Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Storia di una relazione e del malinteso più enorme e fustrante di tutti i tempi XD
Note: Okay, io amo questa storia XD Prima di tutto, il titolo: in realtà la canzone di Bushido da cui è tratto e di una tristezza immonda XD Ma tutte o quasi le canzoni di quell’uomo sono di un deprimente colossale, perciò non c’è niente di cui stupirsi °-° Comunque sia! In realtà all’inizio voleva essere usato in modo molto lol e basta, però alla fine la storia stessa è un po’ più seria di quanto avessi preventivato (sebbene io la trovi comunque molto divertente e basta XD). Comunque vuol dire “quando un gangster piange”. Capite, è ridicolo X’D
Comunque è_é Dicevo, a me questa storia piace tanto, anche perché è un concentrato di cose che amo. C’è perfino un po’ di sano adorabile twincest fasullo! XD Non è la cosa più carina del mondo, Tomi che bacia Billi sul neo sotto il labbro? *____* *abbraccia i gemelli*
Okay, basta, c’è Yul che è curiosa di leggerla XD Spero vi sia piaciuta :*
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Storia di una relazione e del malinteso più enorme e fustrante di tutti i tempi XD
Note: Okay, io amo questa storia XD Prima di tutto, il titolo: in realtà la canzone di Bushido da cui è tratto e di una tristezza immonda XD Ma tutte o quasi le canzoni di quell’uomo sono di un deprimente colossale, perciò non c’è niente di cui stupirsi °-° Comunque sia! In realtà all’inizio voleva essere usato in modo molto lol e basta, però alla fine la storia stessa è un po’ più seria di quanto avessi preventivato (sebbene io la trovi comunque molto divertente e basta XD). Comunque vuol dire “quando un gangster piange”. Capite, è ridicolo X’D
Comunque è_é Dicevo, a me questa storia piace tanto, anche perché è un concentrato di cose che amo. C’è perfino un po’ di sano adorabile twincest fasullo! XD Non è la cosa più carina del mondo, Tomi che bacia Billi sul neo sotto il labbro? *____* *abbraccia i gemelli*
Okay, basta, c’è Yul che è curiosa di leggerla XD Spero vi sia piaciuta :*
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WENN EIN GANGSTER WEINT
Ho smesso molto tempo fa di credere che la vita potesse essere un insieme di certezze. Anzi, in realtà non l’ho mai creduto, perché fin da piccolo ho sempre saputo che nella vita la certezza è proprio l’ultima cosa che uno possa aspettarsi. È certa solo la morte, dicono alcuni, ma potrei avere da ridire. Se così fosse, io sarei morto qualcosa come un centinaio di volte. Il fatto io sia ancora in piedi dimostra piuttosto chiaramente che no, nella vita non c’è proprio niente di certo, e neanche nella morte.
Per dire, all’asilo tutti i miei compagni di classe avevano una mamma ed un papà. Alcuni papà o alcune mamme erano andati via di casa e vivevano altrove, ma continuavano ad esistere, prendevano i loro figli nel weekend e li portavano al parco, facevano loro splendidi regali eccetera eccetera. C’era anche un bambino il cui padre non c’era più, perché era morto. Ma prima di morire c’era stato. Ed il bambino ne parlava sempre come un eroe.
Mio padre, invece, non era proprio mai esistito. Il tunisino che mi aveva dato il colore della pelle, i lineamenti duri e rozzi e gli occhi scuri da arabo, nonché il nome più lungo che ricordi d’aver sentito a memoria d’uomo, svanì come uno sbuffo di fumo prima che io venissi al mondo. Mia madre non me ne ha mai parlato meno che rispettosamente – in un estremo tentativo di non riempirmi d’odio fin da piccolo, suppongo – ma la cosa non aiutò: penso di essere nato arrabbiato.
Comunque sia, mio padre non c’era. I padri degli altri, sì. Eppure io un padre avrei dovuto averlo. Ero nato, no? Ero vivo. Un padre doveva esserci. E invece non c’era. Prima certezza svanita.
Seconda certezza che mia madre aveva cercato di inculcarmi a forza nella testa: il mondo è un posto buono. Tempelhof non era male, a guardarla in cartolina. Lei mi portava lungo il canale di Teltow, mi mostrava le papere e rideva quando mi arrabbiavo perché non mangiavano le foglie che tiravo nell’acqua. Era il suo modo per farmi vedere che c’era anche qualcosa di bello, in giro per il mondo.
