. E finalmente. L’occasione per riequilibrare i piatti della bilancia era arrivata.
*
Nyze mi guarda divertito, le mani giunte, i gomiti appoggiati sul tavolo. A un certo punto, mentre parlavo, si è acceso una sigaretta, che ora penzola mollemente dalle sue dita. Negli ultimi minuti non l’ha toccata, e credo si sia spenta, ma puzza ancora come lo schifo, puzza anzi peggio di prima. Mi dà un fastidio che se avessi solo un po’ di palle in più la afferrerei, gliela strapperei di mano e la pesterei sotto le scarpe. Non lo faccio, però, e lui continua a guardarmi.
- È tutto molto interessante, tesoro, - mi dice alla fine, schiacciandola nel portacenere ancora a metà com’è, come non gliene fregasse niente, - Ma da me cosa vuoi?
- Non lo so, di preciso. – rispondo, aggrottando le sopracciglia, - Usami. Posso servirti a qualcosa. Voglio affondarlo, quello stronzo.
- Questo non riporterà in vita tuo padre. – mi dice lui con ovvietà fastidiosa.
- Lo so da me, questo.
- E allora perché? – lui incrocia le braccia sul petto, le labbra ancora piegate in quel sorriso che mi fa sentire allo stesso tempo spogliata nuda e presa in giro.
- Perché se lo merita! – dico io, alzando la voce, - Perché non è giusto, quello che è successo a mio padre. Se non posso ammazzarlo, voglio almeno vederlo nel fango. Ma una diss non basta, è troppo poco, non serve a niente, io voglio vederlo ricoperto di diss, voglio— posso farle da me! – insisto, avvicinandomi alla scrivania ed appoggiandomici sopra, - Posso raccontare tutta la storia in una canzone! In dieci canzoni! Ti ci faccio un album, ti dico tutto quello che so, quello che mi ha detto mia madre, Bushido finirà in galera, e se non lui la sua principessa sul pisello, ed anche quelle due merde dei suoi tirapiedi, e se anche non sarà così in ogni caso nessuno potrà più guardarli nello stesso modo, lui sarà un uomo finito, e tu e l’Aggro avrete vinto.
Nyze sorride ancora. Butta lì una mezza risata che si conclude in un grugnito, e si accende un’altra sigaretta.
- Tesoro, - mi dice. Continua a chiamarmi così. È insopportabile. Non sono il tesoro di nessuno, io. Tantomeno il suo. – A me della vittoria dell’Aggro non frega un cazzo. – mi guarda serio, adesso, fumando lentamente, - A me questa label di merda ha fatto sempre schifo, fin dall’inizio. È per questo che avevo scelto l’Ersguterjunge. Tu credi che io voglia distruggere Bushido perché è un frocio di merda? – scoppia a ridere, - Dei buchi che frequenta il suo uccello mi frega tanto quanto quelli che frequenta il mio, cioè molto poco. Se gli piace il cazzo, sono fatti suoi. Credi che la roba che metto nelle diss stia lì per una questione di principio? Credi che lo fosse, per tuo padre? Tesoro, - ghigna, - L’unica questione di principio, qui, è sempre stata l’etichetta. La crew. Il gruppo che dovevamo essere. E che Bushido ha distrutto. Ed è per questo, - dice, puntando un indice contro la scrivania e picchiettandolo un paio di volte, - Che io distruggerò lui. Bushido è uscito dal ghetto, - aggiunge, scrollando le spalle, - Vive nella sua bella villa, frequenta un idolo pop, hai visto che gente ha in etichetta?, quello che fa non è più nemmeno hip hop. È lontano anni luce da Tempelhof. Cercare di ammazzare Fler in quel vicolo tre anni fa è stato l’ultimo atto da uomo del ghetto della sua vita. Avrebbe dovuto morirci, in quel vicolo. Come sarebbe stato giusto. Tuo padre lo sapeva, e lui, che era rimasto un uomo del ghetto per davvero, ha deciso di non fermarsi davanti a niente per fare ciò che era giusto fare. Come adesso sto facendo io.
Abbasso lo sguardo. Non voglio sentire. Pensavo sarebbe stato più facile, ma non lo è. Avrei voluto che lui avesse qualcosa da ordinarmi, qualcosa da farmi fare. Per mettermi al lavoro, subito. Cercare di smetterla di sentirmi come se fossi ancora in attesa di qualcosa che non arriva.
Ora invece attendo le sue parole, e ne ho paura, perché quest’uomo continua a raccontarmi cose che io non voglio sapere, e sarebbe stato più semplice continuare a credere che quella di mio padre fosse solo omofobia, che fosse senso del ridicolo, vergogna per quello in cui Bushido stava trasformando l’etichetta.
Ma è qualcosa di diverso. Qualcosa di più profondo. Qualcosa che non posso davvero arrivare a comprendere, una legge non scritta che somiglia più a un istinto primordiale che io non ho, perché il ghetto ho imparato ad amarlo dopo essere scappata ed essermici persa dentro, ma non ci sono nata, non sono figlia di quelle strade, di quei palazzi fatiscenti, del canale, delle strade piene di spazzatura agli angoli, dei muri anneriti e ricoperti di tag.
Mio padre aveva dentro qualcosa che io non ho e non avrò mai. Ed io, che credevo di averlo capito, non facevo altro che guardarlo dall’altro lato di un burrone che non potevo in alcun modo attraversare, da una distanza che non potevo in alcun modo colmare.
Non so più cosa sto facendo in questo posto. Mio padre ha ucciso Bushido in nome di una legge che non riconosco, non è la mia. E secondo quella stessa legge incomprensibile è morto. Poi Bushido è risorto, ma non è più la mia legge che può stabilirne la fine. È quella di qualcun altro, ma io non so se voglio più esserne uno strumento.
- Tesoro, - ride Nyze, - Non fare quella faccia. Cristo, ti ho detto qualcosa che ti ha fatto male? Mi dispiace. – si vede, dalla sua faccia, che invece non gliene frega niente. – E poi non è male, il tuo piano, - continua pensieroso, quel sorriso ancora stampato sulle labbra, - Esporre la verità, e dalla bocca della figlia del morto… sarebbe una cosa enorme. L’unico problema è Fler. Finché quello che facciamo lo implica in qualche modo, Sido non acconsentirà mai. Lo protegge come una fottuta chioccia, neanche fosse un moccioso del cazzo.
- Potremmo provare a lasciarlo fuori. – mi azzardo a suggerire, sollevandogli addosso lo sguardo.
Lui ride ancora.
- Neanche per sogno. – dice, - Se decidiamo di fare questa cosa, la facciamo per bene. Voglio vederli affondare tutti. Se cade Bushido, devono cadere anche tutti gli altri. Primo fra tutti il suo principe reggente. No, Fler deve restarci dentro. È un altro l’ostacolo che dobbiamo eliminare. Non so ancora come, però.
Io deglutisco, avvicinandomi un po’.
Questa non è la mia legge, ma non ho più niente. Niente. Nient’altro. E ho aspettato così tanto.
- Qualsiasi ostacolo sia, - dico, - Posso aiutarti a toglierlo di mezzo. Sono disposta a tutto.
Nyze si volta a guardarmi per un istante. Piega le labbra in un altro ghigno divertito, scostandosi dalla scrivania sulla poltrona girevole.
- Non so cosa farmene di te, tesoro, - dice, - Non ancora, almeno. Ma se vuoi diventare parte di questa cosa, devo sapere che posso fidarmi di te.
- Puoi! – rispondo, - Sono venuta qui! A raccontarti tutto!
- Certo, certo. – annuisce lui, - E io lo apprezzo. Ma quando dici di essere disposta a tutto, be’, non so se crederti.
- Mettimi alla prova. – dico. E nel momento in cui lo dico capisco, prima ancora di vedere il suo sorriso allargarsi, che è esattamente quello che voleva dicessi. Mi ha spinto all’angolo senza che me ne accorgessi, perché sono una ragazzina, perché sono scema anche se non mi piace crederlo, perché siamo troppo diversi e lui viaggia a velocità sostenuta cento passi avanti a me, perché è nato su strade che gli hanno lasciato addosso un’impronta che sulla mia pelle non c’è, anche se parlo arabo, anche se spaccio, anche se mi piace pensare di essere sbocciata a Tempelhof come un fiore di cemento. Non era cemento, era un prato. Sono volata in città e ora il cemento mi spezza alle radici.
Forse mia madre aveva ragione. Era Buckow il posto più adatto a me.
- D’accordo. – dice Nyze. Lo vedo sbottonarsi i jeans e abbassare la cerniera. Non dice niente, non ce n’è bisogno.
Forse mia madre aveva ragione, penso, ma non riesco a rassegnarmi. Mi piego sulle ginocchia, chiudo gli occhi e ingoio fingendo che non m’importi, provandogli che sono già sporca come lui pensa che io sia, anche se non è vero, anche se è lui che mi sta sporcando per primo.
Alla fine, Nyze è soddisfatto. Io penso solo che non vedo l’ora di tornare al canale, sedermi sulle sue sponde, guardare nelle sue acque scure, immaginare di vedere papà.
Sono stata una brava bambina, papà? Sono stata brava abbastanza?
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia, Triste.
Pairing: Chakuza/Fler.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, AU.
