rp: bojan krkic

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: AU, Slash, Lemon.
- A causa del bullismo dei suoi colleghi medici, Zlatan, ultimo arrivato all'ospedale, si ritrova costretto ad effettuare un turno alle visite ordinarie. E' qui che, invece, riceverà una visita che di ordinario non ha proprio nulla.
Note: Storia nata principalmente perché io ho dei problemi seri, ma anche perché pure i pubblicitari spagnoli hanno problemi seri. (Il bonus, invece, è perché Jan rompeva le palle.) (♥) Titolo rubato a una canzone di Nancy Sinatra che in realtà faceva "another gay sunshine day", ma insomma.
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Another Gay Hospital Day


- Quello che non capisco – sbuffa Zlatan, incrociando le braccia sul petto, - è perché dovrei farlo io.
- Perché sei un novellino. – risponde serafico Gerard, sorridendogli come se niente nel mondo potesse rovinare lo stato di pace interiore in cui si crogiola la sua candida anima, - Quindi ti tocca.
- Ci sono dei turni da rispettare. – borbotta lui in risposta, tirando giù le maniche del camice evidentemente troppo piccolo per la sua taglia, - E comunque Bojan è più piccolo di me.
- Ma è arrivato diversi anni prima. – gli fa notare Lionel, scorrendo la lista degli impegni giornalieri, - e comunque—
- Krkic. – chiama il primario Guardiola, passando puntualmente a qualche metro di distanza mentre Zlatan rotea gli occhi e Bojan sorride splendente come un bambino a Natale, fra le risatine di tutti gli altri colleghi raggruppati attorno al banco dell’accettazione, - Nel mio ufficio. Adesso.
- Arrivo, dottor Guardiola! – cinguetta Bojan, poggiando la cartella che stava visionando sul banco e trotterellandogli dietro, dimentico di chiunque fosse il paziente di cui si supponeva dovesse prendersi cura.
- Giuro che un giorno qualcuno ci lascerà le penne perché Boji ha preferito correre dietro all’esimio culo del dottor Guardiola piuttosto che prendersi cura di lui. – commenta Andrés, seduto sullo sgabello dietro il banco, controllando meccanicamente che tutte le cartelle siano ai loro rispettivi posti.
- Dagli torto. – ridacchia Xavi, stringendosi appena nelle spalle, mentre tutti si voltano a guardarlo inarcando le sopracciglia in un movimento così sincronico da rasentare il capolavoro artistico. – Cosa? – chiede lui, ridendo con maggiore divertimento, - Era un giudizio di valore come un altro.
- …sì, certo, un giudizio di valore. – sospira Zlatan, roteando gli occhi, - Questo non elimina il problema principale.
- Che sarebbe? – chiede Lionel, quasi annoiato, continuando a scorrere l’elenco e spuntandone delle voci apparentemente a caso di tanto in tanto.
- Sarebbe che io non posso andarmi a smazzare le visite ordinarie come un qualunque pivello! Nell’ospedale in cui stavo prima—
- Lo sappiamo, lo sappiamo. – lo liquida Gerard, gesticolando distrattamente, - Eri il primo fra tutti i medici, come te non c’era nessuno, i pischelli ti guardavano come fossi dio in terra e le infermiere si bagnavano al tuo passaggio.
- Io non ho mai detto questo! – sbotta Zlatan, aggrottando le sopracciglia, - Però sì, è esattamente quello che accadeva. – sbuffa contrariato, il naso puntato verso il soffitto e una smorfia altera ad indurire i tratti del viso.
- Non fare quella faccia che già sei brutto, mi spaventi i bambini. – lo riprende Lionel, e Zlatan gli tira una schicchera in piena fronte.
- Parla quello che quando i pazienti arrivano chiedono “dov’è il dottore”, e devono chinarsi per notarlo. – sbotta, e Lionel si massaggia la fronte, lanciandogli occhiatacce infastidite.
- Be’, almeno io passo attraverso le porte senza sbattere il mio enorme naso contro gli stipiti e anche contro la parete alla fine del corridoio. – gli fa notare supponente, ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Senti, tu-- - comincia Zlatan, ma il dottor Puyol li ferma entrambi, afferrandoli per i rispettivi colletti e tirandoli indietro.
- Sentite tutti e due, - li rimprovera, - qua si viene per lavorare e per curare la gente, non per battibeccare come bambini delle elementari o peggio. Per cui, - conclude, lasciandoli andare con uno strattone deciso, - al lavoro. E basta schiamazzi.
Zlatan ringhia sommessamente e si massaggia la nuca, neanche Puyol l’avesse afferrato per la collottola, ma si rende conto che ha ben poco da protestare ancora: il nonnismo plateale che regna sovrano in quell’ospedale è troppo potente perfino per lui, perciò – mentre tutti i suoi colleghi, lo sa, gli ridono dietro – china il capo e s’infila nella prima sala visite a portata di mano, sperando non sia già occupata.
Non lo è, o meglio, lo è, ma non da un altro medico. Un paziente, tuttavia, sta seduto sul lettino e si guarda intorno con aria annoiata, come non vedesse l’ora di andarsene. Zlatan può comprendere il suo stato d’animo e, in un impeto di empatia – qualcosa che non si verificherà più per almeno altri dieci anni – gli sorride bonario. L’uomo, però, non risponde con altrettanto calore, e si limita a lanciargli un’occhiata vaga, scendendo dal lettino e mettendosi in piedi davanti a lui.
Sarà sulla cinquantina, è più basso di lui ma questo non lo stupisce – quasi tutti sono più bassi di lui, generalmente, nell’universo. Ha una bella linea ma il viso provato di uno che nella vita ne ha viste abbastanza da non volerne vedere più. I capelli sono brizzolati, ma ancora molto scuri soprattutto alla base. Tutto sommato, con quei jeans e quella polo scura e quell’aria da riccone abbronzato che non deve chiedere mai, sembra in salute.
- Allora? – chiede il tizio, interrompendo la sua scansione oculare della sua persona, - Vogliamo restare lì imbambolati ancora a lungo o cosa? L’ha preso il suo caffè, stamattina?
Zlatan aggrotta le sopracciglia, infastidito dal suo tono supponente e dalle sue parole nient’affatto concilianti il buonumore.
- Che l’abbia preso o meno io non deve preoccuparla, ma è evidente che, se l’ha preso lei, ha dimenticato di aggiungere la giusta dose di zucchero. – commenta ironico, scrollando le spalle ed avvicinandoglisi.
- Io prendo il caffè sempre amaro. – dice il tipo.
Zlatan sogghigna, allungandosi a recuperare la cartella clinica appoggiata alla scrivania.
- Non mi stupisce. – dice, scorrendo la cartella con lo sguardo. – Insomma, signor… Mourinho? Non è di qui?
- Sono portoghese. – spiega lui, - Ma questo non dovrebbe interessarle. E non ho nessun malanno, se è questo che si sta augurando.
Zlatan inarca un sopracciglio, picchiettando con la penna sul lato della cartella.
- Potrà sembrarle strano, ma non auguro a nessun essere umano di stare male, sa? – dice, ma il tipo lo liquida con un gesto della mano.
- Come preferisce. Comunque mi serve solo un certificato di sana e robusta costituzione, perciò diamoci una mossa e cominciamo questa visita, che ho da fare. – stabilisce, accennando a sfilare la polo dopo averne sciolto un bottone del colletto, ma viene fermato dall’occhiata incredula e vagamente ilare che Zlatan gli lascia scorrere addosso.
- Un cert— per lei? – chiede, indicandolo con la penna, - Ma quanti anni ha?
- …c’è scritto sulla mia cartella. – borbotta lui, perplesso, - Quarantasette, comunque. Dottore, c’è qualche problema?
- Sì, evidentemente. – risponde Zlatan, amplificando l’ovvietà della propria risposta con un ampio gesto del braccio, - A cosa le serve un certificato di sana e robusta costituzione?
- Non sono affaracci suoi. – risponde l’uomo, burbero. Zlatan ride.
- No, se permette lo sono. – insiste, - Dal momento che devo essere io a rilasciarglielo, e che su quel pezzo di carta ci sarà la mia firma, ho bisogno che lei mi fornisca tutte le informazioni che io riterrò opportuno richiederle, indipendentemente da quanto lei ritenga opportuno rivelarmele. Non voglio ritrovarmi con una denuncia fra due giorni, né scoprire dal giornale che un cinquantenne è morto d’infarto facendo dio solo sa cosa perché un medico incompetente non è stato abbastanza bravo da impedirglielo.
L’uomo si prende qualche secondo per guardarlo come guarderebbe una ballerina di flamenco uscita all’improvviso dalle fogne facendo saltare il tombino con una sventagliata decisa, e poi schiude le labbra.
- …io non sono un cinquantenne, tanto per cominciare. – precisa piccato, - E lei indubbiamente ha una spiccata fantasia. – aggiunge atono, annuendo impercettibilmente, - Ma non accadrà niente del genere. Devo solo allenare la squadra di calcio di mio figlio per i campionati scolastici, niente di—
- Oh, bene, quindi ci sono di mezzo dei bambini. – prende nota Zlatan, serissimo, - Ancora peggio, dunque. Lo sa quanti genitori avanti con l’età muoiono stroncati da un infarto mentre inseguono la progenie? No? Be’, non glielo dico perché non voglio spaventarla, ma sono tanti.
- Oh, ma per favore! – lo interrompe l’uomo, roteando gli occhi, - Sopravvivrò senza alcun problema, ora se vuole—
- No, lei non ha capito. – insiste Zlatan, - Io in genere non occupo questo posto all’interno della struttura ospedaliera. E—
- E questo l’avevo anche capito da solo, guardi.
- E non posso proprio – riprende Zlatan, ignorando la sua interruzione, - non posso proprio rilasciarle questo certificato se non mi fornirà specifiche esatte su quello che andrà a fare sul campo, sul ruolo che andrà a ricoprire, sul numero delle ore che si suppone lei debba impiegare al seguito di questi bambini e—
Zlatan non si era mai reso conto di quanto i lettini ospedalieri fossero scomodi. Probabilmente perché non ne aveva mai utilizzato uno prima d’ora. E, in effetti, non ricorda di aver permesso esplicitamente o anche implicitamente all’uomo che ha di fronte di prenderlo e ribaltarlo sul suddetto lettino, men che meno di baciarlo, poi, perciò si sente pienamente in diritto di ribellarsi, agitandosi come un’anguilla dentro la sua presa ferrea malgrado l’età e provando a spingerlo all’indietro, tutto sommato con scarsi risultati.
- Ma che sta facendo?! – strepita, piantandogli le mani sul petto, non appena lui gli lascia abbastanza spazio da tirarsi indietro, sottrarsi al bacio e ricominciare a respirare. L’uomo non si muove di un millimetro, resta piantato fra le sue cosce e si spinge contro di lui in un gesto secco e immediato, che gli tira via quel po’ di fiato che ancora conservava nei polmoni.
- Volevo zittirla, e questo m’è sembrato il modo più sbrigativo. – si giustifica lui, scostandogli di dosso il camice e tirandoglielo indietro abbastanza da incastrargli fastidiosamente le braccia dietro la schiena. – Adesso però vedo che l’idea potrebbe avere risvolti perfino più positivi di quanto avessi immaginato. – aggiunge con un ghigno in parte sarcastico e in parte compiaciuto.
Zlatan spalanca gli occhi, il respiro che si fa più svelto mentre cerca invano di liberarsi e, dimenandosi insensatamente, non ottiene altro che continuare a strusciarsi con maggior forza contro il suo bacino.
- Che cosa avrebbe intenzione di fare? – chiede, cercando di allontanarsi il più possibile, ma l’uomo gli si avvicina e lo bacia ancora, quasi con violenza.
- Le dimostro la mia sana e robusta costituzione. – risponde lui, soddisfatto.
Zlatan ha appena il tempo di provare a spostare le gambe per, magari, chiuderle, che si ritrova ribaltato, lo stomaco schiacciato contro il materasso sottile e scomodissimo del lettino e le braccia ancora incastrate dietro la schiena, solo che adesso può esercitare su di esse un controllo addirittura minore rispetto a prima, dato che il tizio lo tiene ben saldo con una mano per le maniche e con l’altra per un fianco, rendendogli impossibile qualsiasi tipo di movimento. A meno che non sia un movimento che lo costringa ad urlare per il dolore, ed urlare vorrebbe dire attirare l’attenzione, e attirare l’attenzione vorrebbe dire portare almeno la metà dei suoi cosiddetti colleghi a fare irruzione nella stanza per trovarlo immobilizzato e sottomesso da un nonnetto, in pratica, e se Zlatan vuole avere qualche speranza di sottrarsi al bullismo imperante che Guardiola, con tutte le sue distrazioni, non riesce ad arginare, be’, questa non è una possibilità ammissibile.
- Mi lasci andare immediatamente! – ordina, col più deciso dei toni che riesce a tirar fuori dal fondo dello stomaco, ma tutto ciò che esce dalle sue labbra è un’implorazione impaurita e un po’ strozzata. Il tipo gli sorride sulla nuca, e la schiena di Zlatan si ricopre di brividi.
- Faremo in modo che questa visita duri il più brevemente possibile. – gli sussurra all’orecchio con tono rassicurante, e Zlatan sente il bisogno quasi fisico di urlare. Gli esplode nel petto, gli fa perfino male, ma non cede. E il tipo ride. – Non hai ancora chiesto aiuto. – gli fa notare, e Zlatan sente stridere fastidiosamente nelle orecchie il tu confidenziale che s’è sentito in diritto di usare con lui senza nemmeno chiedergli il permesso. Come non gli ha chiesto il permesso di ribaltarlo sul lettino, d’altronde, e come non chiede il permesso quando gli sfibbia i jeans e li lascia scorrere lungo i suoi fianchi magri e poi lungo le sue gambe, liberandosene celermente per poi tornare a schiacciarsi contro le sue natiche.
Zlatan sente la sua erezione nonostante il tessuto spesso dei jeans, ed il primo pensiero che formula è anche il più assurdo, nonché il più imbarazzante, e cioè che sì, l’uomo qui sembra davvero di sana e quanto mai robusta costituzione. Vorrebbe avere le mani libere per potersi coprire il volto con vergogna, ma sono ancora bloccate, e lui non può fare altro che abbassare lo sguardo e cercare di reprimere i gemiti quando il portoghese lo accarezza fra le natiche con due dita umide, cercando la sua apertura.
- Cristo! – ansima agitato, ed è felice, nell’infelicità, naturalmente, di essere carponi contro il lettino. Così, almeno, non dovrà giustificare di fronte al dannato sorriso supponente di quell’uomo l’erezione prepotente che sta schiacciando sul materasso.
Il tizio, comunque, lascia andare una risatina lieve, impalpabile, terrificante, e spinge le dita in fondo al suo corpo. Senza fretta, quasi senza attrito, costringendolo col movimento del proprio bacino a strisciare lungo la superficie del letto. Zlatan geme a bassa voce quando il materasso accarezza la sua erezione, e geme ancora più forte quando le dita dell’uomo trovano la sua prostata. Può sentire il suo sorriso estremamente soddisfatto sulla pelle del collo, sente la sua lingua tracciare disegni insensati appena sotto il suo orecchio e rabbrividisce, e poi geme ancora, e a quel punto il portoghese sfila entrambe le dita – costringendolo a un mugolio sofferto e impaziente – e subito dopo le sostituisce con la propria erezione, spingendosi a fondo in un unico colpo deciso che spinge Zlatan di parecchi centimetri in avanti sul materasso.
Zlatan annaspa, spalanca gli occhi e schiude le labbra, cerca di inspirare quanta più aria possibile ma è dura, è durissima quando si sente pieno fino a scoppiare e così genuinamente e profondamente sorpreso da tutto da rendersi conto già da solo che dentro di lui non c’è più spazio per nient’altro che non sia lo stupore e il cazzo dello sconosciuto che se lo sta scopando. È la cosa più disturbante che gli sia mai capitata, la più dolorosa e, al contempo, la più eccitante.
Il portoghese gli lascia libere le braccia, e Zlatan le usa immediatamente per ancorarsi ai lati del lettino, cercando di assicurarsi alla struttura metallica per avere la certezza che non cadrà per terra. Continua a gemere ad ogni spinta, sputando fuori l’aria per la quale dentro di lui non c’è più posto, e ad ogni spinta avanza un po’ di più sul materasso, e la sua erezione struscia contro il tessuto plastificato che riveste il lettino, e la frizione, dentro e fuori e attorno a lui, è talmente forte da bruciare, da fargli quasi male, e se non fosse così devastantemente piacevole Zlatan è certo che a questo punto, a dispetto di tutto, comincerebbe a urlare davvero.
E invece l’uomo lo aiuta a sollevarsi dal lettino, a rimettere i piedi per terra, a trovare una posizione migliore, e quando i loro corpi sembrano essersi incastrati così perfettamente da non poter proprio chiedere di più comincia ad accarezzarlo lentamente, per tutta la sua lunghezza, rifiutandosi ostinatamente di seguire lo stesso ritmo delle proprie spinte per frustrarlo ancora di più, per costringerlo a mordersi le labbra e implorare, e Zlatan lo fa, si morde le labbra e implora, ancora, di più, più forte, e il portoghese lo afferra saldamente per un fianco e spinge, spinge, spinge, mentre l’altra mano lo accarezza più velocemente, e quando Zlatan trattiene il respiro ed inarca la schiena e cerca in tutti i modi, in tutti i dannatissimi modi, di non lasciare andare l’uggiolio stremato che spinge per uscire dal fondo della sua gola quando viene, il dannato bastardo si allunga a mordergli la nuca così forte che, un po’ per lo stupore e un po’ per il dolore, Zlatan perde il controllo sul proprio corpo, e quello stupido gemito viene fuori, e Zlatan è senza forze, e si accascia sul lettino come privo di vita, scosso dal suo stesso respiro spezzato e pesante.
È stata la cosa più orribile della sua vita. È stata anche la più bella. Quando entri a medicina non ti dicono che potresti finire a lasciarti scopare da uno sconosciuto stronzo su un lettino scomodissimo il giorno in cui le palle ti girano a mille perché per i tuoi colleghi eri e resti il pivello da bastonare ad ogni occasione favorevole.
Imprevisti che rendono piacevole il mestiere, si dice con un mezzo ghigno, rimettendosi dritto e sistemandosi addosso i vestiti mentre il portoghese, perfettamente soddisfatto e tanto pieno di sé che se l’ego fosse fatto d’elio prenderebbe sicuramente il volo, tira su i pantaloni e li spiega lungo le gambe in pochi gesti mirati e decisi.
Zlatan si siede alla scrivania – non senza qualche difficoltà, ma cerca di non darlo a vedere – recupera un modulo, lo compila, lo firma, sorride serafico e lo passa al bastardo.
- Congratulazioni, signor Mourinho, lei è in perfetta salute. Spero che si diverta, coi suoi bambini.
Il tipo sbuffa una risata divertita, afferra il foglio con un movimento spiccio e lo saluta sbrigativamente.
- Potrei aver bisogno di controlli periodici. – dice, poco prima di abbandonare la stanza.
Zlatan resta immobile per parecchi secondi, giusto per assicurarsi di non trovarlo lì fuori una volta uscito dalla stanza. Poi si alza in piedi, abbandona la sala visite e torna all’accettazione. Alcuni dei suoi colleghi non ci sono più, altri sono andati e tornati, altri non si sono mai mossi. Bojan è seduto sul banco, mangia un enorme muffin al cioccolato e finge di arrossire pudicamente alle battute dei ragazzi sulla sua misteriosa sparizione di più di un’ora.
Quando lo vedono arrivare, sono tutti stupiti del sorriso che gli increspa le labbra.
- Be’? – chiede Gerard, inarcando un sopracciglio, - Ti sei divertito?
Zlatan scrolla le spalle, vago.
- È stata un’esperienza interessante. – risponde, - A voi non dispiace, vero, se lo rifaccio anche domani, mh?
I suoi colleghi lo guardano spalancando gli occhi, increduli.
- Ma dici sul serio? – chiede Xavi, sporgendosi a guardarlo per capire se stia male o meno. Zlatan si limita a sorridere con maggiore convinzione, stringendosi serenamente nelle spalle. Quella delle visite ordinarie potrebbe davvero essere la sua vocazione, dopotutto.
 