Poi però in prima la signora Keller – una donna talmente stronza e razzista che, al suo cospetto, pure il vecchio Adolf sarebbe sembrato un chierichetto – mi disse che dovevo, appunto, fare il bigliettino della festa del papà. Ritagliare il cartoncino con tanto di fottuto bordo a zigzag, scrivere ich liebe dich papa, ricoprire di colla, spargere la porporina e disegnare una pipa da colorare di marrone.
Sollevai lo sguardo, la troia mi guardava talmente schifata da far venire la nausea perfino a me. Le dissi “ich habe keine papa” e cercai di non mostrarmi furioso com’ero. Ero uno scricciolo alto un metro e ribollivo rabbia come una pentola a pressione. Lei batté due grosse ed arcuate dita smaltate di rosso sul cartoncino bianco e rispose che dovevo fare esattamente quello che facevano tutti gli altri miei compagni di classe. “Perciò fai il tuo biglietto della festa del papà, Anis”.
Pronunciò il mio nome con un tale disgusto che cominciai ad odiarlo. Anis non sarebbe stato tanto male come nome per un rapper, ma quando cominciai a rappare lo odiavo già così tanto che di pseudonimi me n’ero scelti altri due.
Vedete, non è certo neanche il nome, nella vita di un uomo.
Risultato: non avere nessuna certezza è proprio uguale ad averne troppe; non ti stupisci più di niente.
Quando Bill Kaulitz è entrato di prepotenza nella mia vita – in maniera molto più consistente rispetto a quanto non fossi già entrato io nella sua, peraltro – perciò, io non mi sono affatto stupito.
- Quindi il ragazzino torna domani dopo… quanto? Una ventina di giorni?
Ventidue, per la precisione. E comunque, per le relazioni appena cominciate, anche solo una settimana è già tantissimo.
- Sì, all’incirca.
Lei ride e beve un sorso del proprio Martini.
- È così palese che non vedi l’ora, Bu… sei comico da morire!
Aggrotto le sopracciglia ed affondo nella mia virilissima Berlinerweiße.
- È tutto a posto. Doveva lavorare.
- Certo. – ride lei, - È anche ligio al dovere, questo ragazzino. Mamma mia, scommetto che riuscirà nell’impresa nella quale hanno fallito tutte tranne una.
- …sarebbe?
- Farsi sposare, è ovvio! – conclude con una risata, trattenendo un cubetto di ghiaccio fra i denti.
- Prima di tutto, in Germania il matrimonio omosessuale non è consentito…
- Non ancora. – cinguetta lei, - Ma le unioni civili sì!
- Secondo poi, - proseguo ignorandola, - non parliamo di matrimonio. Io ho chiuso. Anzi, non sono mai stato sposato.
- Questo puoi negarlo in pubblico, ma non davanti a chi ti conosce! – mi fa notare in una mezza risatina tronfia, mandando giù un altro po’ di Martini.
Non posso che chinare il capo. Ha ragione.
- In ogni caso, sembra delizioso. – aggiunge con una scrollatina di spalle, - È stato uno zucchero, quando ci hai presentato. E poi ha degli effetti adorabili sulla tua personalità. Ti rende tenero! – faccio per organizzare una protesta dettagliata, dal momento che mi sta assalendo una nausea non meglio identificata, ma lei mi zittisce con un rapido cenno del capo. – Perciò, vedi di non rovinare tutto. Gli uomini rovinano sempre tutto.
- Mi conosci come un tipo che rovina le cose? – chiedo sarcastico, svuotando il boccale.
- Sì! – annuisce lei con una risata allegra, - E comunque, per quanto buono e bravo tu possa essere nei tuoi sogni, sei sempre un uomo.
O quello che ne resta.
Vivere per strada ti insegna un sacco di cose utili – io, per dire, so aprire le macchine per ripararsi dalla pioggia, e senza far scattare l’allarme! – però ti riempie pure di pregiudizi. Ogni tanto mi ritrovo a guardare gli altri con un sorrisetto superiore sul viso, ripetendomi che non valgono niente perché non hanno vissuto esattamente quanto ho vissuto io.
