rp: cassandra steen

Le nuove storie sono in alto.

Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Commedia.
Pairing: Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Tom/Cassandra.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Het, Angst.
- "A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri."
Note: Salve O/ Qui parla l’autrice che palesemente non avrebbe mai dovuto scrivere questa storia, perché nel farlo s’è strappata il cuore dal petto più e più volte nel tentativo di sopravvivere a Tom. Cosa peraltro impossibile, perché Liz lo ama e vederlo soffrire la distrugge. Oltretutto, fare sia a Tomi che al Billshido ciò che è stato loro fatto in questa shot era palesemente mestiere di Tabata. Liz gliel’ha rubato perché le piaceva Epic!Tomi sul finale. E poi Tomi ha deciso di fare ciò che voleva di queste otto pagine, ficcandoci dentro dosi esagerate di Fler – l’autrice se ne scusa – e follie varie ed eventuali, girando attorno al punto per una quantità indecente di tempo prima di arrivarci. Speriamo solo che riusciate a sopravvivere a tutto questo, ecco. Fedy, sappi che ti amiamo per il tuo contegnoso stoicismo. E… insomma ;_; So che è dura, ma non abbandonateci *sparge amore e Fler in dosi uguali per tenersi vicine le fangirl*
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I’M AN OUTSIDER OUTSIDE OF EVERYTHING

Per sapere che Bushido era ancora vivo, io ho dovuto fisicamente estorcere l’informazione a mio fratello, costringendolo in un angolo e schiacciandolo fra me stesso e la parete intrappolandolo fra le mie braccia finché non si fosse deciso a parlare e raccontarmi tutto. È stato in questo modo che ho appreso che io e lui eravamo venuti a conoscenza della cosa nello stesso modo, cioè attraverso la dannata rivista.
Quando mi sono ritrovato quella copertina davanti, la prima cosa che ho pensato è stata “Che cazzo, Bushido non andrebbe mai in giro con una fottuta coda”. E quindi, a quello che stavo guardando, non ho dato un centesimo.
Ho chiamato Bill, però, perché supponevo potesse avere voglia di smadonnare un po’. Cioè, trovi una roba così su una rivista del cazzo, ti viene un po’ voglia di tirare giù i santi uno per uno e dire loro cosa esattamente pensi delle loro sacre persone.
E invece niente. Chiamo, squilla, lui non risponde. E io mi preoccupo, ovviamente. Perché penso “Dio mio, se Bill è in quel periodo del mese in cui finge di avere il ciclo per ricordarsi che il suo obiettivo primario è diventare il più possibile donna senza farsi tagliare via l’uccello, allora ci sta anche che l’abbia presa un po’ tanto male. E quindi magari, più che avere voglia di tirare giù i santi, ha avuto voglia di piangere”.
Insomma, alzo il culo e mi muovo. Se Bill sta piangendo fino a sputare i polmoni, mi dico, è giusto che non stia da solo a farlo. Penso: magari se mi sbrigo arrivo pure prima di quella piaga sociale di Chakuza, che al momento, peraltro, sta così fottutamente appiccicato al culo di mio fratello da darmi da pensare voglia farci tutt’altro che starci solo appiccicato, a quel culo. Prima o poi dovrò prenderlo di petto e dirgli che è inutile che ci speri, a mio fratello piacciono alti, scuri e pericolosi, e lui non è niente di queste tre cose. Fler – che pure è tanto bianco che, appena fa un po’ di fatica, tira fuori un paio di guanciotte rosse neanche fosse Heidi che sono una cosa spassosa – al suo confronto è una minaccia molto più consistente. Anche se a Fler potrei anche darlo, mio fratello. Anche perché, tanto per cominciare, sa maneggiarlo, che con Bill non è una cosa così scontata. Anche Bushido, a volte, faticava a domarlo. Fler invece ci va in scioltezza. Senza problemi. E poi, andiamo, è Fler. Palesemente non potrei mai rifiutargli nulla.
Comunque, niente. Arrivo a casa sua e mi faccio tutto un filmino per il quale, quando mi aprirà e vedrà che sono io, mi si getterà fra le braccia chiamandomi piano fra i singhiozzi – “Tomi, Tomi!” – ed io potrò fare la parte del fratello maggiore adulto, maturo e comprensivo – che poi mi si adatta un casino, perché mi fa sempre bellissimo – e consolarlo stringendolo forte ed accarezzandogli i capelli, per poi piazzarlo con una pizza in grembo davanti a The Notebook fino a rincoglionimento totale e successiva nottata passata a dormire avvinghiati sul divano. Come da copione, insomma.
E invece niente, di nuovo. Mi accoglie il vuoto, Bill non c’è, ‘sticazzi. Medito se tornarmene a casa, ma poi mi dico “che diamine, magari era fuori e non lo sa ancora. Allora, a questo punto, è meglio che mi trovi qui, così potrò essere io a dirglielo”. E giù altri filmini con me – fratello perfetto – che mostro quella roba a Bill – piccolissimo e sconvolto – e dopo lo rassicuro dicendogli “vedrai, ora ne parliamo con David. Li lasciamo in mutande, quei bastardi”.
Comunque, resto lì armato di buone intenzioni e di infinita pazienza, ad aspettare che mio fratello torni da… dovunque si trovi. E resto lì le ore. Tant’è che a un certo punto mi rompo pure le palle ed uso il doppione delle chiavi per salire e infilarmi nel suo appartamento, dove mi svacco su uno dei divani e poi continuo a restare in attesa finché non sento il rombo del motore dell’Audi di David, che ormai conosco a memoria. E mi chiedo, in effetti, cosa ci faccia Bill con David. Però sono troppo cretino, forse, o forse troppo ingenuo, e comunque quella cosa sulla rivista non l’ho mica presa così sul serio, perciò tutto ciò che faccio è saltare in piedi e muovermi anche con aria piuttosto rabbiosa verso la porta, spalancandola nello stesso identico momento in cui mio fratello viene fuori dall’ascensore.
Disfatto.
Non si aspetta di vedermi, e quando mi inquadra spalanca gli occhi arrossati e stanchi.
- Tomi… - sussurra appena, immobilizzandosi sulla porta. – Come… perché-
- Dove cazzo sei stato?! – lo attacco io, preoccupato dai suoi lineamenti tesi e dalle tracce evidenti di pianto che ancora gli rigano le guance, - Cristo, non hai neanche portato con te il telefono! Mi sono preoccupato!
Bill si passa una mano sugli occhi, sospirando profondamente, e poi mi supera, infilandosi nel niente di spazio che c’è fra il mio corpo e lo stipite della porta.
- Tomi, per favore… - mugola, dirigendosi verso il frigorifero ed aprendolo alla ricerca di qualcosa da bere, - Oggi non è proprio giornata.
- Cazzo, no che non è giornata. – borbotto, e fanculo a tutti i buoni propositi del dirglielo con tatto. – Hai visto il Bravo di oggi?
Bill riemerge dal frigorifero con un bottiglia d’acqua in mano, e appena sente la parola “Bravo” si congela sul posto.
- …l’ho visto. – risponde in un soffio, senza guardarmi.
- Che stronzi, mh? Ora viene fuori che Bushido è risorto. – butto lì. E lo faccio con cattiveria, visto che quando qualcuno in qualche parte del mondo pronuncia il suo nome, Bill sta fisicamente male. – Il prossimo passo qual è, la santificazione?
Bill si volta a guardarmi con una calma raggelante. Non dice una parola, ma solo a cercare di leggere cosa c’è nel fondo dei suoi occhi mi salgono i brividi per tutta la schiena. Manda giù un altro sorso d’acqua, poi posa la bottiglia sul ripiano accanto al frigorifero e si asciuga le labbra col dorso della mano, come un bambino. È l’unica cosa che incrina appena la dignità glaciale e del tutto fuori luogo con la quale continua a parlare.
- Non è risorto. È lui.
E potrei ridere, dargli del cretino, mandarlo a fanculo o anche urlargli di piantarla di prendermi in giro. Ma non lo faccio. Perché quest’espressione qui io l’ho già vista, secoli fa. Anche se ormai stavo cominciando a dimenticarla.
Capisco che Bushido non può essere altro che vivo, perché questo è il suo Bill. Quello che s’era portato nella tomba. Ecco, adesso l’ha riportato fuori.
Bill guarda altrove e fa per evitarmi – lo vedo che si allontana verso la camera da letto, perfettamente intenzionato a non dire una parola di più sull’argomento – ma io decido che mi sono rotto i coglioni di non sapere cosa gira per la testa di mio fratello. Da quando mi sono mosso di casa non ho fatto che cercare di immaginare ciò che Bill avrebbe potuto fare o stesse facendo, e non ne ho presa una. Tutto sbagliato. E dire che un tempo riuscivo a capire quali sarebbero state le sue mosse ancora prima che lui le facesse. Ora non mi riesce nemmeno di immaginare cosa stia combinando nel momento in cui lo combina.
Mi alzo in piedi e mi muovo svelto verso di lui, piantando una mano sulla parete così improvvisamente che lui quasi va a sbattere contro il mio braccio. Si ferma appena in tempo e si volta a guardarmi con aria oltraggiata, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in una smorfia infastidita.