- Una sera, Fler torna a casa propria e trova un uomo sconosciuto e palesemente ubriaco steso sulle scale all'ingresso del proprio palazzo. L'uomo puzza e non sembra intenzionato a passare la notte restando in vita, se abbandonato a se stesso, e per tale motivo, dopo una discussione vagamente surreale, Fler decide di accoglierlo in casa propria, almeno per la notte. La cosa, però, avrà conseguenze di un certo spessore, conseguenze che cambieranno per sempre la vita di tutti i protagonisti di questa vicenda.
Note: Dunque, che questa storia esista, a partire da una foto in cui Chakuza era vestito come un pezzente, è già una cosa abbastanza allucinante XD Non contenta di aver dato il via ad una cosa simile partendo da un pretesto abbastanza ridicolo, ho scritto a lungo. Molto a lungo. Nel senso che la storia è lunga quasi trentamila parole ed ho perciò saggiamente deciso di dividerla in tre parti per evitare che chiunque voglia leggerla (se mai qualcuno vorrà o_ò) debba smazzarsi una roba infinita. Per cui niente, spero che vi piaccia e spero anche di ricordarmi di aggiornare con frequenza, visto che comunque è tutto già scritto XD (Tra l'altro, senza parole: ho cominciato a scrivere questa storia il giorno stesso in cui è scaduto il BBI... bastarda, potevi plottarti/scriverti tutta prima è.é Almeno avrei portato tre fic come avevo promesso ç.ç)
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EVERYTHING I OWN

You sheltered me from harm
Kept me warm, you kept me warm
You gave my life to me
You set me free, set me free

La prima cosa che lo colpì entrando all’interno del palazzo fu l’odore. Viveva in quel condominio da ormai cinque anni e non aveva mai sentito una puzza simile in quel luogo, tanto più che la signora delle pulizie passava non una ma due volte a settimana a lavare il pavimento e le scale, e lucidava perfino il corrimano, cosa di cui peraltro nessuno si accorgeva mai perché il primo piano era sfitto da secoli a causa della padrona di casa vecchissima e arteriosclerotica che abitava al quarto e non voleva mai darlo a nessuno di quelli che venivano a visitarlo, perciò usavano tutti l’ascensore, anche perché il palazzo era alto una cifra, ma fondamentalmente niente di tutto questo era davvero importante, l’unica cosa che contava davvero era che lì tutto era sempre splendente e profumato, e quella puzza, no, quella puzza non era affatto normale.
Allungò una mano verso la parete dove sapeva di trovare l’interruttore della luce e schiacciò il pulsante, sbattendo un paio di volte le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano all’improvviso passaggio dall’oscurità più totale al biancore della lampada al neon, e lanciò uno sguardo dubbioso tutto intorno a sé alla ricerca di un qualche elemento di disturbo rispetto all’usuale, quieta normalità del luogo, soprattutto a quell’ora della notte.
Non ci mise molto a trovarlo.
L’uomo stava buttato in un angolo, apparentemente molto più rassomigliante ad un topo morto che non ad un essere umano. Anche l’olezzo era lo stesso, si ritrovò a pensare Fler, avvicinandosi con estrema circospezione. Per un attimo si chiese cosa avrebbe dovuto fare nel caso il tipo fosse morto per davvero, e naturalmente la prima risposta che si diede, già da solo, fu di non chiamare la polizia ma limitarsi ad avvertire Bushido. Lui avrebbe sicuramente saputo come far sparire un cadavere. D’altronde, era il suo mestiere.
Fortunatamente, comunque, il tipo non era morto. Non ancora, almeno, anche se Fler immaginò che, senza troppe difficoltà, sarebbe sicuramente passato a miglior vita entro l’alba se l’avesse lasciato lì steso per metà sulle scale a pancia in su e con ogni probabilità di soffocarsi col proprio stesso vomito al primo conato.
Puzzava d’alcool in maniera quasi insopportabile, ma nonostante questo Fler riuscì a farsi forza abbastanza da avvicinarsi ancora e scuoterlo un po’, dapprima con un paio di calci sugli stinchi e poi, dopo aver constatato che quelli, da soli, non bastavano a ridestarlo, con due calci decisamente meglio assestati contro un fianco.
L’uomo grugnì qualcosa di indefinibile, talmente anestetizzato dall’alcool da non riuscire nemmeno a sentire il dolore per i calci.
- Che cosa…? – borbottò con voce impastata, e Fler si piantò ritto davanti a lui, le gambe lievemente divaricate ed entrambe le mani sui fianchi, guardandolo dall’alto in basso.
- Come si è introdotto qui dentro? – gli chiese, prima ancora di chiedergli come stesse o se avesse bisogno d’aiuto, - È proprietà privata, questa, lo sa?
- Eh? – disse l’uomo, massaggiandosi stancamente le tempie e strizzando le palpebre sugli occhi lucidi per riacquistare un minimo di controllo sul proprio corpo, - Chi sei tu?
- Sono un inquilino di questo stabile. – annuì Fler, perfettamente a proprio agio, - Lei, invece, no.
- …sì, direi che questo è ovvio. – concluse l’uomo, aggrappandosi a fatica al corrimano per issarsi in piedi. Era piuttosto basso, notò Fler quando ebbe finito.
- Allora? – insistette Fler, sporgendosi verso di lui con l’intenzione di pressarlo fisicamente, in modo da spremere una risposta da quei suoi occhi incredibilmente stanchi, - Come ha fatto ad entrare?
- Sono salito su dalle fogne. – rispose quello, inarcando un sopracciglio. Fler fece tanto d’occhi.
- Davvero? – chiese, - E come ci è passato?
Il tizio lo fissò come se non potesse credere alla sua esistenza in vita.
- Stavo scherzando. – rispose.
- Oh. – mugugnò Fler, vagamente deluso, - Quindi come è entrato?
- Ma chi se lo ricorda, sarà stato aperto il portone o forse mi sono intrufolato seguendo qualcuno che è entrato prima di me… - borbottò quello, massaggiandosi ancora la fronte e poi sfilando il berretto per passarsi una mano sulla testa rasata. O pelata, non era facile capirlo a quell’ora di notte e con quella luce tremula e biancastra. – Perché è così importante saperlo?
- Perché se lei mi spiega come ha fatto ad entrare, io potrò dirlo a Bushido. – rispose tranquillamente lui, annuendo come a dar forza alla propria spiegazione, - E lui potrà risolvere il problema.
Il tipo sollevò un sopracciglio, le labbra strette come due linee.
- Bushido? Quel Bushido?
- Ne conosce altri? – chiese Fler, - Eppure credevo fosse un soprannome abbastanza particolare.
- No, no, non ne conosco altri. – sospirò l’uomo, cominciando forse a capire di fronte a che tipo di persona si trovasse, - E comunque piantala di darmi del lei, non l’ha mai fatto nessuno in tutta la mia vita e non vedo perché dovresti cominciare tu adesso, visto che avrai la mia stessa età e che io, in questo momento, non riesco neanche a distinguere i contorni delle cose.
- È una questione di educazione. – borbottò Fler, quasi offeso, - Con gli sconosciuti—
- Sì, sì. – lo liquidò il tipo, con un gesto sbrigativo, - Quanti anni hai detto che hai?
- Ne ho ventotto. – rispose Fler, piccato, - E lei, comunque, non può stare qui.
Il tipo si sollevò brevemente sulle punte per lanciare un’occhiata fuori oltre il portone in vetro smerigliato oltre al quale, sulla strada vuota e buia, infuriava la tempesta.
- Diluvia. – disse, indicando un punto a caso nel vuoto, - Non posso certo uscire.
- Ma non può nemmeno stare qui! – ripeté Fler, sempre più sconvolto, - Questa non è una casa, è l’ingresso del palazzo, e quello non è un letto ma una rampa di scale. – poi sospirò profondamente, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto come a sottintendere che, in quell’universo, lui era l’unico a dover risolvere tutti i problemi, cosa di cui l’uomo che aveva di fronte, a giudicare dallo sguardo profondamente scettico, dubitava con decisione. – Mi segua. – disse quindi, facendogli strada verso l’ascensore.
- Dove? – chiese giustamente l’uomo, fissandolo dubbioso. Fler si voltò a guardarlo come se non riuscisse a capacitarsi della sua idiozia.
- Ma su da me, no? – disse premendo il pulsante e restando in attesa dell’apertura degli sportelli, - Ha bisogno di lavarsi e di… vestiti nuovi. – elencò, lanciando un’occhiata abbastanza disgustata ai pantaloni luridi e strappati ed alla camicia tutta sbrindellata che indossava, - E, naturalmente, di un posto dove stare stanotte, visto che fuori proprio non vuole.
- Vorrei ben vedere, ma hai visto come piove?! – insistette lui, indicando nuovamente la notte oltre il portone, - Comunque, - sospirò pesantemente quando gli sportelli dell’ascensore si furono aperti e Fler vi fu entrato, facendogli cenno di seguirlo, - io mi chiamo Chakuza.
- E che nome sarebbe? – chiese Fler, inclinando il capo come un cucciolo incuriosito, - Sua madre era giapponese?
- No che non era giapponese! – borbottò Chakuza, le labbra piegate in una smorfia infastidita, - Ma sei stupido o cosa? È il mio nome d’arte.
