Genere: Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: OC.
- Durante i concerti dei Tokio Hotel, Bill Kaulitz ha l'abitudine di invitare una ragazza dal pubblico a salire sul palco per cantare con lui una parte di una canzone. Ogni tanto, però, le cose vanno esattamente nel modo più inopportuno possibile.
Note: Questa storia è gloriosamente dedicata principalmente a Gra e Fae, la prima perché ha partorito l’idea e la seconda perché ci ha seguite nel plottaggio folle che ne è poi derivato XD Vi amo, donne <3
Io, palesemente, amo questa storia. Riesce ad essere a mio parere compiuta nonostante la brevità indecente. Cosa ancora migliore: la brevità indecente era condizione necessaria per partecipare alla V Minidisfida del sito Criticoni *_* C’era un limite massimo di 2000 parole e sono riuscita a scrivere tutto senza sforare. Sono molto commossa. E Victor è, tipo, uno dei personaggi originali più carini che abbia mai partorito XD Grazie per la lettura e grazie altrettanto se vorrete lasciare un commento <3
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INSTANT KARMA

Dunque, io a Martha voglio bene, eh. D’accordo, okay, magari non la amo, ma voglio dire, ho diciott’anni, amo solo la mia Wii, è l’unica cosa al mondo per la quale sarei disposto a rischiare la vita, perciò non rompetemi le palle se dico che non la amo, anche se lo so che lei mi adora. È che lei ha sedici anni, è normale che veda solo me nel mondo, esattamente come io vedo solo la Wii. Intendo, rientra nell’ordine naturale delle cose, non c’è niente per cui io debba sentirmi in colpa, anche perché, ammettiamolo, con lei sono delizioso. Tipo, quando è venuta a casa mia con suo fratello minore e mi ha chiesto di prestare al mostriciattolo la Wii così da farci lasciare un po’ in pace, io l’ho fatto, anche se, mettendo su due piani limonare con lei ed impedire a quel poppante di distruggermi la consolle, avrei decisamente preferito la seconda opzione. Però sono un ragazzo adorabile e non ho fatto storie.
Stavolta il sacrificio è stato anche emotivamente più pesante, volendo metterla in termini che a Martha piacerebbero moltissimo. Insomma, quando si è presentata al mio cospetto con due dannati biglietti già acquistati e quegli enormi occhioni verdi spalancati, mugolando “Avanti, Victor, è solo un concerto! Ti prego, accompagnami!”, io non me la sono sentita di dirle no. Anche se odio visceralmente i Tokio Hotel – non per altro: ne parlano tutti senza un effettivo perché – il loro cantante mi fa impressione e, per il resto, non potrebbe fregarmene di meno di passare otto ore fra fila e concerto in mezzo a vagonate di preadolescenti in minigonna e top che sperano di farsi vedere dal loro amore sul palco.
Okay, d’accordo, forse la questione delle minigonne e dei top – in mancanza di una Wii con cui giocare mentre aspetto che lo strazio si concluda – ha influito sulla mia decisione, ma posso ragionevolmente dire con una certezza di circa il 90% di aver accettato principalmente perché voglio bene a Martha e sono un bravo ragazzo. Oh.
Al momento siamo schiacciati fra la transenna e il resto del mondo. La maggior parte delle mie ore di dramma umano s’è già consumata, intorno a me le ragazze hanno pianto, si sono strappate i vestiti di dosso, hanno avuto un orgasmo spontaneo quando il chitarrista con dei capelli che Tarzan preferirebbe alla solita liana ha spruzzato loro addosso dell’acqua da una bottiglietta e, soprattutto, hanno lanciato sul palco ogni genere di suppellettile, dai reggiseni alle mutandine ai peluche passando per pacchetti di caramelle, lettere avvolte in buste profumate e confezioni formato famiglia di preservativi – che il suddetto chitarrista ha raccolto con evidente compiacimento e infilato in una delle tasche di quegli enormi sacchi che indossa al posto dei jeans con un sorrisetto che non lasciava presagire proprio niente di buono a livello generale.
L’incubo Burtoniano che regge il microfono nel centro del palco adesso sta parlando. Io sono riuscito, dopo circa un’ora, ad identificare le frequenze della sua voce ed escluderle dalla mia capacità di percezione sonora, quindi non lo sto a sentire. Le ragazze intorno a me strillano e saltellano, Martha mi si attacca al braccio brillando di fanatismo ed io sbadiglio sonoramente, grattandomi pigro la nuca.
E poi accade.