Certe volte ho ragione, altre volte no.
Per quanto riguarda Bill, ero davvero convinto fosse un ragazzino viziato completamente incapace di venire a patti con i sacrifici che non solo il mondo della musica, ma il mondo stesso impone. Ad esempio, quando nel 2006 cominciò a girare quel gossip riguardo il fatto io l’avessi fatto piangere… be’, no, la notizia in sé era falsa perché non avevamo mai davvero fatto un’intervista a due ed io non gli avevo mai chiesto quello che si diceva in giro gli avessi chiesto – non del tutto, almeno – ma quando scherzai sul fatto del pompino mi sarei aspettato che piangesse davvero. Non mi avrebbe stupito, proprio per niente. Era piccolo, sembrava molto, molto montato e per giunta si vedeva lontano un miglio che nel suo entourage lo tenevano sotto una campana di vetro e con molti morbidi cuscini sui quali adagiarsi, perciò diedi per scontato potesse essere un’eventualità plausibile. Neanche mi sentii in colpa, voglio dire, prima o poi qualcuno doveva pur farlo piangere.
Ci incontrammo poi non mi ricordo a che premiazione. Gli chiesi senza mezzi termini se gli fosse passata l’offesa. Non so se fosse sincero quando quel giorno mi guardò, inarcò le sopracciglia e disse che non aveva nulla da farsi passare perché nulla era mai effettivamente cominciato. In ogni caso, la sua sincerità non era il punto. Mostrarsi così tranquillo e disinteressato, nonché disponibile a parlare con me senza schiaffeggiarmi o cavarmi gli occhi, era quello il punto. Era quello il suo merito.
Insomma, il ragazzino, come Cassandra ama chiamarlo, non era poi tanto male. Offrirgli una birra mi sembrò il minimo. Speravo lui la prendesse, non so, come un armistizio. A Tempelhof per firmare gli armistizi ci facevamo favori a vicenda. Una birra era un modo elegante per sottintendere lo stesso concetto, no?
Chakuza me lo disse appena tornai dal bar. “Che fai, Atze, ti metti a discutere coi ragazzini? Guarda che è un problema, non si scollano più”.
Scrollai le spalle e guardai altrove.
Purtroppo, fra me e Bill non è mai stato così semplice. Intendo: ci siamo incollati a vicenda.
Letteralmente.
Niente di sessuale, chiaro, ma mi saltò addosso lo stesso. Altra premiazione, altre vittorie schiaccianti, altri premi fioccati a destra e a manca per tutti quanti. Per me, per loro.
Erano i Comet del 2007. E no, non sto parlando del modo indecente in cui mi premiò, perché dare la colpa a quello sarebbe troppo semplice. Con quello, Bill dimostrava solo di aver recepito più che bene la lezione e di essere stato indottrinato a dovere. I litigi tirano, ma mai quanto le supposte relazioni. Lo faceva già con suo fratello… farlo con me probabilmente era perfino meno pericoloso, nonché meno straniante.
Non mi prese di sorpresa, non quello, a quello mi adattai subito.
Fu il dopo, che cambiò tutto. Fu un afterparty noioso e stantio dal quale mi allontanai presto, per fare un giro intorno al locale. Fu il momento in cui tornai all’ingresso per rientrare, recuperare la giacca ed avvertire che stavo andando via. Fu la soglia che superai e fu la luce che mi investì e che mi costrinse ad alzare lo sguardo. Su di lui. Che mi rovinò addosso.
- Merda… mi scusi… - biascicò mentre cercava di rimettersi dritto sui piedi. Non trovavo difficile reggerlo – era leggerissimo. Comunque, era divertente che non mi avesse riconosciuto.
- Già ubriaco a quest’ora? – lo schernii con un mezzo ghigno sul quale lui spalancò quegli enormi occhi color cioccolata, confondendomi. Le parole di Chakuza cominciarono a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Nei miei pensieri annoiati e distorti, lo stronzo sorrideva pure. Ma sopra tutto c’erano gli occhi di Bill. “I ragazzini si appiccicano”.
- Non sono ubriaco… - mormorò lui, strascicando le parole, - Ti cercavo.
Non avrei potuto essere più confuso di quanto già fossi, perciò il senso di smarrimento non aumentò. Si fece più ansioso, però.
- Per dirmi…?