 
Bonus.
Bojan si chiude la porta alle spalle e, per qualche secondo, vi rimane appoggiato, cercando di non sorridere come invece vorrebbe fare. Non è mai stato bravo a trattenere dentro di sé le espressioni di gioia – o di qualsiasi altro tipo – comunque, per cui un angolo della sua bocca si ostina a piegarsi verso l’alto in un sorrisino colmo di ansia, emozione e impazienza che è felice Guardiola non possa notare, preso com’è a fingere di interessarsi agli incartamenti che sta visionando, pur di non interessarsi a lui.
- Hai lasciato da parte qualcosa d’importante, prima di venire qui? – chiede atono, firmando documenti senza sollevare lo sguardo dai fogli.
Bojan ci riflette su. Il signor Ortega probabilmente non vedrà la luce di domani, ma al momento non importa.
- No. – risponde placido, - Tutti i pazienti sono stabili e fuori pericolo. – a parte il signor Ortega che è stabile e in pericolo, ma qualcuno troverà sicuramente il  tempo e il modo di occuparsi di lui, dovesse peggiorare ancora.
- Ottimo. – risponde Guardiola, annuendo soddisfatto. Dopodiché si mette in piedi e fa il giro della scrivania, appoggiandosi al bordo con entrambe le mani e guardandolo dritto negli occhi. Bojan comincia a sentire quel familiare formicolio che lo prende sempre al bassoventre e che poi si diffonde in tutto il suo corpo, anestetizzandolo, ogni volta che lui lo guarda in questo modo. – Avvicinati. – dice soltanto, e per Bojan è una richiesta più che sufficiente: si avvicina, sì, e sfila il camice, che lascia cadere a terra senza un pensiero di più, e si inginocchia di fronte a lui non appena è abbastanza vicino da poter sfiorare il suo profilo col proprio.
Accarezza con la punta del naso la sua erezione, ancora nascosta dentro ai jeans, e lascia andare un mugolio grondante di voglia quando una mano di Guardiola scende ad accarezzargli lo zigomo ed il mento, costringendolo a guardare in alto per poi sfiorargli le labbra col pollice in una carezza a tratti riverente e a tratti perfino profanatrice, tanta è la forza con la quale s’impone sulla morbidezza della sua bocca.
Bojan lascia passare il pollice, lo accarezza con la punta della lingua, lo succhia con forza e lo lascia andare solo quando Guardiola geme, e comunque non prima di averlo mordicchiato giocosamente ed averlo trattenuto fra i denti, sorridendo, per un paio di secondi.
Slaccia la cintura, sbottona i jeans e tira giù la zip, gioca con la sua erezione per qualche secondo, prima di sporgersi in avanti ed accoglierla fra le labbra. Guardiola lo afferra per i capelli, dimentico di ogni premura, e Bojan lo lascia fare, permettendogli di essere lui a stabilire il ritmo con cui lui lo prende disinvoltamente fino in gola, senza neanche un gemito  che non sia di puro apprezzamento.
Guardiola ride, scopandogli la bocca senza gentilezza.
- Sei un portento. – commenta divertito, e poi lo costringe ad allontanarsi dal suo cazzo ancora teso, aiutandolo ad alzarsi in piedi. Le sue labbra sono gonfie, arrossate ed umide, ed i suoi occhi sono lucidi di voglia. Guardiola lo trae a sé in un gesto brusco e lo bacia affamato, mentre le mani di Bojan tornano automaticamente a cercare la sua erezione e la accarezzano lente, provocanti, insopportabili.
Guardiola grugnisce, Bojan sorride e, quando osserva tutti i documenti cadere sul pavimento, spinti dalla furia dell’uomo, impaziente di fargli posto sulla scrivania, si lecca le labbra, colmo d’impazienza.
Guardiola lo afferra per i fianchi, lo solleva e lo mette seduto di peso sul tavolo, infilandosi fra le sue cosce e quasi strappandogli via i pantaloni di dosso. Bojan inarca la schiena quando sente la sua erezione premere contro la propria, ed espone il collo ai suoi baci e ai suoi morsi. Le labbra di Guardiola sono calde, insaziabili, lo confondono fino a fargli perdere il senso del tempo, e tutto ciò che riesce a fare è dimenarsi sotto il suo corpo per far sì che le loro erezioni sfreghino l’una contro l’altra ancora e ancora e ancora, e continuerebbe volentieri così all’infinito se Guardiola non decidesse di riprendere in mano la situazione e tirarsi indietro abbastanza da posizionarsi fra le sue natiche.
Il suo cazzo è ancora umido e scivola dentro di lui in una spinta lenta, aiutato anche dall’abitudine e dalla voglia matta che lo scuote da dentro, portandolo a spalancare le gambe e poi serrarle attorno ai suoi fianchi, incrociando le caviglie dietro la sua schiena al solo scopo di trarlo più decisamente contro di sé, per sentirlo più in fondo.
- Piano… - mormora Guardiola, quando lo sente gemere a voce più alta, ma Bojan scuote il capo, i capelli umidi di sudore che gli si appiccicano alle tempie ed al collo, e continua a muoversi sempre più velocemente, tanto che per qualche minuto Guardiola non deve neanche fare la fatica di spingere. Riprende a muoversi, sorridendo intenerito, solo quando il respiro del ragazzo si fa affannoso e stanco, anche se non per questo Bojan rinuncia a dimenare il bacino: gli occhi serrati e le labbra umide appena dischiuse, continua a muoversi e si accarezza distrattamente fra le cosce, mentre Guardiola pianta entrambe le mani sulla scrivania, ai lati del suo corpo, e detta al loro amplesso un ritmo diverso, più forte, quasi animalesco. E Guardiola ringhia, piegandosi sul corpo di Bojan scosso dai brividi dell’orgasmo che esplode fra le sue dita e i loro corpi, e gli morde le labbra, il lobo, il collo, la spalla, spingendosi con più forza possibile dentro di lui finché non sente l’orgasmo scaldargli il ventre. Solo a quel punto smette di muoversi, esce dal suo corpo e si masturba sbrigativamente, fino a venirgli addosso, qualche schizzo che sfugge al controllo andando ad imbrattargli il viso, e Bojan è semplicemente splendido mentre strizza un occhio, più per posa che per paura di essere colpito davvero, e si passa provocatoriamente un dito sopra la guancia, raccogliendo qualche goccia del suo piacere per portarla alle labbra, in un timido tentativo di assaggio, guardandolo dritto negli occhi.
Guardiola ride, scuote il capo, gli accarezza una guancia e lo bacia celermente sulle labbra, prima di porgergli una salvietta ed aiutarlo a ripulirsi e risistemarsi.
- Sei un portento, davvero. – gli ripete, - Un vero talento nel tuo campo.
- Sta per caso lasciando intendere che il mio campo non sarebbe quello della professione medica, dottor Guardiola? – ridacchia lui, un po’ prendendolo in giro e un po’ semplicemente flirtando. Guardiola ride ancora e lo bacia un’ultima volta.
- Torna al lavoro, Krkic. – lo saluta con un cenno del capo, mettendosi a raccogliere i documenti sparsi per terra. Bojan saluta a propria volta, recuperando il camice e abbandonando la stanza, e per un secondo pensa al signor Ortega e si chiede se non dovrebbe per caso magari passare a trovarlo.
Lo farà più tardi, decide alla fine. Prima ha voglia di un muffin.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bojan Krkic/José Mourinho, nominati/accennati/presenti in qualche modo Bojan Krkic/Pep Guardiola, José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic, Pep Guardiola/Zlatan Ibrahimovic. Troiaio, we haz it.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash, Outdoor!Sex.
- "Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti."
Note: Questa storia è nata dalla suggestione visiva della mia icon e di quella della Jan che si susseguivano ossessivamente su Twitter. Pareva che si guardassero, e la cosa mi turbava profondamente. Cioè, dovevo scriverci su. Ed a darmi un pretesto ci ha pensato il mio cervello, spruzzando ovunque Pep, Zlatan e tutta una serie di altre robe di cui non ha senso parlare adesso, perché tanto le troverete all'interno della storia, se avrete voglia di leggerla.
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Easier Than The Truth


– Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti.
Bojan guarda Thierry, poi la vodka alla fragola che gli è appena stata poggiata sul tavolo senza che lui avesse bisogno di ordinarla, poi Mourinho, qualche tavolo più in là, apparentemente intento a guardare altrove e farsi i fattacci propri, e solo alla fine torna a guardare Thierry.
– Ma è solo stato gentile. – prova, stringendosi nelle spalle, mentre tutti i suoi compagni di squadra lo fissano come gli fosse improvvisamente sbocciato un fiore in mezzo alle cosce.
– Boji, – mormora Lionel, massaggiandosi stancamente le tempie, – lascia che ti spieghi una cosa, sugli uomini: non conoscono gentilezza, non saprebbero neanche sotto quale lettera cercarla sul vocabolario. Tutto quello che vogliono è portartisi a letto e andarsene alle prime luci dell’alba senza neanche salutare.
Numerosi sguardi gli si posano addosso, quando smette di parlare, ed in particolare a nessuno sfugge il “ma parla per esperienza personale?” di Pedro, che viene prontamente zittito da Gerard, il quale si premura di ficcargli in bocca la cannuccia del suo succo di pera lievemente corretto prima che, dopo aver sbraitato un “checcosa?!” pressoché animalesco, Lionel decida di abbattere la propria furia sulla sua svampita persona.
Bojan si disinteressa quasi subito della dinamica della faccenda – più o meno nell’esatto momento in cui Lionel si alza in piedi, salta sul tavolino e poi lo usa come rampa di lancio per scaraventarsi addosso a Pedro e cominciare poi a rotolare senza senso per il pavimento di tutto il locale – prima di tutto perché sta con Pep da ormai quasi un anno ed è abbastanza convinto di poter dare lezioni su cosa si possa aspettare un ragazzo da un uomo, e secondo poi perché preferisce voltarsi verso Mourinho, alla ricerca di un qualsiasi segno del suo supposto interesse.
Il problema è che lo trova: Mourinho lo sta guardando con attenzione, e i suoi sono occhi invadenti, quasi maleducati, perché non esitano a dosare l’intensità che possiedono per spogliarlo tutto e farlo sentire completamente nudo in mezzo al locale, al punto che lui sente quasi il bisogno fisico di stringersi in un abbraccio protettivo, come a cercare di schermarsi da quello sguardo così insistentemente indiscreto da dargli perfino fastidio.
Non sa se sia stato il discorso di Lionel ad influenzarlo, ma a questo punto non conta neanche tanto: ciò che conta è che, quando esce dal locale diretto alla macchina ed attraversa il parcheggio ormai semivuoto, non si stupisce nel vedere Mourinho appoggiato contro lo sportello chiuso della propria autovettura, le braccia incrociate sul petto e sul volto la tipica espressione vacua di chi, annoiato, aspetta qualcuno già in ritardo.
– Ce ne hai messo, di tempo. – gli fa notare, il tono quasi irritato. Bojan si volta verso di lui ed abbassa immediatamente gli occhi, in imbarazzo.
– Mi dispiace. – mormora, senza sapere effettivamente per cosa dovrebbe dispiacersi, – La ringrazio per il drink che mi ha offerto prima, anche se non ho ben capito perché—
– Perché voglio portarti a letto. – dice lui, senza attendere un secondo. I suoi occhi sono caldi e decisi, così come il tono della sua voce. Bojan non sa se sia colpa della suggestione, della situazione o solamente della vodka, ma la schiena gli si riempie di brividi ed il cuore gli salta in gola nell’esatto momento in cui Mourinho si allontana dalla propria macchina, dirigendosi verso di lui.
– Mi— Mi dispiace, – biascica, – ma io non—
– Tu non? – sorride Mourinho, avvicinandoglisi abbastanza da sfiorare il suo profilo col proprio. Bojan sente il suo corpo pressato contro, e la sua erezione, prepotente ed evidente anche sotto i pantaloni che indossa, gli sfiora una coscia.
– Io non… – prova a insistere, ma non trova le parole, perciò si morde un labbro e cerca di cambiare argomento. – Perché? – chiede con un filo di voce. José sorride ancora e si allontana da lui, solo qualche centimetro, lo spazio necessario per far passare un braccio fra i loro corpi, afferrarlo per un gomito e spingerlo senza la minima delicatezza contro lo sportello chiuso della macchina.
Il metallo della portiera ed il vetro del finestrino sono freddi, e quel freddo passa attraverso il cotone leggero della polo che indossa, gelandogli lo stomaco.
– Perché – risponde José, pressandosi contro di lui finché Bojan non sente la sua erezione quasi fra le natiche, – sei bellissimo. – le sue labbra umide sfiorano la sua nuca ad ogni parola. Bojan trema e non può impedirsi di gemere. – Non ti sembra una motivazione sufficiente?
– Neanche… – balbetta a corto di fiato, – Neanche mi conosci.
– E dovrei? – chiede lui, quasi divertito, stringendogli un braccio dietro la schiena e vagando con la mano libera nello spazio minuscolo che c’è fra il suo bacino e lo sportello. Bojan ascolta il lieve suono della cintura slacciata, del bottone sfilato dall’asola e della zip tirata giù con calma, quasi con troppa cura, e poi chiude gli occhi e si morde un labbro quando la mano di José scivola oltre l’elastico dei suoi slip, fra cosce che nemmeno si premura di fingere di tenere serrate. – Non mi sembra che il tuo corpo abbia problemi, col trovarmi uno sconosciuto.
Bojan geme ancora, più forte, quando le sue dita si chiudono attorno alla sua erezione. Tira su il braccio che Mourinho non gli tiene serrato contro la schiena e lo appoggia al tetto della macchina, nascondendovi contro il viso. Una parte di lui si vergogna terribilmente: sente il venticello notturno accarezzargli la pelle umida e bollente e si rende conto di essere all’aperto, in un luogo incredibilmente esposto come un parcheggio sul retro di un locale, e poi se si concentra abbastanza riesce a sentire la voce di Pep, che poi è la stessa voce con cui lo accoglierà quando riuscirà a tornare a casa, a chissà che orario, una voce un po’ stanca ma tutto sommato felice che gli chiede “ti sei divertito fuori con i ragazzi?”, e tutte queste cose insieme lo confondono e lo irritano e lo imbarazzano e lo fanno sentire una troia.
D’altra parte, la mano di Mourinho si muove con tanta disinvoltura attorno alla sua erezione che ogni particolare spiacevole si scioglie in una nuvola leggera come il vapore, ed è facile per Bojan dissiparla con un gesto quando Mourinho, consapevole del fatto che non scapperà di certo adesso, lascia andare il braccio – che peraltro cominciava a dolere – per abbassargli i pantaloni e gli slip e cominciare ad accarezzarlo fra le natiche, senza per questo dover smettere di prendersi cura della sua erezione.
Bojan chiude gli occhi e lo lascia fare, ma il suo atteggiamento non è quello tipico di un succube che si sottopone a qualcosa di sgradevole perché lo trova inevitabile: un succube non si dimenerebbe contro l’eccitazione di un altro uomo per averla dentro di sé il più presto possibile, un succube non geme oscenamente per ogni carezza e per ogni cambiamento di ritmo solo perché le scariche di piacere che lo assalgono vanno facendosi sempre più violente, al punto da dargli l’impressione di potere impazzire, un succube non si volta indietro a cercare labbra di cui ancora ignora il sapore, e non viene fra dita praticamente sconosciute non appena quelle stesse dita stringono un po’ la presa e lo accarezzano più velocemente, con maggiore decisione, inseguendo il ritmo erratico delle spinte di un bacino diverso a quello cui è abituato, che ama, che non avrebbe mai desiderato tradire in quel modo.
Quando Mourinho viene dentro di lui, stringendolo per i fianchi con tanta forza che da lasciarlo quasi pietrificato per l’irrazionale paura dei segni che potrebbero rimanergli stampati sulla pelle, Bojan si lascia andare ad un singhiozzo stremato, abbattendosi contro la macchina come privo di forze, e se non piange è solo perché prova troppa vergogna perfino per versare anche una sola lacrima.
– Non darti troppa pena. – lo rassicura Mourinho, ripulendolo con una salvietta umida tirata fuori da chissà dove, con una cura quasi paterna, senza che a lui neanche passi per l’anticamera del cervello la possibilità di fermarlo. D’altronde, riflette distrattamente, sarebbe ridicolo fermarlo adesso quando fino a pochi secondi fa l’ha lasciato disporre del proprio corpo come fosse suo. – Non è stato che sesso. Non significa niente.
Bojan si volta a fatica, scrutandolo con aria un po’ incerta.
– Perché? – chiede di nuovo, e Mourinho gli lascia scorrere addosso un’occhiata lunga e penetrante, come volesse spaventarlo al punto da farlo desistere da quella sciocca intenzione di provare a sondare i suoi pensieri. Bojan, comunque, non cede.
– Perché il tuo uomo ha messo le mani su qualcosa di mio. – concede quindi José, pulendosi le mani con un’altra salvietta, – Ed io non sono uno che si lasci rubare qualcosa di proprio da sotto il naso senza ristabilire istantaneamente le posizioni. Fallo sapere, questo, a Pep.
Bojan non risponde. Sconvolto, gli occhi sgranati, resta immobile senza neanche terminare di rassettarsi i vestiti. La cinghia della sua cintura, quando José gli chiede di spostarsi per lasciarlo libero di rientrare in macchina e poi partire, allontanandosi sgommando nella notte, tintinna come un campanello, e lo riporta alla realtà più del rombo del motore della Mercedes.
Deglutisce a fatica e cerca il proprio cellulare nella tasca posteriore dei jeans. Lo estrae, compone a memoria il numero di Pep e, quando lui non risponde, controlla l’orario. Sono le dieci e mezza, gli aveva detto che non sarebbe tornato a casa prima di mezzanotte. Qualcosa, nel centro del suo petto e, contemporaneamente, all’altezza delle sue tempie, comincia a pulsare. È solo un fastidio, in un primo momento, e quando comincia a diventare dolore Bojan non se ne accorge. Sale in macchina, scaccia via le lacrime e parte.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Bojan/Josep, accennato Davide/Mario.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Lunedì 31 Agosto 2009, Zlatan Ibrahimović fa il suo debutto nella Liga spagnola, con la sua nuova squadra, il Barcellona. Ad osservarlo dagli spalti, anche uno spettatore d'eccezione: José Mourinho, ex-allenatore e - purtroppo per Zlatan - ex anche in qualche altro scomodo senso. La sua presenza agita Zlatan, ma non gli impedisce di segnare il suo primo gol in maglia blaugrana, e proprio quando è convinto di aver dimostrato qualcosa a José, con quel gol - anche se non sa esattamente cosa - i suoi compagni gli fanno sapere che Mourinho è uscito dallo stadio dieci minuti prima della fine dell'incontro, motivo per cui ha perso il suo gol. Amareggiato, Zlatan non riesce a nascondere la sua delusione. Tanto quanto non riesce a nascondere la sua sorpresa quando, dopo la partita, José gli si avvicina e lo invita a salire in macchina con lui.
Note: Questa fanfic è ridicola per due motivi: prima di tutto, è ridicolmente lunga per quello che racconta; secondo poi, è stata scritta in un tempo ridicolmente breve (tre giorni, more or less) per quanto è lunga e per quelli che sono i miei ritmi di scrittura effettivi XD
Nonostante le sue caratteristiche di ridicolaggine intrinseca – e forse in parte anche per quelle – questa storia vuol dire molto, per me, anche perché è un missing moment *_* E io trovo adorabili i missing moment nell’universo RPF, perché non sapere cosa sia accaduto davvero ti dà modo di fingere che ciò che hai scritto tu sia accaduto davvero *balla felice* XDDD
Scherzi a parte, ho cercato di mantenermi il più possibile aderente alla realtà, sia per quanto riguarda ovviamente José che va a guardare Barcellona-Sporting Gijon, sia per quanto riguarda l’andamento della partita. In particolare, tipo, l’esultanza dopo il gol di Ibra l’ho riportata esattamente come è avvenuta nella realtà XD (La verità è che quell’esultanza mi è piaciuta da morire perché è stata di una tenerezza che a) mi ha conquistata, b) mi ha fatto pensare “ok, a questa gente posso lasciare Zlatan, so che se ne prenderanno cura <3” Pathetic!Fangirl iz pathetic, Y/Y? Y.)
E insomma \o/ Spero che nonostante la ridicolaggine di cui sopra questa fic possa esservi piaciuta.
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QUESTIONE DI ATTESE


Zlatan ha cambiato squadra per una questione di attese. Ricorda un periodo lontanissimo – doveva avere cinque, sei anni – in cui le attese erano ancora una gioia. Attendere il ritorno di papà dal lavoro sperando portasse con sé qualche dolcetto da rubacchiare prima di cena e dividere con Sapko, Sanela e Alexander subito dopo, attendere che la torta in forno fosse pronta, sbirciare attraverso lo sportello trasparente per osservarla gonfiarsi e dorarsi, e naturalmente Natale, aspettare i regali – il nuovo paio di scarpini o la nuova palla per sostituire quella dell’anno prima ormai distrutta.
Da quando gioca a calcio a livello professionale, Zlatan ha dimenticato il valore delle attese. Ha un talento e sa come metterlo a frutto, perciò – da quando gioca ai massimi livelli – naturalmente Zlatan è sempre in campo,naturalmente non manca un gol, naturalmente è la stella della squadra, ne è il regista, ne è il cuore, ne è l’essenza. È stato così all’Ajax come alla Juve come all’Inter, ed è durata – ed è andata bene – finché Zlatan un giorno non s’è svegliato con nelle narici l’odore della torta di sua madre, e sulla lingua il sapore dei dolcetti di suo padre, e sui polpastrelli la sensazione incredibilmente fisica di un paio di scarpini nuovi e lucidi da indossare subito per correre fuori e tirare quattro calci al pallone coi suoi fratelli.
Quando ha capito di cosa aveva bisogno, quando ha capito ciò che il suo corpo stava cercando di comunicargli, come prima cosa ha parlato con Helena. “Mi piace Milano”, ha detto lei, gli occhi lucidi, “I bambini sono felici”, ha aggiunto, e poi ha mormorato “Zlatan…” e la sua espressione non ha fatto una piega. Perciò Helena ha accettato la possibilità di trasferirsi. Quindi, Zlatan è andato dal presidente e gli ha chiesto se esistesse una minima possibilità di essere venduto. “No”, ha riso il presidente, e Zlatan ha riso assieme a lui. Poi hanno sorseggiato un po’ dei loro caffè e il presidente ha sospirato quietamente. “Vuoi andartene, Zlatan?”, ha chiesto con un sorriso indulgente. “Sì”, ha risposto lui, svelto, così da non lasciare che quello sguardo da padre bonario e intimamente un po’ deluso potesse costringerlo a cambiare idea e ritornare sui propri passi. “E dov’è che vuoi andare?” ha chiesto il presidente, e Zlatan ha fatto un paio di calcoli – chi può permettersi di acquistarmi? Dove sarebbe incerta la mia possibilità di entrare in campo? Dove potrei combattere almeno un po’, dove potrei ritrovare le mie attese? – e poi ha risposto. “Al Barça”, ha detto, annuendo deciso. Moratti ha annuito assieme a lui, soppesando la sua figura intera con lo sguardo prima di terminare il proprio caffè. “D’accordo, allora. Se il Barça ti vorrà, al Barça e solo al Barça ti venderò”.
La cosa successiva che ha fatto è stata mandare un messaggio a Mino. “Mettiti al lavoro”, gli ha detto. “È difficile, Ibra”, gli ha risposto lui. La sua replica è stata lapidaria: “rendilo possibile”. E no, da José non è andato. Perché sapeva che la sua, di risposta, sarebbe stata un no, e non era disposto ad ascoltarne uno, in quel momento, specie perché non stava chiedendo alcun permesso. Era una sua decisione e pretendeva che fosse rispettata, ma José era tanto bravo a rispettare a parole quanto poi falliva miseramente nel seguire coi fatti dichiarazioni simili, perciò sapeva che il suo sarebbe stato un no di quelli duri e secchi, senza scampo, conditi da scorrettezze e ripicche d’ogni tipo, e no, non era davvero disposto a tollerarla, una cosa simile. Perciò José è stato l’ultimo a saperlo, solo quando nasconderlo non era proprio più possibile. A ripensarci adesso gli viene da ridere – l’uomo con cui andava a letto da quasi un anno è stato l’ultimo a sapere che presto l’avrebbe abbandonato. L’uomo che amava da quasi un anno – a voler essere per una volta completamente sinceri con se stessi – è stato l’ultimo a sapere che Zlatan sarebbe andato via.
E poi non c’è stato più tempo per pensare a niente, le sfide sono ricominciate. Imparare lo spagnolo – da quanto non cercava di imparare una nuova lingua? Anni – lottare per un posto in prima squadra, lottare per il primo gol in blaugrana. Le attese, le attese infinite per la lingua che non gli entrava in testa, il gioco che non si creava, il gol che non arrivava. La sfida, l’impegno, le delusioni, anche, ma una lotta continua. Esattamente quello che voleva.
Per Zlatan la vita è tornata ad essere una questione di attese, e questo gli piace.
- Indovina chi viene a guardare la partita, stasera? – sghignazza Guardiola passandogli accanto con aria falsamente casuale, durante l’allenamento, mentre le note di Viva la Vida si diffondono tintinnanti per tutto il Camp Nou, fra i fischiettii compiaciuti di Bojan e i grugniti decisamente meno compiaciuti di Daniel.
- Mh? – chiede lui, piegandosi sulle gambe e poi rimettendosi in piedi per guardarlo curiosamente , - Chi?
Josep ride divertito, incrociando le braccia sul petto. Il suo sorriso sghembo, tirato più da un lato che dall’altro, gli ricorda quello di José.
- Mister Mourinho. – rivela infine, e il cuore di Zlatan fa un tuffo in fondo al suo stomaco, e poi torna al proprio posto rivoltato al contrario, - C’è una macchina che sta già dirigendosi all’aeroporto per recuperarlo. È ospite graditissimo del presidente, e starà con lui in tribuna d’onore. – si prende una pausa, osserva Zlatan boccheggiare e lo fa con divertimento davvero malcelato, quasi derisorio, perfino fastidioso. – Emozionato?
Zlatan richiude le labbra e deglutisce a fatica.
- Non me l’aspettavo. – risponde confusamente.
- Be’, - scrolla le spalle Josep, lanciando un’occhiata e poi un’altra a Bojan che caracolla da un lato all’altro del campo inseguito da Carles per chissà che motivo, - il sedici abbiamo un incontro, nel caso te lo fossi dimenticato, - lo prende in giro con un ghigno supponente, - starà proponendosi di fare un po’ di spionaggio. Zero zero sette, così dicono le news in Italia.
- Segui le news italiane? – sbotta Zlatan, tornando a fare stretching come a voler dare a Josep la sensazione di non interessarsi minimamente al fatto. Provandoci, almeno.
- Aha. – annuisce lui, candido come un giglio, - E dovresti anche tu. – rincara poi, - C’è chi giura che stia venendo per vedere te.
Zlatan scrolla le spalle e ringhia un po’, infastidito.
- Non ha molto da vedere. Non sono ancora al cento percento.
Josep ride un’altra volta, e Zlatan sopprime il desiderio di rimettersi dritto e tirargli un cazzotto sul naso.
Ufficialmente – riprende, ancora quel sorriso irritante a increspargli le labbra, - viene qui per dare un’occhiata alla squadra che si troverà di fronte in Champions. Altrettanto ufficialmente, però, - continua con una mezza risatina, - la squadra che giocherà stasera, senza Titi e Leo, non c’entra niente con quella che scenderà in campo a Milano contro l’Inter. – Zlatan deglutisce, Josep attende una reazione, la reazione non arriva. Josep sorride più apertamente e conclude. – Fai due calcoli e vedi se alla ragione ufficiosa ma probabilmente veritiera per cui viene ci arrivi da solo. Ora scusami- Carles! – strilla, correndo dietro al capitano fermamente intenzionato a far soffocare Bojan a colpi di solletico sulla pancia, - Ti spiacerebbe non farlo fuori? Stai cercando di ammazzare il futuro della tua squadra, nel caso non te ne fossi reso conto!
Zlatan si rimette dritto e sospira pesantemente, immobile in mezzo al campo, il sole che picchia forte sulle braccia e sulla testa e sulle gambe. Solleva il viso e socchiude gli occhi. Il cielo è terso, la luce abbagliante.
- Puoi sempre fingerti malato. – ride Max, dandogli una pacca sulle spalle.
Zlatan sospira ancora. E ricomincia ad attendere – solo che stavolta sta aspettando qualcos’altro.