- Un nome d’arte per cosa? – chiese Fler, guardandolo con gli occhi azzurri spalancati nella luce giallognola dell’ascensore. La cabina si fermò e gli sportelli si aprirono sul pianerottolo vuoto e buio proprio in quel momento, dando a quella domanda e al silenzio che la seguì una connotazione così forzatamente comica che Chakuza si aspettò di sentir risuonare gli applausi preregistrati nell’eco della tromba delle scale il minuto successivo.
- In che senso “per cosa”? – chiese a propria volta.
- Un nome d’arte per fare cosa? – precisò Fler, - A cosa le serve un nome d’arte?
- A— ma cosa ne so, è—
- Io ce l’ho un nome d’arte. – annuì Fler con ovvietà, uscendo dall’ascensore ed accendendo la luce sul pianerottolo per infilare senza troppe difficoltà le chiavi nella serratura, - Mi serve perché sono un artista, appunto. Firmo tutti i miei murales come Fler, ma mi chiamo Patrick. Anche lei firma murales, o qualcosa di simile?
Chakuza rifletté per qualche secondo e concluse che l’unica cosa vagamente pittorica che gli fosse capitato di fare recentemente era stata quando quel tipo strambissimo gli aveva chiesto di disegnargli addosso un omino stilizzato venendogli sulla pancia. Guardò Fler negli occhi con evidente imbarazzo e, dopo un attimo di incertezza, rispose che no, non firmava murales né nient’altro di simile.
- È solo un nome che si usa per strada. – scrollò le spalle mentre Fler lo invitava ad entrare nell’appartamento e si richiudeva la porta alle spalle, dirigendosi poi con sicurezza verso il telefono poggiato su un mobiletto in un angolo dell’ingresso. – Comunque, mi chiamo Peter. Che fai?
- Chiamo Bushido, ovviamente. – rispose lui con naturalezza, digitando il numero a memoria ed appoggiandosi al tavolino mentre restava in attesa di risposta, - Non mi crederà uno sprovveduto? Gli darò disposizione di passare per di qua domattina, e sappia che, nel caso dovesse trovarmi morto, sto per fargli una descrizione molto precisa del suo aspetto fisico, di modo che possa trovarla e fargliela pagare ovunque lei si trovi.
Chakuza boccheggiò per qualche istante, senza parole.
- …non ne dubito. – concluse infine.
- Bene. – sorrise Fler, - Ora vada pure in bagno, corridoio, seconda porta a destra. Troverà nei cassetti tutto ciò che le servirà, compresa della biancheria nuova che tengo sempre per le emergenze. – Chakuza si chiese brevemente che tipo di emergenza potesse giustificare la presenza di biancheria intima intonsa in un cassetto del bagno, ma evitò di porre la domanda. – Quando avrà finito, torni pure qua. Le darò qualcosa da mettersi e le mostrerò dove dormire.
- S-Sì. – annuì Chakuza, ancora vagamente incerto e perfino un po’ spaventato dall’assurda naturalezza con la quale quello sconosciuto se lo stava tirando in casa senza altro motivo oltre al fatto che giù nell’atrio era d’ingombro. Si voltò con l’intenzione di seguire le indicazioni e rifugiarsi in bagno il prima possibile, spronato peraltro dal pensiero di una doccia calda, vecchia compagna della quale faceva ormai a meno da tempi inenarrabili, sennonché all’ultimo minuto sentì che c’era ancora qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione, e sollevò un dito, voltandosi giusto per intravedere la figura di Fler ancora in attesa di risposta da parte di quello che alla fine era solo il più importante capomafia di Berlino. – Solo una cosa… - accennò con aria vagamente intimidita. Fler allontanò la cornetta dall’orecchio e la coprì con una mano, sorridendogli incoraggiante. – Smettila di darmi del lei. Ci siamo presentati, ormai, no?
Fler diede perfino l’impressione di pensarci con una certa serietà, per una manciata di secondi.
- D’accordo. – disse infine, tornando a sorridere sereno, - Ora vai in bagno. – concluse perentorio. Chakuza obbedì.
*
L’idea di stare per lavarsi non lo colpì come sarebbe stato giusto lo colpisse fino a quando non entrò fisicamente nella doccia e si accorse di non avere più granché confidenza con le manopole che regolavano il getto d’acqua. Sperò di fare tutto per bene e non dover per forza uscire da lì dentro assiderato o bollito e rossissimo come Hummer Kummer, il peluche a forma di aragosta che si trascinava sempre ovunque da bambino, ma non si stupì più di tanto quando, invece, combinò un disastro, aprì tutti i rubinetti sbagliati e prima si ghiacciò fin nelle ossa e poi si scottò al punto da doversi aggrappare alla tendina della doccia per cercare di sfuggire al getto d’acqua bollente, gesto che naturalmente portò metà della suddetta tendina a scardinarsi dal proprio sostegno ed avvolgerglisi addosso, creando una specie di pellicola avvolgente attraverso le pieghe e gli spiragli della quale centinaia di minuscole goccioline incandescenti s’intrufolavano apposta per dargli il tormento.
Fu solo con parecchia fatica che, una decina di minuti dopo, riuscì a venire a capo del problema, prendendo confidenza con l’ambiente e riuscendo a regolare le manopole in modo che il getto d’acqua fosse tiepido e piacevole. E fu allora che chiuse gli occhi e si lasciò un po’ andare all’abbraccio dell’acqua, una stretta la cui piacevolezza aveva quasi del tutto dimenticato. Non che non si fosse lavato per niente, da quando viveva per strada, ma i bagni dei locali non gli permettevano mai di rilassarsi mentre lo faceva, era tutto un doversi sbrigare perché chissà quando sarebbe arrivato il custode o un sorvegliante a beccarlo, e comunque non poteva certo spogliarsi nudo, rimpicciolirsi più di quanto non fosse già piccolo ed infilarsi in un lavandino per farsi la doccia lì. Una doccia era un’esperienza mistica che prevedeva il dedicarsi un po’ a se stessi in solitudine, con calma e tranquillità, e fu per questo che gli saltò il cuore in gola al punto che quasi scivolò di testa all’indietro quando la porta del bagno, senza nessun preavviso, si spalancò sull’espressione fiduciosa e positiva di Fler e sui suoi occhi pieni di domande come quelli di un bambino di cinque anni.
- Scusa, Chaku, pensavo! – esordì entusiasta, e Chakuza tirò la tendina così forte che finì di staccarsi nella sua interezza, cosa che fu meno negativa del previsto da un lato perché a Fler non sembrò importare granché, e dall’altro perché così almeno aveva qualcosa con cui coprirsi.
- Chaku…? – borbottò lui, incerto. Fler si limitò ad annuire felice.
- Sì, pensavo, come ti piace la pizza? – domandò curiosamente. Chakuza lo fissò incredulo.
- Perché? – chiese, pur rendendosi conto di quanto idiota dovesse suonare una domanda simile. Per quale motivo qualcuno dovrebbe chiederti che tipo di pizza preferisci, se non per offrirtene una?
- È un sacco tardi e pensavo ti andasse di mangiare qualcosa. Anche se, ti avverto, dovrai chiamare tu. Io non sono capace. – rispose lui, come se l’idiozia della domanda non lo toccasse minimamente, cosa che effettivamente diede a Chakuza da pensare. E soprattutto cosa voleva dire che non ne era capace? Non era capace di fare cosa, chiamare un servizio di pizza a domicilio? – Per me non è un problema mangiare ancora, anche se ho già cenato, così ti faccio compagnia. Bushido ha detto di dirti di stare attento a cosa fai con le mani, perché potrebbe essere l’ultima volta che le vedi, comunque. Dico io, mangiare una pizza è decisamente l’ultima cosa che vorrei fare con le mie mani se temessi di perderle, per cui…
- No, senti, senti. – lo interruppe Chakuza, massaggiandosi stancamente gli occhi con l’indice e il pollice, finendo per pinzarsi la radice del naso come molto spesso aveva fatto sua madre, buonanima, prima che lui scappasse di casa per dedicarsi completamente alla vita dissoluta per la quale tanto spesso lei l’aveva rimproverato, - Non mi fa impazzire la pizza, preferisco cucinare qualcosa io, se hai l’occorrente in casa.
Fler lo guardò a lungo con gli occhi spalancati.
- Tu cucini? – gli chiese, come se fosse più strano questo rispetto a tutto il resto. C’era decisamente qualcosa che non tornava, nella testa di quel ragazzo. Chakuza non era sicuro di voler scoprire cosa, peraltro.
- Sì. – annuì comunque, tirando su la tendina che, nel mentre, aiutata dall’acqua, aveva preso a scivolare inesorabilmente verso il basso, - E se domani dovessi perdere le mani, ecco, cucinare vorrebbe essere l’ultima cosa che farò.
Fler rise appena, un suono piacevole, infantile, sentendo il quale Chakuza non poté fare a meno di concedersi una risata a propria volta.
- Non ti taglierà davvero le mani, se farai il bravo. – lo rassicurò. Il sorriso che buttò lì come fosse assolutamente normale sorridere in quel modo ad uno sconosciuto prima di uscire dal bagno che lui stesso gli aveva permesso di usare, fu abbastanza per far capire a Chakuza che Bushido, come d’altronde sospettava, doveva saperla decisamente lunga, se l’unica raccomandazione che gli aveva fatto era quella di tenere le mani a posto.