- Sono stanco. – mi informa atono, - Voglio andare a dormire.
- Non mi interessa. – rispondo io, sollevando anche l’altro braccio e intrappolandolo perché non possa sfuggirmi. – Cosa è successo?
- Niente. – ringhia a muso duro. Io aggrotto le sopracciglia e mi chino sul suo collo, annusandolo piano. Lui si scosta di pochissimo, trattenendo il respiro. Non è spaventato da ciò che sto facendo. È spaventato da ciò che potrei leggergli addosso.
- Hai scopato. – dico, tornando a guardarlo negli occhi, - Da quanto lo sai? Da quanto vi vedete?
- Non sono cazzi tuoi. – sbotta acido, e mi pressa le mani contro il petto nel tentativo di allontanarmi. Io batto i pugni contro il muro talmente forte che l’eco rimbomba per tutto l’appartamento silenzioso, e Bill mi guarda con aria sinceramente spaventata.
- Lo sono. – rispondo a voce bassa, gli sto così vicino che posso leggergli negli occhi qualunque cosa. Bill, ogni tanto, ha bisogno di essere costretto. – Come cazzo ha fatto? Perché l’hai visto? Perché ci hai scopato, Cristo santo? Da quanto è tornato?
Bill mugola e distoglie lo sguardo, mordicchiandosi un labbro con aria incerta.
- Non… non lo so, Tomi. – biascica, stringendosi nelle spalle, - Non so niente, so solo che è qui. Non volevo-
- Non dire balle. – lo interrompo con un grugnito contrariato, - Forse davvero non sai niente, ma non venirmi a raccontare che non volevi andarci a letto. Non ci saresti andato. – sospiro e mi scosto appena. – Non ti ha spiegato proprio nulla?
Lui non risponde subito.
- Non gliene ho dato veramente il tempo. – ammette alla fine, sospirando pesantemente, - Dice di averlo fatto per me. Dice… che era preoccupato. Che l’ha fatto perché ero in pericolo. Ma era lui quello a cui avevano sparato! Non io! – riprende con più veemenza. Io penso distrattamente che Bushido era in casa di mio fratello, quando è morto, anche se poi non è morto davvero. Penso che, se di fronte a quella finestra non ci fosse stato Bushido, fra mio fratello e tutto il resto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Penso che Bill, come al solito, non stia riuscendo a vedere la situazione nel modo corretto – ricordandosi cioè che esistono altri cervelli ed altri modi di affrontare le situazioni oltre al suo. Così come non ha mai capito perché io abbia distrutto l’intera discografia di Bushido, quando mi ha detto che stavano insieme, non riesce a capire perché Bushido abbia deciso di distruggere la propria vita, quando ha scoperto che stare insieme a lui era troppo pericoloso. È evidente.
- …come ha fatto? – chiedo quindi, allontanandomi da lui e lasciandolo nuovamente libero di muoversi, - Come c’è riuscito?
- A sopravvivere? – chiede lui di rimando, sorridendo amaramente mentre ricomincia a respirare, - O a starsene nascosto fino ad ora?
Io rido appena.
- Entrambe le cose.
La voce di Bill mi fa eco con una risata uguale.
- Non so neanche questo. – risponde con un sospiro, - Però c’entra David.
- Gli ha offerto i propri organi in regalo? – scherzo, - L’ho sempre detto io che il modo in cui lo guardava non mi tornava…
- Ma no! – ride più apertamente Bill, coprendosi le labbra con una mano, - Non c’entra col fatto che sia sopravvissuto, credo. Però con tutto il resto sì.
Io annuisco e per la testa mi passano pensieri di ogni tipo – dall’andare a pestare David finché non mi abbia spiegato per bene in che cazzo di casino si sia andato a ficcare lui trascinandosi dietro noi tutti quanti insieme, all’andare a fare la stessa precisa identica cosa anche con Bushido, per gli stessi precisi identici motivi e con gli stessi precisi identici intenti – e mio fratello nel mentre smette di ridere – la sua risata si spegne sfumandosi nel silenzio come un vecchio disco di musica anni Sessanta o chessò io – e si lascia andare seduto sul divano. Non sembra più tanto intenzionato a restarsene solo a piangersi addosso, e questo mi sta bene, perciò mi siedo al suo fianco e gli passo un braccio contro le spalle, stringendomelo addosso e coccolandolo un po’.
- Tomi… - si lamenta a bassa voce, nascondendo il viso sul mio collo, - Ho fatto una cazzata enorme.
Io annuisco perché sì, me ne rendo conto che andare a letto con Bushido sia stata una mossa un tantino avventata. Però io, in quel momento lì, non so un cazzo. Io mi sto davvero solo illudendo – come al solito – di avere vinto. Di sapere cosa ci sia nella testa di mio fratello.
Probabilmente io ho smesso di sapere con esattezza cosa ci sia in quella testa a diciassette anni. E non ho più ripreso.
Che sia stata una mossa un tantino avventata, perciò, è tutto ciò che penso. E lo stringo un po’ di più, e quando gli dico “si sistemerà tutto” lo faccio credendoci. Proprio perché non so un cazzo. Non si sistemerà niente, invece. Adesso che osservo mio fratello sbiancare mentre Bushido gli dice che sa tutto, invece, è molto più chiaro che non si risolverà proprio un bel niente. Ed io, in tutto questo, riesco solo a pensare che Bushido sa molto più di quanto non sappia io.
A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri.
*
Cassandra è stata inizialmente solo una scopata, nonché l’unica cosa buona sia venuta fuori dalla frequentazione forzata di rapper cui mi ha costretto per lungo tempo il fatto che mio fratello andasse a letto col capobranco. Seriamente, io avrei fatto volentieri a meno di essere controvoglia risucchiato in un mondo che credevo il massimo del figo e tutto il resto, per scoprire che tutta la gente su cui avrei scommesso qualsiasi cosa era in realtà un manipolo di deficienti. Voglio dire, Chakuza è un cuoco. Eko un cretino. Io ero felice quando credevo che questa gente fosse gente pericolosa. Ero felice di odiare mio fratello perché stava infilandosi in un mondo oscuro e potenzialmente mortale. Ma questo ho potuto pensarlo per qualche mese, prima che – per forza di cose, perché ci mancava l’aria, altrimenti – io e Bill ricominciassimo a frequentarci e parlare. Quindi, tolti quei pochi mesi all’inizio, ho dovuto comunque fronteggiare più di due anni di frequentazione. Sarebbe stato veramente drammatico se, oltre alla distruzione dei miei miti infantili, io non avessi ricavato nient’altro.
Ok, ho conosciuto Fler, d’accordo, questo teoricamente sarebbe dovuto bastarmi anche senza Cassandra. Intendo, Fler è l’unica cosa che sia rimasta pressoché intatta di tutti i miei miti, perché è un figo davvero. Cioè, al di là di qualsiasi cosa si potesse dire di Bushido – compreso il fatto fosse palesemente un pedofilo; magari non violentatore, ma pedofilo di sicuro – era ovvio che lui fosse l’unico vero gangster del mucchio, in mezzo a gente che c’era entrata per caso. E Fler è uguale, però meglio perché non è uno stronzo intollerabile come invece Bushido è sempre stato, è ancora e sempre sarà se la Morte non si accorge di esserselo lasciato sfuggire e non viene a riprenderselo. Al di là di Fler, comunque, sono tutti veramente da prendere e buttare nel cesso, dal lato dell’Ersguterjunge. Ed infatti Fler non è dell’Ersguterjunge. Quelli dell’Aggro mi sono rifiutato di incontrarli, comunque; non vorrei ritrovarmi a scoprire controvoglia che Sido fa la maglia guardando Verbotene Liebe in pausa pranzo.
Comunque. Cassandra, dicevo. È un po’ inquietante che io volessi parlare di Cassandra e sia finito a raccontare quanto profondamente apprezzi Fler. È che lui è tipo una roccia, avreste dovuto vederlo quel giorno in cui è venuto a prendere Bill a casa per portarlo fuori – c’è stato un periodo, dopo quella notte tremenda, in cui solo lui portava Bill fuori, perché Bill voleva in giro solo lui – ed io ero ancora preso malissimo per tutta la faccenda di Saad – “la faccenda di Saad”, sentitemi, sono costretto a parlare per eufemismi, sennò non riesco – e quindi ho ringhiato e pure parecchio, sono arrivato quasi a buttarlo fuori di casa, e lui niente, mi si avvicina con quei fanali azzurri piantati nei miei occhi e fa “non ti ho chiesto il permesso di portare fuori tuo fratello, ragazzino”, che io quando mi sono sentito chiamare in quel modo mi sono pure sentito un sacco a disagio, perché boh, il suo “ragazzino” è Bill e va bene essere gemelli, ma non confondiamo, e comunque niente, mi sono zittito all’istante perché comunque ha un modo di parlarti che è pacato tranquillo pure quando vedi che se ti rifiuti di obbedire ti fa di tutto. Fa un sacco paura Fler, quando ti guarda e ti parla così.
Ma io volevo parlare di Cassandra.
