Genere: Dark, Introspettivo, Romantico.
Pairing: EdwardxAlphonse.
Rating: NC-17
AVVISI: Angst, H/C, Incest, Lime, Yaoi.
- Non importa quanto sia finalmente felice di riavere suo fratello in carne e ossa al suo fianco. Edward non può fare a meno di sentirsi fuori posto. Non può fare a meno di sentirsi angosciato. Non può fare a meno di sentirsi terrorizzato dall'idea di essere lasciato solo. E per legare a sé suo fratello, Edward è disposto a fare di tutto.
Commento dell'autrice: (Chiedo perdono ç____ç Davvero ç___ç Ma in un modo o in un altro le storie che scrivo su Al e Ed mi rubano la vita XD e mi portano a scrivere quintali di post-fazioni ç_ç)
Ma prima di parlare della fic, volevo animatamente protestare contro la FOLLA ALLUCINANTE di emo!Ed sparsi per le fanfiction su Fullmetal Alchemist in quest’ultimo periodo >_< Non farò esempi e non farò nomi, ma mi è capitato fin troppo spesso di leggere di questo tipo di caratterizzazione di Ed, ultimamente. Intendiamoci: non che io vi sia contraria :O Anzi, se avete letto qualche altra mia fic (ma anche questa direi che basta e avanza XD), avrete notato sicuramente che tendo a dipingere Ed come un disadattato, un depresso, un asociale, uno talmente chiuso in sé stesso che non riesce a esprimere i pensieri che gli girano per la testa neanche quando si tratta di cavolate XD E io sono assolutamente convinta che Ed sia così, perché è così che lo vedo. Ma hey, non basta far dire ad Ed cose del tipo “la vita mi ha distrutto dentro, mi ha torturato, masticato, digerito e poi vomitato” e sperare che una cosa del genere risulti credibile mentre nello stesso contesto, nella stessa fic, lo stesso Ed si spreca in puccioserie con chicchessia, sorride allegramente e su di lui non c’è traccia del “male” che lo divora se non quando… rimugina sui suoi pensieri, in definitiva O.o La richiesta di questa povera lettrice è: caratterizzatelo come un isterico lol – cosa che può essere tranquillamente – o come un depresso cronico – cosa che è senza alcun dubbio – ma fatelo solo se sapete cosa state combinando ç_ç Vi prego, davvero ç_ç Risolleviamo un po’ la qualità di Ed nelle fanfiction ç_ç Rendiamolo coerente ç_ç
…e tenete fuori il mio Al dalle vostre dannate RoyEd, Dio ç_____________ç!!!
Detto ciò, possiamo parlare della fic :O
Per dirne cosa? Intanto per dire che ha avuto una storia incredibilmente travagliata XD Infatti figuratevi che prima di cominciare a scrivere, quando ancora la storia era in stato embrionale nella mia testa, c’è stata più di una possibilità che non venisse affatto alla luce XD (sarebbe stato meglio, mh? è_é”””) Questo perché tendo a evitare di scrivere cose eccessivamente angsty, non sono granché capace, ma questa storia la volevo proprio scrivere, e volevo che fosse proprio così, piena di sangue e pensieri cupi e Ed che rimugina sulla sua tristezza atavica >_< anche perché ero e sono fermamente convinta che una fic ispirata a una canzone come “Personal Jesus” (Depeche Mode, “Violator”, 1990, indovinate per quale sfida è stata scritta questa storia :D) non si possa vederla diversamente XD Quella canzone ha una melodia così cupa! Quindi in definitiva ho passato tutto un periodo ad angosciarmi incredibilmente (sembrava che il personaggio emo dovessi essere io, piuttosto che Ed -_-) chiedendomi se fosse giusto o meno provare a scrivere qualcosa in cui molto probabilmente avrei toppato, togliendo tempo a cose sulle quali andavo più sul sicuro perché magari ero più abituata a scriverle, e nel frattempo facevo sogni allucinanti in cui la Caska mi mandava una mail e mi implorava con le lacrime agli occhi di non scrivere questa fic 9_9
Però, oltre a desiderare di testarmi in un campo un po’ più cupo rispetto al mio solito modo di scrivere puccioso, mi interessava anche scrivere qualcosa sul genere H/C, Hurt and Comfort, in cui uno dei due protagonisti sta male e l’altro si prende cura di lui <3 Credevo fosse una situazione molto intima in cui porre i due fratellini *-*