*

Zlatan è stanco. Ha segnato Bojan, ha segnato Seydou, lui sta bombardando la porta avversaria – o almeno ci sta provando – da almeno dieci minuti e la fottuta palla non si decide ad entrare nella fottuta porta. Questa era una cosa che non ricordava, delle attese: quanto potessero essere frustranti. Ora che è lì e tira tira tira tira di continuo e la palla finisce fuori parata altrove, fanculo anche a lei, ricorda che ogni tanto papà i dolcetti non li aveva e lui scoppiava a piangere, che ogni tanto la torta si bruciava e lui e i suoi fratelli restavano senza merenda, che ogni tanto a Natale arrivava uno stupido robottino giocattolo e lui passava la settimana successiva a guardare quella cosachiedendosi se potesse prenderla a calci al posto del pallone che non c’era, e poi scoppiava a piangere ancora, e i suoi genitori non capivano perché.
All’inizio del secondo tempo, dopo essere riemerso dagli spogliatoi – nelle gambe la fatica di un primo tempo tutt’altro che brillante e nelle orecchie i complimenti dell’allenatore a qualcuno che indubbiamente non era lui – rientrando in campo ha preso il coraggio a quattro mani ed ha sollevato lo sguardo, cercando la figura familiare di José fra la folla della tribuna d’onore. L’ha individuato subito, elegante ed ordinato nonostante il caldo, giacca blu e jeans dello stesso colore abbinati a una camicia di un giallino improbabile che è quasi certo possa indossare solo lui senza apparire un cretino cosmico. José gli ha ricambiato lo sguardo, apparentemente tranquillissimo. I suoi occhi scuri e profondi, così come la piega severa delle sue labbra, non gli hanno comunicato alcuna emozione – sembrava davvero solo un allenatore in cerca di informazioni utili per la preparazione di un incontro importante. A Zlatan s’è stretto il cuore. Ha continuato a non segnare.
Ora succede qualcosa – qualcosa cambia, all’improvviso. La palla parte dal piede di Dani, sfiora la testa di uno sconosciuto del Gijon, Zlatan la vede, forse è partito in fuorigioco ma nessuno sta dicendo niente, quindi si fotta il fuorigioco e la paura e pure le attese: si tuffa in avanti senza pensare che potrebbe anche mancare il colpo e cadere di faccia per terra, farsi un male cane, battere il polso sinistro e fottersi l’esistenza per una vaccata random simile, non gli importa. La palla la becca. Quando alza lo sguardo, la palla è in porta. Cazzo, in porta.
Si volta a pancia in su, solleva le mani, punta il dito. Spera di stare puntando a José, da qualche parte – ha perso il senso dello spazio, non sa in che punto preciso del campo si trovi. Spera di beccarlo e basta, sorride e l’attimo dopo ha tutti addosso, Gerard gli si avvicina e gli stringe le mani, Carles gli si spalma sopra e lo stringe, grato e protettivo, qualcuno gli accarezza una guancia, gliela pizzica, poi gli sistema una ciocca di capelli dietro un orecchio, e lui è felice. Quando lo aiutano a rimettersi in piedi, lascia che Dani combini un casino scompigliandogli irrimediabilmente i capelli, e sorride.
Poi cerca José. E non lo trova.

*

- Sei anche troppo palese. – lo rimbrotta Max, sospirando pesantemente mentre Zlatan lo sorregge facendosi passare un suo braccio sopra le spalle, aiutandolo a camminare, - Il mister mi ha detto che è andato via una decina di minuti prima che finisse la partita.
- Non mi interessa affatto. – risponde lui a bassa voce, perché nessuno possa sentirli, guardando dritto davanti a sé.
- E sei anche troppo bugiardo! – ride Max, tirandogli uno schiaffetto impietoso contro la nuca, - Mica male, per uno che dice sempre di essere l’incarnazione stessa della sincerità.
- Io sono sincero. – ringhia Zlatan, e poi si allontana appena. – Ce la fai a reggerti da solo?
- Sì, sì. – ride ancora Max, e Zlatan si chiede perché il mondo intero si senta in diritto di ridere, quando si tratta di lui e José. Non c’è proprio nulla di divertente nel punto, e nessuno dovrebbe permettersi di trovare qualcosa da ridere in una storia che a lui fa solo venire voglia di urlare. – Zlatan, se ci credi davvero… - riprende Max, sospirando ancora, - se credi davvero di essere sincero, quando dici che non t’importa, allora ti conosci molto poco. E io non credo che sia così.
Lo svedese non osa neanche sollevargli gli occhi addosso.
- Ma cos’avete voi due da cospirare sempre? – borbotta Gerard avvicinandosi e tirando una guancia a Zlatan, - È una cosa ingiusta, non condividete mai!
Dietro di lui c’è mezza squadra. Carles sta parlottando animatamente con Dani, sembra che stiano litigando su un locale – Zlatan non afferra molto del loro discorso in spagnolo strettissimo, ma pare che stiano cercando di decidere dove andare a festeggiare la vittoria. Bojan sta letteralmente appeso al collo di Guardiola, saltella su un piede solo e gli si chiudono gli occhi per la stanchezza.
- Mister, non viene con noi? – chiede Max, provando a stare dritto sulla gamba sinistra per vedere se fa male e sorridendo tranquillo quando si accorge che il dolore sembra passato.
- No. – sorride bonario Josep, - Boji non sta bene, potrebbe essere qualcosa di grave. Lo porto a farsi controllare e poi direttamente a dormire. – commenta con un sorriso ancora più dolce, e quando Max fa per lagnarsi Carles scuote il capo, e Max lascia perdere.
Quando il clacson scuote rumorosamente l’aria silenziosa del parcheggio riservato, inizialmente nessuno ci fa caso. Può essere chiunque, può voler dire qualunque cosa – nessuno di loro è abituato ad essere richiamato dal clacson di un’automobile, dannazione – perciò lo ignorano. Ma poi il clacson suona ancora, due, tre volte. Josep alza lo sguardo e borbotta un “ma chi cazzo” risentito che però si interrompe a metà, quando l’allenatore si rende conto di chi è che stia aspettando una risposta da dietro il vetro della BMW un po’ defilata lateralmente, seminascosta dall’ombra del Camp Nou.
- Uh. – dice, inumidendosi le labbra, - Ecco perché è uscito prima.
Zlatan collega il commento a José, segue con lo sguardo l’occhiata di Josep e, al termine delle operazioni, ha voglia di scappare a gambe levate il più possibile lontano da lì. Fosse anche Milano l’unica meta disponibile, pur di non ritrovarsi nello stesso spazio in cui si trova José in questo preciso istante, ci tornerebbe.
- Temo che ti stia aspettando. – gli fa notare Max, e stavolta non ride affatto.
- Certo che in Italia gli allenatori sono ostinati. – commenta distrattamente Gerard, inclinando un po’ il capo in una posa curiosa. Zlatan vorrebbe rispondere che in realtà non è così, gli allenatori in Italia in genere non sono ostinati. Non a questo punto, almeno. È José, il problema. Come sempre, è sempre lui il dannatissimo fottuto problema.
Si avvicina alla BMW, lasciandosi alle spalle sia lo sbuffo esasperato di Max che la risatina di Guardiola, ed anche il commento un po’ stupito di Gerard, quel “ma ci va davvero?” che in effetti esprime ad alta voce quello che anche lui sta pensando con una certa insistenza. Ci sta andando davvero, sì. Perché?
Aspetta che José abbia abbassato per metà il finestrino dal lato del passeggero, e poi lo guarda, inarcando un sopracciglio. José si sporge appena, ricambiandogli l’occhiata poco convinta. Quando Zlatan piega un po’ il capo e sbuffa, come a dire “oh, andiamo”, nello stesso preciso istante José fa esattamente la stessa cosa, e Zlatan scoppia a ridere. José si concede solo una risatina sommessa, e non smette un secondo di guardarlo intensamente, come volesse scavargli dentro.
- Che diavolo ci fai qui, me lo spieghi? – scuote il capo Zlatan, ridacchiando ancora. Il tono della sua voce è molto più indulgente di quanto non avrebbe mai creduto possibile, e non capisce se sia un bene o un segnale di debolezza. José, comunque, tira fuori il taccuino dalla tasca interna della giacca, e lo agita un po’ a mezz’aria.
- Prendevo appunti. – risponde, prima di rimettere il taccuino al suo posto. – Non che mi sia granché divertito, a dirla tutta. Siete un tantino noiosi.
- Non c’era Leo. – risponde immediatamente Zlatan, convinto che sia quello il fulcro del problema, ma José ride amaramente, scuotendo il capo.
- Tu non brilli. – commenta, allungandosi ad aprire lo sportello dalla sua parte e spalancandolo con una spintarella decisa, così che Zlatan è costretto a farsi un po’ indietro per non essere colpito in pieno. – Leo Messi… - continua José, con aria vagamente trasognata, tornando a mettersi seduto composto e poggiando entrambe le mani sul volante, - cosa vuoi che sia Leo Messi? – chiede in uno sbuffo divertito, - È solo un uomo. Tu sei Zlatan.
- Anche io sono un uomo. – gli fa notare, appena risentito. Non ha mai capito esattamente quanto pretendesse da lui José, finché José non gli ha detto che sostituirlo era impossibile, serviva una squadra per sostituire lui da solo. Ma non è così che dovrebbero essere i calciatori, è stato questo il suo primo pensiero sul punto. Poteva sentirsi lusingato da quella frase quanto voleva, ma giocare a calcio è una questione di squadra, e lui non poteva fare squadra a sé. È anche per questo che è andato via, attese a parte, e José adesso non ha il diritto di farsi vivo apposta per ricordargli cosa si prova ad essere il centro assoluto dell’attenzione – non quando Zlatan sta faticando davvero per reinventarsi in maniera completamente diversa.
- Tu sei Zlatan. – ripete José, e Zlatan non ne è sorpreso. – Sali?
Lo svedese si volta indietro. I suoi compagni di squadra lo stanno guardando chiedendogli silenziosamente cosa intende fare. Zlatan sospira e li saluta con un cenno della mano, prendendo posto accanto a José e chiudendo celermente lo sportello, per poi perdersi nello scricchiolio delle gomme quando la macchina parte a tutta velocità verso la statale.