Cassandra era una donna di Bushido. Problema numero uno degli uomini con carisma: quando ti mettono le mani addosso è la fine, una volta è per sempre. Quindi, niente, quando io ho conosciuto Cassandra lei ovviamente già non ci stava più con Bushido, però era ancora una delle sue donne, e per questo motivo metterle le mani addosso è stato assolutamente impossibile fino a quanto Bushido non s’è tolto dalle palle. Contando il fatto che era una dei pochissimi membri della famiglia allargata di Bushido con cui Bill andasse perfettamente d’accordo, e contando il fatto che per questo gravitava tantissimo intorno a casa nostra, potete bene immaginare la tortura di vedere questa bellezza color caramello svolazzarmi sotto il naso a intervalli regolari di una volta ogni due giorni, senza poterla toccare neanche per sbaglio pena morte istantanea preceduta da tortura pubblica nel cortile della Villa Gialla.
Insomma, per tutto il periodo in cui Bill è stato con Bushido, io ho approfittato del fatto che tutti – Bushido compreso – fossero distratti dall’omosessualità emergente del loro capo, ed ho cominciato ad accerchiare Cassie. Non ho fatto nient’altro ed in realtà anche quel poco che ho fatto non è stato niente di eclatante. C’è questo momento meraviglioso, nel corteggiamento, che sta proprio all’inizio; è un momento in cui tu non fai praticamente nulla, ti limiti a dare dei segnali e restare in attesa per vedere se quei segnali sono stati colti e accettati. Perciò c’è stato questo periodo stupendo in cui io e Cassandra non abbiamo fatto che sorriderci.
Non è che le morissi dietro, eh. Anche perché, con l’ombra scura di Bushido a pendere sopra le nostre povere teste innocenti, non è che mi aspettassi davvero qualcosa. Però era un’opportunità, era bella e tanto valeva tenerla da conto. Al più mi perdevo in qualche epica fantasia nella quale, in seguito ad un’esplosione particolarmente forte di tensione sessuale irrisolta, finivo per schienarla contro una parete senza pensare alle conseguenze di quel gesto; a quel punto, Bushido ci beccava ed il resto della fantasia ero io che restavo a fronteggiarlo a testa alta, riempiendolo di botte sotto lo sguardo estasiato sia di Cassandra – che, appena concluso il pestaggio, mi saltava al collo ringraziandomi per averla liberata dal giogo del crudele dittatore – che di Bill – il quale poi diceva a Bushido ancora in terra e sanguinante qualcosa di meraviglioso tipo “Anis… ti credevo un uomo forte”, per poi chinare il capo ed allontanarsi con me e Cassandra nella luce del tramonto, verso un futuro migliore.
Volete far felice un uomo? Dategli un pomeriggio da solo sul divano e la libertà di immaginare sesso, botte e dichiarazioni epiche nelle quantità che preferisce. Avrete salvato una vita. Io me la sono salvata così, per dire – ok, magari non la vita, ma la razionalità di sicuro; c’erano questi momenti in cui la presenza di Bushido, per quanto potessi sforzarmi di ignorarla, era così ingombrante che non mi sentivo libero di fare niente. Sono cose che possono mandarti al manicomio. Soprattutto se non te le sei scelte.
Comunque poi Bushido è morto, ed io non è che abbia avuto granché modo di pensare a Cassandra, tra mio fratello che si deprimeva, mio fratello che cominciava ad impiantarsi notte e giorno a casa del dannato Chakuza e mio fratello che finiva per uccidere libanesi in mezzo a una strada a due giorni da Natale. Insomma, fra mio fratello e mio fratello, non è che avessi granché tempo libero. Come sempre. Mio fratello riempie la totalità del tempo di chiunque gli graviti attorno. Tutti, poi. Anche contemporaneamente. Palesemente non può essere una persona sola. Io ho in realtà tre o quattro gemelli, me ne accoro da queste piccole cose ed anche dal fatto che non è possibile cambiare umore repentinamente tanto quanto fa mio fratello di continuo. Quindi per forza devono essere tre o quattro. Magari Bushido s’era rotto le palle per questo, quando ha deciso di disertare e darsi alla macchia. Comprendo la sua obiezione di coscienza.
Al di là delle cazzate, comunque, anche dopo la roba di Saad sono stato molto preso. Pure troppo preso, nel senso che sono entrato in loop iperprotettivo nei confronti di Bill. Peraltro è un cosa che lui detesta ma che a me serve perché, essendo sempre stati appiccicati come le gomme da masticare alla suola delle scarpe, quando me lo perdo di vista comincio a dare di matto. Sono perfettamente consapevole dell’assurdità di tutto questo e so anche che per Bill non è la stessa cosa – d’altronde, per quanto gemelli, siamo comunque due persone diverse e viviamo le relazioni in modi diversi – ma non posso farci niente. Quindi, in pratica, ho passato tutto un periodo orrendo in cui ho costretto Bill a vivere con me – anche se lui aveva decisamente bisogno di coccole, quindi non si è esattamente lamentato – e non ho permesso a nessuno di avvicinarsi a noi, con l’eccezione di Fler, di fronte al quale ero palesemente impotente e del quale comunque Bill aveva un intenso bisogno.
Da quella situazione, se Cassandra non avesse deciso autonomamente di smettere di sorridere e baciarmi, io probabilmente non ne sarei mai uscito. E in realtà dopo non è che sia veramente successo qualcosa. Solo, niente, ha ripreso a sorridere ma ha anche continuato a baciarmi. E tutto il resto.
Fra me e Cassandra c’è una cosa un sacco tranquilla. Che mi piace tantissimo. E credo di averne il bisogno, adesso – intendo, di tenere fra le mani qualcosa che sia dolce e buono e basta, senza dovermi preoccupare di vederlo crollare fra le mie mani da un momento all’altro. Il ritorno di Bushido, in questo momento, non mi interessa, e soprattutto non mi intralcia in nessun modo, perché Cassandra è forte davvero, e per quanto lui possa insistere con gli sguardi confusi e disapprovanti che mi lancia da ieri, e per quanto possa insistere a chiamarla “stella” anche quando siamo insieme, so che Cassandra è più forte di lui. Ne ho parlato con Fler, dopo quel disastro di cena che ha avuto luogo a casa di Bushido, e lui ha riso. “Donne del ghetto”, ha commentato. Io ho annuito perché mi sa che ha ragione. Sono le femmine, quelle veramente cazzute. Per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo.
Tutta questa premessa – su me, su Cassandra, su Fler che non c’entrava ma c’è entrato lo stesso chissà come, e su Bill, naturalmente – io l’ho fatta per spiegare che, a parte le sparizioni settimanali alle quali ultimamente mio fratello si lascia andare e per le quali dovrò decidermi a torchiare per bene David – perché lui non può propinarmi scuse come “Bill è in beauty farm” ed aspettarsi pure che io ci creda – insomma, a parte questo, prima del ritorno di Bushido io stavo conducendo un’esistenza piuttosto felice e tranquilla. C’erano delle cose oggettivamente incomprensibili – il rifiorire immotivato di mio fratello, e non che non mi facesse piacere, ma restava incomprensibile; o l’ombra scura perennemente presente negli occhi di Fler; o la ruga che, sempre con maggiore insistenza, andava formandosi sulla fronte di David, proprio in mezzo alle sue sopracciglia – ma non erano cose che mi infastidissero particolarmente.
Ma ora è tutto diverso. E adesso, in questo salotto, di fronte a questa scenata indecente, di fronte alle lacrime di mio fratello, di fronte all’espressione dura e risentita e soprattutto ferita di Bushido, io devo prenderne atto.
*
Potrei raccontare nel dettaglio la giornata di oggi fin da quando mi sono svegliato, ma sono quasi sicuro che perdermi nella mia testa al momento sarebbe deleterio. Non devo perdermi, devo solo cercare di riassumere le ultime ore della mia esistenza per avere un punto fisso da cui ripartire quando finalmente riuscirò a prendere pienamente coscienza del disastro in atto.
Quindi niente resoconto dettagliato, non mi soffermerò su quanto fosse buono stamattina il profumo di Cassie attaccato alle mie lenzuola, alla mia pelle e ad ogni molecola d’aria che riempiva la stanza; non mi soffermerò su quanto abbia trovato odioso lo squillo del cellulare e non mi soffermerò su quanto mi sia sentito stupido nel rassegnarmi comunque a rispondere alla chiamata appena individuato il nome di Bill sul display. Non parlerò diffusamente di quanto mi sia sembrato strano sentirgli dire “vado da Anis… mi accompagni?” – Dio, come faccio a non parlarne diffusamente? Bill ha sempre visto i momenti di intimità con Bushido come, tipo, cose sacre e inviolabili, per quale cazzo di motivo avrebbe dovuto volermi fra le palle in una situazione come quella? – e non dirò nemmeno quanto io l’abbia trovato teso quando sono passato a prenderlo da casa sua per portarlo all’appartamento in cui Bushido sta per ora; non lo descriverò, anche se potrei dipingerle, le linee corrucciate delle sue sopracciglia, e disegnare il broncio teso e chiuso delle sue labbra.