*
Quando uscì dal bagno avvolto nell’accappatoio più morbido che avesse mai indossato nella sua intera esistenza, a Chakuza pianse il cuore nel notare i vestiti che Fler aveva sistemato per lui sul ripiano di un cassettone di media grandezza posto proprio davanti alla porta, sull’altro lato del corridoio. C’era anche un post-it, proprio lì accanto, che gli indicava tramite una serie di disegnini e freccine dove fosse la camera da letto, invitandolo a recarsi lì per cambiarsi e mettersi a suo agio prima di raggiungerlo in soggiorno, dove lui stava giocando alla Wii. Chakuza sollevò lo sguardo e tese le orecchie: da qualche angolo lontano dell’appartamento giungevano suoni di guerriglia urbana intervallati ogni tanto da urla di gioia o momenti in cui Fler decideva di mettersi a cantare ad alta voce le canzoni che stava probabilmente ascoltando in cuffia, visto che non c’era traccia di melodia da nessuna parte.
Scoprì invece che il suo cuore non aveva nessun motivo di piangere, perché i vestiti erano morbidi e comodi esattamente come l’accappatoio, e passare dall’uno agli altri fu come essere un putto e passare da una nuvola a quella immediatamente successiva senza nemmeno dover spostare di troppo l’arpa. Un cambio incredibilmente naturale.
Quando raggiunse Fler in soggiorno, era ormai diventato un tutt’uno con gli abiti che lui gli aveva prestato. Li sentiva così intimamente propri che progettava di chiedergli se poteva bruciare i vecchi e tenere questi anche una volta che fosse andato via, ma capì subito che non era il momento di porre la questione, dal modo in cui Fler si alzò e, brillando di luce propria, mollò il videogioco al suo triste destino per afferrarlo per una mano e trascinarlo di peso in cucina.
Mentre veniva trainato, Chakuza posò lo sguardo sulla mano di Fler, così saldamente stretta attorno alla propria, e si chiese se questo fosse lo stesso ragazzo che, fino a mezz’ora fa, ancora gli dava del lei. Era normale, per lui, essere così entusiasta ed espansivo per ogni cosa? Era normale afferrare per mano uno sconosciuto e condurlo senza riserve nella propria enorme, splendida, lucente cucina ipermoderna da lacrime istantanee, ignorando ostentatamente il rischio che lui potesse magari rovistare in un cassetto, tirarne fuori un coltello da macellaio e sventrarlo con un colpo secco dalla gola alla pancia?
- Guarda, ti ho messo qui sul tavolo tutto quello che ho trovato. – illustrò, indicando il ben di dio di roba che doveva aver tirato fuori dal frigorifero, da tutti gli stipetti ed anche dalla dispensa, se ne aveva una. – Pensi che potresti tirarne fuori qualcosa di buono?
- Penso che potrei tirarne fuori qualcosa di buono per molti giorni di seguito e per molte più persone di quante non ce ne siano adesso in questa stanza. – gli fece notare, inarcando un sopracciglio, - Ma fai sempre tutta questa spesa?
- No, in realtà non ne faccio mai. – rispose Fler con una risatina divertita, - Mi compra tutto Bushido. Dice che devo tenermi in forze.
- E non dubito che tu ci riesca, con tutta questa roba. – commentò Chakuza con una mezza risata. Dopodiché, si avvicinò al tavolo e selezionò un paio di ingredienti, cercando di schiarire le idee per pensare a cosa preparare e realizzando con un po’ di tristezza che erano almeno un paio d’anni che non aveva più occasione di cucinare niente. – Potrei essermi un po’ arrugginito. – confessò imbarazzato, - Non mi esercito da un po’.
- Fa niente. – rispose Fler, scrollando le spalle, - Tanto io mangio tutto.
Chakuza rise ancora, chiedendosi a quando risalisse l’ultima volta in cui l’aveva fatto così spesso. Era un periodo tanto antico da essersi sbiadito quasi del tutto nella sua mente, non ne rimaneva che qualche traccia antica, la distante consapevolezza di averlo vissuto, di essere stato, un tempo, una persona talmente felice da potersi concedere di ridere e ridere e ridere senza avere bisogno di litri d’alcool per farsene venire la voglia. Dopodiché mise da parte questi brutti pensieri e si diresse risolutamente verso i fornelli, per scoprire che in realtà la mano non l’aveva persa affatto.
*
- Ti è piaciuto? – chiese con un sorriso nell’osservare Fler che si rovesciava sazio contro lo schienale della sedia, allungandosi un po’ per trovare il bottone dei jeans sotto la pancetta appena pronunciata, per sfibbiarlo.
- Un sacco, Chaku! – rispose lui entusiasta, sorridendo così sereno da rassomigliare a quei neonati che, nel sonno, si lasciano sfuggire un sorriso dopo una poppata particolarmente soddisfacente. – Io non sono uno che fa caso al gusto delle cose, in genere, ma questo era proprio buonissimo.
- Mi fa piacere. – rise Chakuza, alzandosi e mostrando la chiara intenzione di rassettare piatti e posate. Fler allungò un braccio, afferrandolo per un polso e fermandolo.
- Che combini? – gli chiese con una risatina, - Lasciali lì, non c’è bisogno.
- Ma posso occuparmene io, tu fai già tanto tenendomi in casa, non—
- Ma non lo farò nemmeno io. – rise ancora Fler, se possibile perfino più divertito di prima, - Ci penserà Bushido domani. Ci sta un sacco attento, lui, a queste cose.
Chakuza inarcò le sopracciglia al punto che quasi se le sentì scivolare oltre la fronte. Se ne preoccupò perfino, per qualche secondo.
- Vuoi dire che Bushido, quel Bushido, Anis Mohammed Youssef Ferchichi, anche conosciuto come Sonny Black, ti lava i piatti? – chiese con aria allucinata.
- E mi rifà il letto. – annuì Fler, alzandosi con una certa fatica. – Dio, quanto sono pieno. Ma che sonno ho? Chaku, ma ci hai messo dentro del sonnifero per stendermi e rubarmi tutte le cose? Non avrai più mani, domattina.
- Non ho messo nessun sonnifero da nessuna parte, e— aspetta! – gli corse dietro, mollando i piatti lì dov’erano, - Ma che vuol dire che ti rifà il letto? Ma chi è, la tua badante?
- Ma no, siamo solo amici! – borbottò Fler, voltandosi a guardarlo con aria decisamente offesa, - Non ho bisogno di nessuna badante!
Chakuza non poteva dire di esserne poi così sicuro, dopotutto. E, in ogni caso, tutta quella storia gli stava aprendo gli occhi su un lato della vita di Bushido che, vivendo per le sue strade e dovendo stare alle sue leggi, non aveva mai preso in considerazione.
Si trattava di un essere umano, dopotutto. Con affetti e debolezze. Per più di un attimo, attraverso la sua mente resa mille volte più incline a pensieri similari dalla vita che aveva condotto negli ultimi anni, passarono le possibilità più svariati. Tutte comprendevano la presenza di Fler, comunque. E non tutte erano in realtà granché oneste, soprattutto visto quanto quel ragazzo stava facendo per lui senza palesemente aspettarsi nulla in cambio.
Scrollò il capo con decisione. Se davvero ragionamenti del genere fossero diventati una tappa obbligata, ci avrebbe pensato nei prossimi giorni, quando almeno avrebbe abbandonato il suo appartamento. In quel momento, il solo pensiero di lasciarsi andare a considerazioni simili proprio lì gli dava il voltastomaco.
- Senti… - abbozzò, grattandosi nervosamente la nuca, - Grazie per tutto quello che stai facendo, davvero. Non ho mai incontrato una persona gentile… - o stupida, ma questo non lo aggiunse, - come te, da quando, be’, vivo per strada. Quindi, grazie.
- Oh, andiamo. – rise Fler, tirandogli una pacca su una spalla ed entrando in camera, lasciandolo lì sulla soglia mentre, con estrema disinvoltura, tirava via la felpa e la maglietta e restava con addosso solo i pantaloni, - Non potevo certo lasciarti lì. Chiunque l’avrebbe fatto, al mio posto.
- No, sono abbastanza sicuro del contrario, in realtà. – protestò Chakuza, ma senza troppa veemenza perché non gli andava di contraddirlo. Il senso di colpa per i pensieri molesti di poco prima stava prendendo il sopravvento. – Comunque, non mi hai ancora mostrato dove dormirò stanotte. – buttò lì con tono casuale, per non sembrare uno di troppe pretese. Gli andava bene anche una poltrona, purché Fler gliela indicasse, di modo che lui non dovesse sentirsi troppo invadente anche in quello.
Fler, invece, lo fissò con sincero stupore, prima di tirare giù i pantaloni in un gesto talmente improvviso che Chakuza quasi si ritrovò a fare un passo indietro per la sorpresa.
- Ma qui con me, ovviamente. – disse quindi con naturalezza, - Quante stanze pensi che abbia quest’appartamento?