E quindi alla fine ho deciso di procedere. Ma questo era solo l’inizio dei miei problemi XD
Infatti uno dei capisaldi che avevo stabilito all’inizio della storia era che fosse Ed l’uke della situazione, per una volta XD Generalmente lo tengo sempre attivo, nel rapporto di coppia, perché vista la quantità di pairing in cui non può essere altro che passivo (vedi Mustang – bleargh – o Envy – ri-bleargh) mi infastidisce pensare di renderlo passivo anche nell’unico rapporto con una persona più uke di lui XD Vale a dire Al. In questo caso, però, volevo decisamente provare a vedere come funzionasse Ed in un ruolo passivo, e quindi, dopo varie menate – del tipo, mi fermavo nel mezzo del racconto e dicevo “nooo, non posso farlo ç____ç” e ribaltavo i ruoli, salvo poi tornare indietro e rimettere tutto com’era prima XD – ho deciso… di non farne niente :O (ta-dah!) Ho semplicemente eliminato la scena in cui c’era il rapporto sessuale (anche perché altrimenti avrei avuto guai XD) e mi sono tolta il problema da davanti agli occhi XD E lì è diventato tutto più facile è.é D’altronde, immagino che possiate farvi bastare la scena di masturbazione fetish è.é””” Così come poi immagino possiate farvi bastare quel po’ di uke-attitude che c’è da parte di Ed, soprattutto nei suoi pensieri.
Ora, credits vari ed eventuali.
Prima di tutto :O Carla Bruni (udite udite), perché mi ha dato l’ispirazione per il discorso sul tempo. Cioè l’altra sera era a “Che tempo che fa”, il pucci-programma di Fazio e a un certo punto lui le ha chiesto quale fosse il suo rapporto col tempo, e lei ha detto qualcosa tipo “Brutto. Ho paura del tempo che passa. E mi sembra che il tempo non faccia altro”, o qualcosa del genere, insomma, tutto sommato un’osservazione abbastanza banale che mi ha spiazzata da morire O_O Io amo scrivere storie in cui “è passato qualche tempo da”, mi piace vedere i personaggi mesi o anni dopo l’evento che magari ha sconvolto la loro vita o ha cambiato il loro modo di pensare, e ogni volta il tempo fa qualcosa ai personaggi che uso. Li rende più tristi, o cura le loro ferite, o rimuove i loro brutti ricordi XD ma alla fine il tempo in sé non ha il potere di fare nulla di tutto questo. Il tempo in sé non fa che passare o_o Davvero, pensateci, non sconvolge anche voi? XD *delirio*
Secondariamente, devo ringraziare tantissimo mio fratello XD che mi ha aiutata molto sul pezzo del funerale. Dovete sapere che mentre scrivevo quel punto a un certo punto mi ero messa in testa di ficcare l’immagine di un funerale che esplode di vitalità. Ma non c’era verso né modo di trovare una frase che rendesse bene l’idea dell’esplosione, collegasse efficacemente la gioia (la vita) e la tristezza (il funerale) e contemporaneamente suonasse bene nel testo XD E quindi ero molto in crisi, fino a quando mio fratello mi fa “Perché non fai una cosa fine? :O Petrarca più o meno provò le stesse cose quando morì Laura, per lui fu come rinascere perché riscoprì la sua fede, puoi dire che quello del tuo personaggio fu il suo venticinque aprile :O”. Illuminazione XDDD Tra l’altro era pucciosissimo come concetto e si legava a tutto il fatto della fede e della salvezza dell’anima, stupendo! XD Poi abbiamo scoperto che non era il venticinque ma il sei è_é ! “Venticinque” suonava meglio, là in mezzo, ma abbiamo dovuto piegarci alle esigenze della verità storica X’D Quindi grazie fratello :* Vedi, anche tu sei utile, ogni tanto :*
Un devoto ringraziamento anche alla nai per il suo beta-reading puntuale e preciso senza il quale questa fanfiction sarebbe stata pubblicata come fosse stata scritta veramente coi piedi, e alla Caska per aver dato l’ok e avermi detto “l’impressione è buona, vai con Dio” XD Visti gli argomenti, senza la sua approvazione non l’avrei mai pubblicata.