Bill si strinse nelle spalle.
- Non lo so. – biascicò, - Prima c’eri, poi non c’eri più. Volevo capire dove fossi andato.
Inarcai le sopracciglia, incerto.
- Perché?
Lui abbassò lo sguardo e si morse un labbro.
- Ti va di fare una passeggiata? – mi chiese invece di rispondere.
- …non hai un altro trentenne a cui chiedere di accompagnarti in giro? Chessò, il tuo manager?
- Non voglio andare in giro con David. – si lamentò con una smorfia. Poi tornò a guardarmi e trasse un sospiro così enorme che il suo petto piccolissimo si gonfiò al punto che temetti potesse scoppiare. – Senti. – balbettò, improvvisamente più lucido, - Non so dove ho trovato il coraggio di chiedertelo. Probabilmente io non ti piaccio, però… è solo un giro, okay? Nulla di compromettente.
Ovviamente mi terrorizzò. Non starò certo qui a negarlo. Non capita tutti i giorni che un ragazzino palesemente ubriaco venga a chiederti una passeggiata notturna. A me, per dire, non era capitato proprio mai. Comunque, non c’era veramente un motivo per il quale dovessi negargli il piacere della mia compagnia – o per il quale dovessi negare a me stesso il brivido caldo di quegli occhi addosso – perciò accettai. Non mi preoccupai neanche di recuperare la giacca. Non faceva neanche freddo.
Bill rimase perfettamente in silenzio, per tutto il tempo. La notte era tiepida e piacevole. C’era una luna stupenda. Lo ricordo perché la sua pelle brillava.
Io non avevo nulla da dire, perciò, piuttosto che riempire i vuoti con stupide battute o frasi fatte, imitai il suo esempio. Lasciai che la passeggiata andasse come doveva. Quando ritornammo nei pressi del locale, suo fratello Tom lo stava aspettando, caracollando nervosamente da un lato all’altro dell’ampio ingresso del club, con quella sua strana camminata da papera. Bill lo vide ed accennò un saluto. Tom lo imitò, ma la sua mano si fermò a mezz’aria quando capì che al suo fianco c’ero io. Lo osservai guardarci interdetto per un lunghissimo minuto, prima di scoppiare a ridere scuotendo il capo e rientrare nell’edificio.
Quando tornai a guardare Bill, era arrossito in maniera indecente.
Supposi dovessero essersi detti qualcosa senza parlare. Ripetevano spesso di essere in grado di farlo, durante le interviste.
- Penso di dover andare. – mi salutò con un breve cenno del capo, - Anche se non mi hai risposto.
Inclinai il capo.
- Dev’essermi sfuggita la domanda. – ammisi.
Probabilmente la mia espressione rifletteva in pieno ciò che stavo pensando. Cioè che mi sentivo molto stupido. In ogni caso, quando Bill tornò a guardarmi, non poté trattenere una risatina che, in teoria, avrebbe dovuto infastidirmi – ma non lo fece.
- Ti ho chiesto se ti piaccio. – rispose a bruciapelo, incrociando le braccia dietro la schiena.
Deglutii.
Probabilmente io non ti piaccio, però…
Sì, lo ricordavo.
Cercai di sorridere.
- Non si fanno domande simili senza rispondere per primi. – cercai di difendermi strenuamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Che vigliacco sei! – rise, dandomi un colpetto sulla spalla, - La mia risposta, comunque, era implicita nella domanda.
Ridacchiai.
- Come sei enigmatico.
- Dunque? – chiese lui, ansioso, lanciando uno sguardo all’ingresso del locale, dal quale Tom era tornato ad affacciarsi sporgendo solo occhi e naso, come una talpa curiosa di esplorare la superficie.
Sospirai.
- Dipende da cosa vuoi sentirti dire. – risposi roteando gli occhi, - Cerchi una dichiarazione d’amore?
Bill arrossì furiosamente e si coprì gli occhi con una mano.
- Possiamo uscire insieme qualche altra volta? – chiese a bassa voce, - Voglio sapere solo questo.
Sorrisi e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, porgendoglielo.
- Lasciami il tuo numero. – risposi, - Ti chiamo io.