*

- Non voglio farmi i fatti tuoi, - dice sarcastico, mentre la strada scorre sotto i suoi occhi al di là del finestrino, - ma dal momento che sono anche fatti miei, me li faccio lo stesso: dov’è che stiamo andando? – José gli concede una risata divertita, imboccando una stradina sterrata e scarsamente illuminata. – Mi porti nel fitto del bosco, - ironizza Zlatan, aggrottando le sopracciglia in una smorfia infantile, - e poi ti approfitti della mia verginità. – e stavolta la risata di José è molto più bella, tonante, compiaciuta. Zlatan sorride a propria volta e per un secondo lo fa con spensieratezza, perché stava dimenticando quanto bello potesse essere questo suono e quanto appagante potesse essere provocarlo.
- Tanto per cominciare, vedi boschi qua intorno? – chiede José, fermando la macchina a qualche metro da una costruzione di due piani che sembra decisamente provenire dal secolo scorso, con tutti i mattoni in vista e il tetto spiovente. – E poi- verginità? – ride ancora, e Zlatan fa un gesto con la mano, come a dire “dettagli”. – Andiamo in un bel posto. – conclude quindi José, spegnendo il motore ed uscendo dall’auto. Zlatan lo segue pochi secondi dopo, osservando la casa con curiosità. Sembra carina, ha anche i gerani alle finestre.
- È tua? – chiede, sinceramente stupito, il naso per aria e gli occhi fissi sul comignolo che spunta dal tetto come un dito puntato alle stelle.
- È un bed & breakfast. – risponde José con un’altra risata. Dal momento che ride tanto anche lui, Zlatan comincia a pensare che forse non è la sua storia con José che diverte tanto il mondo. Probabilmente è solo lui molto ridicolo. – Conosco la proprietaria da un po’. Quando eravamo giovani e avevamo voglia di starcene un po’ per conto nostro, è qui che venivamo io e Tami.
- …okay, in che misura dovrebbe lusingarmi esattamente il fatto che mi porti nello stesso posto in cui portavi tua moglie?
- Nella misura in cui – risponde secco José, salendo i gradini verso l’entrata della casa, - sto condividendo con te una cosa così profondamente intima e privata che non credo tu abbia nemmeno idea di quanto mi costi. – si ferma di fronte alla porta, voltandosi a guardare Zlatan con aria severa. – Queste persone conoscono me, conoscono la mia famiglia. Io potevo venire qui, oggi, prendere atto del fatto che tutti i dannati alberghi della città sono assediati dai giornalisti per un mio commento sulla partita di oggi e rinunciare al proposito di stare con te. E invece ti sto portando da persone che mi conoscono e potrebbero distruggermi con mezza parola, e tutto questo perché non intendo rinunciare a te. – si prende una pausa, inspirando ed espirando profondamente. Zlatan lo guarda come lo stesse vedendo per la prima volta dopo anni, e invece sono solo un paio di mesi. Ma sono stati lunghi, lunghi davvero, quindi probabilmente il tempo è una misura relativa, e quella manciata di giorni è stata davvero una manciata di anni, per lui. – In questa misura, - conclude José, passandosi una mano fra i capelli, - in questa misura dovrebbe lusingarti, ecco.
Zlatan vorrebbe davvero avere qualcosa di intelligente da dire, ma non trova niente di adatto, perciò tace e si limita a seguire José quando suona il campanello, la porta si apre con uno scatto secco e lui avanza all’interno dell’abitazione, sorridendo sicuro. Dietro il bancone della reception – un tavolo in legno scuro, sul cui ripiano riposa un piccolo registro bianco, davanti ad una libreria dall’aria molto casalinga, con qualche vaso pieno di fiori finti qua e là – c’è un ragazzo che, appena solleva lo sguardo e capisce chi ha di fronte, impallidisce. Guarda Zlatan a lungo, boccheggiando discretamente, e poi posa gli occhi su José, deglutendo a fatica.
- Zay, - lo chiama, la gola un po’ secca che rende roca la voce, - …ciao, immagino.
José ride teneramente, sollevando una mano in segno di saluto.
- Fabio, - lo chiama, chinando un po’ il capo, - come stai? E come stanno tua madre e tua sorella?
Il ragazzo riflette un po’, prima di rispondere.
- Dormono. – decide quindi, con un sorriso un po’ imbarazzato, - Per tua fortuna.
José ride ancora, divertito.
- Già. – annuisce, - Ce l’hai una stanza libera, sì?
- Oh, sì. – risponde subito il ragazzo, prendendo a sfogliare il registro. E poi, più cautamente, aggiunge: - Anche più di una.
José sorride indulgente.
- Una basterà.
Fabio si rassegna e scrive qualche appunto veloce su una pagina bianca.
- Per quanti giorni?
José finge di rifletterci.
- Io sono libero fino a mercoledì. – annuisce, e poi si volta verso Zlatan. – Tu hai da fare?
- …no. – ammette. È la prima parola che dice da quando è entrato, e viene fuori ruvida e impacciata, fastidiosa. – Intendo, - corregge il tiro, schiarendosi la voce e grattandosi nervosamente la nuca, - ci sarebbe la Nazionale, ma non è un problema. Non davvero.
José sogghigna, tornando a voltarsi verso Fabio senza però guardarlo, preferendo concentrarsi su un punto a caso sul ripiano del tavolo: infila una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne tira fuori il portafogli, estraendone immediatamente la carta di credito.
-  Stai attento. – lo avverte, e Zlatan capisce immediatamente, dal tono della sua voce, che sta parlando con lui, - Stavolta il tuo allenatore probabilmente non sarà disponibile quanto lo sono stato io, a coprirti per l’assenza in nazionale.
- Tu non mi hai coperto. – aggrotta le sopracciglia lui, - Tu mi hai proibito di andare.
- Tu non volevi andare.
- Questo è completamente un altro discorso.
- Sarete stanchi. – s’intromette Fabio con un sorriso che trabocca disagio, - Ho visto la partita, dev’essere stata estenuante. Se mi metti una firma qui, Zay, vi mando a letto. Magari senza per questo dover svegliare tutti, ecco, continuando a litigare così all’ingresso.
José ride a bassa voce ed allunga un braccio a scompigliargli i vaporosi  riccioli neri.
- Non tirare troppo la corda, - lo rimprovera, - o dico a tua madre che sei stato scortese.
- Non tirarla tu! – lo rimbecca il ragazzo, divertito, - Potrei dire a mia madre ben di peggio, sul tuo conto!
José ride perché sa già che Fabio non dirà una parola, prende le chiavi che il ragazzo gli porge e fa cenno a Zlatan di seguirlo al piano di sopra. Lui obbedisce, e gli parla solo quando hanno terminato di salire le scale, ed è sicuro che nessuno possa sentirlo.
- Fino a mercoledì – riflette, - sono un giorno intero e due notti! Cosa cazzo ci stiamo a fare qui un giorno e due notti?
- Oh, - ghigna José, aprendo la porta di una stanza e tenendola dischiusa perché Zlatan possa entrarvi per primo, - sono sicuro che troveremo come occupare il tempo.
- Non dirlo con quel tono… - si lamenta Zlatan, schioccando la lingua, infastidito, - …allusivo. È rivoltante.
Ti prego. – borbotta José, chiudendosi la porta alle spalle con due giri di chiave, - Risparmiami la lezione di morale, d’accordo? Decisamente non è il momento.
- Fosse per te, non lo sarebbe mai. – sospira lui, lasciandosi ricadere seduto sul letto e saggiando sotto i polpastrelli la fresca morbidezza del copriletto in raso. – Grazie, comunque.
- Uh? Perché sto pagando io? – chiede José, sorridendo compiaciuto, - Guadagno più di te, mi sembra il minimo.
- No, non per quello, stronzo che non sei altro. – ringhia, sferzandolo con un’occhiataccia infastidita, - Per avermi portato qui. Voglio dire, ho capito cosa stavi cercando di dirmi per le scale, di fuori. E… mi lusinga, davvero.
- Ti lusinga. – gli fa eco José, sfilando la giacca e rimanendo in maniche di camicia, - Parli come una liceale che sta per scaricare il cesso sfigato che ha osato trovare le palle di confessarle il suo amore.
- Non è così! – sbotta Zlatan, allargando le braccia in un gesto esasperato, - Cristo, perché devi sempre distorcere tutto in questo modo?! Fanculo! – si mette in piedi, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - È insopportabile. Sei insopportabile. Forse dovrei scaricarti davvero.
José gli si avvicina con cautela. Lo abbraccia da dietro, e respira lentamente sulla pelle del suo collo mentre Zlatan si scioglie nella sua stretta, sospirando arreso.
- L’hai fatto, in realtà. – gli ricorda, lasciando un bacio lievissimo sulla sua nuca, nella poca pelle che riesce ad emergere fra una ciocca e l’altra dei suoi capelli.
- E siamo comunque ancora qui. – commenta lui, amaramente, come se si rendesse conto solo in quel momento di quanto possa essere sfiancante la realtà.
- E ti dispiace? – chiede José, una mano che scivola lungo il suo ventre, sotto la maglietta. Zlatan scatta ad afferrarlo per il polso, bloccandolo e aggrottando le sopracciglia. Si allontana senza una parola, perché non può dire che gli dispiaccia, ma neanche di esserne felice. Vorrebbe essere meno confuso, vorrebbe che José lo confondesse di meno, ma sembrano entrambi desideri irrealizzabili. E José resta immobile nel centro della stanza, guardandolo severamente. – Perché mi hai seguito, Zlatan? – chiede secco, quasi irritato.
Zlatan si appoggia con la fronte contro la finestra. Il vetro fresco abbassa un po’ la temperatura del suo corpo – la sua pelle sembra bruciare, da quando José gli ha messo le mani addosso – e gli permette di respirare meno faticosamente, scrutando con distrazione il paesaggio scuro di fuori. Il buio si spezza appena quando un’altra macchina arriva e si ferma a qualche metro dalla BMW di José, Zlatan cerca di concentrarsi su quello, cerca di concentrarsi sui visi delle persone che occupano la vettura, ma non fa in tempo a metterli a fuoco che i fari si spengono e tutto torna scuro e irriconoscibile.
- Non lo so. – ammette a bassa voce, - Non lo so, non potevo non farlo.
- E questo non dovrebbe suggerirti qualcosa? – ipotizza José, incrociando le braccia sul petto.
- Mi suggerisce che sono molto più debole di quanto pensassi. – risponde Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Mi suggerisce che devo crescere ancora. Mi suggerisce-
- Ti manco. – lo interrompe José. Lo dice lui perché sa che a Zlatan sarebbe servita almeno un’altra mezz’ora di sproloquio senza senso per arrivarci, e una volta che ci fosse arrivato sarebbe probabilmente crollato chiedendosi cosa abbia fatto della sua vita e perché si sia messo in un guaio simile. José non vuole vederlo crollare, tutto ciò che vuole è riaverlo per sé, ecco perché lo salva, prendendosi la responsabilità di essere lui a dire le cose come stanno, come sempre.
- …sì. – annuisce Zlatan, abbassando lo sguardo, - Mi manchi. E questo è sbagliato.
José inarca un sopracciglio, offeso.
- Perché?
- Perché me ne sono andato! – replica Zlatan, gesticolando, - Cristo, come fai a non afferrare un concetto tanto semplice?! Sono andato via, mi sono lasciato tutto alle spalle, tutto, vittorie, sconfitte, stress, una villa da svariati milioni, amici, conoscenti e tutto il resto, e non sono stato dannatamente in grado di lasciarmi indietro te, e questo è ridicolo assurdo e doloroso e odio te e me stesso per questo!
José non si scompone minimamente, dopo il suo sfogo. Lo osserva respirare a fatica, il suo riflesso si sfuma sul vetro della finestra alle sue spalle e i suoi occhi sono rossi e un po’ umidi, ma non vuole piangere – sarebbe una cosa da ragazzini, sarebbe una cosa così incredibilmente sciocca!, e José lo conosce bene, sa che Zlatan si strapperebbe gli occhi dalle orbite a mani nude, piuttosto che farsi vedere in condizioni simili. Eppure lo sta facendo, gli sta sputando addosso cose che lui neanche immaginava – perché oh, c’è differenza, ce n’è eccome, fra lo sperare che la persona che ti ha abbandonato possa ancora sentire un certo trasporto nei tuoi confronti, e il renderti conto che quel trasporto c’è ancora, sì, ma gli sta spezzando il cuore – e José sa bene che Zlatan non vorrebbe dirgli niente di tutto questo, ma lo sta facendo comunque, e quale che sia il motivo probabilmente c’è semplicemente da ammettere che qui José non è l’unico che sta sacrificando qualcosa.
- Potevi restare. – gli ricorda, cercando di mantenersi freddo e razionale.
- Non era quello che volevo. – risponde immediatamente Zlatan, ricacciando indietro un singhiozzo e coprendolo con un ringhio di gola, - Io volevo andarmene, e volevo andare avanti con la mia vita. Volevo qualcosa di diverso, Milano non poteva darmelo.
- Io-
Neanche tu potevi darmelo. – si passa una mano sugli occhi, esausto. – José, Cristo. Perché non mi capisci?
José deglutisce a fatica, esitando appena, prima di avvicinarsi. Gli appoggia una mano sulla spalla, massaggia un po’ i muscoli rigidi sotto la maglietta e sospira.
- Zlatan. – lo chiama, e Zlatan scuote il capo. – Guardami.
- No. – risponde, pressando con più forza la mano sugli occhi, - Tu non hai idea di cosa mi fai. Non saresti mai dovuto venire qui.
- Sono venuto per la partita.
- Sei venuto perché sei uno stronzo. – ringhia lui, il volto ancora coperto, - Potevi guardare la partita e tornartene a casa. Sarebbe stato molto meglio.
- Zlatan. – ripete José, stringendo la presa sulla sua spalla, - Ho preso un dannato aereo alla prima sosta di campionato disponibile. Ho fermato per due giorni il lavoro dei ragazzi rimasti a Milano per fiondarmi qui in tempo per vederti, cazzo, prima di dire che non ho idea di cosa ti faccio, prova a guardare un po’ al di là del tuo naso! – si interrompe, arriccia le labbra in un anticipo di risata, e poi aggiunge: - Mi rendo conto che ti sto chiedendo di guardare ad una ragguardevole distanza, ma…
- Stronzo! – lo spintona poco delicatamente Zlatan con la mano che non è impegnata a fargli da scudo nei confronti del resto dell’universo. Il tono della sua voce è cupo e offeso, ma la risata che nasce spontanea nel fondo della sua gola non riesce ad essere fermata e inghiottita prima di raggiungere le labbra e sfuggirne, rassicurando José e convincendolo a lasciarsi andare ad un sorriso meno teso.
Zlatan si appoggia al davanzale della finestra. Il respiro che lascia andare è così profondo da dare l’impressione di lasciarlo senza neanche una molecola d’aria in corpo, completamente sgonfio.
- Puoi guardarmi, adesso? – chiede a bassa voce José, sporgendosi un po’ per sfiorargli la guancia in un bacio leggero.
- Non ne sono ancora sicuro. – risponde Zlatan con un mezzo sorriso, ma abbassa la mano, anche se non solleva gli occhi nei suoi. – Non pensavo che sarebbe andata così. – dice quindi, - Ovviamente immaginavo che ci saremmo rivisti e non sarebbe stato semplice, ma questo… cavolo. È molto più difficile del previsto.
- Potrebbe essere più semplice. – replica José, asciutto, e Zlatan lascia andare una risatina disillusa.
- No, non potrebbe. – risponde sicuro, - Tu continui ad essere convinto di poter risolvere tutto in base a chissà che decreto divino. Tu sei convinto che ti basti parlare di qualcosa per sistemare qualsiasi problema. Non è così, io vivo in un altro mondo, adesso. Quello che c’era non può tornare. – solleva lo sguardo e lo fissa a lungo, José ha l’impressione che Zlatan stia cercando di prendergli le misure per riacquistare familiarità con la sua figura. Si ritrova a chiedersi se sia possibile che, da qualche parte nel corso degli ultimi due mesi, Zlatan sia effettivamente riuscito a dimenticarlo. Si chiede se sia possibile che il suo piombargli all’improvviso fra capo e collo possa averlo destabilizzato al punto da non capire davvero più nulla – si chiede, per la prima volta da che è al mondo, se non abbia sbagliato. Se non abbia scelto troppo avventatamente, quando s’è trattato di decidere se andare a trovarlo o meno. Si chiede se non sia stato più egoista che maturo, si chiede se sia stato giusto. Si chiede cosa ci fa lì in quel momento.
- Non dirlo. – sibila, e Zlatan si rimette dritto, sottraendosi alla sua stretta.
- Ho bisogno di una boccata d’aria. – esala, allontanandosi di qualche passo guardandolo negli occhi, prima di rassegnarsi a dargli le spalle e tirare un paio di volte la porta verso di sé, senza ricordarsi che è chiusa a chiave. Quando lo realizza, deglutisce e pensa che José non sta approfittando di quest’incertezza per avvicinarsi e cercare di trattenerlo. Gira la chiave e si chiude la porta alle spalle.
La luce nel corridoio è fioca e giallastra. È tutto molto quieto e, in un primo momento, Zlatan coglie solo di sfuggita i due corpi avvinghiati contro una porta, tanto stretti da sembrare un’unica ombra. Quando, però, uno dei due sbotta un “merda” terrorizzato, Zlatan si volta e cerca di metterli a fuoco più distintamente. Ed allora risulta incredibilmente semplice riconoscerli.
- Mister. – boccheggia sconvolto, nel lasciar scivolare lo sguardo prima sul proprio allenatore e poi su Bojan, ancora stretto a lui, le labbra rosse e gonfie ed il segno evidente di un succhiotto appena sotto l’orecchio destro. – Boji.
Josep ansima faticosamente, stringendo possessivo le mani attorno ai fianchi di Bojan. Non sembrano intenzionati a separarsi, e se da un lato questo porta Zlatan a chiedersi cosa diavolo abbiano intenzione di fare, dall’altro, riflettendoci, anche lui capisce che non potrebbero fare nient’altro.
La porta alle sue spalle si apre lentamente, seguita da un sospiro stremato. Ha appena il tempo di realizzare che José sta uscendo dalla stanza per venirlo a cercare, che è costretto a fronteggiare un fatto ben più grave – José sta per vedere ciò che sta vedendo anche lui, e questo è molto probabilmente ben più di quanto Guardiola fosse intenzionato a lasciargli intuire della sua squadra, prima della partita del sedici. Zlatan vorrebbe sentirsi in grado di provare una qualche spinta protettiva nei confronti dei due uomini che si stringono a qualche metro da lui, ma non ci riesce.
Poi realizza che c’è qualcosa di ancora più grave perfino di questo: al di là di quanto possa vedere adesso José, c’è quello che invece potrà intuire Guardiola. E se la segretezza di una relazione passata può permettersi di sfociare in una bonaria consapevolezza all’interno di uno spogliatoio unito qual è quello dell’Inter a Milano, lo stesso non si può dire di ciò che potrebbe pensare il suo nuovo allenatore trovandolo in compagnia del suo ex in un bed & breakfast solitario subito dopo una partita di campionato.
- Oh. – dice la voce liscia e sicura di José, la mano ancora sulla maniglia e solo un piede oltre la soglia della porta. – Ho dovuto fare meno strada del previsto.
Josep si allontana da Bojan e il ragazzo si appoggia alla parete, probabilmente per non cadere a terra.
- Che situazione curiosa. – commenta divertito José, avanzando fino a sistemarsi al fianco di Zlatan e girargli un braccio attorno alla vita, traendolo possessivamente verso di sé. – Bella serata, mh?
Josep serra le labbra e Bojan distoglie lo sguardo, imbarazzato oltre il sopportabile. A Zlatan viene voglia di prendere José a pugni fino a fargli dimenticare come si chiama, perché si trova lì e perfino come si organizza un discorso di senso compiuto, ma le sue dita tozze chiuse con forza sulla sua pelle gli tolgono il respiro in modi che non riesce nemmeno a capire. Non sa se sia perché lo sta toccando o perché sa perfettamente che l’atteggiamento sbruffone e indisponente di José è, come sempre, una tattica di protezione nei confronti di ciò che ha di più caro – lo usa con tutti coloro cui tiene, con la sua famiglia, con la sua squadra, con lui – sa solo che al momento lo trova intollerabile, che gli dispiace vedere Josep e Bojan comportarsi così colpevolmente quando lui stesso non si sente meno colpevole, quando sa che anche José dovrebbe sentirsi colpevole allo stesso modo. Ma non dice una parola, resta immobile al fianco di José ed osserva Guardiola borbottare qualcosa di incomprensibile mentre Bojan si copre il viso con entrambe le mani.
- Coraggio, coraggio. – sorride José, allungandosi a sfiorare la spalla del ragazzo in un gesto paterno e rassicurante, - Può capitare. Non deve necessariamente uscire da queste quattro mura. – aggiunge comprensivo, e il sottotesto minaccioso delle sue parole è tanto chiaro da non aver bisogno di sottotitoli: una sola parola su me e Zlatan, e presto il mondo intero saprà chi si porta a letto la stellina appena maggiorenne del Barça.
Bojan non ricambia il suo sguardo ed anzi, sotto il suo tocco, si irrigidisce e si allontana impercettibilmente, come José scottasse. Probabilmente è solo l’imbarazzo a renderlo elettrico. Zlatan vorrebbe – non lo sa nemmeno lui. Abbracciarlo, probabilmente, come ha fatto con Davide quella volta che suo nonno è stato male e loro erano in ritiro e lui non poteva muoversi neanche per questioni di vita o di morte. O come ha fatto con Mario quando la convocazione per la Nazionale – che aspettava con l’eccitazione di un bambino a Natale, la sua stessa attesa, quella che non riusciva più a ritrovare, dipinta nei suoi occhi neri come il carbone – non è arrivata a lui ma al suo migliore amico. Ricorda le lacrime soffocate di Davide, quei suoi terribili “cosa faccio se muore, come faccio se muore?”, e ricorda anche le lacrime di Mario, profondamente diverse, quasi animalesche, ringhianti e furiose mentre si appendeva con entrambe le mani alla sua maglietta, tirandola spasmodicamente, e la sua tristezza priva di possibilità di sfogo, perché per quanto potesse essere deluso non riusciva neanche a prendersela con il suo Dade.
Gli fa male pensare che, se si fosse trattato di Mario o di Davide – se si fosse trattato della sua squadra – nemmeno la stretta di José sarebbe bastata a fermarlo. Se ne sarebbe liberato e sarebbe corso a stringerli,  e l’avrebbe fatto serenamente, perché José avrebbe capito e l’avrebbe perdonato. Adesso è diverso, non sente la stessa spinta nei confronti di Bojan. Vorrebbe poterla sentire, vorrebbe – dannazione – poter dire “sono a casa”, finalmente, ma tutto ciò che riesce ad associare alla parola casa è la sua stanza con Adri – e poi con nessun altro – in Pinetina, l’appartamento a Milano, via Montenapoleone, il Duomo che poteva sempre incrociare solo di sfuggita, tali erano i rischi che poteva correre nel caso qualcuno lo riconoscesse e si mettesse ad urlare in mezzo alla piazza che c’era Zlatan Ibrahimović lì a passeggiare come niente fosse, perfino la villa in ristrutturazione in cui non ha mai nemmeno messo piede sembra più casa di Barcellona. E casa di José, naturalmente, le  decine di stanze di villa Ratti e le decine di volte in cui lui, Helena e i bambini si sono fermati a dormire lì dopo una giornata passata tra piscina e salotto. E le decine di volte in cui è scivolato fuori dal letto, nella stanza degli ospiti, ed uscendo in corridoio ci ha trovato José. E i suoi baci, le sue carezze, il modo spiccio e rude che aveva di tirarlo verso la prima stanza disponibile per scopare.
Questo è tutto quello che riesce a realizzare quando pensa a casa, e quindi la spinta per abbracciare Bojan in questa situazione non arriva. E se anche arrivasse, Zlatan non è sicuro che non la lascerebbe spegnersi per paura di non ottenere da José la stessa comprensione che gli avrebbe riservato se, al posto di Bojan, ci fosse stato Mario o Davide.
- Io… - comincia Josep, ma è stato in silenzio così a lungo che la voce esce fuori roca e spiacevole. La schiarisce con due colpetti di tosse, prima di ricominciare. – Io penso che si possa risolvere questa questione in modo amichevole, mister Mourinho. – azzarda, e lo fa col tono di voce e con lo sguardo di chi sta chiaramente pensando “quello che vuoi. Dimmi ciò che vuoi e sarà tuo, purché tu tenga la bocca chiusa”. E per un secondo Zlatan ha davvero paura che la risposta di José potrebbe essere “ridatemelo”.
- Ma non c’è niente da risolvere. – lo tranquillizza invece José con un sorriso spaventoso, - Io sono a posto così, se anche lei è a posto così. Non sprechiamo ulteriore tempo prezioso in questioni così sciocche, vuole?
Josep annuisce e passa un braccio sopra le spalle di Bojan, attirandolo verso di sé e dandogli modo di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, stringendogli forte la maglia all’altezza del petto. Zlatan si aspetterebbe quasi di vederli entrare nella stanza di fronte alla loro, come non fosse successo niente, e invece Josep si volta e conduce Bojan lungo il corridoio, verso le scale, per scendere al piano di sotto ed abbandonare il bed & breakfast.
José schiocca la lingua, sbuffando appena.
- Mi spiace per loro. Che sfortuna, poi, scegliere lo stesso posto che ho scelto io. – e poi tira Zlatan verso la stanza in un gesto spiccio così tipico di lui che a Zlatan viene quasi voglia di sorridere. – Vedi, se non fossi uscito, tutto questo non sarebbe successo.
- Perché non mi sembri stupito? – chiede, seguendolo in camera ed osservandolo chiudere di nuovo la porta a chiave.
- Perché dovrei esserlo? – rimbecca José, sfilando la chiave dalla serratura e infilandosela nella tasca posteriore dei jeans, per ogni evenienza.
Zlatan indica la porta con aria allucinata.
- Il mio allenatore ed uno dei miei compagni di squadra stavano praticamente per scopare in corridoio. Secondo te perché dovresti essere stupito?
José inarca un sopracciglio e lo guarda, dubbioso.
- Devo ricordarti in quanti corridoi abbiamo scopato noi nel corso dell’anno che abbiamo trascorso insieme a Milano? – chiede ironico, e Zlatan lo manda a fanculo, irritato.
- Noi siamo una cosa diversa! – cerca di spiegarsi, - Insomma, non credevo che qualcun altro-
- Credi anche tu alla favoletta di Lippi? Niente omosessualità nel calcio? Andiamo, Zlatan. Cosa credevi di essere, una specie di unico esponente della razza dei calciatori bisessuali? Che guarda caso aveva trovato l’unico esponente della razza degli allenatori bisessuali col quale scopare in santa pace? Ti prego. Oltretutto, – aggiunge divertito, - devo dire che la tua perspicacia è rimasta agli stessi bassissimi livelli cui si trovava mentre stavi all’Inter. Andiamo, che quei due avessero una storia era evidente perfino a me che non li conoscevo.
- Ma che… - annaspa Zlatan, scioccato, - Prima di tutto, evidente un cazzo!
- Ma dai! – rimbecca José, sfilando la giacca e lasciandola ricadere morbidamente ai piedi del letto, - Non hai visto come se lo coccola quando è in panchina? Sono gesti molto teneri.
- Paterni! – specifica Zlatan, e José ride.
- Be’, come hai potuto osservare poco fa, mica poi tanto. E comunque-
E comunque lo dico io! – riprende Zlatan, osservandolo sciogliere un paio di bottoni della camicia con naturalezza quasi disturbante, - Che cosa vorrebbe dire quel discorso sulla perspicacia?
José scrolla le spalle, terminando di sciogliere i bottoni della camicia e sfilandola lentamente, per poi appoggiarla con cura sullo schienale dell’unica sedia presente in camera.
- Che non mi stupisce che tu non ti sia accorto di cosa c’era fra Guardiola e quel ragazzo, considerando che non ti sei mai reso conto della più evidente relazione omosessuale che ti passava sotto gli occhi dentro lo spogliatoio.
- Che…? – biascica Zlatan, spalancando gli occhi, - Ma di chi stai parlando?
- Mi dispiace, - ride José, - ma decisamente non sono più fatti tuoi. – gli dice, sapendo di fargli male, mentre sfibbia la cintura e la lascia sfilare lenta fra i passanti dei jeans, prima di arrotolarla e posarla sulla sedia. – Posso solo dirti che il signor Lippi sarebbe stupito di scoprire quanto bene possa funzionare sul campo e fuori una coppia omosessuale, in barba alle sue opinioni sull’equilibrio dello spogliatoio.
Zlatan boccheggia per qualche secondo come un pesce fuori dalla propria boccia, e poi si passa una mano sugli occhi, in tempo per evitare di guardare José che sfila i jeans e li piega sommariamente, riponendo anche loro sulla sedia e restando in boxer.
- Non sono sicuro di aver capito, ma se ho capito non voglio saperlo. – biascica. Poi sente due dita afferrarlo delicatamente per il mento e sospingerlo verso l’alto. Se ne lascia guidare, mordendosi il labbro inferiore mentre i suoi occhi scorrono su tutta la superficie del corpo di José, prima di terminare la loro corsa sul suo viso. – Perché lo stai facendo? – chiede a bassa voce.
- Cosa? – chiede a propria volta José, inclinando il capo, un po’ stupito.
- Spogliarti. – precisa Zlatan, - Potrei chiederti le chiavi e dirti che non ho la benché minima voglia di venire a letto con te. Non guardarmi così, - si lamenta, aggrottando le sopracciglia quando scopre una sfumatura ironica nel brillio che rende scintillanti gli occhi scuri di José, - la possibilità c’è! E tu invece-
- Zlatan. – lo interrompe José, poggiando entrambe le mani sui suoi zigomi e stringendo la presa abbastanza da zittirlo ma non tanto da fargli male, - Ma tu davvero credi che io sia venuto fino a qui pensando che questa fosse una possibilità concreta?
Zlatan lo fissa con disappunto, cercando di liberarsi dalla presa – con poca convinzione, in realtà.
- Poteva accadere. – insiste, - Può accadere ancora.
- Se fosse stato possibile, non mi sarei mai mosso. Non ho abbastanza pazienza per sopportare altri no, Zlatan.
- Potrei dirtelo, adesso.
- No, non potresti.
- E cosa te lo fa pensare?! – quasi urla, esasperato, scattando in piedi e liberandosi, - Cosa, fra tutto ciò che ho detto da quando sono qui, ti ha fatto pensare che io potessi essere ancora innamorato di te?! Dimmelo! Così avrò cura di non ripeterlo in futuro, e risolverò il problema alla radice!
José lo guarda curioso, in silenzio, per qualche secondo.
- Non ho ascoltato nemmeno una delle tue dichiarazioni, da quando sei qui. – dice alla fine, - Semplicemente, i tempi erano maturi. – e poi sorride con indulgenza, sollevando una mano a sfiorargli una guancia. – Se pensi di aver detto qualcosa di fraintendibile, forse dovresti ripeterla adesso. Magari non era solo fraintendibile. Magari era esattamente quello che volevi dire, tutto qua.
Zlatan però non dice niente. E non dice niente perché, se ripercorre con la memoria tutte le dichiarazioni che ha rilasciato ultimamente, gli sembrano tutte dichiarazioni d’amore, senza eccezione alcuna. E questo lo disturba, e non vuole che José lo sappia, perciò si china e lo bacia lievemente sulle labbra, perché alla fine l’unica cosa che vuole far sapere a José – l’unica cosa che conti davvero – è quella. Che ha ragione, che c’è ancora qualcosa, che no, non può stargli lontano, che gli è grato per essere venuto a trovarlo, che vorrebbe poter restare con lui per sempre, che il solo pensiero di vederlo tornare a Milano fra un paio di giorni lo distrugge, e cerca di mettere tutto nel bacio che gli appoggia sulle labbra. Solo che un bacio tanto infantile e asciutto non è abbastanza per far passare nulla di tutto questo, e quindi è José a pretendere di più. È José che lo afferra per la nuca e se lo tira contro, obbligandolo a schiudere le labbra con la propria lingua ed assaggiandolo lento, con affetto e un pizzico di soddisfazione, mentre lo sospinge dolcemente verso il letto. Zlatan si lascia guidare, si lascia adagiare fra le lenzuola come fosse troppo stanco per combattere ancora, ed è nel momento in cui José scende lungo il suo petto e gli respira addosso attraverso il cotone sottile della maglietta già umida di sudore, che Zlatan capisce che non è “come se” fosse troppo stanco per opporsi, lui lo è e basta. È stanco di dire no, è stanco di dirsi no, è stanco di scappare ed è stanco anche di aspettare.
Solleva il bacino per agevolare i movimenti di José. Le sue mani scorrono abili e leste lungo i suoi fianchi, ne seguono la linea dritta disegnata dai muscoli ed afferrano delicatamente i jeans, lasciandoli scivolare verso il basso in una carezza che somiglia a una tortura. Ansima con forza, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra, mentre solleva una mano ad arpionare José dietro la nuca nello stesso preciso istante in cui le sue labbra si chiudono addosso ad un suo capezzolo, stringendo e accarezzando e succhiando con la solita calma – ed è strano pensare in questi termini, “le solite cose” erano le cose che più credeva di odiare, una routine consolidata, noiosa e immobile e inflessibile, che non si sentiva più in grado di tollerare, e invece ora che José lo bacia e lo sfiora ovunque a Zlatan fa piacere ritrovare lo stesso identico sapore, lo stesso identico ritmo, le stesse identiche sensazioni.
Realizza che non si era mai veramente stancato di José, mentre lui si sistema fra le sue gambe ed accarezza la sua erezione, guardandolo dall’alto come fosse un’opera d’arte. Non riesce più a ricordare di cosa fosse stanco con esattezza, quando José sfiora con due dita il profilo del suo volto. Zlatan schiude gli occhi e cerca quelli di José, e non li trova perché sono persi da qualche parte fra la linea dritta del suo collo e quella curva della sua spalla, e scendono giù lungo il braccio, fanno la conta dei tatuaggi per vedere se c’è qualcosa di nuovo, e si illuminano di un sorriso che sulle sue labbra non affiora quando si rendono conto che non è cambiato niente, è tutto uguale a due mesi prima. È arrivato in tempo, è arrivato in tempo per impedirgli di perdersi, per impedirsi di perderlo.
Gli ricambia lo sguardo solo quando le sue dita, seguendo la curva del mento, si appoggiano lievissime sulle sue labbra, in una richiesta muta. Zlatan obbedisce senza pensarci, lasciando scivolare la propria lingua sulle falangi di José e godendo del suo mugolio un po’ stupito e un po’ compiaciuto, prima di lasciarlo andare e seguire il movimento di quelle stesse dita mentre tracciano una scia umida di saliva lungo il suo petto, il suo ventre e il suo fianco. E quando le perde di vista chiude gli occhi e stringe i denti, solleva ancora il bacino puntando i piedi sul materasso e la sensazione successiva che percepisce somiglia al ricordo di un sogno che non s’è mai sbiadito, nella sua memoria. Quella sensazione di pienezza mista al desiderio di avere di più lo confonde e lo eccita, ed è meglio dei dolcetti di papà, è meglio della torta di mamma ed è meglio anche dei regali di Natale: è l’attesa di José che continua a dargli sempre le stesse sensazioni. Perché potrà essere una stella ed avere assicurato il posto in campo, e potrà avere tutti i gol che vuole, potrà giocare con tutti i fuoriclasse che stima, sono cose che s’è guadagnato col talento, con l’età e con l’esperienza, e a meno di trovare il modo di viaggiare indietro nel tempo e tornare nel Malmö BI nulla potrà ridargli la sensazione di incertezza che provava quando aveva otto anni e non era sicuro che il mister lo chiamasse né tantomeno sapeva cosa gli sarebbe toccato fare nel caso in cui il mister l’avesse chiamato – ma oh, José resta l’unica incognita fissa nella sua vita, il modo che ha di guardarlo senza che Zlatan possa riuscire a decifrare se lo stia studiando o stia cercando di sedurlo, il modo che ha di toccarlo, come fosse una cosa propria ma non volesse trattenerlo per non imprigionarlo, il modo che ha di spingersi con forza contro e dentro di lui per ricordargli che anche se non lo stringe fino a soffocarlo, anche se lo lascia volare via, c’è solo una cosa per la quale varrà la pena di lottare per sempre, e quella cosa è lui.