Però posso raccontare quello che è successo da quando ho messo piede in questa casa, perché questo è importante. Posso raccontare di Bushido tanto scuro da fare paura, colore della pelle a parte. Posso raccontare della paura di Bill, perché me la sono sentita fisicamente addosso per tutto il tempo. Posso parlare del suo imbarazzo quando Bushido gli ha chiesto di andare a prendere da bere in cucina mettendoci meno tempo di quanto non ne avesse perso il giorno prima durante la cena. Posso parlare a lungo della luce tremolante negli occhi di mio fratello e di quella netta e brillante negli occhi di Bushido. Posso parlare di quel momento di immobilità in cui io mi ero già impossessato di un divano su cui svaccarmi e mi stavo ancora chiedendo cosa cazzo ci facessi proprio io e proprio in quel momento in quel dannato salotto, mentre alle mie spalle, fra gli occhi di Bill e quelli di Bushido, scoppiava una guerra tale che avrei dovuto sentirne il clangore anche se fossi stato su un altro pianeta. E invece niente. Invece il silenzio. Posso descrivere ogni sfumatura di quel silenzio – quella tesa, quella angosciata, quella già prematuramente disperata – posso farlo, devo farlo, perché quel silenzio è stato l’ultimo di questa giornata che abbia avuto un significato e sia valso qualcosa.
Poi Bushido ha parlato.
- So tutto.
La sua voce risuona in questo silenzio in maniera così fisica che mi sembra di poterla toccare. È scura e decisa. È molto da lui, così com’è molto da lui dare per scontato la gente capisca a prescindere di cosa stia parlando. Per me non è così ed evidentemente neanche per Bill, che si ferma a metà del salotto e si volta a guardarlo, inarcando appena le sopracciglia.
- Sai cosa? – chiede, forzando un sorriso talmente tirato che io lo guardo e penso “Cristo, Bill. Ma se lo sai già, perché chiedi?”. Ed io, in questo momento, continuo a non sapere un cazzo. Ed è un attimo di confusione che dura veramente pochissimo, solo pochi secondi. Il tempo che serve a Bushido per mettersi in piedi, sollevandosi in tutto il suo fottuto metro e novanta di altezza, e ricominciare a parlare.
- So di te e Chakuza, Bill.
E lì mi esplode il cervello. Perché, non so se vi è mai capitato, ma a volte succede che tu passi in mezzo ad una situazione, no?, diciamo pure che la vivi, ne sei partecipe e tutto, però non la comprendi pienamente. Ci sono un sacco di sfumature che ti sfuggono e il tuo cervello le registra però gli mancano tasselli, e visto che gli mancano tasselli non riesce a ricomporre gli indizi in un quadro che abbia un senso. Perciò quei particolari apparentemente stupidi – il nome di Chakuza che diventa Peter sempre più spesso sulle sue labbra, le fughe continue, i momenti di imbarazzo quando si parlava di lui e così via – tu poco a poco te li dimentichi, li archivi come cose prive di importanza.
E poi arriva qualcuno che invece la soluzione del puzzle già ce l’ha. E gli basta mezza parola, cazzo. Solo mezza. E a te basta sentirla che rimetti tutto al suo posto. E lì o razionalizzi o ti esplode il cervello.
A me esplode il cervello.
In mezzo a tutto quello che potrei pensare – Bill s’è messo con Chakuza; Bill è stato a letto con Bushido; Bill e Chakuza stanno ancora insieme? – io penso solo che è la seconda volta che mio fratello mi butta fuori a calci dalla sua vita. Penso che di tutto questo – di mio fratello che boccheggia a corto d’aria e di Bushido che continua a guardarlo con un misto di delusione e dolore – non mi importa niente. Penso che c’è stato un tempo in cui io e Bill eravamo attaccatissimi. E penso che mio fratello adesso non mi dice più nemmeno quando si innamora di qualcuno. Non mi dice quando è felice, non mi spiega perché lo è e non mi dà modo di gioirne con lui – Bill non ci ha nemmeno provato, a vedere se la mia reazione al sapere di lui e Chakuza sarebbe stata diversa rispetto a quella che ho avuto quando ho saputo di lui e Bushido.
E penso anche che tutto questo è ingiusto. Perché non posso sentirlo quand’è felice, ma in compenso quando il cuore gli batte tanto forte da fargli male lo sento ancora.
- Non hai niente da dire? – chiede Bushido a bassa voce, restando fermo dov’è. Bill deglutisce pesantemente.
- Anis- - comincia piano, ma Bushido lo ferma con un ringhio imperioso.
- Non so se voglio davvero sentirti parlare. – dice d’un fiato, guardandolo dritto negli occhi.
Bill china il capo e le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance in grossi goccioloni brillanti.
- Mi hai chiesto se non avevo niente da dire. Vorrei rispondere almeno a quello.
- Non so se la voglio, la tua risposta! – precisa Bushido alzando la voce e tendendosi tutto verso Bill, che incassa la testa nelle spalle come se l’urto della sua voce lo sentisse addosso né più e né meno di un ceffone.
- …Anis, ti prego. – cerca di calmarlo Bill, parlando dolcemente, anche se non riesce nemmeno a guardarlo e quindi, penso, l’effetto del suono della sua voce è di molto ridimensionato. – Lascia che ti spieghi.
- Cosa vuoi spiegarmi, Bill? – insiste lui, tagliente come una lama, - Vuoi spiegarmi perché mi sei caduto fra le braccia e ti sei fatto scopare nonostante stessi con lui da quasi un fottuto anno? – e si lascia andare ad una mezza risata ironica, incrociando le braccia sul petto mentre Bill serra le palpebre e stringe le labbra. – Quasi un anno! – ripete Bushido, il tono a metà fra il risentito e il crudelmente divertito, - Che bel lutto! Alla prima occasione favorevole-
- Non è stato così, Anis! – esplode mio fratello, stringendo i pugni, ma la sua esplosione non è niente paragonata al rombo della voce di Bushido, pochi secondi dopo.
- Te lo dico io com’è stato, cazzo! – urla, e parla proprio come se fosse stato qui sempre, in ogni momento. Perciò a me un po’ viene voglia di crederci, alla sua versione. – Quanto hai aspettato? Tre mesi? Quanto, prima di buttarti fra le sue braccia? E siete stati felici, fino ad ora? Sei tornato dritto a scopare con lui dopo avermi mandato a fanculo nonostante ti fossi fatto mettere le mani addosso- no, nonostante mi avessi chiesto tu stesso di metterti le mani addosso?!
Bill si copre il volto con le mani.
- Anis, ti prego… - mormora, e la sua voce attutita riempie la stanza in un lamento sofferente. Bushido inspira ed espira.
- Ho capito che voglio che parli, Bill. – dice freddamente, senza staccargli gli occhi di dosso, - Sono curioso di vedere se troveresti un modo di metterla che non ti faccia passare per una qualsiasi di tutte le altre troie che mi sono passate nel letto per tutta la mia vita.
Bill non solleva lo sguardo. Le sue mani stringono appena la presa sulle sue guance e poi scivolano lentamente nel vuoto, lungo i suoi fianchi. E lì restano, ai lati del suo corpo, a dondolare inermi. Seguo il tintinnio dei suoi bracciali e mi concentro su quello, perché preferisco quel suono alla voce di mio fratello che ammette “Non credo che esista, Anis”. Perché dice troppe cose tutte insieme.
Bill, che cazzo.
Che cazzo, Bill.
Bushido non se l’aspetta, comunque. Probabilmente – come me – credeva che si sarebbe difeso. Che avrebbe combattuto, in qualche modo. Che avrebbe cercato di metterla in un qualche modo che non lo facesse sembrare poi così colpevole. E invece mio fratello non esita un attimo per dargli ragione e chiudere il discorso.
Né io né Bushido ci aspettavamo niente di simile. Probabilmente perché né io né Bushido abbiamo la più pallida idea di come sia stato l’ultimo anno della vita di mio fratello. Ed in questo momento di chi sia la colpa di questa mancanza non importa poi neanche tanto.
- Fuori da questa casa. – la voce di Bushido è così bassa e lontana che sembra provenire da un altro luogo. Fa quasi paura. – Non ti ci voglio più vedere, qua dentro. Né altrove. Fanculo, Bill, noi abbiamo chiuso.
Bill solleva lo sguardo e gli punta addosso un paio di occhi enormi di terrore e lacrime.
- No… - mormora senza fiato, - Anis, no.
- Decido io, principessa. – dice lui, guardando altrove. Immagino lo faccia perché non è facile mandare a fanculo la persona per la quale ti saresti letteralmente fatto ammazzare guardandola negli occhi. – Come sempre. Sparisci.
Bill non si muove subito. Resta immobile per qualche secondo e lo guarda. Bushido non fa una piega. Il mondo intero sembra essersi del tutto dimenticato di me, ed io ne sono contento.