Improvvisamente, tutto fu più chiaro, nella mente di Chakuza. Si concesse perfino un sorriso soddisfatto, perché ora sì che si cominciava a parlare la sua lingua. Non aveva alcun motivo di sentirsi in colpa, perché naturalmente Fler non lo stava aiutando così per bontà d’animo. E d’altronde era impensabile che uno che, a quanto pareva, aveva un rapporto particolarmente stretto con Bushido, non riconoscesse uno come lui alla prima occhiata. Non c’era dubbio che Fler l’avesse inquadrato per ciò che era fin dal primo minuto, e avesse deciso di tirarselo in casa magari per fare la propria buona azione quotidiana e guadagnarci in più anche una sana scopata priva di conseguenze sentimentali. Ma andava bene così, era ciò con cui Chakuza era abituato ad avere a che fare ogni giorno. Un mondo che potesse capire e che, per assurdo, suonava un sacco più rassicurante rispetto all’idea che s’era fatto fino a quel momento e che dipingeva un ragazzino fondamentalmente mai cresciuto al quale la sua sola presenza avrebbe potuto potenzialmente fare un male assassino semplicemente imponendosi come un corpo estraneo nella sua tranquilla quotidianità.
Si avvicinò guardando Fler dritto negli occhi, inclinando appena il capo e muovendosi lentamente, con fare suadente. Sfilò la maglia che Fler gli aveva prestato, così morbida da scivolargli sulla pelle come una carezza, e la trattenne per qualche secondo fra il pollice e l’indice, prima di lasciarla cadere per terra con uno sbuffo silenzioso. Sorrise per tutto il tempo, senza interrompere il contatto visivo neanche quando Fler si voltò per arrampicarsi sul letto. Lo osservò sistemarsi fra le coperte ed aspettò che si fosse seduto, con la schiena appoggiata contro la testiera in legno lucido e scuro, prima di procedere a sbottonare i pantaloni.
- Ti piace spogliarti così lentamente? – gli chiese Fler, e Chakuza sorrise dell’assoluta innocenza della sua voce. Il ragazzo sapeva come fare per fare impazzire un uomo, questo era evidente, e lui ne sentiva gli effetti fin dentro lo stomaco, che sentì contorcersi in un lieve spasmo di piacevole impazienza che si concesse di provare perché erano anni, Dio, che non scopava con un po’ di sentimento.
- Non lo so. – rispose con fare ammiccante, lasciandosi scivolare i pantaloni lungo le gambe e salendo a gattoni sul letto, avvicinandosi a Fler come un predatore silenzioso, - A te piace che mi spogli così lentamente?
Fler inarcò un sopracciglio, apparentemente poco convinto dalla risposta.
- Ma per me puoi spogliarti un po’ come vuoi. – rispose sinceramente, ed a Chakuza venne voglia di sporgersi a lasciargli un bacio nel mezzo della fronte per sussurrargli che aveva capito a che gioco stava giocando, poteva anche smetterla di fare la finta vergine innocente.
- Davvero? – chiese, mettendosi in ginocchio di fronte a lui ed appendendo entrambe le mani all’orlo elastico degli slip, - Quindi per te va bene se tiro giù lentamente anche questi…? – chiese pianissimo.
Fler dischiuse le labbra, lanciando un’occhiata alla sua biancheria e poi tornando a guardarlo negli occhi.
- Chaku… - comincio inumidendosi le labbra. A Chakuza parve di vedere una luce diversa, nel suo sguardo. Una luce carica di voglia. Sorrise fra sé: era fatta. - …si può sapere cosa diavolo stai facendo? Mettiti a letto e dormi.
Qualcosa, nel fondo del cuore di Chakuza, quella notte si spezzò inesorabilmente. Le sue certezze, probabilmente.
- Cosa…? – balbettò incerto, - Che…? Non vuoi…?
- Ma non voglio cosa?! – sbottò Fler, afferrandolo per le spalle e ribaltandolo nell’altra metà del letto senza troppe difficoltà, - Ma che avevi in mente di fare?
- Scopare! – rispose lui, allibito, mettendosi istantaneamente seduto e fissandolo con terrore e raccapriccio, come fosse una creatura aliena.
- Cosa?! – strillò Fler, tirandosi perfino indietro in una posa schifata, - Ma con chi?! Con me?!
- Vedi qualcun altro in questa stanza?! – ribatté Chakuza, sempre più allibito, - Pensavo che fosse per questo che mi avevi portato qui!
- Che?! Ma quando mai ti ho detto esplicitamente o implicitamente che volevo venire a letto con te, scusa?! – indagò Fler, peraltro vagamente incuriosito dal suo processo mentale a riguardo.
- Ma non lo so, mi hai portato in camera tua…
- …perché non ci sono altre camere da letto!
- E ti sei spogliato davanti a me!
- Ma perché, tu in genere vai a letto vestito?!
Si fermarono entrambi, guardandosi con ansia crescente per qualche secondo. Improvvisamente, niente era più sicuro. Soprattutto per Chakuza, che credeva di aver trovato la soluzione dell’enigma e invece si ritrovava di nuovo con in mano esattamente ciò da cui era partito, un ragazzino mai cresciuto che la sua presenza avrebbe palesemente devastato se avesse deciso di rimanergli intorno anche solo per due minuti in più dello stretto necessario, ammesso che già lo stretto necessario non fosse un periodo troppo lungo.
- …ok, scusami. – cedette per primo, distogliendo istantaneamente lo sguardo, - Non so cosa m’è preso. Cioè, sì, lo so, in realtà. – sospirò profondamente, - Ho pensato di risolvere con te nello stesso modo in cui risolvo generalmente nella vita.
- Che intendi dire? – chiese Fler, stendendosi sul letto e voltandosi su un fianco per guardarlo, perfettamente a proprio agio, come se fra loro non fosse mai successo niente di tremendo o che avrebbe giustificato Bushido a tagliare le mani a Chakuza quando e come avesse preferito.
Chakuza lo imitò, stendendosi al suo fianco ed incrociando le mani dietro la nuca, perdendosi a fissare il soffitto per non dover fissare lui.
- È quello che faccio. – disse quindi, - È il mio lavoro. Vado a letto con gli uomini. È così che mi guadagno da vivere.
- …senza offesa, Chaku, - ridacchiò un po’ Fler, - non che io abbia esperienza, a riguardo, ma non ti viene affatto bene.
Chakuza rise a propria volta, piegandosi un po’ su se stesso prima di tornare a stendersi, visibilmente più rilassato rispetto a prima.
- Questo spiega perché mi hai trovato sporco e ubriaco perso a dormire nell’androne del tuo palazzo. – rispose. Fler rise a propria volta, annuendo brevemente.
- Senti, io non voglio niente, da te. – lo rassicurò quindi, - Sentiti libero di restare quanto vuoi, io non ho problemi. Sei simpatico, comunque. E cucini bene. Potresti diventare la mia cuoca! – buttò lì con aria ilare, prima di concedersi uno sbadiglio enorme e borbottare un “buonanotte” vagamente infantile, per poi poggiare la testa sul cuscino e cadere istantaneamente nel più profondo dei sonni.
Chakuza lo guardò in silenzio per qualche secondo, sorridendo appena. Dopodiché, quando fu certo che si fosse addormentato davvero, decise di prendere alla lettera il suo suggerimento: il più silenziosamente e discretamente possibile, muovendosi così lentamente da arrivare quasi a dilatare il tempo, si alzò dal letto, ed in punta di piedi raggiunse la cucina. Dove cominciò immediatamente a rassettare.
*
- Chaku, ma cosa hai combinato?! – rise ad alta voce Fler, e fu effettivamente la prima cosa che fece quella mattina entrando in cucina e trovandolo ancora intento a lucidare le piastrelle già bianchissime dietro il piano cottura. Prima ancora di sbadigliare o grattarsi la testa o sistemarsi l’attrezzo come tutti gli esseri umani normali, prima ancora di prendersi magari un attimo per ricordarsi come quello sconosciuto fosse arrivato nel suo appartamento e, conseguentemente, nella sua cucina, Fler lo chiamò “Chaku” e cominciò a ridere.
Chakuza alzò lo sguardo e poggiò sul ripiano la pezzuola umida che stava utilizzando, voltandosi a guardarlo. Non aveva dormito neanche un minuto, quella notte, ma stranamente non era stanco. Non si sentiva né pesante né svogliato come spesso gli capitava svegliandosi alle sei del pomeriggio nel suo letto cencioso, nel baraccone di lamiere che lui, Nyze e Kay usavano come abitazione. E sì, il fatto che l’ingresso di un palazzo a caso in una via a caso di Berlino fosse decisamente più confortevole dell’unico luogo che potesse in qualche modo chiamare “casa” la diceva lunga su quali fossero le sue condizioni di vita generali.
- Ho pulito un po’. – rispose con una certa naturalezza, ricevendo in cambio una risata se possibile perfino più convinta.
- Ma era già tutto pulito, a parte i piatti! – gli fece notare Fler, - E quelli li avrebbe comunque puliti Bushido oggi!
- Senza offesa, eh, - rise Chakuza, asciugandosi le mani su un panno asciutto e versando il caffè che aveva già preparato in una tazzina che poi porse a Fler, - ma fino a ieri io vivevo in un mondo in cui Bushido era un uomo duro e potente, che sapeva il fatto suo e teneva in scacco tutta Berlino. Vorrei ritornare a vivere in quel mondo, quando sarò uscito da questa casa, perciò smettila di ricordarmi che in realtà stiamo parlando della tua donna delle pulizie.