*

José sta riscrivendo con un dito il nome di Maximilian sul suo braccio. Segue il contorno delle lettere vagamente gotiche che scendono giù lungo il bicipite, fino al gomito, e aggiunge ghirigori di tanto in tanto – quando gli sembra di non aver insistito abbastanza su un determinato centimetro di pelle, ad esempio. Zlatan crede che José non voglia ripartire finché non si sarà impresso sulle mani la forma di ogni singolo angolo ed ogni singola curva del suo corpo. Continuando di questo passo, però, non sarà l’unico a restare con una traccia addosso – sarà lo stesso per Zlatan, che probabilmente si porterà dietro il peso della pressione dei suoi polpastrelli per molti mesi, anche dopo che José sarà tornato a Milano.
- Non ti perdonerò mai per essere uscito dallo stadio prima della fine della partita. – dice guardando il soffitto. S’è sistemato così comodamente nell’incavo del suo collo che ha quasi l’impressione di esserci nato, in questa posizione. – Ti sei perso il mio primo gol al Barça.
- Ma non mi dire, - ride José, spostandosi a giocare in punta di dita sul disegno tribale che copre la spalla, - hai segnato? – Zlatan annuisce, trovando perfino il coraggio di mettere su un mezzo broncio offeso, e José ride ancora. – E com’è stato questo gol? – chiede a bassa voce. Il suo respiro agita appena i capelli sul suo collo, Zlatan ha i brividi ovunque.
- Mmh. – commenta con una scrollatina di spalle, - Diciamo che è stato meglio se non l’hai visto, forse.
- E allora con che faccia tosta ti arrabbi? – rimbrotta lui, dandogli uno schiaffetto lieve sulla fronte, - Dinamica?
- La palla è arrivata, - spiega Zlatan, - diciamo in modo rocambolesco.
Diciamo?
- Sì, be’, - biascica, adesso vagamente imbarazzato, - diciamo che non è stato proprio un passaggio pulito pulito. C’era di mezzo la testa di uno del Gijon, non so, non c’ho fatto molto caso, in realtà. – aspetta che l’ennesima risata divertita di José torni a spegnersi, prima di continuare. – E poi niente, mi sono buttato in avanti e ho sperato di prenderla. E l’ho presa.
- Normale amministrazione, quindi. – lo prende in giro con un ghigno che Zlatan non vede ma intuisce perfettamente nel tono della sua voce. Risponde con una gomitata nelle costole, neanche troppo gentile, e sbuffa teatralmente, fra le risate di José che non sembrano intenzionate a fermarsi neanche a causa del dolore. – Scusa, scusa. – gli dice, quando finalmente la pianta di ridacchiare, - Ascolta. C’è una cosa che non ho avuto il tempo di dirti, quando sei andato via.
- Non hai avuto il tempo? – sbotta Zlatan, piegando indietro la testa e guardandolo da sotto in su, - Ci ho messo tipo due settimane ad andarmene!
 - Già. – annuisce José con un’altra risata, stavolta un po’ amara, - Io ce ne ho messe tre per venirci a patti. – confessa, e Zlatan serra le labbra e smette di guardarlo. José, comunque, non smette di parlare. – Ci ho messo un po’ a capirlo, perciò non potevo dirtelo subito. E dirtelo al telefono sarebbe stato assurdo. Comunque il punto della questione è che non deve per forza cambiare tutto, Zlatan. Ci siamo un po’ persi perché ci siamo… come convinti che vederti cambiare squadra sarebbe stata una specie di fine del mondo. Di quelle piccole, che sconvolgono solo gruppi ristretti di persone, ed alle quali nessuno su grande scala bada. Il nostro piccolo Armageddon personale.
- E invece non lo era? – chiede, e la voce esce fuori con difficoltà, perché un po’ ci spera ancora. Un po’ – è assurdo, ma ci spera davvero – spera che José adesso gli dica “sì, va tutto di merda, è un’apocalisse di proporzioni devastanti, stiamo giocando male, abbiamo bisogno di te. Torna a Milano con me”. E lui partirebbe, cazzo. A costo di mettersi a litigare col presidente in persona e farsi tirare fuori dalla rosa fino a dicembre, dannazione, troverebbe un modo per tornare a Milano. Lo troverebbe lui o convincerebbe Mino a trovarlo, o in qualche altro modo comunque risolverebbe la questione, perché se ripensa alle attese adesso che sta fra le braccia di José non è poi davvero tanto sicuro di sentirne così tanto la mancanza.
Sa che non è possibile, però.
- No, non lo era. – risponde José con naturalezza, - Stiamo giocando bene. Abbiamo faticato un po’ a trovare il ritmo, sai?, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Non so se hai visto il derby, ma-
- L’ho visto. – sospira lui. – Siete stati grandi.
José ride piano.
- Avevi detto di non passare tanto tempo davanti alla tv.
Zlatan torna a guardarlo da sotto in su.
- E tu avevi detto di non aver ascoltato neanche una mia dichiarazione, da quando sto qui.
Ridono entrambi, contemporaneamente, rotolando un po’ sul letto e scombinando tutte le lenzuola.
- Comunque non l’ho vista in tv. – precisa Zlatan, ridendo ancora mentre José torna a scrivergli cose sul braccio, - L’ho vista al pc. E non hai idea di che fatica sia stata trovare un dannato streaming funzionante.

*

Le ultime parole di José, prima di salire sull’aereo per Milano, sono state “Al prossimo giro vieni tu, io sono troppo vecchio per queste sfacchinate mordi e fuggi, anche se quello che mordo mi piace”. Zlatan ha risposto tirandogli una spinta spalla contro spalla e promettendogli che la prossima volta non solo sarà lui ad andare a Milano, ma sarà anche lui a mordere. José ha fatto un sorriso storto e poi se n’è andato, e Zlatan si ritrova ad imitare quello stesso identico sorriso mentre raccoglie gli scarpini e un po’ di roba dalla quale non si separa mai all’interno del borsone. Fra un paio d’ore ha il volo per Stoccolma e naturalmente è in ritardo. Lagerbäck già lo odia perché ha chiesto di potersi presentare un giorno dopo a causa di un fantomatico dolore al ginocchio che, per via dei suoi precedenti, non è stato preso granché sul serio, e quindi appena metterà piede sul suolo svedese comincerà a sentire urla che non si esauriranno fino alla fine di questo turno di qualificazioni.
Sospira pesantemente, passandosi una mano fra i capelli e districando qualche nodo all’altezza delle punte. Sono troppo lunghi e da quando è a Barcellona non li ha lisciati nemmeno una volta, li ha sempre lasciati liberi di andare un po’ dove volevano, ma probabilmente è arrivato il momento di tagliarli. Lo segna sulla lista come prima cosa da fare una volta tornato in patria, Lagerbäck o meno.
Il lieve colpetto di tosse che lo coglie all’improvviso alle spalle lo costringe a girarsi di scatto, tirandosi un po’ i capelli nel movimento.
- Ahi… - si lamenta, liberando la mano dall’intreccio di boccoli all’altezza del collo, - Boji? – chiede quindi, un po’ incerto. Il ragazzo non lo guarda, resta lì a qualche metro da lui e fa fatica perfino a rimanere fermo, tanto è nervoso. Continua a spostare il peso da un piede all’altro, come non riuscisse a trovare pace. Zlatan sospira: Guardiola l’ha ignorato per tutto il giorno e la situazione s’è fatta pesante. È un bene che debba partire per gli impegni in Nazionale: se tutto va come deve, per il momento in cui sarà tornato, tutta questa faccenda se la saranno lasciata entrambi alle spalle. – Bojan, ti prego, non fare così. È già abbastanza imbarazzante anche evitando queste scene, ti pare?
Lui risponde con un sorriso minuscolo, avanzando di qualche passo e poi, finalmente, guardandolo.
- Pep non sa che sono qui… - mormora incerto, - Voglio dire, l’ha presa male, è molto preoccupato e- - Zlatan lo interrompe con una risata tonante, riprendendo a sistemare la propria roba nel borsone come niente fosse stato. Bojan inarca un sopracciglio ed arriccia le labbra in una smorfia infantile ed offesa. Zlatan lo ferma prima ancora che possa parlare.
- È tutto ok, Boji. – sorride, chiudendo il borsone ed avvicinandoglisi. Gli lascia passare un braccio attorno alle spalle, se lo tira contro e gli scompiglia i capelli, teneramente. – José non dirà una parola, garantisco io per lui. Di’ al mister di stare tranquillo.
Bojan ridacchia, un po’ imbarazzato, e poi solleva lo sguardo mentre, ancora abbracciati, si muovono insieme verso l’uscita dello spogliatoio.
- Sai che è la prima volta che lo chiami mister? – gli chiede. Zlatan sorride, guardando il cielo terso di Spagna non appena si ritrovano all’aria aperta.
- Davvero? – gli scompiglia ancora i capelli, inspirando ed espirando profondamente, - Non me n’ero accorto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Pep/Bojan, Zlatan/Gerard, accenni di Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst.
- Bojan ha paura.
Note: Potete crederci o no, ma questa storia è nata esclusivamente perché la Jan un di', tipo quattro giorni fa, disse "ho voglia di Pejan". Siccome io sono così, mi piace rendere il mondo felice <3 *si bulla* ho pensato bene di accontentare lei e chiunque altro potesse aver voglia di un po' di sano Pejan nel mondo. Poi l'Ibraqué ci si è infilato involontariamente, ed è tutta colpa di una foto ormai famosa in modo nauseante, che non mi prenderò la briga di linkare qua, che tanto anche se vivete sotto un sasso sicuramente il vostro Gazzettino del Sasso si sarà premurato di mostrarvela mentre voi vi affogavate col vostro caffè.
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(Un)Resolved Sexual Tension


Le labbra di Pep sono calde ed asciutte sulla sua pelle umida di sudore. I suoi vestiti sono fradici, e quando gli si avvicina per abbracciarlo Bojan ha come l’impressione di sentirsi nudo contro il suo corpo. Il tessuto della divisa è sottile, non pesa niente, è quasi impalpabile, anche quand’è così bagnato. Arrossisce istintivamente quando Pep lo stringe a sé e gli sussurra qualche complimento sulla tempia, proprio nello stesso punto in cui l’ha baciato poco prima. In mezzo al clamore della folla ed al battito convulso del proprio cuore, Bojan non coglie neanche una delle sue parole, ma gli tremano ugualmente le ciglia quando lo sente sorridergli addosso e massaggiargli piano una spalla col pollice da sopra la maglia bagnata, un attimo prima di lasciarlo andare ed allontanarsi di qualche centimetro, per cercare i suoi occhi ed anche una risposta alla domanda che ha formulato e che Bojan s’è colpevolmente lasciato sfuggire.
- Cosa… - boccheggia, mentre tutto intorno a lui i compagni festeggiano e lui non riesce a vedere nient’altro oltre agli occhi di Pep e al suo sorriso piccolo e dolce, - Cosa hai detto?
Pep inarca un sopracciglio ed il suo sorriso si allarga appena, divertito.
- Ti ho chiesto se ti va di fermarti da me, stanotte. – ripete senza imbarazzi di sorta, - Devo mettermi nel cerchio di centrocampo, rubare un microfono a qualcuno e urlarlo a tutto il Camp Nou? – ridacchia, scompigliandogli i capelli.
- No! – ride per riflesso anche lui, abbassando lo sguardo mentre le guance gli si arrossano e lui è grato di poter fingere sia solo a causa della fatica per la partita appena conclusa, - No, ho… ho capito.
- E intendi anche darmi una risposta da qui alla fine del secolo? – lo prende in giro Pep, tirandoselo contro ancora una volta in un gesto rassicurante.
- Sì. – sbuffa lui in un sorriso più sereno, - Voglio dire, sì che intendo risponderti. E sì anche che… che mi fermo da te. – annuisce distogliendo lo sguardo. Pep sorride ancora, Bojan non lo vede ma può sentirselo addosso.
- Bene. – gli sussurra sulla pelle in un altro bacio, stavolta sulla guancia, - E smetti di tremare, dai. – consiglia ridacchiando ancora e spintonandolo lievemente spalla contro spalla, prima di allontanarsi verso la postazione per le interviste post-partita.
Bojan lo osserva muoversi, farsi più piccolo e poi sparire nel tunnel, e vorrebbe davvero smettere di tremare, ma non ci riesce.

*

Sta ancora tremando quando Pep gli apre la porta di casa e lo invita ad entrare. Non è la prima volta che si trovano da soli in casa dell’uno o dell’altro: Bojan ormai dovrebbe essere abituato a questa loro routine da fidanzatini casti e puri – può ancora ricordare quanto forte fosse il profumo della pelle di Pep quando, dopo averlo baciato a lungo, un pomeriggio di tanti e troppi mesi prima, gli ha detto “solo quando sarai pronto, Boji, io non ho fretta” – eppure per qualche motivo non riesce a sentirsi meno che terrorizzato ogni volta che la porta si chiude alle sue spalle, specialmente in quel breve istante in cui si ritrovano all’ingresso ancora immersi nel buio, prima che uno dei due si allunghi sbrigativamente ad accendere la luce per annegare l’imbarazzo in una risatina nervosa, incamminandosi a passo svelto lungo il corridoio.
Questa volta tocca a lui: stende un braccio lungo la parete, dove sa già di trovare l’interruttore della luce, e lo schiaccia. Di colpo, all’oscurità spazzata appena dalla luce della luna a filtrare dalla finestra in fondo alla stanza, si sostituisce la luminescenza giallastra della lampadina alta sul soffitto sopra di loro. I contorni delle cose si fanno più definiti – più spaventosi – e Bojan si sente quasi costretto ad abbassare lo sguardo mentre si rende conto dell’estrema facilità con cui riconosce il posto di ogni singolo mobile e soprammobile in quella stanza, così come prima le sue dita hanno trovato la via per l’interruttore della luce con una naturalezza perfino disturbante.
Imbocca il corridoio come fosse a casa propria, e combatte a stento il desiderio di fermarsi ogni due passi per ricordarsi che così non è, lui non vive lì, e dovrebbe ricominciare a comportarsi da ospite, sempre ammesso che l’abbia mai fatto prima d’ora. Entra in camera di Pep senza chiedergli se può, indovina a memoria la strada per il letto senza mai accendere la luce, e quando le sue ginocchia sfiorano il fianco del materasso vi si appoggia e molleggia un po’ contro quella morbidezza familiare, prima che qualcosa di meno morbido ma ugualmente familiare – il corpo di Pep, le sue mani, l’erezione prepotente fra le cosce che ogni volta cerca con scarso successo di nascondergli per non spaventarlo – lo raggiunga alle spalle, sfiorandolo con circospezione.
Bojan trattiene il respiro mentre Pep se lo stringe contro e scivola con le labbra lungo il profilo del suo viso e del suo collo, sfiorandogli la curva della spalla con la punta del naso da sopra la maglietta e respirandogli addosso per un tempo indefinito prima di chiamarlo piano per nome e scendere con il palmo della mano bene aperta lungo la sua pancia, sotto la maglia, soffermandosi appena qualche secondo sull’ombelico giusto per fingere di non essere terrorizzato all’idea di scavalcare l’orlo di pantaloni e boxer e scenderne al di sotto, per toccare ciò che le sue dita, vagando apparentemente senza meta sulla sua pelle, stanno segretamente cercando da quando hanno cominciato ad accarezzarlo.
Bojan non sa cosa Pep si aspettasse dalla serata; o forse sì, forse lo sa ed è proprio questo a spaventarlo tanto: il fatto che Pep si aspettasse qualcosa mentre lui, da qualche parte neanche troppo nascosta della propria testa, non faceva altro che sperare che, invece, non s’aspettasse niente.
Dovresti averne voglia, si dice impietoso mentre, con uno scatto quasi isterico, si allontana dal suo corpo e si volta per non dargli le spalle, guardandolo dritto negli occhi come un animale braccato che ha estremo bisogno di guardare il suo cacciatore in faccia, per cercare di comprenderne i piani. Dovresti tenerci anche tu, si ripete, dovresti volerlo, dovresti lasciarti toccare. E invece non vuole.
- Boji…? – lo chiama Pep, confuso, allungando una mano nel tentativo di raggiungerlo. Bojan si stringe nelle spalle e chiude gli occhi di scatto, come avesse paura di veder divampare fiamme dalla punta delle sue dita. Pep spalanca gli occhi e le labbra, e si ritrae, sconvolto.
Quando Bojan torna a guardarlo, si rende conto di sentirsi troppo in colpa perfino per restare lì a respirare la sua stessa aria, ed è per questo che si volta, esce dalla stanza e ripercorre il corridoio al contrario, afferrando la giacca alla cieca dall’attaccapanni e fuggendo da casa sua senza mai guardarsi indietro, e senza aver mai sentito il bisogno di accendere la luce.