Riprendo a respirare solo quando Bushido si sposta e Bill prende quel movimento per ciò che è – un invito estremamente fisico a togliersi dalle palle. Obbedisce, si muove oltre la porta e scompare in corridoio, e lì ricordo che devo per forza andargli dietro – per quanto non sappia cosa dirgli e nemmeno se voglio dirgli qualcosa. O anche solo vederlo, stargli accanto, pensare a lui – primo perché è venuto in macchina con me e secondo perché io non voglio restarci in questa casa con quest’uomo che guarda il vuoto e si morde un labbro a sangue mentre negli occhi gli brucia di tutto. Perciò seguo Bill e lo faccio in silenzio, fino a quando non mi trovo sulla porta. Mentre io sono lì, Bushido lascia andare un sospiro ed io lo sento. Lo sento e non so perché mi sconvolge tanto, però lo fa.
Mi volto a guardarlo, cercando le parole. Non è facile. Non lo è per niente.
- L’ho capito perché l’hai fatto. – dico alla fine. Lui mi solleva addosso uno sguardo estenuato e non risponde. – Perché sei andato via, dico… non ho capito come, ma ho capito perché. – mi fermo un attimo e sospiro anch’io. – Mi dispiace. – aggiungo poi, - Se me ne avessi parlato, l’avrei portato via io.
Bushido serra le labbra e continua a restare in silenzio. Smette anche di guardarmi, però, e quindi decido di andare via davvero. Questo silenzio, stavolta, non sono proprio in grado di sostenerlo. Né di parlarne.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Storia di una relazione e del malinteso più enorme e fustrante di tutti i tempi XD
Note: Okay, io amo questa storia XD Prima di tutto, il titolo: in realtà la canzone di Bushido da cui è tratto e di una tristezza immonda XD Ma tutte o quasi le canzoni di quell’uomo sono di un deprimente colossale, perciò non c’è niente di cui stupirsi °-° Comunque sia! In realtà all’inizio voleva essere usato in modo molto lol e basta, però alla fine la storia stessa è un po’ più seria di quanto avessi preventivato (sebbene io la trovi comunque molto divertente e basta XD). Comunque vuol dire “quando un gangster piange”. Capite, è ridicolo X’D
Comunque è_é Dicevo, a me questa storia piace tanto, anche perché è un concentrato di cose che amo. C’è perfino un po’ di sano adorabile twincest fasullo! XD Non è la cosa più carina del mondo, Tomi che bacia Billi sul neo sotto il labbro? *____* *abbraccia i gemelli*
Okay, basta, c’è Yul che è curiosa di leggerla XD Spero vi sia piaciuta :*
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WENN EIN GANGSTER WEINT

Ho smesso molto tempo fa di credere che la vita potesse essere un insieme di certezze. Anzi, in realtà non l’ho mai creduto, perché fin da piccolo ho sempre saputo che nella vita la certezza è proprio l’ultima cosa che uno possa aspettarsi. È certa solo la morte, dicono alcuni, ma potrei avere da ridire. Se così fosse, io sarei morto qualcosa come un centinaio di volte. Il fatto io sia ancora in piedi dimostra piuttosto chiaramente che no, nella vita non c’è proprio niente di certo, e neanche nella morte.
Per dire, all’asilo tutti i miei compagni di classe avevano una mamma ed un papà. Alcuni papà o alcune mamme erano andati via di casa e vivevano altrove, ma continuavano ad esistere, prendevano i loro figli nel weekend e li portavano al parco, facevano loro splendidi regali eccetera eccetera. C’era anche un bambino il cui padre non c’era più, perché era morto. Ma prima di morire c’era stato. Ed il bambino ne parlava sempre come un eroe.
Mio padre, invece, non era proprio mai esistito. Il tunisino che mi aveva dato il colore della pelle, i lineamenti duri e rozzi e gli occhi scuri da arabo, nonché il nome più lungo che ricordi d’aver sentito a memoria d’uomo, svanì come uno sbuffo di fumo prima che io venissi al mondo. Mia madre non me ne ha mai parlato meno che rispettosamente – in un estremo tentativo di non riempirmi d’odio fin da piccolo, suppongo – ma la cosa non aiutò: penso di essere nato arrabbiato.
Comunque sia, mio padre non c’era. I padri degli altri, sì. Eppure io un padre avrei dovuto averlo. Ero nato, no? Ero vivo. Un padre doveva esserci. E invece non c’era. Prima certezza svanita.
Seconda certezza che mia madre aveva cercato di inculcarmi a forza nella testa: il mondo è un posto buono. Tempelhof non era male, a guardarla in cartolina. Lei mi portava lungo il canale di Teltow, mi mostrava le papere e rideva quando mi arrabbiavo perché non mangiavano le foglie che tiravo nell’acqua. Era il suo modo per farmi vedere che c’era anche qualcosa di bello, in giro per il mondo.
Poi però in prima la signora Keller – una donna talmente stronza e razzista che, al suo cospetto, pure il vecchio Adolf sarebbe sembrato un chierichetto – mi disse che dovevo, appunto, fare il bigliettino della festa del papà. Ritagliare il cartoncino con tanto di fottuto bordo a zigzag, scrivere ich liebe dich papa, ricoprire di colla, spargere la porporina e disegnare una pipa da colorare di marrone.
Sollevai lo sguardo, la troia mi guardava talmente schifata da far venire la nausea perfino a me. Le dissi “ich habe keine papa” e cercai di non mostrarmi furioso com’ero. Ero uno scricciolo alto un metro e ribollivo rabbia come una pentola a pressione. Lei batté due grosse ed arcuate dita smaltate di rosso sul cartoncino bianco e rispose che dovevo fare esattamente quello che facevano tutti gli altri miei compagni di classe. “Perciò fai il tuo biglietto della festa del papà, Anis”.
Pronunciò il mio nome con un tale disgusto che cominciai ad odiarlo. Anis non sarebbe stato tanto male come nome per un rapper, ma quando cominciai a rappare lo odiavo già così tanto che di pseudonimi me n’ero scelti altri due.
Vedete, non è certo neanche il nome, nella vita di un uomo.
Risultato: non avere nessuna certezza è proprio uguale ad averne troppe; non ti stupisci più di niente.
Quando Bill Kaulitz è entrato di prepotenza nella mia vita – in maniera molto più consistente rispetto a quanto non fossi già entrato io nella sua, peraltro – perciò, io non mi sono affatto stupito.
*
Cassandra fa girare il ghiaccio del proprio drink, giocando con la cannuccia rosa. Le lunghe unghie trasparenti terminano con una french bianca che mi ricorda Bill. Accidenti a me.
- Quindi il ragazzino torna domani dopo… quanto? Una ventina di giorni?
Ventidue, per la precisione. E comunque, per le relazioni appena cominciate, anche solo una settimana è già tantissimo.
- Sì, all’incirca.
Lei ride e beve un sorso del proprio Martini.
- È così palese che non vedi l’ora, Bu… sei comico da morire!
Aggrotto le sopracciglia ed affondo nella mia virilissima Berlinerweiße.
- È tutto a posto. Doveva lavorare.
- Certo. – ride lei, - È anche ligio al dovere, questo ragazzino. Mamma mia, scommetto che riuscirà nell’impresa nella quale hanno fallito tutte tranne una.
- …sarebbe?
- Farsi sposare, è ovvio! – conclude con una risata, trattenendo un cubetto di ghiaccio fra i denti.
- Prima di tutto, in Germania il matrimonio omosessuale non è consentito…
- Non ancora. – cinguetta lei, - Ma le unioni civili sì!
- Secondo poi, - proseguo ignorandola, - non parliamo di matrimonio. Io ho chiuso. Anzi, non sono mai stato sposato.
- Questo puoi negarlo in pubblico, ma non davanti a chi ti conosce! – mi fa notare in una mezza risatina tronfia, mandando giù un altro po’ di Martini.
Non posso che chinare il capo. Ha ragione.
- In ogni caso, sembra delizioso. – aggiunge con una scrollatina di spalle, - È stato uno zucchero, quando ci hai presentato. E poi ha degli effetti adorabili sulla tua personalità. Ti rende tenero! – faccio per organizzare una protesta dettagliata, dal momento che mi sta assalendo una nausea non meglio identificata, ma lei mi zittisce con un rapido cenno del capo. – Perciò, vedi di non rovinare tutto. Gli uomini rovinano sempre tutto.
- Mi conosci come un tipo che rovina le cose? – chiedo sarcastico, svuotando il boccale.
- Sì! – annuisce lei con una risata allegra, - E comunque, per quanto buono e bravo tu possa essere nei tuoi sogni, sei sempre un uomo.
O quello che ne resta.
*
È assurdo che a dirlo sia io e mi rendo conto possa sembrare uno sciocco espediente per togliersi responsabilità di dosso, ma è vero: è stato Bill a gettarsi fra le mie braccia. Io non avevo pianificato niente del genere. Mi ero limitato a constatare fosse una persona migliore rispetto a quella che pensavo, fine.
Vivere per strada ti insegna un sacco di cose utili – io, per dire, so aprire le macchine per ripararsi dalla pioggia, e senza far scattare l’allarme! – però ti riempie pure di pregiudizi. Ogni tanto mi ritrovo a guardare gli altri con un sorrisetto superiore sul viso, ripetendomi che non valgono niente perché non hanno vissuto esattamente quanto ho vissuto io.