- Se Bushido ti sentisse adesso, non si limiterebbe a tagliarti le mani. – osservò Fler con interesse quasi accademico, come stesse davvero ponderando l’ipotesi. Proprio in quel momento, neanche l’avessero invocato, una chiave girò nella serratura della porta d’ingresso e quest’ultima, pochi secondi dopo, si spalancò sulla figura gioviale e, per Chakuza, del tutto inedita in queste vesti, di Bushido.
Indossava un paio di jeans strappati in più punti e una vecchia maglietta scolorita, un paio di occhiali da sole e normalissime scarpe da tennis un tempo bianche ma ormai tendenti più che altro al grigiolino tipico che le colora dopo un po’ d’anni di utilizzo. Portava in mano un sacchettino di carta vagamente macchiato d’olio sul fondo e sembrava, in generale, un uomo che si fosse svegliato una decina di minuti prima della propria fidanzata ed avesse deciso di farle una sorpresa indossando a casaccio le prime cose che gli fossero capitate sotto mano per uscire a comprarle la colazione da portarle a letto.
Entrò all’interno dell’appartamento chiudendosi la porta alle spalle con estrema naturalezza, come fosse un’abitudine, cosa della quale peraltro Chakuza non si sognava nemmeno di dubitare. Ignorò platealmente la sua persona, come se per lui fosse normalissimo anche trovare sconosciuti nella cucina di Fler quando passava a trovarlo alle sette del mattino, preferendo dirigersi immediatamente verso di lui, girargli un braccio attorno alle spalle e tirarlo contro di sé, lasciandogli un bacio su una tempia.
- Ti ho portato la colazione, piccolo. – disse placido, posando il pacchetto sul tavolo ed osservando Fler mentre, con aria golosa, lo apriva e rovistava all’interno, tirandone fuori una ciambellina zuccherata con uno squittio entusiasta, - Il signore qui non ha fatto niente di sconveniente, vero?
Fler gli lanciò un’occhiata illegalmente divertita e Chakuza pensò “ecco, ci siamo, adesso gli racconterà di quello che ho fatto stanotte e quest’uomo mi taglierà le mani, e dovrò essere grato se si fermerà soltanto a questo”. Invece, Fler si limitò a girare un sorriso decisamente meno pestifero verso Bushido per rassicurarlo sbrigativamente.
- È stato bravissimo. – disse con sicurezza, - Un vero gentiluomo.
Chakuza tirò un discreto sospiro di sollievo e rimase un po’ in disparte, sentendosi vagamente e disagio e fuori luogo per la prima volta da quando era entrato in quella casa, mentre Bushido s’informava gentilmente con Fler su quali fossero i suoi programmi per la giornata – nello specifico, fare colazione, lavarsivestirsiuscire, detto tutto di seguito come avesse avuto cinque anni, fare un giro nei paraggi, poi tornare a casa e mettersi a giocare alla Wii.
- Ottimo. – approvò Bushido con un sorriso ed un cenno del capo, - Allora poi passo a prenderti per pranzo. Adesso accompagno il tuo nuovo amico a casa sua, d’accordo? Tu vatti a mettere qualcosa addosso. – suggerì, anche se più di un suggerimento sembrò l’ordine gentile di un padre bonario. Fler, comunque, sembrava abbastanza incline all’obbedienza, con lui, tant’è che salutò Chakuza con un mezzo abbraccio piuttosto caloroso e poi sparì in corridoio, con l’immancabile sorriso sempre sulle labbra.
Chakuza si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo, evidentemente in imbarazzo.
- Non c’è bisogno che mi accompagni, signor… signor Ferchichi. – provò.
- Bushido. – sorrise quello, perfettamente a proprio agio, - E non è un disturbo.
- No, ma davvero. – provò ad insistere lui.
- No, ma davvero. – insistette anche Bushido. La sua insistenza ebbe la meglio.
Rimasero perlopiù in silenzio mentre abbandonavano l’appartamento – dal bagno si sentiva arrivare lo scrosciare allegro dell’acqua e la voce di Fler che cantava a squarciagola il ritornello di Livin’ La Vida Loca, e Chakuza si ritrovò senza un perché a chiedersi se gli sarebbe dispiaciuto uscire da lì e non trovare nessuno ad aspettarlo – ed anche quando furono saliti in macchina – una BMW metallizzata incredibilmente bassa e lunga che doveva essere costata più di tutti i soldi che Chakuza aveva visto nel corso della sua intera esistenza – si limitarono ad una mezza conversazione di circostanza basata più che altro sulle indicazioni che Chakuza si sentiva in dovere di dare e che Bushido, d’altro canto, non sembrava avere alcun bisogno di ricevere.
Il perché Chakuza lo capì solo quando furono arrivati di fronte al suo baraccone e Bushido, dopo aver fermato la macchina, chiuse le sicure a tutti gli sportelli, voltandosi a guardarlo con aria estremamente seria, le sopracciglia aggrottate dietro gli enormi occhiali scuri.
- Io lo so chi sei. – gli disse tetro, e Chakuza si sentì scorrere un brivido di puro terrore lungo tutta la schiena.
- Mi… dispiace. – accennò quindi, anche se era piuttosto incerto sulla valenza da dare a quelle scuse. Di cosa avrebbe dovuto scusarsi, di esistere? Di fare la puttana? Non era granché chiaro nemmeno a lui stesso, per cui naturalmente non risultò chiaro neppure a Bushido, che inarcò un sopracciglio.
- C’è qualcosa di cui tu debba dispiacerti? – chiese dubbioso, e Chakuza si ritrovò a sollevare le braccia e prendere a gesticolare confusamente con una tale furia da spaventarsi da solo.
- No! – proruppe con enfasi, - No, assolutamente! Sono stato bravo! Lo giuro!
Bushido tornò a sorridere, le braccia abbandonate con naturalezza sul volante.
- Bene, allora. Ciò che volevo dirti è che so chi sei e so come si comportano quelli come te con quelli come Fler. Avrai capito, passando con lui la notte, che si tratta di un ragazzo abbastanza ingenuo.
Chakuza annuì, anche se in realtà era una consapevolezza che aveva acquisito ben prima di passarci la notte insieme.
- È un bravo ragazzo, signor Ferchichi. – disse con reverenza.
- Bushido. – lo corresse ancora lui, e Chakuza si morse la lingua. – Non voglio certo vietarti di rivederlo, se vorrai. Fler si affeziona facilmente alle persone e sono quasi certo che sarà lui a voler rivedere te quanto prima, ed è una cosa che io, naturalmente, non posso impedire. – Chakuza annuì ancora, anche se ebbe l’impressione che Bushido parlasse così solo per falsa modestia, come volesse lasciarti intendere che c’erano cose che nemmeno lui poteva controllare, quando invece le controllava eccome, anche solo terrorizzando gli astanti come stava abbondantemente facendo in quel momento. – Tutto quello che ti raccomando è di non farlo soffrire. Potrei diventare cattivo, allora.
Lo stesso brivido che l’aveva costretto a tremare prima risalì lungo la sua schiena, stavolta dal basso verso l’alto, costringendolo a tremare ancora. Annuì sbrigativamente, come se la sola idea di farlo aspettare fosse inconcepibile.
- Certo, signore. – disse obbediente, - Naturalmente. Non mi sognerei mai.
Bushido sorrise ancora, con maggiore convinzione, e tolse la sicura agli sportelli.
- Buona giornata, dunque. – lo salutò affabile.
Chakuza mormorò qualcosa in risposta e si affrettò ad uscire dall’auto, sentendo immediatamente tornare addosso stanchezza e pesantezza quando posò la mano sulla porta semi-scardinata del baraccone. La scostò appena, consapevole del fatto che, se avesse solo provato ad aprirla completamente, gli sarebbe rimasta in mano, e fu altrettanto attento a richiudersela alle spalle dopo essere sgattaiolato all’interno. Lanciò un’occhiata ai due lati opposti della stanza, assicurandosi che entrambi i giacigli di Nyze e Kay fossero occupati, e da Nyze e Kay, non da barboni piombati lì a caso durante la notte, e quando fu certo che, sotto le coperte cenciose, riposavano proprio loro due, si lasciò andare con un sospiro sul proprio letto, o almeno, su ciò che si ostinava a chiamare tale. Il materasso cigolò rumorosamente sotto di lui, e lui non poté fare a meno di pensare a quanto silenzioso fosse stato invece quello di Fler. E quante volte più comodo fosse, naturalmente.
Ciononostante, dopo una decina di minuti il sonno si fece tale che si rassegnò a chiudere gli occhi. Cadde addormentato senza neanche accorgersene, nel giro di dieci secondi.
*
- Sarà morto? – disse la voce di Kay, ancora un po’ impastata dal sonno, accogliendolo verso le nove di quella sera.
- Ma no che non è morto, coglione. – la rimbrottò la voce di Nyze, anche lei vagamente impastata, ma più che altro perché il suo proprietario sembrava impegnato a masticare qualcosa di non meglio definito.