*

Il tempo pazzo della primavera in Catalogna gli si riversa addosso con furia mentre corre per le strade di Barcellona. Gli piove addosso uno sproposito d’acqua, il vento gli scompiglia i capelli sollevandoglieli dalla fronte per poi lasciarglieli ricadere sul viso con la violenza di uno schiaffo. Bojan piange, ma non riesce a distinguere le lacrime dalle gocce di pioggia, per cui l’unica cosa che gli permette di capire quanto profondamente stia male è un dolore diffuso nel petto e i singhiozzi che gli scuotono le spalle, sfiancandolo più di quanto non stia facendo la sua corsa matta verso casa di Gerard.
Avrebbe potuto andare da chiunque avesse voluto, nessuno dei suoi compagni gli ha mai negato ospitalità o sostegno, solo che sono tendenzialmente tutti più grandi di lui – a parte Pedrito, ma Pedrito è un cretino babbione che chissà dove e come starà festeggiando la vittoria, proprio stasera – e per questo motivo si sentono come in dovere di fargli da vice-padri, e la prima cosa alla quale pensano quando lui si presenta a far loro visita con un “ho un problema” sulle labbra è “vediamo come possiamo risolverlo”.
Geri no, invece. Geri ha ventitre anni ma per certi versi – per molti versi – è rimasto un ragazzino. Dice sempre la prima cosa che gli salta sulla lingua, ride per ogni stupidaggine, e soprattutto non si è mai sentito grande abbastanza da poter risolvere i propri casini, figurarsi quelli degli altri. In compenso, è sempre disposto a distribuire un po’ di coccole a caso quando necessarie, e il suo letto nella stanza degli ospiti è sempre pronto all’uso, per quanto spesso Bojan si sia ritrovato triste abbastanza da costringersi all’imbarazzo di abbandonare quelle lenzuola neutre e un po’ deprimenti per spostarsi in punta di piedi in camera del suo ospite, trovandolo il più delle volte ancora sveglio, sorridente e in perfetta attesa che qualcosa di simile accadesse, pronto a dargli accoglienza al proprio fianco, fra le coperte calde che profumano di lui – di casa, di consolazione, di abbracci.
Per questo, non si preoccupa dell’ora tarda quando si attacca al campanello di casa di Gerard, e si stringe nervosamente nelle spalle, sotto la tettoia, cercando di scrollarsi di dosso un po’ di pioggia mentre si prepara a saltargli al collo nell’esatto momento in cui avrà aperto la porta e potrà ritrovarselo davanti. Solo che quello che apre la porta non è Geri, non gli assomiglia nemmeno. È Zlatan ed è seminudo e lo sta guardando come fosse un ostacolo imprevisto ma inevitabile, di quelli che poi ricordi con odio per tutto il resto della tua esistenza.
- Zlatan…? – sillaba incerto, scrutandolo terrorizzato mentre lui sospira, poi sbuffa e rientra in casa, lasciandosi la porta socchiusa alle spalle per permettergli di entrare.
- Hai visite. – lo sente sussurrare rivolgendosi a Gerard, un secondo prima di scostare le lenzuola con un gesto brusco e poi tornare a stendersi sul letto, nello stesso identico posto che presumibilmente occupava prima del suo arrivo.
- Boji! – lo chiama Gerard, sfoggiando un entusiasmo del tutto ingiustificato e saltando giù dal letto per correre ad abbracciarlo, nonostante sia fradicio di pioggia. – Ma santo Dio, dove diavolo sei stato? Sarai mica venuto a piedi?
Bojan annuisce senza davvero pensarci, e non riesce a staccare gli occhi di dosso da Zlatan che, dal canto proprio, continua a sfogliare Marca con aria annoiata, interrompendosi solo quando il suo sguardo comincia a farsi abbastanza pesante da impedirgli di ignorarlo ancora.
- Che hai da guardare? – chiede bruscamente, e Bojan distoglie immediatamente lo sguardo, arrossendo imbarazzato.
- Niente… - biascica incerto, - Solo che, insomma, credevo che fosse tutta una bufala, quella foto… sembrava così strana, credevo fosse finta.
- Finta! – sospira Zlatan, sollevando gli occhi al cielo, - L’unica cosa finta in tutta questa storia è il cervello che questo cretino mi aveva detto di avere quando invece ne era palesemente privo.
- Non essere il solito stronzo, Zlatan. – borbotta Gerard, spalancando cassetti a caso e tirandone fuori un telo di spugna nel quale lo avvolge quasi completamente, sfregandolo come fosse un cucciolo appena trovato per strada, nel tentativo di riscaldarlo. – Che succede, Boji? Ci sono stati problemi?
Il suo sguardo si fa immediatamente cupo e adombrato da un velo di lacrime, motivo per cui Gerard lascia andare un mugolio preoccupato al quale Zlatan fa subito eco con una lamentela disperata.
- Ma non poteva restarsene a casa sua? – sbotta infastidito, scalciando via le lenzuola e mettendosi in piedi vagamente stizzito.
- Zlatan, ma che palle! – lo rimprovera Gerard, sedendosi sul letto e trascinandosi dietro Bojan perché possa accomodarsi di fronte a lui, - Il piccolo qui ha evidentemente problemi d’amore, come puoi non capire che ha bisogno di conforto?
- Il conforto non serve! – protesta lui, ad un passo dalla porta del bagno, voltandosi a guardarli incredulo, - Non è che una menzogna che ti raccontano per farti credere che da qualche parte, nel mondo, ci sia speranza per la bontà umana, cosa assolutamente falsa. E poi, amore, che paroloni.
- Sì, be’, in effetti chiedere a te di comprendere un concetto simile è impensabile. – lo prende in giro con un ghigno sardonico, al quale Zlatan risponde con una smorfia inviperita.
- Io so esattamente cos’è l’amore, e per tua informazione lo conosco anche!
- Eccome! – risponde a tono lui, - Quando t’ho conosciuto eri già più sfondato di un traforo montano, non so se esista qualcun altro nel mondo che conosca l’amore più profondamente di te.
Zlatan si prende qualche secondo per fingersi più oltraggiato di quanto realmente non sia, e poi gli tira addosso una pantofola.
- Fottiti. – conclude, chiudendosi a chiave in bagno, non senza portare Marca con sé, e Gerard ride sotto i baffi mentre torna a concentrarsi esclusivamente su Bojan.
- Coraggio. – dice, accarezzandogli teneramente una spalla in segno di conforto, - Di’ a zio Geri cos’è successo.
Bojan non riesce a guardarlo tranquillamente negli occhi, motivo per il quale tiene gli occhi fissi sull’orlo del lenzuolo e lo stropiccia infantilmente fra le mani, mordicchiandosi un labbro. Cerca di concentrarsi su quello e spera che le parole vengano fuori da sole, senza bisogno di doverle spingere, perché non ha forza a sufficienza per farlo.
- Ho paura. – confessa in un soffio di voce, - Ho una paura folle, non riesco neanche a pensarci senza avere voglia di scappare. – si copre il viso, dimentico di non aver dotato la frase di un soggetto cui Gerard potesse appellarsi per capire a grandi linee di cosa stesse parlando, ma Gerard non insiste, lo lascia sfogare, sa che il momento giusto per chiedergli di spiegarsi arriverà, e se non dovesse arrivare sa che in qualche modo lo capirà da sé. – Non ho mai pensato che prima o poi saremmo arrivati a questo punto— cioè, è ovvio che ci ho pensato, - precisa arrossendo ancora, - però, insomma, non ci ho pensato davvero, a quello che potrebbe comportare, a cosa potrebbe significare, ma soprattutto… - si morde ancora il labbro inferiore, con più forza, come servisse a provarsi qualcosa, - non ho mai pensato al dolore, e— e mi fa paura. Mi fa paura tantissimo, non riesco— mi irrigidisco tutto, divento un pezzo di ghiaccio appena mi tocca, ed è solo perché ho una paura tale che non riesco a sbloccarmi. E continuando così manderò a puttane tutto, lo so, ma-- - singhiozza appena, trattenendo il respiro per non scoppiare a piangere come una ragazzina, - ma non ci posso fare niente, non riesco. Non riesco.
Gerard resta silenzioso e immobile a lungo, prima di decidersi a fare qualcosa. Lo prende delicatamente per le spalle e lo trae a sé, incurante dei suoi vestiti bagnatissimi che il telo di spugna non è riuscito ad asciugare neanche parzialmente, e se lo sistema sul petto, tirandogli giù l’asciugamani dalla testa per accarezzargli i capelli, lasciando sfilare le dita fra le ciocche che gli gocciolano sul viso, in parte per scacciare l’acqua, in parte per tranquillizzarlo.
- Sei così piccino. – gli sussurra dolcemente all’orecchio, coccolandolo un po’, - È normale avere paura, Boji, è giusto avere paura. È quella sirena che l’istinto di conservazione mette n moto perché tu possa chiederti se vuoi davvero qualcosa, o se sei pronto per ottenerla, in ogni caso.
Bojan annuisce distrattamente, più che altro perché ora ha voglia di ricominciare a piangere, e chiude gli occhi mentre si lascia cullare, sperando che questo possa aiutarlo magari ad addormentarsi lì e mettere un punto a questa nottata disastrosa, ma la chiave che gira nella toppa del bagno e la porta che si apre subito dopo, mentre Zlatan torna in camera con uno sbuffo esasperato, gli impedisce di portare a termine i suoi progetti.
- Quante sciocchezze. – sbotta lo svedese, avvicinandosi al letto con aria bellicosa e sedendosi sul materasso, per poi afferrarlo impetuosamente per le spalle e piantarselo dritto proprio di fronte, in modo da poterlo guardare negli occhi. – La paura è una stronzata con cui il tuo corpo ti spiega che non sai abbastanza di ciò in cui ti stai andando a ficcare. Scompare completamente quando sai cosa aspettarti. A te non servono coccole, ti serve informazione.
- Zlatan! – cerca di fermarlo Gerard, col solito tono petulante che, Bojan se n’è accorto, utilizza spesso con lui, ma Zlatan lo zittisce con un gesto infastidito, e torna a parlargli.
- Non sto parlando di sciocchezze tipo preservativo, lubrificante e cose simili, queste le saprai già, figurarsi se non le sai già. – quasi lo prende in giro, e Bojan abbassa lo sguardo, - No, sto parlando di informazione vera. Tipo quello che succede. – e prende un gran respiro, e lo prende anche Gerard, e quindi Bojan si sente autorizzato a prenderlo a propria volta: - Farà male. Farà un bel po’ di male, e specialmente se è la prima volta sarà strano e frustrante e confuso, e se durerà troppo a lungo non vedrai l’ora che finisca, il più presto possibile. E dopo vi sentirete sciocchi e non riuscirete nemmeno a guardarvi negli occhi, ma – e sorride, per la prima volta da quando Bojan è arrivato, e si allunga perfino a scompigliargli comicamente i capelli, come una specie di padre imprevisto che mai avrebbe creduto di potersi ritrovare a svolgere una funzione simile per un semi-sconosciuto, - sarà per sempre vostro. E sarà per sempre tuo. E ripensandoci più avanti potrai dire di essere stato felice di averlo fatto.
Bojan guarda il suo sorriso sereno e per un secondo riesce a trovarlo perfino bello, mentre Gerard ridacchia per motivi che non comprende e si allunga prima ad accarezzargli i capelli e poi a dargli un bacio sulla guancia. Li osserva agire con tanta tenerezza dopo i continui battibecchi in cui li ha visti esibirsi nel corso dell’ultima ora, e improvvisamente gli sembra tutto molto meno assurdo e sbagliato di quanto non avrebbe mai creduto possibile.
- Torna a dormire. – dice Gerard, rivolgendosi a Zlatan mentre lui, con uno sbuffo, obbedisce, e si stende tranquillamente sul materasso, - Hai rivangato anche troppo per una sera sola. Boji, - lo chiama quindi, sorridendogli sereno, - aspettami di là. Mi vesto e ti riporto da lui.

*

Ha salutato Gerard più di cinque minuti fa, ma non è ancora riuscito a trovare il coraggio di suonare il campanello, perciò è rimasto immobile di fronte alla porta in legno massiccio dell’appartamento, immerso nel buio, fino ad adesso, e l’unica cosa che gli sembra di aver imparato da questa serata, dopotutto, è che le parole sembrano avere un gran peso nel momento in cui le ascolti o le dici, ma finiscono per perdere in consistenza man mano che il momento in cui sono state pronunciate va allontanandosi nel tempo.
Si mordicchia distrattamente un pollice, spera di non fare troppo rumore – ma come?, si chiede anche, e poi lascia perdere perché è il meno irrazionale di tutti i pensieri irrazionali che l’hanno intrattenuto negli ultimi cinque minuti ormai quasi dieci – e riesce a scansarsi appena in tempo per non prendere la porta sul naso quando Pep la spalanca con un’urgenza inaudita, e poi si blocca sulla soglia, identificandolo lì in piedi sul suo zerbino, perso nell’oscurità più totale a non fare assolutamente niente.
- Boji. – sillaba incerto, - Ero… ero preoccupato! Stavo venendo a cercarti, di fuori c’è il diluvio e tu sei tutto bagnato! Senti, mi dispiace se ho sbagliato, non intendevo metterti paura, stavo solo-- - ma Bojan non lo lascia finire, riconosce in un secondo il peso delle parole e quelle di Zlatan tornano a farsi così presenti nella sua testa da assumere quasi una consistenza fisica, nel momento esatto in cui osserva le sopracciglia di Pep corrugate, i suoi occhi velati d’ansia, le sue labbra piegate in una smorfia preoccupata e tutti i suoi lineamenti tesi dal senso di colpa.
Si slancia in avanti anche a rischio di fargli male, e lo bacia d’impeto, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra. Pep è stupito dalla sua fretta, è stupito anche dall’atto in sé, ma riesce a restare presente a se stesso abbastanza da ricordarsi di chiudere la porta alle loro spalle, e poi resta lì nel mezzo dell’ingresso, incerto sul da farsi, stringendoselo contro perché sembra che sia questo ciò che Bojan vuole, mentre continua a baciarlo come se le ultime molecole d’ossigeno esistenti nell’universo fossero tutte concentrate sulla superficie delle sue labbra.
- Ti amo. – gli sussurra addosso, quando riesce ad allontanarsi abbastanza da tornare a respirare autonomamente, - Ti amo, ti amo, ti amo tantissimo, scusa se sono scappato. Sono un cretino e non avevo capito niente, scusami.
Pep lo guarda inarcando un sopracciglio, confuso, come non riuscisse a trovare neanche nell’anfratto più recondito della propria mente un singolo motivo per il quale Bojan dovrebbe volersi scusare con lui. E Bojan pensa che è felice che le parole abbiano un peso anche adesso, e sorride serenamente, un po’ commosso da quanto sciocco sia l’uomo che ama. Torna a baciarlo, stavolta con meno furia, e le sue mani scendono quasi di soppiatto ad afferrare l’orlo della sua maglietta, tirandolo su. Pep si allontana da lui e lo guarda ancora, se possibile più confuso di prima, ma i suoi occhi si soffermano nei propri abbastanza a lungo da lasciargli intendere tutto ciò che è necessario intenda. Poi, la maglia cade ai loro piedi, e Bojan si sofferma un attimo ad osservare la linea del torace di Pep, i pettorali definiti e gli addominali disegnati sul ventre. Quasi ipnotizzato, si sporge fino a lambirli appena, scivolandogli addosso in una carezza umida ma lievissima. Sente la sua pelle tremare in punta di lingua in concomitanza col gemito di gola che si lascia sfuggire, e si permette di sbirciare in alto il suo capo reclinato all’indietro, le labbra dischiuse mentre le inumidisce con la lingua e lascia correre una mano ad accarezzargli la nuca, un po’ in un gesto tenero e un po’ in un’inconscia richiesta.
È una richiesta che Bojan non intende rifiutare, dopotutto, perciò nonostante la paura s’inginocchia sul pavimento e poggia le dita sull’orlo dei suoi pantaloni. Fissa imbarazzato il rigonfiamento evidente all’altezza del cavallo di Pep e poi, senza prendersi un solo secondo in più per riflettere – d’altronde, sarebbe inutile, e probabilmente anche controproducente – lo spoglia, avvicinandosi timorosamente alla punta della sua erezione tesa verso le sue labbra in un invito muto. L’accoglie quasi perfettamente in silenzio, lasciandosi sfuggire solo un singhiozzo appena accennato quando, provando a prenderla più in fondo, si rende conto che non ci riesce bene. Probabilmente, si dice, perché non ci ha mai provato, e la cosa lo riempie di imbarazzo ancora più degli ansiti che Pep non riesce ad impedirsi di soffiare fra le labbra, perso da qualche parte sopra di lui che non può vederlo, perché si ostina a tenere gli occhi serrati.
Si allontana da lui poco dopo, perché in tutta onestà non saprebbe cos’altro fare. Gli occhi di Pep – che trova subito, persi nei suoi – sono offuscati e un po’ lucidi, e il suo respiro è affannoso. Lo aiuta a sollevarsi in piedi e poi resta lì, inerte fra le sue mani, mentre Pep gli sfila lentamente gli abiti di dosso. Gli si appiccicano alla pelle, tanto sono bagnati. Oppongono resistenza, lasciano tracce umide su tutto il suo corpo e Bojan si ritrova scosso più dai brividi di freddo che da quelli dell’imbarazzo, quando si ritrova completamente nudo di fronte a lui.
Pep lo guarda come fosse un’opera d’arte, ammirato e perso. Si allunga a sfiorarlo con devozione, Bojan chiude gli occhi e gli viene da piangere per essere stato così stupido da non permettergli di farlo prima. Si chiede come abbia potuto pensare anche solo per un attimo che il dolore potesse essere una ragione sufficiente per rinunciare alla sensazione perfetta di sentirsi completo e felice fra le sue dita. Si chiede come abbia potuto essere così sciocco da fingere che la vita non gli avesse insegnato niente, fingere di non sapere che per qualsiasi cosa bella bisogna sudare e stringere i denti e ignorare la sofferenza, sperando di riuscire a conquistare ciò che si vuole davvero. Sono cose che sa, cose che non ha mai dubitato di avere imparato, eppure con Pep per qualche minuto aveva perso questa consapevolezza, ed ha rischiato di perdere tutto per la cecità di un istante.
Si lascia stendere sul materasso, sente il cuscino sotto la testa inumidirsi per la pioggia che ancora cola dai propri capelli, ma sorride quando Pep – che di solito per queste cose è il primo a rompere le palle – invece di farglielo notare gli chiede se sia proprio sicuro di volerlo. Annuisce tranquillo e poi si lascia trasportare dalla sensazione stupenda delle dita di Pep che lasciano una traccia bagnata sul suo petto e sul suo stomaco, prima di scendere ad accarezzarlo fra le natiche, esplorandolo prima all’esterno e poi appena all’interno, per permettergli di abituarsi a quella presenza nuova e invadente.
Bojan sente l’altra sua mano chiudersi delicatamente attorno alla propria erezione, ed inarca la schiena, affondando tra i cuscini e mugolando deliziato quando quella stessa mano comincia a muoversi in una carezza sempre più decisa, seguendo il movimento delle sue dita che frugano dentro il suo corpo, si piegano e gli tolgono il respiro. La sensazione è così bella che accoglie quasi con disappunto il momento in cui le dita di Pep lo abbandonano, ma non ha veramente modo di pensarci troppo a lungo, perché la pressione di quelle dita viene sostituita immediatamente da una pressione ben più grande e profonda.
Spalanca gli occhi, schiude le labbra, e la bocca di Pep è lì, immediatamente pronta a coprire la sua, ed ogni più piccolo gemito di dolore. La sua lingua accarezza la propria teneramente, come volesse consolarlo, e la sua mano non smette un secondo di masturbarlo con attenzione, seguendo le proprie spinte ed anche i movimenti naturali del suo bacino, mentre cerca di abituarsi alla novità senza piangere troppo. Qualche lacrima gli sfugge, e non può fare a meno di sentirsi un ragazzino idiota per questo, ma la risata intenerita e senza fiato di Pep lo consola, come lo consolano i suoi baci, come lo consolano perfino le sue spinte dapprima lente e caute, poi sempre più svelte. E lo inorgoglisce essere lui la causa di quella temporanea perdita di controllo, il motivo per cui Pep smette di affidarsi alla propria razionalità e si lascia portare avanti dal proprio istinto, e quando stringe forte gli occhi perché la presa di Pep si fa più forte sulla propria erezione e la sua carezza si fa decisa al punto da costringerlo a venire con un gemito acuto e liberatorio, vede bianco per una quantità infinita di secondi, e si rende conto che la traccia umida delle lacrime sulle guance s’è già asciugata.
Pep gli si stende addosso esausto il secondo successivo. Bojan lo sente respirare a corto di fiato sul suo collo, e solleva una mano ad accarezzargli la nuca. Sorride, fissando il soffitto. Si sente a casa. E non ha più paura.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, (vaghi) Riferimenti Sessuali, (vago) Underage.
- "Quando Pep si sveglia, istintivamente allunga un braccio alla propria sinistra, convinto di trovare ancora Bojan addormentato."
Note: Randomica come una cosa molto randomica. Titolo da Father And Son di Cat Stevens. Dedicata alla Jan per il Colacao e ad Any perché la voleva. Prompt: No/Sì @ It100.
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I WAS ONCE LIKE YOU ARE NOW// (NO)
Quando Pep si sveglia, istintivamente allunga un braccio alla propria sinistra, convinto di trovare ancora Bojan addormentato. Così non è, per qualche strano motivo, per cui apre gli occhi e si guarda intorno con aria un po’ persa, per qualche secondo, mentre aspetta di realizzare chi è, dove si trova e per quale motivo abbia avuto il bisogno di cercare la presenza del corpo di un ragazzino non ancora maggiorenne avvolto a palla sotto le coperte come prima cosa al mattino.
Poi sente qualcuno trafficare in cucina, per cui si alza e, nella gloria del proprio pigiama a righe, attraversa il corridoio, trovandosi ben presto davanti allo spettacolo vagamente disturbante di Bojan in canottiera e pantaloncini che spalanca qualsiasi anta incontri al proprio passaggio alla ricerca di Dio solo sa cosa.
- Boji…? – lo chiama, e lui si volta a guardarlo con un broncio spettacolarmente offeso ad arricciare le labbra piene e rosa.
- Ma non fai colazione, tu? – borbotta, e quando Pep gli indica il bricco del caffè in un angolo del ripiano accanto ai fornelli, Bojan rotea teatralmente gli occhi, - Ma una colazione vera, dico! – si lagna, - Non ce l’hai del Colacao?
Pep scuote il capo, Bojan si accascia come un peluche improvvisamente svuotato della sua anima in ovatta e poi ondeggia tristemente per quei pochi passi che li separano, andando a poggiarsi con la fronte sulla sua spalla. Lui sorride, gli scosta la frangia dalla fronte e lo bacia piano su una tempia, ma quando Bojan, un po’ incerto, allunga le mani a stringerlo alla vita e poi cerca di infilarne una oltre l’elastico dei suoi pantaloni, lo afferra velocemente per un polso, fermandolo.
- No. – dice severamente, - Ne abbiamo già parlato. Non ancora.
Bojan potrebbe protestare, ma non lo fa, e si allontana mesto.

(SÌ) //AND I KNOW THAT IT’S NOT EASY
Da allora è passato più di un anno, e lui e Bojan si sono mossi parecchio dal punto in cui si trovavano. Adesso, quando il ragazzo si ferma a dormire da lui, non è più solo per dormire, e quando al mattino Pep si sveglia il suo pigiama a righe è ancora appallottolato ai piedi del letto o sul pavimento – e questo sempre che abbia avuto il tempo di indossarlo alla sera, prima che Boji decidesse di saltargli addosso.
Nonostante tutto, ogni volta che Pep allunga la mano sul materasso per cercare il suo corpo, non lo trova, perché Bojan si sveglia sempre prima di lui. E il tramestio proveniente dalla cucina è ormai diventato una specie di familiare colonna sonora di ogni suo risveglio.
Pep si alza pigramente, attraversa il corridoio e quando i suoi occhi si posano sulla figura di Bojan la trovano tutta accartocciata sul tavolo, ancora vagamente sonnolenta. Bojan beve il suo Colacao – che Pep ha ormai preso l’abitudine di fargli trovare nel terzo stipetto a destra - col naso quasi del tutto affondato nella tazza. Ogni tanto sbadiglia, ogni tanto puccia un biscotto nel latte scuro di cioccolato.
- Buongiorno. – lo saluta con un mezzo sorriso. Bojan si volta a guardarlo e ride come non lo vedesse da un secolo, inghiotte in un sorso il Colacao rimanente e poi gli vola fra le braccia, tempestandolo di piccoli e dolcissimi baci sulle labbra.
- Ti va…? – chiede allusivo, le dita che indugiano appena oltre l’orlo dei boxer, accarezzandogli pigramente il ventre.
Bojan sa di cioccolato, ed è un sapore buonissimo. Pep ricorda un tempo lontanissimo in cui a dire no per un’infinità di tempo non è stato lui, e pensando che quel no non s’è mai trasformato in niente di diverso si china a baciare Bojan più profondamente, prima di sussurrargli “sì” sulle labbra.
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno in particolare, accenni a José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Crack, What If?, pseudoSlash.
- "Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione."
Note: Dunque, questa storia è a) totalmente inutile, b) totalmente folle. E' nata quando s'è cominciato vagamente a parlare del fatto che il Barça non avrebbe potuto raggiungere Milano in aereo, al che il mio cervello non poteva proprio starsene lì buonino ad osservare i fatti, no, doveva inventare XD E, insomma, questo è quello che è venuto fuori. Dedicata alla Jan perché sì, ecco XD
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Pepissea


Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione. Il commento di Pep alla questione, dopo aver appreso la notizia al telegiornale, era stato: “Ma porca di tutte quelle troie, dopo centottantasette anni doveva risvegliarsi e rompere i coglioni proprio adesso?”, al quale era seguito a distanza ravvicinata il commento di Bojan che, guardando il cielo con aria assorta come dovesse vedersi piovere una rana sulla testa da un momento all’altro, aveva detto “Non mi meraviglia che stia spargendo tutta questa robaccia in giro… inutilizzato da tutto questo tempo, doveva essere così impolverato.” Il minuto di silenzio che aveva seguito questa deduzione sarebbe rimasto nella storia di tutti i più importanti minuti di silenzio mai verificatisi a Barcellona per lungo, lungo tempo. Ma questa è un’altra storia.
Dopo due rinvii di un paio di giorni e poi una settimana, era altresì parso evidente che se anche le benedette semifinali fossero state spostate nello spazio e nel tempo fino ad essere organizzate in un universo parallelo, ucronico e geograficamente traslato su un pianeta vicino, le ceneri non sarebbero scomparse ed avrebbero continuato ad affliggere i cieli europei rendendo impossibili le tratte aeree ancora a lungo, ed era stato in forza di questo che, esattamente tre settimane dopo il disastro, Michel Platini aveva chiamato Joan Laporta e gli aveva spiegato che continuare a rinviare sarebbe stato del tutto inutile. “De scioeu mast go on, monsieur Laportà”, aveva detto.
“Laporta,” l’aveva corretto lui, infastidito. “E comunque ne parli col mio allenatore, che io il culo dalla Catalogna lo schiodo solo in casi di estremo bisogno – ed una semifinale di Coppa dei Campioni decisamente non rientra nella casistica indicata.”
“Si chiama Sciampions Lig,” aveva borbottato lui, e poi, rassegnato, s’era fatto passare Pep. “Monsieur Guardiolà!” l’aveva salutato con entusiasmo, “Comment ça va?”
“È Guardiola,” l’aveva corretto anche Pep con un ringhio sommesso, “E non intendo portare la mia squadra in Italia in queste condizioni.”
Il battibecco che ne era seguito sarebbe entrato anche lui nella storia di tutti i più importanti battibecchi mai verificatisi a Barcellona, ma si era nondimeno dovuto concludere con la sconfitta plateale di Pep per esigenze superiori, fra i sospiri rassegnati di tutta la squadra.
Fissata una nuova data per la partita – una che stavolta fosse definitiva – la prima questione da dirimere era stata quella dei biglietti aerei.
- Cosa vuol dire che non ci sono voli? – aveva chiesto Pep, fissando con aria incredula e anche vagamente pallata l’operatrice dell’agenzia di viaggi, seduta di fronte a lui tutta stretta nelle spalle come volesse scusarsi anche solo di esistere.
- Non è colpa mia, signor Guardiola… - aveva mugolato la ragazza, continuando a scrollare con la rotellina del mouse, pressando F5 sulla tastiera di tanto in tanto per aggiornare l’elenco di voli desolatamente vuoto, - Le ceneri sono ancora alte e pesanti, gli aerei non sono sicuri. Nessun mezzo in realtà lo è, dato che ultimamente i temporali si sono fatti sempre più frequenti e intensi, e-
- Senta, - l’aveva quindi interrotta Pep, massaggiandosi stancamente le tempie, - noi dobbiamo essere in Italia fra meno di due settimane, e non possiamo certo andarci a piedi. E lei capisce che non posso ficcare trenta persone fra giocatori e staff tecnico e medico in un treno per poi mandarli in giro per l’Europa fino a Milano. Mi trovi una soluzione.
La ragazza aveva abbassato lo sguardo, mortificata.
- Temo non ce ne siano, signor Guardiola. – aveva affermato tristemente.
Era stato allora che Carles si era avvicinato ed aveva proposto un modo per sfangarla.
- Guardi, mister, - aveva detto con aria professionale, - io non prometto niente, ma c’è un cugino di un fratello di un amico di un compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di mia cugina Dolores che ha una barca.
- Una barca. – aveva ripetuto Pep, come a cercare di convincersi della fattibilità dell’impresa, - Una cosa tipo uno yacht? Una piccola nave?
- No, una barca. – aveva insistito Carles, grattandosi la sommità della testa, - Da pesca, tipo.
- …ma come ci dovremmo arrivare noi in Italia con una barca da pesca?! – aveva strillato Pep, agitando le braccia, - Santo Dio, Carles!
Le cose si erano fatte anche più complesse quando, dopo aver appurato che nessun battello in condizioni umane sarebbe salpato in tempo utile, non certo col mare continuamente martoriato da tempeste in quel modo, la squadra s’era recata in pompa magna a prendere atto delle condizioni dell’imbarcazione che avrebbe dovuto condurli sani e salvi a destinazione, nonché di colui che sarebbe stato il loro timoniere nella buona e nella cattiva sorte, che i venti fossero favorevoli o no.
Il cugino del fratello dell’amico del compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di Dolores, cugina di Carles, viveva la propria vita in un costante stato di ubriachezza che gli concedeva tregua solo per pochi minuti al giorno, e si trascinava in stato semicomatoso dal pontile mezzo coperto di alghe sul quale pareva vivere al ponte della sua pseudo-barca da pesca le cui travi si tenevano palesemente attaccate con lo sputo. Arrivando, Pep e i suoi ragazzi lo trovarono piegato in due oltre il parapetto a vomitare alimenti di incerta provenienza sia quanto a conformazione molecolare sia quanto a tempo trascorso all’interno dello stomaco. Quando gli chiesero se si sentisse male, lui rispose “È solo un po’ di mal di mare”, ed i ragazzi preferirono evitare di fargli notare che la barca era ferma.
- Signor… - provò a chiamarlo Pep quando lo vide scivolare come senza vita lungo il fianco della barca, per poi tornare a sedersi sul pontile, - Signore, mi chiamo Josep Guardiola, piacere. – disse porgendogli una mano, che l’uomo ignorò platealmente, continuando a fissare laconico l’orizzonte oltre il quale nubi nere cariche di pioggia si addensavano inesorabili. Bojan tirò su il cappuccio, sempre pensando alle rane. – Ehm, posso sapere come si chiama? – proseguì Pep, incerto.
- Ho dimenticato il mio nome molti anni fa. – rispose l’uomo tetro, dando i brividi a tutti, - Non serve un nome, quando si è soli col Mare. Il Mare non ti chiama per nome.
- …no, naturalmente. – rispose Pep, deglutendo a fatica, - Senta, a noi serve un passaggio in barca fino, facciamo, in Italia. – disse, gesticolando a caso per darsi un tono. – Lei sarebbe disposto?
L’uomo si voltò a guardarlo e poi, non senza una certa fatica, si erse sulle gambe, torreggiando su tutti loro.
- Josep Guardiola, - disse sempre più cupo, - temi tu la morte?
Pep inspirò profondamente.
- In realtà sì. – rispose con un certo imbarazzo, - Ma vede, non stiamo organizzando una missione suicida, davvero. Vogliamo solo andare in Italia. Speravamo che lei potesse esserci d’aiuto, tutto qua.
L’uomo si grattò il mento, gli occhi distanti persi in chissà che scenario mortifero.
- Potrei. – rispose quindi, e una nuova luce illuminò i visi di tutti i presenti, - Ma ho perso le chiavi della barca. – confessò, tornando a portare l’oscurità su di loro, - Sono finite dentro quella grotta. – disse, indicando un punto moderatamente lontano della scogliera, - Mentre inseguivo un cerbiatto.
- …un cerbiatto? – chiese Pep, gli occhi enormi.
- I misteri del Mare sono molti. – grugnì l’uomo.
- Sì, e quelli delle allucinazioni post-sbornia anche. – commentò in un sospiro Thierry, scuotendo teatralmente il capo mentre Pep gli lanciava un’occhiataccia volta a zittirlo.
- Senta… - disse l’allenatore, pinzandosi la radice del naso, - Noi dobbiamo assolutamente partire, in un modo o nell’altro. Dobbiamo recuperare quelle chiavi. La pagheremo profumatamente, se solo lei-
- Ci ho già provato. – disse l’uomo, solenne, - Ma il pertugio fra le rocce è troppo piccolo perché un essere umano di statura normale possa passarci.
Simultaneamente, tutti gli occhi si voltarono a fissare Lionel, che sbocconcellava un panino appoggiato a un palo di legno poco distante.
- Cosa? – chiese l’argentino, mandando giù un boccone. Venti minuti dopo, stava appeso con una corda alla vita, dondolante a picco sul mare, dando indicazioni ai compagni che lo tenevano da sopra perché lo indirizzassero il più precisamente possibile verso l’ingresso della grotta.
- Va bene così? – strillò Gerard dall’alto, sollevando una mano perché Dani e Victor, impegnati a manovrare la corda, si fermassero. Lionel aspettò di riprendersi dalle svariate botte in testa che aveva preso rimpallando da uno scoglio all’altro come in un flipper impazzito, e poi piantò i piedi contro la roccia bagnata e scivolosa, sollevando un pollice in direzione dell’amico prima di avventurarsi all’interno della grotta.
Alto non più di una cinquantina di centimetri, l’ambiente era stretto e angusto, e perfino il minuscolo argentino ebbe serie difficoltà a strisciare prono verso la fine della galleria e tirarne fuori le chiavi. Quando, mezz’ora dopo, fu riuscito a tornare in cima alla scogliera, stringendo forte fra le dita il frutto del proprio sacrificio umano, la prima cosa che chiese all’uomo senza nome fu di spiegargli come diavolo ci fossero finite quelle chiavi così in fondo, ma l’uomo non rispose, e sorrise in modo così inquietante che a nessuno passo neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di insistere sul punto.
L’imbarcazione – senza nome come il suo proprietario e capitano – salpò nella notte spagnola, la stiva piena di viveri solo a metà, dal momento che l’altra metà era ingombra di tutte le bottiglie di vino catalano senza il quale il capitano non sembrava capace nemmeno di respirare, figurarsi camminare o ragionare lucidamente. Anche se, poi, pure in queste ultime due attività non è che brillasse, vino catalano o meno.
I primi problemi cominciarono a palesarsi quando le nubi scure, che li avevano minacciati quando erano ancora ancorati a terra, misero in atto i loro propositi guerrafondai scaricando sulle loro teste ettolitri d’acqua, tuoni e fulmini senza che loro potessero nemmeno ripararsi – a parte Bojan, che indossava ancora in cappuccio ma più per difendersi dall’eventuale caduta di rane che per altro.
- Finiremo alla deriva a mangiarci a vicenda per cercare di sopravvivere! – presagì immediatamente Pedro, agitando le braccia sopra la testa.
- Sta’ zitto, Pedrito. – lo minacciò Pep, stagliandosi contro il cielo scuro scosso a tratti da lampi lunghi e irregolari, abbaglianti come improvvisi fari nella notte, - O ti tengo fuori squadra fino all’anno prossimo.
- Non ci sarà una squadra e non ci sarà nemmeno un anno prossimo, per tutti noi! – continuò ad agitarsi Pedro mentre Bojan, spaventato dalle urla come un neonato, si metteva a piangere in un angolo, consolato da Thierry e Gerard, - Saremo già fortunati se arriveremo a vedere l’alba di domani mattina!
- Carles. – ordinò Pep, continuando a scrutare l’orizzonte appeso a una cima, gli occhi sottili e la pioggia che si faceva beffe del suo principio di calvizie, - Legalo. Ci serve una polena.
Le ultime parole che Pedro sentì prima di essere afferrato, imbavagliato e legato alla prua dell’imbarcazione furono “e spera che non si incontrino iceberg lungo il cammino”, suggerimento che il ragazzo accettò immediatamente cominciando a pregare in tutte le lingue a lui conosciute, che fendere le acque, per quanto agitate e violente, era una cosa, ma andare a sbattere di naso contro granitici blocchi di ghiaccio di svariate dimensioni era un affare del tutto diverso.
La tempesta cessò di infuriare solo l’indomani mattina. Stanchi e distrutti, i giocatori del Barça si aggiravano come marinai ubriachi sul ponte della nave, incerti sulle gambe, così come il capitano senza nome, che aveva dormito fino a dieci minuti prima ed aveva preso a bere non appena aperti gli occhi.
- Ma dove cazzo siamo? – si chiese Pep, gettando occhiate incuriosite in giro. Tutto attorno alla barca si apriva un corridoio di acque adagiato in mezzo a due rigogliose ali di vegetazione tropicale, con piante e fiori che mai avevano visto prima di quel momento.
- Ad occhio e croce, nella Foresta Amazzonica. – suppose Zlatan dopo essere riemerso dalla cabina del capitano della quale aveva preso possesso nell’esatto istante in cui erano saliti a bordo della barca, - Oppure su un altro pianeta. – scrollò le spalle, tirando fuori dal borsone il cellulare e componendo un numero a memoria. – Zay? – chiamò poco dopo, - Sì, siamo in viaggio. No, non ci crederai mai, ma ti racconterò appena sarò tornato a Milano. Senti, ma avete mica posto lì da voi? Perché io non ci ritorno a Barcellona in barca, beninteso. Aspetterò che la nube del cazzo si tolga dalle palle e poi tornerò in aereo, faranno a meno di me da qui a fine campionato.
Pep si voltò a guardarlo con aria sconcertata e anche un po’ oltraggiata.
- Potresti smetterla di parlare col tuo ex allenatore mentre siamo dispersi a risalire il corso del Rio delle Amazzoni che non si capisce come abbiamo raggiunto in una notte di viaggio col mare in tempesta?! – strillò, muovendosi tanto concitatamente da far ondeggiare la barca e pucciare Pedro nell’acqua come un savoiardo nel caffè.
Zlatan lo guardò malissimo, arricciando le labbra in una smorfia grandemente disapprovante.
- No. – rispose, prima di tornare a rivolgersi al suo interlocutore dall’altro lato dell’oceano, - Zaaaay, mi hai dato in mano a della gentaglia! – cominciò a lagnarsi, passeggiando nervosamente lungo il ponte, - Voglio tornare a casa, quando finisce il prestito? Sì, lo so che non è un prestito, ma potresti parlare col presidente…
Pep scosse il capo, sospirò profondamente e sollevò gli occhi al cielo plumbeo del Brasile – a quel punto, tanto valeva considerarsi davvero lì, se volevano avere una qualche speranza di venirne fuori – chiedendosi quanto ancora sarebbe durato quel supplizio.
La risposta tardò ad arrivare, perché mai, quando una risposta ti serve immediatamente, essa immediatamente arriva. Il viaggio durò tre giorni e tre notti, fu intenso e spossante, continuamente disturbato dal chiacchiericcio di Zlatan al telefono – chiacchiericcio che s’era poi trasformato in piagnisteo quando per qualche ragione le comunicazioni s’erano interrotte lasciandolo privo della sua dose di Mourinho quotidiana – dall’ondeggiare scomposto del capitano da un lato all’altro del ponte al solo scopo di sporgersi oltre il parapetto e vomitare e dalla rabbia e dalla frustrazione di un gruppo di uomini che pensava di costituire una squadra di calcio e che invece, per quel periodo di tempo, dovette dimostrare di essere in grado di pescare, nutrirsi dei crudi frutti del mare e sopravvivere a delle tempeste tali da lasciare incredulo chiunque sulle possibilità di sopravvivenza di quell’imbarcazione tanto malmessa quanto resistente.
Per tutta la durata del viaggio, attraversando oceani e osservando dalla barca gente sulle sponde delle terre che costeggiavano e che cercava di comunicare con loro tramite versi strani assimilabili a un certo “ma cu minchia sugnu?” che nessuno di loro era riuscito a interpretare, Pep rimase al proprio posto a prua, un piede ben piantato sulla punta della barca e il gomito poggiato sul ginocchio, lo sguardo sempre oltre l’orizzonte e la posa tipica dei comandanti colmi di onore e coraggio, quale lui d’altronde era.
Arrivarono a Genova sfiancati, smagriti, lerci e rattoppati come pantaloni vecchi, ma temprati da tutte le difficoltà che avevano superato e pronti ad affrontare l’Inter – e divorarne i calciatori, più per fame che per effettivo spirito combattivo. Una delegazione del club nerazzurro li accolse al porto come da programma. Furono rifocillati da deliziose cameriere in abitino nero e grembiule, furono loro donati dei vestiti umani e decenti e furono loro offerte brandine in un centro di prima accoglienza per immigrati, perché potessero riposarsi.
Solo dopo che si furono risvegliati José Mourinho in persona andò a porgere loro gli omaggi del presidente e della squadra tutta, ottenendo in cambio di essere schienato contro il pavimento dall’assalto del suo svedese preferito all’urlo di “ossantoddio, Zay, tienimi con te nella tua enorme villa con centinaia di servi per sempre”, robe che mai gli si erano sentite dire e probabilmente mai gli si sarebbero sentite ripetere.
Una volta ricompostosi, José si rimise in piedi e, accarezzando Zlatan placido al suo fianco come fosse un cucciolo di cane o qualcos’altro di spaventosamente simile, sorrise.
- Benvenuti! – li salutò, spalancando le braccia in un movimento quasi ecumenico, - L’Italia vi accoglie, o prodi giocatori del Barcellona. Prodi quanto stupidi, peraltro. – commentò, scoppiando a ridere come un cretino, - Gli aeroporti sono stati riaperti il giorno dopo la vostra partenza dalla Spagna.
Il silenzio calò sul dormitorio ricolmo di calciatori in pigiama appena riemersi da un sonno lungo dodici ore dopo aver attraversato il Mediterraneo su una barcarola piena di buchi come un groviera.
- …ma tu e Zlatan siete stati continuativamente al telefono per dei giorni… - balbettò Pep, le labbra tremule e lo sguardo vacuo, - Perché non avvertirci, perché… perché non mandare qualcuno…?
- E perderci lo spettacolo meraviglioso delle vostre urla in vivavoce per tutto il tempo? – chiese José, sorridendo placido e sistemandosi la cravatta, - Siamo la squadra più odiata d’Italia, che diamine, un motivo ci sarà pure. A proposito, - disse casualmente, avviandosi tranquillo verso l’uscita della camerata, - viste le ottime condizioni metereologiche, la partita è stata anticipata. Giochiamo stasera alle venti e quarantacinque a San Siro. Vi converrà partire al più presto. – numerosi ringhi di protesta accompagnarono la sua affermazione, così che lui si sentì quasi obbligato a sorridere più apertamente e precisare: - Però almeno potrete prendere l’aereo!
Pep e i suoi giocatori lo osservarono allontanarsi e poi scomparire oltre la porta, e fu solo dopo un paio di minuti che l’allenatore ritrovò la parola.
- Giocheremo sì alle venti e quarantacinque a San Siro, - grugnì, gli occhi scintillanti di furia omicida, - ma con la fascia nera al braccio. Avanti, miei prodi!
La rissa e il placcaggio della polizia che susseguirono sarebbero rimasti nella storia di tutte le risse e di tutti i placcaggi della polizia mai accostati alla stirpe del glorioso club catalano blaugrana, ma anche questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bojan/Pep.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Flashfic.
- "L’8 Marzo 2010 è una data che verrà ricordata negli anni a venire, l’incredibile nevicata che ha bloccato Barcellona. Ad appena 13 giorni dalla Primavera, la neve ci ha sorpresi imbiancando la città."
Note: Il titolo assurdamente lungo (e rubato a Megalomania dei Muse) non giustifica nemmeno in parte questa vaccatella scritta in una ventina di minuti semplicemente perché le foto di Pep e Boji persi nella bufera a Barcellona erano troppo amabili per ignorarle XD E la verità, se proprio la volete sapere (scommetto che altrimenti non ci dormireste la notte!), è che se Any non me l'avesse chiesta, io non l'avrei mai scritta u.u
C'è Zlatan, dentro, e sto ancora cercando di capire perché. Bah.
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Paradise Comes At A Price That I Am Not Prepared To Pay


Osservare la neve cadere fitta fitta sulla Masia non è sconvolgente come osservare il Sahara coprirsi di bianco, naturalmente, ma non è nemmeno un evento tanto comune. Per questo motivo, Josep non cerca di forzare i suoi giocatori a concentrarsi sull’allenamento, e li lascia girovagare per il campo, tutti presi dall’osservazione dei fiocchi di neve e da quel modo idiota che hanno tutti di mettersi a giocare in ogni momento, riuscendo a far sembrare agli occhi del mondo di stare invece lavorando – solo, divertendosi un po’ più di tanti altri.
Zlatan passeggia tranquillamente per il campo. Ogni tanto ride, e quando Leo gli si avvicina e – con aria quasi offesa, neanche fosse merito suo se sta nevicando e si sentisse perciò oltraggiato dalla mancanza di rispetto che Ibra riserva all’evento – gli chiede perché non sia stupito, i suoi occhi per un secondo si fanno lontani e gli si allarga un sorriso sincero sulle labbra.
- A Milano ci allenavamo con la neve che ci arrivava alle ginocchia. – racconta con aria persa, e Josep rotea gli occhi, grattandosi la testa e muovendo qualche passo in giro dopo aver distolto lo sguardo. Il ragazzo è problematico e non capisce che non puoi avere le gambe in un posto e il cervello in un altro. Non capisce, soprattutto, che finché continuerà a giocare con mezzo cuore in blaugrana e mezzo cuore in nerazzurro – se davvero metà del suo cuore è riuscito comunque ad arrivare in Spagna, cosa di cui Josep non è affatto sicuro – dalla sua permanenza a Barcellona non potrà mai venir fuori nulla di buono. E a farne le spese sarà lui, perché è stato lui a pretenderlo al Camp Nou al posto di Samuel, ed a fine stagione sarà da lui che Laporta andrà esponendo il proprio libretto degli assegni e chiedendogli quale sia stato il frutto dell’investimento unico più cospicuo della sua intera vita.
- Sei buffo quando fai questa faccia qui. – ride Bojan alle sue spalle, e Josep si ferma, voltandosi indietro per osservarlo mentre lo affianca.
- Che faccia? – chiede, riprendendo a camminare accanto a lui.
- Questa. – ride ancora il ragazzo, e poi solleva un dito e lo usa per seguire i contorni del suo viso, stendendo le rughe sulla fronte. – Quella di quando sei preoccupato per qualcosa e non vuoi dirlo.
- Non sono preoccupato per nulla. – sorride Pep, stringendo la sua mano nella propria ed avvicinandoglisi, di modo che le loro mani intrecciate restino nascoste fra le pieghe del giubbotto che indossa. La neve cade anche su Boji, i suoi occhi grandi e chiarissimi sembrano voler seguire il tragitto di ogni fiocco dal cielo alla terra. – Non senti freddo?
- A-ha. – scuote il capo Bojan, sorridendo appena, - È bellissimo, non trovi?
Josep si ferma un attimo prima di rispondere col “sì” che Bojan meriterebbe, rendendosi conto da solo di quanto sarebbe estremamente ridicolo e melenso anche per uno come lui che in realtà è parecchio romantico, e quando Boji capisce perché lui si stia rifiutando di rispondere, scoppia a ridere.
- Sei una peste. – lo rimprovera, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca. Bojan gli si stringe contro, divertito.
- Che sono bellissimo anche io già lo so. – gli fa notare, tirando fuori la lingua, e Pep si sporge in avanti fermamente intenzionato a baciarlo per zittirlo e poi trascinarlo da qualche parte per fargli capire esattamente quanto bello sia, ma Carles passa loro davanti proprio in quel momento e si ferma di fronte a loro con aria seria, le braccia incrociate sul petto e le gambe leggermente divaricate.
- Mister, - lo riprende, battendo un piede per terra, - non siamo mica in vacanza. E soprattutto, per carità, non qui fuori!
Bojan ride, divertito oltre il legale, e si allontana da Josep solo per saltare addosso al suo Capitano, che per tutta risposta – ridendo come il ragazzino che è sempre rimasto nonostante l’età, che l’aria di Spagna è buona e rende eternamente giovani, è evidente – se lo carica in spalla e lo trasporta come un sacco di patate fino al cerchio di centrocampo, dove i loro compagni di squadra sono riusciti fra una risata e l’altra ad ammonticchiare un po’ di neve, sul quale la lascia cadere, costringendolo a una capriola mentre scivola lungo il fianco della montagnola, per poi risollevarsi in piedi fradicio e imbiancato dalla punta dei capelli alla punta dei piedi.
Josep sorride, lo guarda scuotersi come un cucciolo dopo un temporale e non si accorge per niente di Zlatan che appare al suo fianco, improvviso come la nevicata di oggi, e ghigna con aria saputella, senza guardarlo.
- Be’? – gli chiede, allontanandosi a disagio, - Coraggio, muoversi, stiamo cominciando l’allenamento, non te ne sei accorto?
Zlatan si volta a guardarlo per un attimo, e sorride più apertamente, improvvisando una seduta di stretching sul posto.
- Mister, - dice quindi, tornando a guardare i suoi compagni che saltellano e corricchiano per riscaldarsi a centrocampo, - lei non sbircia nella mia testa, e io non sbircio nella sua. Patti chiari, amicizia lunga.
Josep lo osserva allontanarsi spalancando gli occhi, e realizza che Zlatan è perfino più imprevedibile della neve alla Masia. Ma Bojan sorride, fiocchi di neve ovunque e capelli scompigliati e vestiti tutti stropicciati, e finché quello che c’è nella sua testa è al sicuro, a Josep non importa – che nevichi pure.
Genere: Romantico, Erotico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Underage, PWP, Hurt/Comfort.
- "Con quella tua fottuta faccia da femmina, è difficile credere che tu abbia veramente un uccello."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), Bojan/Pep, “Con quella tua fottuta faccia da femmina è difficile credere che tu abbia veramente un uccello.”.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A Helping Hand