L’incubo Burtoniano comincia a zompettare, coordinato come uno struzzo al pascolo, dal un lato all’altro del palco. Si china ed osserva il suo pubblico con aria critica. Non ho idea di cosa stia facendo. Mi fa pure un po’ impressone, in realtà. Sta palesemente scegliendo una vittima. Al che comincio a chiedermi: ma non è che il mega-pacco di preservativi se lo dividono, i due gemelli mica-tanto-gemelli? No, perché la cosa apre prospettive inquietanti. Nel senso: l’incubo Burtoniano scopa? Cioè, no. non è possibile. E se lo fa, con chi o cosa? Non voglio saperlo.
Insomma. A un certo punto si ferma e comincia a squittire. Non è un suono cui sono preparato, intendo, non è la sua voce, perciò lo intercetto. Squittisce, fa squit, proprio, e si ferma. E lo vedo che comincia a gesticolare. Prima richiama l’attenzione di uno degli addetti alla security e poi gesticola. Nella mia direzione.
Mi rifiuto. Mi guardo intorno. A parte Martha, sono circondato da cessi. Questo mi fa venire in mente una cosa che la stessa Martha mi ha detto, cioè che l’incubo Burtoniano tira sul palco solo esseri dalla forma vagamente antropomorfa ma che non puoi mai spacciare per reali esseri umani. Mostri, in sostanza. Ho accanto un essere che risponde in pieno alla descrizione, è alta un metro e un tappo, ha degli insopportabili capelli rossi e crespi sparati per aria, è pallida come un cencio e ricoperta di efelidi. Dev’essere lei l’obiettivo. È lei. È lei, vero?
Vengo prelevato da due mani maschili grandi quanto due cerchioni d’auto, non più di tre secondi dopo. Non sono esattamente un fuscello – okay, d’accordo, magari non sono neanche tutto questo fulgido esempio di robustezza, però insomma – ma vengo sollevato lo stesso con una facilità impressionante. La cosa successiva di cui mi rendo conto è che sono sul palco. Cioè, sul palco. Plano sulle tavole e gli anfibi fanno un rumore intollerabile, lo sento nonostante la musica, che continua miracolosamente.
L’incubo Burtoniano mi fissa. E così mi fissano pure tutti gli altri: mi fissa il chitarrista – che per questo suo fissarmi perde una serie infinita di note, me ne accorgo anch’io che la canzone non la conosco – mi fissa il bassista – che però di note non ne perde – e mi fissa anche il batterista, e come mi fissano loro mi fissa anche tutto il resto del mondo e buona parte dell’universo, comincio a sospettare. Mi auguro stia guardando anche Dio, e non gli sia sfuggita la pesante imprecazione che gli ho telepaticamente inviato.
L’incubo mi fissa, appunto, e ha smesso di cantare già da un pezzo. Ha uno sguardo allucinato che mi fa una paura bestia. “Bill!” lo chiama la liana vivente a qualche metro da noi, e l’incubo si riscuote all’improvviso e riprende lentamente a cantare. Non sembra granché convinto. Mi fissa con aria inquisitoria e non so cosa stia cercando di dirmi. Io non capisco nemmeno perché sono qui, cazzo, io dovrei trovarmi là sotto, in mezzo al pubblico, cosa sto facendo qua sopra, cosa?!
Mi si avvicina qualcuno, da dietro. Panico. Non mi sento al sicuro, su questo palco. È il bassista che mi sibila “canta”, e lo sibila in tono accusatorio, come fosse ovvio e naturale che ogni persona vivente conoscesse le parole di questa stracazzo di canzone melensa che stanno suonando. Non ho idea di cosa vogliano da me! Cantare? Ma cosa?! Io non lo conosco, questo testo, e soprattutto non voglio cantare col nipote di Burton in vacanza-studio in Germania!
Dolore e sofferenza. Resto qui in piedi nel centro del palco come un citrullo. Intorno a me si sviluppa una realtà alternativa in cui io non esisto: vengo ignorato, l’incubo riprende a muoversi per tutto il palco con la grazia di un elefante sulle punte, fingendo di cantare cose che io non sento perché ho ripreso a fare selezione all’ingresso in fatto di suoni, e, in generale, il mondo – compresa Martha, che non riesco più a vedere – ignora la mia esistenza, riprendendo il proprio normale corso mentre io resto qui, disperato, e non so che fare.
Almeno fino a quando, guardandomi intorno con aria persa, non colgo un uomo sulla trentina che si sbraccia col rischio di slogarsi una o più spalle, cercando di attirare la mia attenzione. Mi muovo con circospezione cercando di raggiungere il backstage senza che nessuno mi noti, riesco ad inciampare ovunque nel tentativo ma mi ignorano tutti lo stesso. Magari sono diventato invisibile e l’unico che riesce a vedermi è il tizio di cui sopra.