Andai a trovarla a scuola, all’uscita. Una canottiera ed un paio di jeans strappati addosso – stavo scontando la mia condanna per vandalismo imbiancando i muri di Berlino, in quel periodo. “Frau Keller”, la salutai con un cenno del capo. Lei sussultò – stava assicurandosi che i bambini raggiungessero tutti le macchine dei loro genitori senza intoppi. Appoggiato alla rete del cortile, le braccia incrociate ed il petto gonfio di un orgoglio storto e meschino, io la guardavo, sorridendo sfacciatamente.
Non mi riconobbe. Ciononostante, il colore della mia pelle non sembrò più essere un problema, per lei. Io non mi sprecai a dirle chi fossi nello specifico. Mi presentai come un suo ex allievo, inventai un nome tedesco per confonderla un po’ e, nel complesso, ci provai così spudoratamente da farmi quasi schifo da solo. Il suo petto grasso e flaccido si sollevava ansioso seguendo il ritmo incontrollato nel suo respiro, ed io la guardavo come volessi mangiarla.
Le diedi il mio numero di cellulare. Le dissi di chiamarmi.
Quando mi chiamò, le rispose Fler. Minacciandola di morte. O qualcosa di simile, al momento non ricordo. Fler aveva molto estro, per queste cose. Ricordo comunque con certezza che la chiamò vecchia pervertita. Non riesco ancora a pensarci senza ridere come un pazzo, nonostante tutto.
In ogni caso, fissavo il numero di Bill Kaulitz e continuavo a ripetermi “magari lo chiamo e risponde suo padre che minaccia di denunciarmi. Oppure suo fratello che minaccia di denunciarmi. Oppure il suo manager che minaccia di denunciarmi”.
Alla fine lo chiamai perché il pensiero si stava facendo ossessivo. Continuavo a sognare denunce. Dovevo porre fine a quel circolo vizioso.
Oltretutto, ero vagamente curioso di capirci qualcosa, se non si trattava di uno scherzo.
Ero curioso di…
…be’. Bill Kaulitz è Bill Kaulitz. Non mentivo e neanche esageravo, quando dicevo che, se me l’avesse chiesto, non avrei pensato per più di due secondi alla possibilità di andare a letto con lui. Di cosa fossi curioso è abbastanza intuibile.
Comunque, mentre stavo lì ad arrovellarmi e prospettare lunghi procedimenti legali che si sarebbero conclusi soltanto con una lunga serie di zeri su un assegno, ascoltando con panico sempre crescente il tu-tu nella cornetta del telefono, Bill rispose.
Sospirai di sollievo, e non fu per la mancata denuncia, temo.
- Pronto?
- Ce ne hai messo di tempo a rispondere, Kaulitz.
- …credevo non mi avresti più chiamato.
Suppongo siano le tre battute più abusate della storia del cinema.
In ogni caso, fra noi cominciò così.
Zero certezze. Bill Kaulitz, comunque, aveva già cominciato a stupirmi.
Tra l’altro, venne fuori che il fratello, all’afterparty, non mi stava platealmente prendendo in giro: rideva perché, già da qualche mese, Bill gli riempiva la testa di “dovrei dichiararmi o no?”. Quando ti senti approvato, voli anche più in alto.
Io e Bill volammo altissimo. Per un bel po’ di tempo.
La mia lunga e lenta agonia è cominciata nel maggio di quest’anno. Con tutti i problemi che Bill ha avuto alla gola – la cisti e tutto il resto – non è stato facile trovare un po’ di tempo per incontrarsi. I paparazzi assediavano l’ospedale, i suoi appartamenti, perfino casa di sua madre. Non c’era proprio modo. Perciò, quando mi ha chiamato al telefono – la voce ancora un po’ rauca ed affaticata – e mi ha detto “posso uscire, ci vediamo?”, mi sono messo a ringraziare un po’ tutti gli dei possibili. In questi casi non importa se ci si creda o meno.
Perciò arrivo sotto casa di Bill e lui è lì che brilla letteralmente. Non so, non era truccato e sembrava femmina quanto me, aveva i capelli appiccicati al viso e schiacciati da una cuffia di lana assolutamente improponibile – soprattutto vista la stagione – un paio di enormi occhiali a coprire metà del viso ed il colletto della giacca tirato su fino al mento. Ma era stupendo.