Certe volte ho ragione, altre volte no.
Per quanto riguarda Bill, ero davvero convinto fosse un ragazzino viziato completamente incapace di venire a patti con i sacrifici che non solo il mondo della musica, ma il mondo stesso impone. Ad esempio, quando nel 2006 cominciò a girare quel gossip riguardo il fatto io l’avessi fatto piangere… be’, no, la notizia in sé era falsa perché non avevamo mai davvero fatto un’intervista a due ed io non gli avevo mai chiesto quello che si diceva in giro gli avessi chiesto – non del tutto, almeno – ma quando scherzai sul fatto del pompino mi sarei aspettato che piangesse davvero. Non mi avrebbe stupito, proprio per niente. Era piccolo, sembrava molto, molto montato e per giunta si vedeva lontano un miglio che nel suo entourage lo tenevano sotto una campana di vetro e con molti morbidi cuscini sui quali adagiarsi, perciò diedi per scontato potesse essere un’eventualità plausibile. Neanche mi sentii in colpa, voglio dire, prima o poi qualcuno doveva pur farlo piangere.
Ci incontrammo poi non mi ricordo a che premiazione. Gli chiesi senza mezzi termini se gli fosse passata l’offesa. Non so se fosse sincero quando quel giorno mi guardò, inarcò le sopracciglia e disse che non aveva nulla da farsi passare perché nulla era mai effettivamente cominciato. In ogni caso, la sua sincerità non era il punto. Mostrarsi così tranquillo e disinteressato, nonché disponibile a parlare con me senza schiaffeggiarmi o cavarmi gli occhi, era quello il punto. Era quello il suo merito.
Insomma, il ragazzino, come Cassandra ama chiamarlo, non era poi tanto male. Offrirgli una birra mi sembrò il minimo. Speravo lui la prendesse, non so, come un armistizio. A Tempelhof per firmare gli armistizi ci facevamo favori a vicenda. Una birra era un modo elegante per sottintendere lo stesso concetto, no?
Chakuza me lo disse appena tornai dal bar. “Che fai, Atze, ti metti a discutere coi ragazzini? Guarda che è un problema, non si scollano più”.
Scrollai le spalle e guardai altrove.
Purtroppo, fra me e Bill non è mai stato così semplice. Intendo: ci siamo incollati a vicenda.
*
Dicevo, comunque, fu Bill a saltarmi addosso.
Letteralmente.
Niente di sessuale, chiaro, ma mi saltò addosso lo stesso. Altra premiazione, altre vittorie schiaccianti, altri premi fioccati a destra e a manca per tutti quanti. Per me, per loro.
Erano i Comet del 2007. E no, non sto parlando del modo indecente in cui mi premiò, perché dare la colpa a quello sarebbe troppo semplice. Con quello, Bill dimostrava solo di aver recepito più che bene la lezione e di essere stato indottrinato a dovere. I litigi tirano, ma mai quanto le supposte relazioni. Lo faceva già con suo fratello… farlo con me probabilmente era perfino meno pericoloso, nonché meno straniante.
Non mi prese di sorpresa, non quello, a quello mi adattai subito.
Fu il dopo, che cambiò tutto. Fu un afterparty noioso e stantio dal quale mi allontanai presto, per fare un giro intorno al locale. Fu il momento in cui tornai all’ingresso per rientrare, recuperare la giacca ed avvertire che stavo andando via. Fu la soglia che superai e fu la luce che mi investì e che mi costrinse ad alzare lo sguardo. Su di lui. Che mi rovinò addosso.
- Merda… mi scusi… - biascicò mentre cercava di rimettersi dritto sui piedi. Non trovavo difficile reggerlo – era leggerissimo. Comunque, era divertente che non mi avesse riconosciuto.
- Già ubriaco a quest’ora? – lo schernii con un mezzo ghigno sul quale lui spalancò quegli enormi occhi color cioccolata, confondendomi. Le parole di Chakuza cominciarono a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Nei miei pensieri annoiati e distorti, lo stronzo sorrideva pure. Ma sopra tutto c’erano gli occhi di Bill. “I ragazzini si appiccicano”.
- Non sono ubriaco… - mormorò lui, strascicando le parole, - Ti cercavo.
Non avrei potuto essere più confuso di quanto già fossi, perciò il senso di smarrimento non aumentò. Si fece più ansioso, però.
- Per dirmi…?
Bill si strinse nelle spalle.
- Non lo so. – biascicò, - Prima c’eri, poi non c’eri più. Volevo capire dove fossi andato.
Inarcai le sopracciglia, incerto.
- Perché?
Lui abbassò lo sguardo e si morse un labbro.
- Ti va di fare una passeggiata? – mi chiese invece di rispondere.
- …non hai un altro trentenne a cui chiedere di accompagnarti in giro? Chessò, il tuo manager?
- Non voglio andare in giro con David. – si lamentò con una smorfia. Poi tornò a guardarmi e trasse un sospiro così enorme che il suo petto piccolissimo si gonfiò al punto che temetti potesse scoppiare. – Senti. – balbettò, improvvisamente più lucido, - Non so dove ho trovato il coraggio di chiedertelo. Probabilmente io non ti piaccio, però… è solo un giro, okay? Nulla di compromettente.
Ovviamente mi terrorizzò. Non starò certo qui a negarlo. Non capita tutti i giorni che un ragazzino palesemente ubriaco venga a chiederti una passeggiata notturna. A me, per dire, non era capitato proprio mai. Comunque, non c’era veramente un motivo per il quale dovessi negargli il piacere della mia compagnia – o per il quale dovessi negare a me stesso il brivido caldo di quegli occhi addosso – perciò accettai. Non mi preoccupai neanche di recuperare la giacca. Non faceva neanche freddo.
Bill rimase perfettamente in silenzio, per tutto il tempo. La notte era tiepida e piacevole. C’era una luna stupenda. Lo ricordo perché la sua pelle brillava.
Io non avevo nulla da dire, perciò, piuttosto che riempire i vuoti con stupide battute o frasi fatte, imitai il suo esempio. Lasciai che la passeggiata andasse come doveva. Quando ritornammo nei pressi del locale, suo fratello Tom lo stava aspettando, caracollando nervosamente da un lato all’altro dell’ampio ingresso del club, con quella sua strana camminata da papera. Bill lo vide ed accennò un saluto. Tom lo imitò, ma la sua mano si fermò a mezz’aria quando capì che al suo fianco c’ero io. Lo osservai guardarci interdetto per un lunghissimo minuto, prima di scoppiare a ridere scuotendo il capo e rientrare nell’edificio.
Quando tornai a guardare Bill, era arrossito in maniera indecente.
Supposi dovessero essersi detti qualcosa senza parlare. Ripetevano spesso di essere in grado di farlo, durante le interviste.
- Penso di dover andare. – mi salutò con un breve cenno del capo, - Anche se non mi hai risposto.
Inclinai il capo.
- Dev’essermi sfuggita la domanda. – ammisi.
Probabilmente la mia espressione rifletteva in pieno ciò che stavo pensando. Cioè che mi sentivo molto stupido. In ogni caso, quando Bill tornò a guardarmi, non poté trattenere una risatina che, in teoria, avrebbe dovuto infastidirmi – ma non lo fece.
- Ti ho chiesto se ti piaccio. – rispose a bruciapelo, incrociando le braccia dietro la schiena.
Deglutii.
Probabilmente io non ti piaccio, però…
Sì, lo ricordavo.
Cercai di sorridere.
- Non si fanno domande simili senza rispondere per primi. – cercai di difendermi strenuamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Che vigliacco sei! – rise, dandomi un colpetto sulla spalla, - La mia risposta, comunque, era implicita nella domanda.
Ridacchiai.
- Come sei enigmatico.
- Dunque? – chiese lui, ansioso, lanciando uno sguardo all’ingresso del locale, dal quale Tom era tornato ad affacciarsi sporgendo solo occhi e naso, come una talpa curiosa di esplorare la superficie.
Sospirai.
- Dipende da cosa vuoi sentirti dire. – risposi roteando gli occhi, - Cerchi una dichiarazione d’amore?
Bill arrossì furiosamente e si coprì gli occhi con una mano.
- Possiamo uscire insieme qualche altra volta? – chiese a bassa voce, - Voglio sapere solo questo.
Sorrisi e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, porgendoglielo.
- Lasciami il tuo numero. – risposi, - Ti chiamo io.
*
Sarebbe stato un modo molto figo e molto fascinoso per chiudere la storia, suppongo. Ricordo che rimasi qualche giorno a pensare al numero che mi aveva lasciato, chiedendomi se non potesse trattarsi di uno stupido scherzo da adolescente risentito. Non sarebbe stato impossibile. A diciassette anni, io, appena lasciato il liceo, ero andato a trovare la Keller e l’avevo presa in giro più o meno allo stesso modo. A quei tempi avevo scoperto le gioie del sesso già da qualche anno, ma ero in grado di padroneggiare davvero la questione solo da poco. Il sesso era più che altro un passatempo, ma come vendetta avrebbe potuto dimostrarsi perfino più piacevole.