Woooooh, ho finito, grazie a chiunque abbia letto fin qui, siete dei devoti niente male ç_ç *per restare in tema religioso <3* Vi amo <3
(Ho quasi scritto più riflessioni per questa storia che non per “Your Door”… sono pericolosa!)
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PERSONAL JESUS
(or Redemption)
Violator#3
Flavour #40 - A new iconography of resurrection


Lo sentì bussare alla porta, e stancamente aprì gli occhi.
Era esausto.
Non sapeva quanto sangue avesse perso. Non sapeva se fosse tanto e quella pesantezza allucinante che gli gravava sulle palpebre fosse dovuta al fatto che stesse finalmente crepando, oppure se fosse poco e fossero solo sonno e fame a debilitarlo tanto.
In quel momento, era un po’ tutto insieme.
Si sentiva morire, aveva sonno e fame, e altre mille cose. Gli prudevano le braccia, e gli faceva male la gola, e se si passava la lingua sulle labbra bruciavano talmente tanto che aveva quasi l’impressione che non ci fossero più.
Sorrise al pensiero dell’espressione che avrebbe avuto suo fratello sul viso, quando avesse visto in che condizioni era ridotto.
Avrebbe detto “Non posso lasciarti solo neanche un secondo, nii-san!”, avrebbe detto “Quando la smetterai di farti del male così?”, e probabilmente avrebbe pianto un po’, poi lo avrebbe abbracciato, e quando avrebbe sentito da vicino l’odore del suo sangue sarebbe stato così nauseato che non avrebbe potuto fare a meno di lasciarlo e scappare via.
- Nii-san… posso entrare…? – chiese incerto Al, oltre l’uscio, bussando ancora un paio di volte.
Lui avrebbe voluto rispondere.
Anche se non avrebbe saputo dire se desiderasse chiedergli di entrare o di andarsene via.
Ma, in ogni caso, era una preoccupazione inutile, dal momento che non riusciva a parlare.
La porta si aprì di scatto, e suo fratello apparve sulla soglia, inondando la stanza buia con la luce giallastra del corridoio.
Ed sollevò appena il capo per inquadrare meglio la sua figura snella e slanciata.
Dannazione.
C’era troppa luce per poter scorgere la sua espressione.
- Nii-san!
Ma non c’era mai abbastanza frastuono per non riconoscere la sua voce. Ed lo sapeva. Perché la voce di Al perforava continuamente il muro dei suoi allucinati pensieri, lo raggiungeva nell’isolato angolino in cui si nascondeva, terrorizzata, la sua ultima briciola di ragione, spazzava via la polvere e i detriti e per un attimo, ma solo per un attimo, gli schiariva la mente, regalandogli la consapevolezza di essere pazzo, completamente pazzo.
- Che hai fatto?! – gridò Al, allarmato, avvicinandoglisi e prendendolo fra le braccia con tanta facilità che Ed percepì il suo corpo come fosse fatto di lenzuola di cotone.
- Mmmh… - trovò la forza di mugugnare, mentre si lasciava andare alla sua stretta e si faceva mettere seduto compostamente sul letto.
- Nii-san! – continuò Al, sempre più spaventato, - Aspetta, scendi da questo letto, è tutto macchiato! Ma che hai fatto?!
E così dicendo provò a farlo mettere in piedi, ma le gambe semplicemente non lo ressero, ed entrambi si ritrovarono a terra, schiacciati contro il pavimento, la schiena di Al dolorante per la botta e Ed abbandonato che gli pesava sul ventre e sul petto.
- Nii-san! Stai bene?
- Mmmh. – rispose lui, chiudendo gli occhi e godendo del calore della sua pelle, che attraversava il tessuto sottile della camicia.