Non ci penso neanche un secondo, lo afferro per la giacca e me lo tiro contro. Lui mugola un qualcosa tipo “ci vedranno tutti”, io lo zittisco nel modo che entrambi preferiamo per fermare la sua logorrea, lui mugola ancora ma un qualcosa di diverso. Sorrido soddisfatto, lo trascino fino alla macchina, lo porto a casa mia. Lui ridacchia per tutto il tempo, mi racconta cose assurde sulla sua convalescenza per minuti interi, “lo sai che mi hanno infilato in una camicia da notte che era tremenda? A pois, ti rendi conto?! Ero orribile” ed io che sorrido ancora come un deficiente e penso che ad immaginarlo a me sembra una fantasia sessuale niente male anche in una camicia da notte a pois, che dire, sono gusti, e lui parla parla parla ed io sono felice davvero, al punto che quando me ne rendo conto mi do del cretino da solo per non averlo capito prima. Arriviamo sotto casa, lo prelevo quasi di peso, salutiamo la portinaia con un educato cenno del capo, corriamo su per le scale e mi fiondo sulla sua bocca appena varcato l’uscio, chiudendomi la porta alle spalle con un calcio tale da scheggiarla. Ed io sono lì che penso “Dio quanto mi sei mancato” e non so se darmi del deficiente o fustigarmi o godermi il momento, ma lui è lì, sotto di me, sul mio letto, che si fa spogliare e miagola e mi chiama per nome ed io impazzisco, quando mi chiama per nome, e poi a un certo punto lo dice.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Ti amo”.
Dovrebbe essere vietato – assolutamente vietato – dirlo in una situazione simile.
Mi ritrovo seduto sul materasso, di fronte a lui. Indossa solo i boxer ma non ho più nessuna voglia di saltargli addosso. La mia camicia s’è persa non so dove e neanche mi interessa. Lo guardo negli occhi e lui mi fissa di rimando.
Allungo una mano, gli sfioro una guancia, lo bacio sulle labbra e rispondo.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Anch’io”.
Gli si apre sul viso un sorriso fantastico.
A quel punto, se io fossi stato un vero uomo, mi sarei preso ciò che mi spettava e l’avremmo finita lì. Non nel senso che ci saremmo lasciati, nel senso che probabilmente avrei dato il via ad una lunga e soddisfacente relazione sessuale e sentimentale e saremmo stati tutti felici per sempre e bla bla. Ma io non sono veramente un uomo, sono un cretino. È palese. Sono un cretino che si lascia influenzare dalle chiacchiere di un’amica che fa paura, perché dannazione, se una che si chiama Cassandra viene da te e ti dice che rovinerai tutto, tu le credi. Se non le credi sei un pazzo suicida, ecco.
Perciò – Dio, mi rivedo con una chiarezza sconcertante – eccomi lì che lo guardo con l’aria dell’amante appassionato ma dolce e gentile e gli dico “Bill, non devi dimostrarmi niente. Se non sei ancora pronto, aspetterò”.
E lui che sorride.
Tenero come un cucciolo.
Ed annuisce.
Lì ho capito – per la seconda e definitiva volta nella mia esistenza – che, certezze o non certezze, è uguale. Tanto la vita ti smerda comunque.
Non sono neanche sicuro di riuscire a spiegarmi. Voglio dire, io lo amo. E lo desidero, cazzo. Per certi versi, pretendere una concessione era un mio diritto. Era un suo dovere darmela, no?
Invece niente.
Lui passava i pomeriggi da me – ed io gli morivo dietro, giuro. Una cosa indecente. Non poteva neanche lavarsi i denti senza che io mi ritrovassi a fissarlo con aria ebete dalla soglia del bagno. Povero ragazzo, devono pure essere stati momenti d’imbarazzo incredibili. Lavava i denti, asciugava lo smalto soffiandoci sopra, pettinava i capelli, sistemava la maglietta, qualsiasi cosa mi faceva venire voglia.
Ma lui non diceva niente. Non si faceva avanti, cazzo. Ogni tanto lo sorprendevo a guardarmi con le sopracciglia aggrottate ed un broncio adorabile sul volto, sembrava ce l’avesse con me. Io mi chinavo a baciarlo – perché non so resistere a quelle labbra – e poi gli chiedevo quale fosse il problema. Lui distoglieva lo sguardo e scuoteva il capo. “Niente”, rispondeva. Non ho fatto che pensare ai suoi “niente”, per tutto il tempo che è stato in tour in America. Probabilmente gli davano fastidio i miei sguardi. Non lo so, a me non avrebbero dato fastidio, anzi, sarei stato felice che lui mi guardasse nel modo in cui io guardavo lui, ma… be’, ho detto che l’avrei aspettato. Devo farlo, no?