Andai a trovarla a scuola, all’uscita. Una canottiera ed un paio di jeans strappati addosso – stavo scontando la mia condanna per vandalismo imbiancando i muri di Berlino, in quel periodo. “Frau Keller”, la salutai con un cenno del capo. Lei sussultò – stava assicurandosi che i bambini raggiungessero tutti le macchine dei loro genitori senza intoppi. Appoggiato alla rete del cortile, le braccia incrociate ed il petto gonfio di un orgoglio storto e meschino, io la guardavo, sorridendo sfacciatamente.
Non mi riconobbe. Ciononostante, il colore della mia pelle non sembrò più essere un problema, per lei. Io non mi sprecai a dirle chi fossi nello specifico. Mi presentai come un suo ex allievo, inventai un nome tedesco per confonderla un po’ e, nel complesso, ci provai così spudoratamente da farmi quasi schifo da solo. Il suo petto grasso e flaccido si sollevava ansioso seguendo il ritmo incontrollato nel suo respiro, ed io la guardavo come volessi mangiarla.
Le diedi il mio numero di cellulare. Le dissi di chiamarmi.
Quando mi chiamò, le rispose Fler. Minacciandola di morte. O qualcosa di simile, al momento non ricordo. Fler aveva molto estro, per queste cose. Ricordo comunque con certezza che la chiamò vecchia pervertita. Non riesco ancora a pensarci senza ridere come un pazzo, nonostante tutto.
In ogni caso, fissavo il numero di Bill Kaulitz e continuavo a ripetermi “magari lo chiamo e risponde suo padre che minaccia di denunciarmi. Oppure suo fratello che minaccia di denunciarmi. Oppure il suo manager che minaccia di denunciarmi”.
Alla fine lo chiamai perché il pensiero si stava facendo ossessivo. Continuavo a sognare denunce. Dovevo porre fine a quel circolo vizioso.
Oltretutto, ero vagamente curioso di capirci qualcosa, se non si trattava di uno scherzo.
Ero curioso di…
…be’. Bill Kaulitz è Bill Kaulitz. Non mentivo e neanche esageravo, quando dicevo che, se me l’avesse chiesto, non avrei pensato per più di due secondi alla possibilità di andare a letto con lui. Di cosa fossi curioso è abbastanza intuibile.
Comunque, mentre stavo lì ad arrovellarmi e prospettare lunghi procedimenti legali che si sarebbero conclusi soltanto con una lunga serie di zeri su un assegno, ascoltando con panico sempre crescente il tu-tu nella cornetta del telefono, Bill rispose.
Sospirai di sollievo, e non fu per la mancata denuncia, temo.
- Pronto?
- Ce ne hai messo di tempo a rispondere, Kaulitz.
- …credevo non mi avresti più chiamato.
Suppongo siano le tre battute più abusate della storia del cinema.
In ogni caso, fra noi cominciò così.
Zero certezze. Bill Kaulitz, comunque, aveva già cominciato a stupirmi.
*
Seguì un breve periodo di allegria alla Heidi. Sapete, l’entusiasmo dell’inizio di una relazione. Quello che ti esplode dentro indipendentemente da quanto tu possa rimanere a riflettere sulla possibilità di restare coi piedi per terra eccetera. Non esiste, questa dannata possibilità. Quando t’innamori, voli. Fine.
Tra l’altro, venne fuori che il fratello, all’afterparty, non mi stava platealmente prendendo in giro: rideva perché, già da qualche mese, Bill gli riempiva la testa di “dovrei dichiararmi o no?”. Quando ti senti approvato, voli anche più in alto.
Io e Bill volammo altissimo. Per un bel po’ di tempo.
La mia lunga e lenta agonia è cominciata nel maggio di quest’anno. Con tutti i problemi che Bill ha avuto alla gola – la cisti e tutto il resto – non è stato facile trovare un po’ di tempo per incontrarsi. I paparazzi assediavano l’ospedale, i suoi appartamenti, perfino casa di sua madre. Non c’era proprio modo. Perciò, quando mi ha chiamato al telefono – la voce ancora un po’ rauca ed affaticata – e mi ha detto “posso uscire, ci vediamo?”, mi sono messo a ringraziare un po’ tutti gli dei possibili. In questi casi non importa se ci si creda o meno.
Perciò arrivo sotto casa di Bill e lui è lì che brilla letteralmente. Non so, non era truccato e sembrava femmina quanto me, aveva i capelli appiccicati al viso e schiacciati da una cuffia di lana assolutamente improponibile – soprattutto vista la stagione – un paio di enormi occhiali a coprire metà del viso ed il colletto della giacca tirato su fino al mento. Ma era stupendo.
Non ci penso neanche un secondo, lo afferro per la giacca e me lo tiro contro. Lui mugola un qualcosa tipo “ci vedranno tutti”, io lo zittisco nel modo che entrambi preferiamo per fermare la sua logorrea, lui mugola ancora ma un qualcosa di diverso. Sorrido soddisfatto, lo trascino fino alla macchina, lo porto a casa mia. Lui ridacchia per tutto il tempo, mi racconta cose assurde sulla sua convalescenza per minuti interi, “lo sai che mi hanno infilato in una camicia da notte che era tremenda? A pois, ti rendi conto?! Ero orribile” ed io che sorrido ancora come un deficiente e penso che ad immaginarlo a me sembra una fantasia sessuale niente male anche in una camicia da notte a pois, che dire, sono gusti, e lui parla parla parla ed io sono felice davvero, al punto che quando me ne rendo conto mi do del cretino da solo per non averlo capito prima. Arriviamo sotto casa, lo prelevo quasi di peso, salutiamo la portinaia con un educato cenno del capo, corriamo su per le scale e mi fiondo sulla sua bocca appena varcato l’uscio, chiudendomi la porta alle spalle con un calcio tale da scheggiarla. Ed io sono lì che penso “Dio quanto mi sei mancato” e non so se darmi del deficiente o fustigarmi o godermi il momento, ma lui è lì, sotto di me, sul mio letto, che si fa spogliare e miagola e mi chiama per nome ed io impazzisco, quando mi chiama per nome, e poi a un certo punto lo dice.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Ti amo”.
Dovrebbe essere vietato – assolutamente vietato – dirlo in una situazione simile.
Mi ritrovo seduto sul materasso, di fronte a lui. Indossa solo i boxer ma non ho più nessuna voglia di saltargli addosso. La mia camicia s’è persa non so dove e neanche mi interessa. Lo guardo negli occhi e lui mi fissa di rimando.
Allungo una mano, gli sfioro una guancia, lo bacio sulle labbra e rispondo.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Anch’io”.
Gli si apre sul viso un sorriso fantastico.
A quel punto, se io fossi stato un vero uomo, mi sarei preso ciò che mi spettava e l’avremmo finita lì. Non nel senso che ci saremmo lasciati, nel senso che probabilmente avrei dato il via ad una lunga e soddisfacente relazione sessuale e sentimentale e saremmo stati tutti felici per sempre e bla bla. Ma io non sono veramente un uomo, sono un cretino. È palese. Sono un cretino che si lascia influenzare dalle chiacchiere di un’amica che fa paura, perché dannazione, se una che si chiama Cassandra viene da te e ti dice che rovinerai tutto, tu le credi. Se non le credi sei un pazzo suicida, ecco.
Perciò – Dio, mi rivedo con una chiarezza sconcertante – eccomi lì che lo guardo con l’aria dell’amante appassionato ma dolce e gentile e gli dico “Bill, non devi dimostrarmi niente. Se non sei ancora pronto, aspetterò”.
E lui che sorride.
Tenero come un cucciolo.
Ed annuisce.
Lì ho capito – per la seconda e definitiva volta nella mia esistenza – che, certezze o non certezze, è uguale. Tanto la vita ti smerda comunque.
*
Da quel momento, ho dato per scontato che Bill me l’avrebbe fatto sapere, una volta che fosse stato pronto. Cioè, non mi servivano dichiarazioni pubbliche o altre cose simili tipo “Bu, sono pronto a darti la mia verginità”, mi sarebbe bastato, non so, che mi si arrampicasse addosso mentre guardavamo la TV, o anche solo un accenno, qualsiasi cosa purché fosse un indizio. Anche un indizio fraintendibile! Dopo mi sarei scusato, ma almeno sarei riuscito, non lo so, ad infilargli una mano nelle mutande o convincerlo a farlo a propria volta! Non lo so.
Non sono neanche sicuro di riuscire a spiegarmi. Voglio dire, io lo amo. E lo desidero, cazzo. Per certi versi, pretendere una concessione era un mio diritto. Era un suo dovere darmela, no?
Invece niente.
Lui passava i pomeriggi da me – ed io gli morivo dietro, giuro. Una cosa indecente. Non poteva neanche lavarsi i denti senza che io mi ritrovassi a fissarlo con aria ebete dalla soglia del bagno. Povero ragazzo, devono pure essere stati momenti d’imbarazzo incredibili. Lavava i denti, asciugava lo smalto soffiandoci sopra, pettinava i capelli, sistemava la maglietta, qualsiasi cosa mi faceva venire voglia.