- Nii-san… - mormorò Al riprendendolo saldamente fra le braccia e mettendolo seduto, - Cosa è successo qui?
Lui lo guardò. Lo guardò a lungo negli occhi. Gli occhi limpidissimi di Al che gli davano il tormento.
Voleva che suo fratello sapesse cosa faceva, ma non voleva che sapesse come lo faceva. Non aveva mai pensato neanche per un secondo di far vedere ad Al cosa combinava con le forbici che aveva nascosto dentro al materasso, fra la gommapiuma e la lana grezza, non voleva che Al vedesse scorrere il sangue dalle ferite fresche ancora palpitanti di dolore, non voleva che Al vedesse le sue smorfie di dolore soddisfatto quando si tagliava. Non voleva perché gli sarebbe sembrato di insudiciarlo.
Ma Dio, voleva che Al avesse a che fare con il sangue rappreso, e con le ferite aperte e quasi asciutte, e con la sua espressione indifferente quando nulla che non fosse il dolore sembrava riuscire a toccarlo.
Voleva che Al si prendesse cura di lui.
Voleva che fosse Al a leccare le sue ferite.
Voleva che Al, solo lui, fosse il collegamento che lo univa al mondo esterno, che viveva, e cresceva, fuori da casa loro.
Lui sapeva che il mondo continuava a muoversi. Ma non era di quel mondo che voleva fare parte.
Finché c’era Heide, poteva ancora dirsi un essere umano come tutti gli altri. Gli mancava Al, certo, e gli mancavano Winry e zia Pinako, e anche tutti gli altri. Gli mancava Resembool e si sentiva fuori posto, ma almeno si teneva impegnato, passava il tempo, e la presenza di Heide era così dolce per riempire gli spazi vuoti…
Heide era così simile a suo fratello…
Ma poi Heide era morto.
E Heide non era morto per una fatalità, non era morto per eroismo e non era morto per seguire i suoi ideali.
Heide era morto per affetto. Per aiutarlo a tornare nel suo mondo. Heide voleva unicamente che lui tornasse ad essere l’uomo giusto nel posto giusto, l’uomo felice in mezzo ai suoi cari, l’uomo che aveva ormai spazzato via il dolore passato e si preparava a vivere felice il suo futuro.
E lui aveva gettato alle ortiche quella possibilità.
Per una buona causa, è vero. Ma già a distanza di pochi mesi non riusciva più a ricordare cosa lo consolasse del fatto di perdere la possibilità di una vita gioiosa per fare del bene all’umanità.
…ogni tanto provava a guardare fuori dalla finestra. E attraverso i vetri opachi, generalmente, vedeva persone che non gli ricordavano niente.
Ma proprio davanti casa sua c’era la bottega della fioraia, e la fioraia era la copia esatta di Glacier, e aveva sposato un uomo che era la copia esatta del colonnello Hughes.
E lui ogni tanto li vedeva.
E lo percepiva, sotto la pelle, quel qualcosa che scorreva e lo scuoteva tutto. E gli urlava nelle orecchie che lui non era di lì. Che essere l’originale in un mondo di copie era sbagliato. Che non portava bene. Che per il solo fatto di essere lì, qualcuno era già morto. La sua copia era già morta.
Copia e originale non possono stare insieme nello stesso posto.
E adesso che c’era anche Al…
…anche Heide era già morto.
Per il solo fatto di essere lì.
*

Col viso nascosto nell’incavo fra il collo e il mento di suo fratello, con gli occhi chiusi e gli arti abbandonati e molli, assaporava il dolcissimo passaggio della spugna bagnata sulla pelle del suo braccio vivo. Il petto di Al si gonfiava e si sgonfiava al ritmo del suo respiro, facendolo ondeggiare piano, come se lo stesse cullando. L’acqua fresca leniva il bruciore delle ferite ancora aperte, e ammorbidiva il prurito di quelle già crostificate.
Il profumo di Al lo circondava tutto, era come essere abbracciati da una mamma, solo meno morbida e pura.
Il profumo di Al gli dava alla testa.