Tizio che, peraltro, quando arrivo dietro le quinte comincia a darmi addosso.
- CHI SEI?! – strilla, utilizzando una quantità di decibel palesemente superiore rispetto a quella consentita dalla legge, - PERCHÉ SEI QUI?! COSA VUOI?!
Mi faccio forza per non urlare a mia volta “CAZZO NE SO, ME LO SPIEGHI UN PO’ LEI!”, e mi esibisco in un sorriso gentile e un po’ colpevole che, fossimo in un film, da solo varrebbe un Oscar.
- Io veramente- - comincio, con tutte le buone intenzioni del mondo, ma quello mi zittisce ricominciando a strillare.
- Non mi interessa! – sbraita, agitando le braccia con aria invasata, - Resta qui e sta’ zitto, fatti minuscolo, diventa invisibile!, qualsiasi cosa, non m’interessa, purché tu non rompa le palle!
In questo preciso istante – cioè, mentre lui mi sta ricoprendo d’improperi neanche fossi stato io a salire su quel dannato palco di mia spontanea volontà – lo chiamano.
- Signor Jost! – dicono, - Il concerto è appena finito e… c’è stato un disastro!
Il disastro, vengo a sapere poi, si è compiuto perché, a fine concerto, un gruppo di ragazze ha letteralmente abbattuto le transenne ed invaso la piazzola antistante il palco. Sento urlare parole sconnesse, questo Jost diventa improvvisamente una statua di sale e poi comincia a dare direttive in giro neanche fosse un generale dei marines, e tutto quello che so, dopo, è che mi ritrovo improvvisamente circondato da gente che mi spintona da un lato e dall’altro strillando “in fretta! Più in fretta! Verso il tourbus!”.
Non ho la minima idea di cosa mi stia capitando. Sono perso in un delirio cosmico. Il mio karma si sta ribellando contro di me. Giuro che non volevo affogare il criceto di mia sorella nel cesso, quando ero piccolo. È stato un terribile malinteso.
- Signor Jost! – strillo anch’io quando, nel mezzo del disastro, riesco ad intravederlo, - Io dovrei tornare da-
- Tu vieni con noi! – abbaia, afferrandomi per il cappuccio della felpa e trascinandomi dietro di sé, - Non posso mica passare di fronte all’entrata dello stadio e lasciarti lì!
Non capisco perché non possa, in realtà. E sono lì per dirglielo, anche, quando usciamo nel parcheggio e vedo in che condizioni è effettivamente l’ingresso dello stadio: ci saranno almeno tremila ragazze assiepate l’una sull’altra che strillano e piangono e si contorcono e Dio mio, è uno degli spettacoli più spaventosi ai quali mi sia mai capitato di assistere. Comincio a seguire il signor Jost di mia spontanea iniziativa, giusto per non intralciarlo mentre, palesemente, mi salva la vita.
Quando salgo sul tourbus, mi guardo intorno con aria smarrita. Qui si sta mettendo male, questo è evidente, ma il solo pensiero di tornare in mezzo al marasma mi terrorizza, sono ancora troppo giovane per morire e dubito che l’idea mi stuzzicherebbe anche se avessi una cinquantina d’anni, perciò resto buono e zitto e seguo il consiglio di Jost. Invisibilità. Io non esisto.
Mi seggo in un angolo e lì resto.
Il mondo torna ad accorgersi di me quando siamo già in autostrada. E ci siamo da una ventina di minuti buoni, almeno. L’incubo Burtoniano – uscito adesso dal bagno con un turbante di spugna in testa e una faccia da diva annoiata che ispira violenza come nient’altro al mondo – mi nota. Mi fissa. Mi scruta.
Mi fa una paura boia.
- Tu cosa saresti, esattamente?
Sono le uniche parole che mi dice. Ritengo di avere il diritto di rispondergli “potrei chiederti lo stesso” ma, l’ho già detto, sono un bravo ragazzo. Perciò taccio.
Vengo scaricato dieci minuti dopo ad una stazione di servizio nel bel mezzo del nulla. Jost mi ha consegnato personalmente venti euro e mi ha detto “cerca di arrivare a casa sano e salvo”. Io non ho ancora capito nemmeno chi fosse, quell’uomo.
Mentre sollevo il pollice e vengo caricato in auto da un vecchietto dall’aria viscida e dal sorriso inquietante che mi chiede “dove sei diretto, bel bambino?”, penso solo ad una cosa: non amare Martha è decisamente un motivo valido per mollarla. E mandarla pure a fanculo nel mentre, già che ci sono.
Quanto al resto, penso che non uscirò più di casa. Almeno per, facciamo, i prossimi vent’anni. E fanculo anche al karma.
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