Mugugnando con forza in segno di protesta, Chakuza aprì un occhio e con quell’unica finestra aperta sulle brutture del mondo – rappresentate in quel momento dai suoi due illustri coinquilini – cercò di trasmettere all’universo che tirava proprio una brutta aria e non era davvero il caso di dargli fastidio.
- Ah! Infatti ha aperto un occhio. – notò Kay, evidentemente poco incline a recepire il messaggio, di qualunque tipo esso fosse, - Ben svegliato, Chakuza! – lo salutò con entusiasmo, battendogli una pacca tanto forte quanto inopportuna sulla spalla, - Passato una bella nottata?
Chakuza grugnì qualcosa di vagamente somigliante ad un insulto e si rigirò su un fianco, tirandosi la coperta fin sopra la testa e desistendo meno di trenta secondi dopo, causa puzzo eccessivo. Da quant’è che non cambiavano quelle lenzuola? Mesi, almeno.
- Mi sa che non è stata una bella nottata affatto. – ghignò Nyze, avvicinandoglisi per scrutarlo con divertimento palese negli occhi e sbriciolandogli involontariamente – ma chissà poi quanto – addosso la fetta biscottata che stava trangugiando con la parsimonia di una formichina che raziona le scorte durante il gelido inverno.
- E sta’ lontano! – sbottò Chakuza, tirandogli una manata in piena fronte per allontanarlo dal suo letto, già abbastanza lurido senza dover aggiungere al tutto tracce di cibo, e rassegnandosi poi a tirarsi a sedere e stiracchiarsi un po’ nel tentativo di recuperare almeno un briciolo di lucidità, che tanto palesemente quei due non l’avrebbero lasciato in pace finché non si sarebbe deciso a scucire qualche informazione. Non era da lui uscire per le classiche quattro ore di lavoro notturno e non rincasare sfatto alle cinque del mattino. Non era da lui nemmeno tornare a mattina inoltrata con indossi vestiti nuovi palesemente non suoi, peraltro. – Non è stata una brutta serata. – si decise a confessare, gettando le gambe giù dal letto in un gesto repentino, prima di doversene pentire, - Direi più strana.
- Definisci strana. – ordinò Kay, saltando ai piedi del letto e facendo ondeggiare il materasso tanto da costringerlo a ricaderci sopra rotolando sulla schiena, sbattendo naturalmente la nuca contro la testiera.
- Kay, cazzo, ma datti una calmata… - borbottò lui, massaggiandosi il punto dolente, - Comunque voi come la definireste una serata in cui vi ubriacate fino a non riconoscervi manco quando vi guardate nelle vetrine dei negozi e alla fine di tutto passate la notte col pupillo di Bushido? – buttò lì con aria casuale, e prevedibilmente sul baraccone calò il silenzio.
- …definisci pupillo. – disse quindi Kay. Nyze lo spintonò giù dal letto.
- E piantala con questa storia delle definizioni! – sbottò prendendo il suo posto sul materasso, - Chakuza, che cazzo stai dicendo? – chiese quindi, tornando a rivolgersi a lui, gli occhi spalancati e colmi d’incredulità.
Chakuza scrollò le spalle, quasi a volergli lasciare intendere che alla fine non fosse poi niente di speciale.
- Questo tizio stranissimo, tipo, palesemente inadatto alla vita in genere, e viene fuori che Bushido lo conosce. – cominciò a spiegare, ma Nyze gli agitò entrambe le mani davanti alla faccia, interrompendolo all’istante.
- No, cioè. – disse quindi, - Tu hai conosciuto Fler. Tu hai conosciuto Fler!
Chakuza spalancò gli occhi e schiuse le labbra.
- …tu lo conoscevi? – chiese incredulo. Nyze lo fissò con aria ebete per un paio di secondi e poi si spalmò una mano sulla fronte, mugolando con evidente sofferenza.
- Ma con chi, - si lamentò, - con chi sono costretto a convivere?
Chakuza inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Se evitassi le sceneggiate e mi dicessi semplicemente cosa ti frulla per la testa…? – propose con aria scettica, lanciandogli un’occhiataccia poco compiaciuta.
- Tu vivi nell’ignoranza! – berciò Nyze, indicandolo con aria accusatoria, - Come fai a sopravvivere per strada senza sapere queste cose basilari! Basilari! – agitò le mani in aria, sconvolto, mentre Kay si accucciava sul pavimento accanto al letto e lo fissava con occhi vacui, come aspettandosi di vederlo cadere a terra rantolante in preda ad una crisi epilettica da lì a pochi secondi. – Bushido protegge Fler da quando era un ragazzino. Il tipo ha sempre vissuto nella bambagia per non so che promessa Bushido abbia fatto alla sua povera madre morente o qualcosa di simile… comunque il succo è che tu sei andato a letto con la cosa più importante che esista in tutto il mondo per quell’uomo! Non so se te ne rendi conto!
- Aspetta, aspetta! – strillò immediatamente Chakuza, prendendo a gesticolare furiosamente, - Hai capito male! Non ci sono andato a letto.
Nyze si interruppe immediatamente, lanciandogli un’occhiata sconcertata.
- Non ci sei andato a letto. – ripeté, come se soltanto dando voce al pensiero potesse pensare di potersi abituare all’idea.
- Non ci sei andato a letto?! – chiese Kay, la bocca spalancata in una perfetta o di meraviglia, - Cos’hai, sei malato? – si informò premuroso, alzandosi in piedi e premendogli una mano sulla fronte nel tentativo di saggiare la sua temperatura corporea.
Chakuza se lo scrollò di dosso in un gesto infastidito, scuotendosi tutto come un cane bagnato.
- No, non ci sono andato a letto. – ripeté in favore di entrambi, aggrottando le sopracciglia. - …non che non ci abbia provato, comunque.
- Che? – ridacchiò Nyze, - Ci hai provato pur non sapendo chi era? Ma non è che ti piace?
- Ti sei preso una cotta? – miagolò Kay, con l’aria di un bambino di cinque anni di fronte allo svago perfetto per le prossime cinque ore almeno.
- Non— niente del genere. – sbuffò lui, distogliendo lo sguardo. – È stato gentile, con me. Ero sfattissimo, pioveva in maniera assurda e lui, senza neanche sapere chi ero, mi ha preso in casa, mi ha offerto la cena, una doccia calda e un tetto sopra la testa.
- Ah! Ecco perché non puzzi. – constatò Kay con aria seria. Chakuza rispose con uno scappellotto sulla nuca.
- Volevo solo ricambiare la gentilezza. – concluse, scrollando le spalle. – E comunque non mi ha voluto, anzi, direi che mi ha proprio rifilato un due di picche colossale, per cui pace.
- Oh. – mugolò Kay, abbassando lo sguardo con aria quasi sinceramente ferita, - Mi dispiace, Chaku. – lo consolò, allungandosi a battergli un’amichevole pacca su una spalla. Chakuza gli tirò addosso il cuscino.
- Non è che mi abbia lasciato la ragazza, Kay. – sbottò infastidito, - Non ho alcun bisogno del tuo dispiacere. O di… qualunque cosa tu stia pensando adesso, Nyze. – lo avvertì, voltandosi a guardarlo per un secondo e trovandolo immerso in una profonda riflessione. Ma di quelle profonde davvero, a giudicare dalla ruga che gli si era disegnata in mezzo alle sopracciglia ed alle dita che accarezzavano insistentemente il mento affilato, come gli servisse un atteggiamento simile per favorire la messa in moto dei pensieri dentro la sua testa.
- No, è che stavo pensando… - cominciò lui con aria assente, e Chakuza scattò in piedi, allontanandosi verso il cesso a grandi passi.
- Non mi interessa. – ribadì per buona misura, entrando in bagno e chiudendosi la porta alle spalle. Nyze si avvicinò, e lui, seduto sulla tazza, sentì la porta scricchiolare pericolosamente sotto il suo peso. Doveva essercisi appoggiato contro, alla faccia dei cardini arrugginiti e vecchi di mille anni. – E stai lontano dalla porta, prima di sfondarla!
Nyze ebbe l’accortezza di spostarsi qualche centimetro più in là, poggiando sulla parete. Non che quest’ultima fosse poi molto più stabile di tutto il resto, ma almeno non correva il rischio di scardinarsi e crollargli sulla testa come invece gli scricchiolii della porta avevano minacciato di fare.
- Facevo solo qualche considerazione sparsa. – continuò, e Chakuza roteò gli occhi, corredando il tutto con un uggiolio sconfitto.
- Non mi interessa, Nyze, davvero. – ripeté pulendosi e alzandosi in piedi, meditando sulla possibilità di tirare l’acqua e non averne più per lavarsi e decidendo infine di rinunciare alla salvaguardia del cesso per continuare a sentire addosso la sensazione di pulito che la nottata in casa di Fler gli aveva regalato. Si posizionò davanti allo specchio, aprendo il rubinetto dell’acqua rigorosamente fredda ed accontentandosi del rivolo che ne venne fuori per darsi una sciacquata veloce, ripensando con nostalgia crescente al bagno piastrellato, lucido, bianchissimo e profumato di casa di Fler.
- Ma sono più che altro curiosità, niente di che. – continuò Nyze, ignorandolo completamente. – Tipo, per dire, come vi siete trovati tu e Fler? In generale, dico.