Quando lo trova rannicchiato in un angolo, vicino alla fila di lavandini in ceramica un po’ defilati rispetto all’entrata degli spogliatoi, sotto la tettoia scura che lo ripara dal sole garantendogli anche quei pochi centimetri d’ombra in cui può illudersi di scomparire del tutto, Pep in un primo momento non capisce di chi si tratti. Gambe e braccia magre, vita sottile – ci mette poco ad immaginare si tratti di uno dei ragazzi del Barça B, ma riconoscerlo fra i tanti è dura, e non perché non li ricordi più – dato che, peraltro, ad allenare quella squadra c’ha passato una stagione intera – quanto piuttosto perché il ragazzino ha il volto affondato fra gli avambracci e non si fa vedere.
Gli si avvicina discretamente, esitando un po’ prima di chinarsi ed accucciarsi al suo fianco, poggiandogli una mano sulla spalla.
- Ehi… - lo chiama, - Che ti è successo?
Il ragazzo alza lo sguardo, ed a quel punto riconoscerlo è semplicissimo: gli occhi chiari, il faccino pulito, le labbra piene e la frangetta umida che scende a coprire la fronte quasi del tutto – Bojan, le sue lacrime e il suo incubo ricorrente da almeno un anno lo salutano con impeto quasi violento, tanto che Pep è costretto a ritrarsi di qualche centimetro, nell’irrazionale paura di ricevere un pugno in faccia. Non da Bojan, naturalmente. Da un educatore, magari, o da uno psichiatra, o da Dio in persona, se si occupa di queste faccende anche lui, ogni tanto, nel tempo libero.
- Mister… - lo chiama con voce rotta, e Josep non ha cuore di dirgli che dovrebbe smetterla di chiamarlo così, che lui non è più il suo mister, almeno finché gioca ancora per il Barça B, e che per quanto lui e il suo corpicino slanciato da adolescente in boccio gli siano mancati questo non lo autorizza ad usurpare il posto di lavoro di un uomo onesto che onestamente si guadagna il pane allenando ragazzini – e facendolo meglio di lui anche solo per il fatto che probabilmente non desidera scoparsi il migliore fra di loro.
- Boji, - cerca di consolarlo battendogli qualche pacca amichevole sulla spalla, per il semplice fatto che almeno allontanando periodicamente la mano dalla sua pelle un po’ sudata può illudersi di non essere già dipendente dal suo profumo e dal suo calore, - che è successo? Qualcosa di grave?
Le guance del ragazzino si imporporano vistosamente, mentre lui distoglie lo sguardo mordicchiandosi il labbro inferiore, palesemente a disagio.
- No, io non-- - farfuglia confuso, - Non è successo niente.
- …Boji. – insiste Pep con aria di rimprovero, - Senti, se è andato male l’allenamento e Luis ti ha rimproverato, possiamo--
- No! – lo interrompe il ragazzino, strizzando gli occhi e scuotendo vigorosamente il capo, - Non è successo niente di simile, mister. – e poi prende un respiro enorme, allontanandosi di qualche centimetro come non si sentisse sicuro a continuare il proprio discorso restandogli tanto vicino. – Sono… i ragazzi, il problema. – biascica, torcendosi le dita in grembo.
- I ragazzi? – chiede Pep, inarcando un sopracciglio, - In che senso?
Bojan sospira profondamente, prima di incurvare le spalle e rilasciare un sospiro profondissimo che lo sgonfia quasi del tutto.
Con quella tua fottuta faccia da femmina - dice, la voce bassa e cupa in una grottesca imitazione di quella di qualche compagno, - è difficile credere che tu abbia veramente un uccello
Si ferma che gli tremano le labbra e lo sguardo vaga ansioso in giro per il cortile vuoto che li circonda. Si sente solo il cinguettio degli uccelli – e il battito del cuore di Pep è tanto forte che vorrebbe soffocarlo con un cuscino per scongiurare la possibilità che Bojan possa sentirlo.
Invece, tutto ciò che fa è allungare un braccio ed accarezzargli il viso, più per costringerlo a fissare gli occhi nei suoi che per altro.
- Tu – dice sicuro, stringendogli il mento fra il pollice e l’indice per impedirgli di stornare lo sguardo, - sei un maschio. Mi pare evidente. – Bojan, in imbarazzo, socchiude gli occhi, e Pep lo strattona un po’ per ricordargli che lui è lì e vuole i suoi occhi. – Non permettere a un mucchio di stronzetti di rovinarti le giornate per queste cose, Boji. – e dopodiché allenta la presa sul suo viso e lascia la mano libera di scorrere lungo il collo liscio e il fianco coperto dalla maglia umida di sudore, fino ad affondare fra le sue gambe.
Bojan solleva repentinamente lo sguardo, cercando i suoi occhi in un misto di ansia e stupore, incapace di dire una parola che sia una. Si lascia sfuggire un gemito di sorpresa e piacere quando la mano di Pep, dopo averlo accarezzato con cura da sopra l’acrilico dei pantaloncini della divisa, ne scende al di sotto, scostando gli slip per stringere la sua erezione bollente fra le dita e cominciare a pompare lentamente.
- Vedi? – dice Pep, cercando di sorridere per sdrammatizzare e sperando che nessun educatore, nessuno psichiatra e, possibilmente, nemmeno Dio, stia assistendo a questo momento, - Decisamente maschio.
Bojan ride senza fiato, gli occhi chiusi e il bacino che si muove appena, strusciando contro il gradone ruvido sul quale è seduto, nel tentativo di seguire i suoi movimenti. Quando si rende conto di non riuscirci agevolmente, pianta entrambe le mani sulle sue spalle, facendo leva per sollevarsi in ginocchio e cercando di muoversi lentamente abbastanza da non costringerlo a mollare la presa o variare il ritmo. 
Mordendosi un labbro, gli si avvicina il più possibile, appoggiandosi al suo corpo come in cerca di sostegno – o forse semplicemente di calore e consolazione e comprensione e oddio, niente riuscirà a togliere dalla testa di Pep l’oscuro quanto fastidioso e doloroso pensiero di starsi approfittando di un suo momento di debolezza per esaudire un desiderio custodito nel silenzio troppo a lungo per poter essere trattenuto oltre – e Pep solleva il viso in cerca della sua bocca, trascinandolo in un bacio umido e impacciato che si protrae mentre le sue carezze si fanno sempre più svelte e disinibite e i movimenti di Bojan più concitati e ritmici, fino a che lo sente mugolare fra le sue labbra e stringere convulsamente la presa sulle sue spalle, mordendogli quasi la lingua nello spasmo improvviso e devastante che gli scuote il corpo quando viene, in un brivido bollente da cui Pep si sente invaso nonostante l’erezione insoddisfatta che preme insistentemente sotto i pantaloni.
Bojan resta appoggiato contro di lui ed ansima un po’, prima di ritrovare un ritmo meno indecente per il proprio respiro, e Pep lo attende pazientemente, esitando perfino a ritrarre la mano, che resta lì, avvolta attorno al suo sesso la cui eccitazione lentamente scema, ed è il ragazzino che, dopo almeno un paio di minuti, si allontana, le labbra piegate in un sorriso splendido.
- Grazie. – dice in un soffio, sporgendosi a baciarlo fugacemente sulle labbra prima di rimettersi in piedi e correre via, le ali ai piedi. Pep resta seduto e guarda la propria mano sporca del suo piacere, chiedendosi se sia il caso di appartarsi da qualche parte e darsi un po’ di soddisfazione prima che il suo profumo abbia smesso di impregnare i suoi vestiti, ma poi sospira e scuote il capo, pensa che Dio lo puoi ingannare una volta ma alla seconda giochi pericoloso e si mette in piedi, sciacquandosi velocemente ma accuratamente le mani prima di allontanarsi mestamente verso il campo su cui i ragazzi più grandi, da soli, si stanno già allenando da almeno mezz’ora.
Genere: Comico, Erotico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Underage, Flashfic, PWP, Crack.
- "Sembravi così innocente."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), Bojan/Pep, "Sembravi così innocente.".
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L'Innocenza E' Negli Occhi Di Chi Guarda


- Oh-- cazzo! – ansima Josep, e la prima cosa che fa, anche se sa che sarebbe in teoria idealmente più o meno forse scorretto, è poggiare una mano dietro la nuca di Bojan e attirarlo contro di sé, perché possa accoglierlo più in profondità, fino a sentire il cazzo premere contro la parete della gola, e l’unica cosa che spera e per cui prega è che non soffochi né qualcos’altro di altrettanto drammatico o sconveniente – anche se si chiede, pure con qualche ragione, se possa essere più sconveniente soffocarsi mentre si fa un pompino al proprio allenatore o fargli un pompino e basta.
Alla fine decide che la cosa più sconveniente di tutte in assoluto è quella che si verifica, e che poi si traduce non solo in Boji che continua a succhiare tranquillamente, ma che lo fa pure con un certo gusto, cosa che lo porta a chiedersi un mucchio di cose sensate e giustissime, tipo quali siano gli hobby di questo ragazzino, come sia arrivato al punto in cui è adesso e soprattutto la cosa più importante e anche la più idiota, cioè chi gli ha insegnato a muovere in questo modo la lingua, dannazione anche a lui, e se è autodidatta merita un premio e promozione in prima squadra a tempo di record, perché i talenti, insomma, vanno incoraggiati.
Si accascia sul materasso e riprende a respirare con tanto affanno da chiedersi se per caso non sia andato in apnea da qualche parte fra la prima e la seconda volta, ma è troppo sconvolto dal desiderio immediato che lo prende quando pensa alla possibilità di un terzo tentativo per potercisi concentrare davvero. 
Boji resta lì fra le sue gambe, struscia il musino incredibilmente pulito contro la sua mezza erezione già in procinto di riprendersi e Pep guarda il soffitto, cercando di pensare a nonna Consuelo, buonanima, nel tentativo di impedire il disastro che potrebbe avere luogo se cedesse alla tentazione di lasciar decidere l’uccello come già sta facendo da un paio d’ore circa. Chissà se così si può morire, si chiede, sarebbe indubbiamente una splendida morte.
Boji ridacchia, forse indovinando i suoi pensieri o, più probabilmente, soltanto divertito dalla situazione in generale. Pep torna a guardarlo quando sente le sue labbra morbidissime schioccare un bacio apparentemente innocente sulla punta della sua erezione ormai tornata in piena potenza.
- Sembravi così innocente. – commenta con un certo stupore.
Boji ridacchia felice come un bambino.
- E’ quello che dicono tutti.
Genere: Erotico.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Underage, Flashfic, PWP.
- "Sei minorenne?!"
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), Bojan/Pep, "Sei minorenne?!".
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Underage


Il caldo asfissiante dell’estate spagnola amplifica gli odori e i sapori. La pelle di Bojan sa di zucchero e sale, e Josep la assaggia in punta di lingua mentre il ragazzo si struscia contro di lui, premendoglisi addosso fino a togliergli l’aria dalla bocca con un bacio profondo e lento. Josep, seduto sul letto, piega il viso all’indietro per seguire Bojan nel movimento quando lui solleva una gamba e lo scavalca, per sederglisi in grembo. Il tocco della sua pelle è caldo come fuoco vivo su una ferita aperta, e altrettanto brucia. Le sue cosce bianche come il latte si serrano attorno ai suoi fianchi mentre si solleva un po’ – solo un po’, non allontanarti troppo, Boji, resta qui, Boji - e stringe piano la sua erezione fra le dita piccole e sottili, per indirizzarla agevolmente verso la propria apertura, senza mai smettere di baciarlo.
Il suo corpo, dentro, è perfino più caldo. Chiudendo gli occhi, Josep gli lascia scorrere le mani lungo la schiena, tirandoselo contro e penetrandolo in profondità con un gemito gutturale, mentre il miagolio di risposta del ragazzo gli risale il collo fino alle orecchie, tremando sulla pelle come elettricità, dandogli i brividi. Bojan è fatto della stessa sostanza del sole: è splendido, accecante, e brucia. È pericoloso tanto quanto è bello, perché sono passati solo pochi minuti da quando si stanno accarezzando e già Josep teme di non poterne fare più a meno. Morde le sue labbra morbide come fossero caramelle, stringe la sua erezione fra le dita e la accarezza con cura, quasi amorevolmente. Bojan è carino, merita di essere protetto. Bojan lo fa impazzire, e Pep vorrebbe ribaltarlo sul materasso, spalancargli le gambe e scoparlo con violenza mentre lo morde ovunque, ma si trattiene. Stringe la presa sui suoi fianchi, ma lascia che sia Bojan a decidere ritmo e velocità, mentre si solleva e poi ridiscende sulla sua erezione, attirandolo così profondamente dentro di sé che Pep se ne sente risucchiato senza speranza, fino a sciogliersi in un gemito strozzato che Bojan accoglie sul proprio petto, mentre allo stesso tempo accoglie il suo orgasmo dentro di sé, con un sorriso da bimbo sul quale Josep si concede di lasciare l’unico morso davvero forte di quella mezz’ora.
Ricadendo su un fianco e poi sistemandosi fra le lenzuola a pancia sotto, Bojan sfiora il labbro arrossato e gonfio e ridacchia, succhiandolo appena all’interno della bocca, un po’ per alleviare il fastidio e un po’ per mantenere intatta un po’ più a lungo quella sensazione a metà fra il dolore e il piacere che sente tanto potente quando lo stringe fra i denti.
- Senti… - dice poi, allungandosi a disegnare fantasiosi ghirigori senza senso sul suo petto, - La settimana prossima faccio il compleanno.
- Aha. – ride Pep, seguendo con gli occhi quei disegni immaginari e poi stringendo la sua mano fra le proprie in una carezza ruvida. – Quindi?
- Quindi, - ridacchia il ragazzo, stiracchiandosi come un gatto e rotolandogli addosso in un gesto falsamente casuale, - magari potresti farmi debuttare in prima squadra, quando comincia il campionato. – si struscia contro di lui, osservandolo con quegli occhioni enormi da cerbiatto e sorridendo appena. – Che ne dici?
- Dico che è un regalo importante e impegnativo. – ride Josep, scuotendo il capo con estremo divertimento.
- Be’, compio diciassette anni, in fondo! – borbotta lui, atteggiando le labbra in un broncino adorabile, - Sono abbastanza grande per prendermi questa responsabilità.
- Ah, sì, indub- diciassette anni? – quasi si strozza Pep, lanciandogli un’occhiata a metà fra il terrorizzato e l’allucinato, - Tu devi ancora compiere diciassette anni? Cioè sei minorenne?!
Bojan inclina il capo e sbatte le lunghe ciglia, come cadendo dalle nuvole.
- Credevo lo sapessi. – risponde con naturalezza, scrollando le spalle sottili.
Pep fissa il muro con occhi vacui. Pensa che sì, la prima squadra può anche regalargliela, per il compleanno. Ma più che altro per evitare una denuncia, e sul fatto che Bojan sia o meno abbastanza grande per prendersi determinate responsabilità piuttosto che altre-- be’, su quello eviterà di riflettere, almeno per ora.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Drabble, Slash, Underage.
- "Alle volte, Pep si sente sporco."
Note: *w* Pejan *w* Era tanto che volevo scrivere qualcosa su questi due – cioè, in realtà qualcosa su loro due l’ho già scritta, ma il fulcro della narrazione era talmente spostato che a stento me lo ricordo XD Comunque questo concetto del sentirsi un po’ “sporchi” di fronte al pensiero di fare cosacce con Boji è una cosa che sento molto mia. E non solo perché sono intimamente ed ostinatamente convinta del fatto che sia una ragazzina. =P
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Magnificent
8. You look light on your feet (Snow Patrol)


Alle volte, Pep si sente sporco. Lo guarda, bello come il sole, felice come il bambino che è e così dannatamente piccolo da dargli i brividi, e si sente male. Ripensa alla sua pelle tenera, morbida e profumata, a quanto sia dolce sotto i denti e sotto i polpastrelli, e vorrebbe morire. Il suo sapore è zuccherino, quasi eccessivo, sa di tutte le caramelle di cui s’ingozza come tutti i ragazzini della sua età. I suoi occhi sono tanto grandi che ci si può leggere dentro di tutto – e, Dio, è così facile cedere quando sono spalancati e un po’ umidi e carichi di voglia tanto da riflettere perfettamente la sua. E Pep cede, e si sente uno schifo, si sente male, si sente sporco, vorrebbe morire, non è giusto così e non può essere giusto nemmeno in nessun altro modo.
Bojan lo guarda, dall’altro lato del campo. Si allena in mezzo a Titì e Gerard che continuano ad infastidirlo perché lui si lascia infastidire volentieri e gli regala uno di quei sorrisi dolci e pieni e tremendamente infantili che solo lui riesce a regalargli, e Pep scosta lo sguardo altrove, sentendosi mancare.
Vorrebbe poter dire che sarà altrettanto forte più tardi, quando Boji gli si schiaccerà contro sul suo letto e lui non potrà vedere né sentire altro che la sua pelle nuda sopra, sotto e ovunque contro di sé.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Pep/Bojan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, (doppio) Drabble.
- "[...] si tratta di Bojan e per lui ha sempre avuto un occhio di riguardo, così, senza un motivo particolare, o forse sì, uno di quei motivi che sai da sempre ma che ti fa paura dire ad alta voce."
Note: Scritta per la Notte Bianca @ maridichallenge, su prompt Pep Guardiola/Bojan Krkic; "Ho un problema.".
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WRAPPED AROUND YOUR FINGER

- Che tipo di problema? – chiede Pep, inarcando un sopracciglio. Il cortile è vuoto e gli unici suoni che si possono sentire sono quelli lontanissimi che vengono dal campo sul quale il Barça B si sta allenando, in un gran vociare di ragazzini e membri dello staff.
Bojan si morde il labbro inferiore, gli occhi che vagano ovunque purché non sulla figura di Pep ferma di fronte a lui. Si stringe nelle spalle, si ravvia una ciocca di capelli dietro un orecchio con aria nervosa, inspira ed espira profondamente. È nervoso, non ci vuole molto a capirlo. È teso, e non serve un grande intuito per comprendere nemmeno quello. E ha paura, e quello Pep lo sente sulla pelle e sulla lingua in modi che non riesce a spiegare, semplicemente perché si tratta di Bojan e per lui ha sempre avuto un occhio di riguardo, così, senza un motivo particolare, o forse sì, uno di quei motivi che sai da sempre ma che ti fa paura dire ad alta voce.
Quando Bojan gli si avvicina ed appoggia una mano sul suo petto, Pep rabbrividisce fin dentro le ossa. Gli si asciuga la gola e le immagini di fronte ai suoi occhi si fanno confuse. Il rumoreggiare dei ragazzini dal campo si annulla, sente solo il proprio cuore battere all’impazzata. Si sente teso, e nervoso, e ha paura.
Le labbra di Bojan si posano lievissime sulle sue. Pep comprende quale sia il problema. Ma non è sicuro di poter trovare una soluzione.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Thierry/Bojan, accenni Pep/Bojan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Prima, ora, per sempre."
Note: La verità pura è semplice è che la Jan dovrebbe amarmi molto più di quanto non mi ami già. Hah. (A parte questo, però, il Thiejan mi ha preso dolorosamente bene e-- e oddio, Boji, da quanto sognavo di farti chiamare principessa da qualcuno. *piange lacrime di commozione pura*)
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PRINCESA


“Patti chiari, amicizia lunga, principessa,” gli aveva detto la prima volta che i suoi baci s’erano fatti troppo audaci per non urlare a gran voce la voglia di farsi più profondi, preferibilmente su un letto o su qualunque altra superficie orizzontale, “io non amo te, tu non ami me. È soltanto una cosa che facciamo.”
Bojan aveva grugnito deluso, poggiandogli le mani sulle spalle per costringerlo a chinarsi abbastanza da tornare alla portata della sua bocca.
“Smettila di chiamarmi principessa,” aveva risposto lagnoso, ignorando la sua raccomandazione e preferendo di gran lunga allacciarlo al collo e strofinarglisi contro, bollente di desiderio, prima di sfiorare le sue labbra con le proprie.
“Ma lo sei,” aveva sussurrato Thierry, ridendo di quel suo broncio infantile e spingendolo contro una parete, schiacciandosi con forza contro di lui prima di allontanarsi di qualche centimetro, solo per inginocchiarsi al suo cospetto in un gesto teatrale mitigato nelle intenzioni e nella serietà solo dal suo sorriso estremamente divertito. Godendo della sorpresa di Bojan, enorme in quei suoi occhi spalancati così impossibilmente da bimbo, aveva preso una delle sue mani fra le proprie e se l’era rigirata fra le dita, guardandola da ogni lato con devozione quasi bruciante. “Prima, ora, per sempre,” aveva continuato, baciandone il dorso con le labbra umide e appena dischiuse.
Gli occhi di Bojan avevano brillato, solo per un attimo. Thierry ne aveva colto il bagliore improvviso ma non vi aveva dato troppo peso. Aveva immaginato dovesse essere normale, un ragazzino così piccolo, un ragazzino così innamorato, anche se non di lui, non poteva che rimanere colpito da un gesto simile, da una dichiarazione simile.
Gli aveva sorriso, rimettendosi in piedi e traendolo a sé in un abbraccio in parte giocoso e in parte protettivo.
“Grazie,” gli aveva sussurrato Bojan sulle labbra, chiudendo gli occhi ed abbandonandosi all’ennesimo bacio mentre Thierry lasciava scivolare le mani sotto il tessuto leggero della sua maglietta, “Grazie davvero.”
*

Sono passati quasi due anni da quel giorno, e la cotta di Bojan nei confronti di Guardiola – quella cotta che l’aveva quasi reso pazzo due anni prima, quella cotta folle e assurda e indomabile che poi era stata il motivo che aveva spinto le mani di Thierry a posarsi sul suo corpo, prima che il ragazzino desse di matto del tutto – è ormai scemata quasi del tutto. Thierry non s’è accorto di cosa stava accadendo, non è nemmeno riuscito a prevederlo in tempo, e ora la mano pallida di Bojan scivola fra le sue e lui ne bacia il dorso con la stessa passione di due anni prima, ma Boji è steso sul letto accanto a lui, e piange.
- Non c’è niente che posso fare per trattenerti? – chiede a voce bassa. Parla così perché sta cercando in tutti i modi di non fargli capire quanto copiosamente stia piangendo, ma Thierry non ha bisogno di guardarlo per capire che ha ragione, e in realtà nemmeno di ascoltarlo. Le lacrime di Bojan se le sente scorrere sulla pelle, sono calde e umide e salate e sanno di nostalgia, e lui sarebbe felice di poter dire di non sentirle così profondamente, ma purtroppo sarebbe una menzogna.
- No, principessa. – risponde con un mezzo sorriso, le labbra ancora premute contro la sua mano, - È passato il tempo in cui si poteva fare qualcosa per impedirlo. O forse non è mai venuto.
Bojan singhiozza con forza, tutto il suo corpo si scuote in uno spasmo doloroso contro il fianco di Thierry, e lui non può farci proprio niente.
- Ma io—
- Io non ti amo. – dice Thierry, voltandosi a guardarlo e sentendosi torcere lo stomaco ad ogni parola, - E tu non ami me. – gli ricorda, forzando un sorriso triste. – Patti chiari, amicizia lunga, principessa.
Bojan si morde un labbro, si asciuga le lacrime con la manica della maglietta enorme che indossa e poi annuisce ostinato, come un bambino orgoglioso di mostrare al papà quanto sia diventato coraggioso mentre lui era via.
- Però smettila di chiamarmi principessa. – si acciglia, poggiando il capo contro la sua spalla.
Thierry ride, passandogli un braccio dietro la schiena e stringendolo forte.
- Ma lo sei. – ripete, giusto nel caso Bojan abbia deciso di dimenticarlo, - Prima, ora, per sempre. – perché lui no, non ha davvero intenzione di dimenticare alcunché.