No?
Il Berlin-Schönefeld è, come al solito, un incredibile e spaventoso casino. Mi guardo intorno e mi chiedo chi me l’abbia fatto fare. Andarlo a prendere all’aeroporto, Dio. Probabilmente non mi lasceranno neanche portarlo con me. Non avrebbe senso. Io, se fossi in Jost, non lo lascerei andare a casa con Bushido.
In ogni caso.
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Questa è una delle frasi che ricordo con maggiore insistenza, dei miei diciott’anni. È stato un periodo abbastanza incasinato – incasinato più o meno come questo aeroporto, sì – c’era la droga, c’era la fottuta prigione, c’era Fler, c’erano un sacco di cose alle quali ogni tanto penso con rabbia, perché mi hanno rubato tempo, ogni tanto con gratitudine, perché mi hanno reso ciò che sono, ed ogni tanto con tenerezza, perché ero proprio un piccolo imbecille.
Appena finito di scontare la pena per vandalismo, non potendo tornare a scuola, andai a cercare lavoro un po’ ovunque. Cominciai cercando di impiegarmi come operaio da qualche parte. Andavo, facevo il colloquio, lasciavo il mio recapito, incassavo con un sorriso il mio “le faremo sapere” e poi smadonnavo come un posseduto quando arrivava la lettera di rifiuto. Se si sprecavano a farmela arrivare.
Ma sto tergiversando.
Ciò che intendevo dire è che mi capita spesso di sentirmi esattamente in questo modo, quando sto con Bill. Non credo che sia colpa sua – o meglio, non credo che lo faccia apposta. È un senso di disagio che mi prende all’improvviso, quando sono particolarmente frustrato o stanco. Vedo lui, così giovane, così tenero, così… stavo per dire spensierato, ma in realtà Bill non è spensierato, è solo luminoso. Anche quando ha qualche grana per le mani, non perde la sua brillantezza.
Mi sento inadeguato. Solo a volte.
Fortunatamente, poi, succede sempre l’unica cosa che è davvero in grado di farmi sentire a posto con me stesso e con questa relazione. Bill arriva. E mi sorride. Io guardo le sue labbra e i suoi occhi e so che sta sorridendo per me. E tanto mi basta.
- Bentornato… - lo saluto, mentre lui mi vola fra le braccia ridacchiando come un deficiente.
- Non credevo che saresti venuto! – cinguetta aggrappandosi al mio collo e sollevandosi quei due centimetri che gli mancano per arrivare a baciarmi, - Sei fantastico… - mugola piano, abbandonandosi contro di me.
- Sono passato solo a salutarti. – spiego con una scrollatina di spalle, - Immagino tu sia stanco.
- Un po’ sì. – medita con un mezzo broncio pensoso, - Però se vuoi possiamo stare un po’ insieme.
Lancio un’occhiata a Jost.
- Siamo sicuri che… - accenno un po’ titubante, indicandolo con un cenno del capo.
- Portatelo via. Dove vuoi. L’importante è che sparisca. – è la stanca risposta dell’uomo, mentre si allontana senza uno sguardo di più.
Una risatina divertita si unisce a quella di Bill, e Tom abbraccia suo fratello come fosse una coperta, come fa sempre quando lo deve salutare per un lungo periodo di tempo – il lungo periodo di tempo, in genere, scatta già dopo due ore.
- Non badarci. – dice il biondo, riferendosi a Jost, - Durante i tour fa sempre così, va in overdose. Poi torna ad amarci più di prima, ma non penso avrà nulla in contrario a liberarsi di Bill per un po’.
Bill solleva gli occhioni su suo fratello ed espone un broncio adorabile.
- A te non mancherò? – pigola querulo, incrociando le braccia sul petto.
Tom ride e gli lascia un bacio proprio sul neo che ha sotto al labbro inferiore.