Ma lui non diceva niente. Non si faceva avanti, cazzo. Ogni tanto lo sorprendevo a guardarmi con le sopracciglia aggrottate ed un broncio adorabile sul volto, sembrava ce l’avesse con me. Io mi chinavo a baciarlo – perché non so resistere a quelle labbra – e poi gli chiedevo quale fosse il problema. Lui distoglieva lo sguardo e scuoteva il capo. “Niente”, rispondeva. Non ho fatto che pensare ai suoi “niente”, per tutto il tempo che è stato in tour in America. Probabilmente gli davano fastidio i miei sguardi. Non lo so, a me non avrebbero dato fastidio, anzi, sarei stato felice che lui mi guardasse nel modo in cui io guardavo lui, ma… be’, ho detto che l’avrei aspettato. Devo farlo, no?
No?
*
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Il Berlin-Schönefeld è, come al solito, un incredibile e spaventoso casino. Mi guardo intorno e mi chiedo chi me l’abbia fatto fare. Andarlo a prendere all’aeroporto, Dio. Probabilmente non mi lasceranno neanche portarlo con me. Non avrebbe senso. Io, se fossi in Jost, non lo lascerei andare a casa con Bushido.
In ogni caso.
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Questa è una delle frasi che ricordo con maggiore insistenza, dei miei diciott’anni. È stato un periodo abbastanza incasinato – incasinato più o meno come questo aeroporto, sì – c’era la droga, c’era la fottuta prigione, c’era Fler, c’erano un sacco di cose alle quali ogni tanto penso con rabbia, perché mi hanno rubato tempo, ogni tanto con gratitudine, perché mi hanno reso ciò che sono, ed ogni tanto con tenerezza, perché ero proprio un piccolo imbecille.
Appena finito di scontare la pena per vandalismo, non potendo tornare a scuola, andai a cercare lavoro un po’ ovunque. Cominciai cercando di impiegarmi come operaio da qualche parte. Andavo, facevo il colloquio, lasciavo il mio recapito, incassavo con un sorriso il mio “le faremo sapere” e poi smadonnavo come un posseduto quando arrivava la lettera di rifiuto. Se si sprecavano a farmela arrivare.
Ma sto tergiversando.
Ciò che intendevo dire è che mi capita spesso di sentirmi esattamente in questo modo, quando sto con Bill. Non credo che sia colpa sua – o meglio, non credo che lo faccia apposta. È un senso di disagio che mi prende all’improvviso, quando sono particolarmente frustrato o stanco. Vedo lui, così giovane, così tenero, così… stavo per dire spensierato, ma in realtà Bill non è spensierato, è solo luminoso. Anche quando ha qualche grana per le mani, non perde la sua brillantezza.
Mi sento inadeguato. Solo a volte.
Fortunatamente, poi, succede sempre l’unica cosa che è davvero in grado di farmi sentire a posto con me stesso e con questa relazione. Bill arriva. E mi sorride. Io guardo le sue labbra e i suoi occhi e so che sta sorridendo per me. E tanto mi basta.
- Bentornato… - lo saluto, mentre lui mi vola fra le braccia ridacchiando come un deficiente.
- Non credevo che saresti venuto! – cinguetta aggrappandosi al mio collo e sollevandosi quei due centimetri che gli mancano per arrivare a baciarmi, - Sei fantastico… - mugola piano, abbandonandosi contro di me.
- Sono passato solo a salutarti. – spiego con una scrollatina di spalle, - Immagino tu sia stanco.
- Un po’ sì. – medita con un mezzo broncio pensoso, - Però se vuoi possiamo stare un po’ insieme.
Lancio un’occhiata a Jost.
- Siamo sicuri che… - accenno un po’ titubante, indicandolo con un cenno del capo.
- Portatelo via. Dove vuoi. L’importante è che sparisca. – è la stanca risposta dell’uomo, mentre si allontana senza uno sguardo di più.
Una risatina divertita si unisce a quella di Bill, e Tom abbraccia suo fratello come fosse una coperta, come fa sempre quando lo deve salutare per un lungo periodo di tempo – il lungo periodo di tempo, in genere, scatta già dopo due ore.
- Non badarci. – dice il biondo, riferendosi a Jost, - Durante i tour fa sempre così, va in overdose. Poi torna ad amarci più di prima, ma non penso avrà nulla in contrario a liberarsi di Bill per un po’.
Bill solleva gli occhioni su suo fratello ed espone un broncio adorabile.
- A te non mancherò? – pigola querulo, incrociando le braccia sul petto.
Tom ride e gli lascia un bacio proprio sul neo che ha sotto al labbro inferiore.
Io guardo e deglutisco e probabilmente dovrei essere infastidito. Probabilmente. Ma comunque non lo sono. I Kaulitz li prendi come sono. Ciò significa che o li prendi entrambi o non ne prendi nessuno.
- Adesso molla il mio ragazzo, Atze, prima che la gente cominci a pensare sia il tuo. – ridacchio infilando un braccio fra loro ed attirando Bill a me.
- Ma lui è mio. – ghigna furbo Tom, facendogli l’occhiolino.
Bill ride e mi si spiaccica addosso.
- Ho abbastanza amore per entrambi. – conclude con un sorrisino.
Ed io forse sono davvero un cretino, ma a me basta.
*
Neanche il tempo di entrare in casa, che già Bill mi sta guardando come se l’avessi offeso personalmente. Ripercorro con la memoria gli ultimi istanti: okay, non gli ho aperto lo sportello della macchina, sono entrato prima di lui, non gli ho tenuto spalancato il portone e… ma queste cose non le faccio comunque mai!
- È tutto a posto? – chiedo incerto, guardandolo storto.
Bill sbuffa.
- Un bacio? – chiede con aria scazzata, sporgendo il viso.
Cerco di sorridere e lo bacio lievemente sulle labbra.
- Tutto qui?! – borbotta non appena mi separo da lui.
Scrollo le spalle.
A volte non capisco davvero a che gioco stia giocando.
Lui si passa una mano sulla fronte, fra i capelli, sul collo. Seguo il movimento delle sue dita come ipnotizzato e mi mordo le labbra.
- Non so perché, - riprende, - ogni volta che devo parlare seriamente con te mi tocca ubriacarmi per prendere coraggio, oppure esasperarmi abbastanza da non badare alla paura.
Spalanco gli occhi.
- Bill?
- Insomma, cos’è? Ti fa schifo che io sia maschio? È per questo che non vuoi scoparmi?! Oppure sono le relazioni serie a frenarti? Cazzo! – batte una mano sul tavolo, fissandomi rabbioso, - Se l’avessi saputo, non ti avrei mai detto che ti amavo! Vaffanculo!
Questo ragazzino dev’essere fuori legge. Sono convinto che sia illegale.
Sul serio.
- Rispondimi, almeno!
- Aspetta, aspetta, Bill… - mi faccio avanti, prendendogli le mani e stringendole nello stesso momento, - Sono confuso. Quando ti ho detto che avrei aspettato finché non fossi stato pronto…
- Io ho pensato che fosse un modo per dirmi che tu non eri pronto! – sbraita, cercando di liberarsi, - Impreparato, io! Ma ti venivo dietro da mesi, Cristo, non vedevo l’ora di infilarmi nelle tue mutande! Ma quanto cretino puoi essere?!
- Bill! – lo rimprovero, sinceramente sconvolto, - Adesso datti una calmata!
- Non mi calmo neanche per un cazzo. – sibila lui, occhi bassi ed espressione serissima. Si sporge in avanti e neanche mi bacia, m’invade. La lingua e le labbra ed i denti e quel piercing tremendo. – Capito l’antifona?
C’è poco da fare.
Uno si dice tante cose. Che non può stupirsi, che non ha certezze, che tanto è sempre così, nulla può veramente darti una scossa e farti sragionare.
È stupendo che io abbia trovato Bill. È l’unico che ci riesce.
Lo afferro per i fianchi, schiacciandolo contro il muro e spostando immediatamente le mani sulle sue natiche, saggiandone la consistenza attraverso il tessuto ruvido dei jeans. Lui ansima quando i nostri bacini si scontrano, e tira indietro il capo, cercando le mie labbra.
- Ragazzino… - gli sussurro addosso, prima di accontentarlo, - Quando ti ho chiesto se non ti sentissi ancora pronto, intendevo esattamente ciò che stavo dicendo. – sorrido. Lui tira fuori la lingua e mi lecca le labbra. Io le schiudo ed il piercing mi batte sui denti. È il suono più erotico che abbia mai sentito. – Non presumere troppo, quando ti parlo. Hai idea da quanto tempo volessi infilarmi io nelle tue mutande?
Bill sorride a propria volta e mi stringe le cosce attorno ai fianchi, issandosi fino a superarmi di qualche centimetro. Guarda in basso, verso di me, un sorriso aperto ad increspargli le labbra e gli occhi semichiusi che mi fissano con bramosia.
- Hai ragione. – mormora, piegandosi per baciarmi ancora, - Abbiamo solo perso un sacco di tempo.
Lancio un’occhiata alla porta della camera da letto. Saranno quattro metri, da qui.
Valuto la situazione.
Oh, be’.
La moquette, in fondo, è morbida e pulita.