- Abbastanza bene, grazie. – rispose Chakuza, cercando di concentrarsi sul proprio aspetto e rendendosi conto che rendersi più presentabile per andare in strada, quella sera, sarebbe stato meno difficile del solito: la sua pelle era meno ruvida, i vestiti che aveva addosso erano palesemente costosi e ben tenuti, e profumavano di buono. Sarebbe stata una serata proficua.
- E che tipo è? – chiese ancora Nyze, mentre Chakuza si osservava di profilo, da un lato e poi dall’altro. – A parte quella cosa dell’essere palesemente inadatto alla vita di cui parlavi prima.
- La sua inabilità a vivere è la parte più importante di lui. – disse senza pensarci, sistemandosi sbrigativamente i vestiti addosso, - Sembra un ragazzino di cinque anni, potresti fargli credere tutto e il contrario di tutto solo sorridendogli un po’.
Nyze rimase in silenzio per qualche secondo.
- Ed è un bel ragazzo? – chiese quindi. La sua domanda cadde nel silenzio.
- In che senso? – ritorse Chakuza poco dopo.
Nyze cambiò posizione e la parete scricchiolò in segno di protesta.
- Non è una domanda difficile, Chaku. – disse lui, - È un bel ragazzo?
Chakuza spalancò la porta, affrettandosi ad affacciarsi sulla stanza. Kay era ancora seduto per terra accanto al letto, e lo osservava senza espressione. Si voltò a cercare gli occhi di Nyze, appoggiato alla parete al suo fianco, apparentemente l’immagine stessa della purezza, ma Chakuza conosceva i suoi polli e sapeva che non c’era da fidarsi.
- Non è roba per te. – disse immediatamente, sentendo nella propria voce una nota di rabbia possessiva che non aveva la minima ragione di esistere.
Nyze sorrise come uno che aveva un motivo molto valido per cui sorridere.
- Non pensavo di allungare le mani. – lo rassicurò con voce soffice e suadente, - Non mi permetterei mai.
Chakuza spalancò gli occhi e credette di capire. Si disse che no, non poteva essere vero. Poi guardò Nyze con più attenzione, e capì che invece sì, era verissimo.
- Nyze. – disse piano, cercando di razionalizzare invece di scaraventarlo contro la parete più lontana come sarebbe stato più giusto, - Ho visto dove i tuoi pensieri mi stavano portando e non m’è piaciuto. Facciamo finta che tutto ciò non sia mai accaduto, vuoi?
- Oh, andiamo! – sbottò Nyze, roteando gli occhi e staccandosi dalla parete per andare a svaccarsi sul proprio letto con aria sfatta, - Non sai nemmeno cosa voglio proporti!
- No, ma sono sicuro al cento percento che si tratti di qualcosa che farebbe del male a Fler. – rispose lui, aggrottando le sopracciglia, - Gradirei evitare.
Nyze gli lanciò un’occhiata di traverso, stupito.
- Ma ti senti? – chiese con malcelato schifo, - Che cos’è, hai trovato il grande amore della tua vita?
Chakuza si ritrasse di qualche centimetro, sulla difensiva.
- Non ho detto niente del genere. – borbottò incerto, riascoltando in replay le proprie stesse parole nella propria testa e cercando di ignorare la vocina che, dal fondo del suo petto, gli diceva che invece sì.
- No, perché ti comporti come se fosse così. – rincarò la dose Nyze. – Chi è questo tipo, mh? Chi cazzo è, cosa cazzo ha fatto per te? Ti si è portato in casa, ti ha lavato, ti ha nutrito. Sei stato il suo giocattolino per una notte, Chakuza, niente di più. Non ti si è scopato, ma non è stato diverso da nessuno dei clienti con cui sei stato. Noi siamo i tuoi compagni, i tuoi amici, i tuoi alleati da una vita. E ci butteresti sotto un treno pur di non far soffrire Fler. – lo rimproverò, facendogli il verso.
Chakuza si strinse nelle spalle, fissandolo a muso duro.
- Non vi butterei sotto un treno, siete praticamente la mia famiglia. – rispose irritato, - Come puoi mettere in dubbio una cosa del genere?
Kay strisciò sul sedere, rigirandosi per poterli guardare entrambi più facilmente.
- Non capisco cosa sta succedendo. – disse con una certa franchezza, a bassa voce. Chakuza gli lanciò un’occhiata incerta. Era così sciocco, così giovane. Ovviamente lui e Nyze venivano prima di tutto il resto. Non era neanche una questione da discutere.
- Allora senti cosa faremo. – disse Nyze, la voce nuovamente affabile, - Hai idea di cosa potrebbe significare per noialtri avere Bushido in pugno? Avremmo una casa vera, con acqua sufficiente per lavarci ogni volta che ne avessimo bisogno. Mangeremmo del buon cibo e magari, forse, potremmo anche smettere di dare via il culo e l’uccello per soldi. Intendo, magari riuscirebbe a trovarci un posto dirigenziale, o che so io.
- Nyze… - lo interruppe Chakuza con un lamento stanco, massaggiandosi le tempie e chiudendo gli occhi, - Ma di cosa stai parlando, un posto dirigenziale…? Ma hai idea di quello che mi stai chiedendo?
- Sì, ne ho un’idea molto precisa, Peter. – insistette lui, alzandosi dal letto ed avvicinandoglisi con decisione. Chakuza lo scrutò con un po’ di paura. L’aveva chiamato Peter, e questo non poteva che lasciar supporre che stesse per fargli un discorso molto, molto serio. – Questa vita che facciamo è veramente una vita di merda. Non è una vita che puoi fare per sempre, ti ammazza prima. Abbiamo bisogno di tornare alla normalità, Peter, ma non possiamo andare da Bushido e chiedergli un lavoro diverso da quello che abbiamo, non è così che funziona. Quell’uomo ammazza i dissidenti sparandogli alla nuca nei vicoli delle strade. Se vogliamo che faccia qualcosa per noi, dobbiamo tenerlo per le palle.
- Ragazzi, ma di che cosa stiamo parlando? – chiese Kay, con aria palesemente preoccupata, scattando in piedi e guardando alternativamente prima l’uno e poi l’altro, in attesa di una risposta.
Chakuza trattenne il fiato per qualche secondo, senza mai perdere il contatto visivo con gli occhi di Nyze.
- Già. – disse quindi. Avrebbe voluto suonare caustico e astioso. Suonò soltanto come un soldato in attesa di chiarimenti sugli ordini impartiti dal proprio superiore. – Di cosa stiamo parlando?
Nyze non sorrise trionfante come Chakuza si sarebbe aspettato. L’atmosfera cospiratoria della situazione aveva alterato i suoi sensi ed i suoi processi mentali, per un attimo aveva creduto di trovarsi in un film di mafia e la cosa non gli era piaciuta. Ma Nyze distolse lo sguardo e si sedette a tavola, congiungendo le dita davanti al naso, e per qualche secondo si limitò semplicemente a riflettere, come avesse un gran bisogno di raccogliere le idee, prima di esporre il proprio piano.
- Potresti tornare da lui. – propose, fissando ostinatamente un punto vuoto sulla parete di fronte a sé, - E vedere come gira. Non voglio prenderti in giro, non si tratta di fare qualcosa di onesto, ma d’altronde da quant’è che non fai qualcosa di onesto, Chaku?
Chakuza sospirò pesantemente, ammettendo quantomeno con se stesso che Nyze aveva ragione.
- Avrei preferito non dover fare niente di disonesto che coinvolgesse Fler. – rispose. Nyze gli lanciò un’occhiata dubbiosa, inarcando un sopracciglio. – Non mi sono preso nessuna cotta. – precisò lui, sedendosi di fronte a lui e guardandolo dritto negli occhi, - Solo che gli sono grato, pur per quel poco che ha fatto. Voi, comunque, - concluse con un mezzo sorriso, - venite prima.
Nyze rispose al suo sorriso con uno ugualmente caloroso, e Kay, in piedi dietro di lui, pur continuando palesemente a non capire un accidenti di quanto stesse accadendo, fece lo stesso. C’erano dei momenti in cui Chakuza li odiava entrambi, o meglio, non riusciva a sopportare l’idea di dover dividere il proprio spazio vitale con loro. Ma c’erano altri momenti, ce n’erano stati tanti, in cui la loro presenza gli era sembrata indispensabile, e lo era stata davvero. Momenti in cui faceva troppo freddo per stare fermi, momenti in cui bisognava parlare tutta la notte per non avvertire i morsi della fame, momenti in cui si stracciava un paio di pantaloni e si mettevano insieme i risparmi di tutti per comprarne uno in sostituzione. Non poteva mettere da parte tutto questo per il calore delle mani di un ragazzino a caso. Sospirò profondamente.
- Sarà facile, per te. – disse Nyze, battendogli una pacca su una spalla, - Ci sai fare, con gli uomini. Ti cadrà ai piedi in un istante.
Chakuza sorrise fra sé. Non era proprio sicuro che sarebbe andata così, e qualcosa, nel fondo del suo petto, si stava agitando, rendendolo irrequieto. Si costrinse a cercare di ignorare almeno quello, e poi finì di prepararsi per uscire.

continua...