Io guardo e deglutisco e probabilmente dovrei essere infastidito. Probabilmente. Ma comunque non lo sono. I Kaulitz li prendi come sono. Ciò significa che o li prendi entrambi o non ne prendi nessuno.
- Adesso molla il mio ragazzo, Atze, prima che la gente cominci a pensare sia il tuo. – ridacchio infilando un braccio fra loro ed attirando Bill a me.
- Ma lui è mio. – ghigna furbo Tom, facendogli l’occhiolino.
Bill ride e mi si spiaccica addosso.
- Ho abbastanza amore per entrambi. – conclude con un sorrisino.
Ed io forse sono davvero un cretino, ma a me basta.
- È tutto a posto? – chiedo incerto, guardandolo storto.
Bill sbuffa.
- Un bacio? – chiede con aria scazzata, sporgendo il viso.
Cerco di sorridere e lo bacio lievemente sulle labbra.
- Tutto qui?! – borbotta non appena mi separo da lui.
Scrollo le spalle.
A volte non capisco davvero a che gioco stia giocando.
Lui si passa una mano sulla fronte, fra i capelli, sul collo. Seguo il movimento delle sue dita come ipnotizzato e mi mordo le labbra.
- Non so perché, - riprende, - ogni volta che devo parlare seriamente con te mi tocca ubriacarmi per prendere coraggio, oppure esasperarmi abbastanza da non badare alla paura.
Spalanco gli occhi.
- Bill?
- Insomma, cos’è? Ti fa schifo che io sia maschio? È per questo che non vuoi scoparmi?! Oppure sono le relazioni serie a frenarti? Cazzo! – batte una mano sul tavolo, fissandomi rabbioso, - Se l’avessi saputo, non ti avrei mai detto che ti amavo! Vaffanculo!
Questo ragazzino dev’essere fuori legge. Sono convinto che sia illegale.
Sul serio.
- Rispondimi, almeno!
- Aspetta, aspetta, Bill… - mi faccio avanti, prendendogli le mani e stringendole nello stesso momento, - Sono confuso. Quando ti ho detto che avrei aspettato finché non fossi stato pronto…
- Io ho pensato che fosse un modo per dirmi che tu non eri pronto! – sbraita, cercando di liberarsi, - Impreparato, io! Ma ti venivo dietro da mesi, Cristo, non vedevo l’ora di infilarmi nelle tue mutande! Ma quanto cretino puoi essere?!
- Bill! – lo rimprovero, sinceramente sconvolto, - Adesso datti una calmata!
- Non mi calmo neanche per un cazzo. – sibila lui, occhi bassi ed espressione serissima. Si sporge in avanti e neanche mi bacia, m’invade. La lingua e le labbra ed i denti e quel piercing tremendo. – Capito l’antifona?
C’è poco da fare.
Uno si dice tante cose. Che non può stupirsi, che non ha certezze, che tanto è sempre così, nulla può veramente darti una scossa e farti sragionare.
È stupendo che io abbia trovato Bill. È l’unico che ci riesce.
Lo afferro per i fianchi, schiacciandolo contro il muro e spostando immediatamente le mani sulle sue natiche, saggiandone la consistenza attraverso il tessuto ruvido dei jeans. Lui ansima quando i nostri bacini si scontrano, e tira indietro il capo, cercando le mie labbra.
- Ragazzino… - gli sussurro addosso, prima di accontentarlo, - Quando ti ho chiesto se non ti sentissi ancora pronto, intendevo esattamente ciò che stavo dicendo. – sorrido. Lui tira fuori la lingua e mi lecca le labbra. Io le schiudo ed il piercing mi batte sui denti. È il suono più erotico che abbia mai sentito. – Non presumere troppo, quando ti parlo. Hai idea da quanto tempo volessi infilarmi io nelle tue mutande?
Bill sorride a propria volta e mi stringe le cosce attorno ai fianchi, issandosi fino a superarmi di qualche centimetro. Guarda in basso, verso di me, un sorriso aperto ad increspargli le labbra e gli occhi semichiusi che mi fissano con bramosia.
- Hai ragione. – mormora, piegandosi per baciarmi ancora, - Abbiamo solo perso un sacco di tempo.
Lancio un’occhiata alla porta della camera da letto. Saranno quattro metri, da qui.
Valuto la situazione.
Oh, be’.
La moquette, in fondo, è morbida e pulita.