Avrebbe continuato a tagliarsi per sempre, avrebbe continuato a ridursi sull’orlo del suicidio costantemente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ossessivamente, sempre, sempre, sempre, solo per risentire quel profumo tutto attorno, e quel tocco lieve su di lui, e la sensazione di essere resuscitato per miracolo dalle manine premurose di suo fratello. E se avesse avuto l’opportunità di ricevere in dono un’altra vita, se un qualche Dio magnanimo l’avesse preso in simpatia e gli avesse detto “Va’, Edward Elric, torna sulla terra e cerca di essere felice”, lui avrebbe girato tutto il mondo, e avrebbe ritrovato Al, l’avrebbe ritrovato in qualunque forma fosse rinato, e avrebbe ricominciato a farsi del male solo ed esclusivamente per osservarlo prendersi di nuovo cura di lui, devoto e ciecamente fedele come sempre.
Perché Al non aveva bisogno di chiedere spiegazioni, per tutto quello sciocco dolore.
E d’altronde non c’era nulla che Ed avrebbe potuto dirgli per fargli comprendere meglio la situazione.
Così come non c’era nulla che avrebbe potuto dire a sé stesso, per comprendersi un po’ di più.
L’unica cosa che capiva era che, già da molto tempo, aveva smesso di essere un uomo, ed era diventato Fame. Fame di Al. Del suo tocco gentile, del suo profumo rassicurante, di tutte le sue adorabili premure e della sua ferma intenzione di non lasciarlo andare. Aveva bisogno fisico e fisiologico di Al. Era qualcosa che somigliava pericolosamente alla tensione sessuale, se ne rendeva conto, ma non si sarebbe mai azzardato ad alzare un dito di troppo su di lui, quindi cercava di accontentarsi di quello che aveva già, dei cerotti, delle bende e delle carezze.
Gli bastava che lui continuasse ad esserci, che continuasse a mantenere un contatto, che potesse ancora vederlo. Gli bastava. Se lo faceva bastare. Doveva farselo bastare.
- Nii-san… adesso mettiti disteso. – mormorò Al spingendolo lievemente lontano da sé.
Per riflesso, Ed contrastò la sua spinta, tornando ad abbracciarlo.
- Che c’è, nii-san…?
- Voglio…
Era la prima parola che diceva dal giorno prima, e la voce uscì incredibilmente roca e sgradevole.
Tossicchiò lievemente.
- Voglio restare ancora un po’ così, Al.
- Nii-san, devo mettere a bagno le lenzuola sporche…
Adorava il modo in cui Al riusciva a infilare un “nii-san” in ogni frase che gli usciva dalle labbra. Era così bello sentirgli dire quella parola, così intimo…
Annuendo, si tirò indietro, stendendosi sul materasso e lasciandosi andare a una smorfia di dolore quando la pelle del braccio ormai secca e martoriata tirò sulle ferite, riaprendone qualcuna delle più profonde.
Al mormorò un’imprecazione fra i denti, afferrando un paio di bende da sopra il comodino e avvolgendogli il braccio.
- Così il sangue dovrebbe fermarsi… se stai immobile.
- Mh. – annuì lui, guardando altrove e sistemandosi meglio sul materasso.
- Nii-san. – lo chiamò Al, la voce tremante.
Lui si voltò, concentrandosi sui lineamenti del suo viso.
- Perché… perché stasera non ceni con me? In cucina, intendo… a tavola.
Disgustato dal solo pensiero di ingerire qualcosa, roteò gli occhi, sbuffando lievemente.
- Non voglio mangiare. Non mi sento ancora molto bene.
- Nii-san! – protestò Al, adesso agitato, stringendo i pugni, - Non… non hai niente che ti impedisca di alzarti dal letto!
Solo per un attimo, si fece prendere dalla rabbia, e lo fissò furioso negli occhi.
- Se dico che non mi sento bene, non mi sento bene, Al.
Suo fratello indietreggiò un po’, spaventato.
- Scusa. – mormorò, abbassando lo sguardo, - Adesso vado via.
Ed lo osservò voltarsi e uscire dalla stanza, stringendo forte le lenzuola fra le dita serrate a pugno.
Quando rimase solo, si sentì talmente perduto e confuso che ebbe voglia di ficcare le mani nel buco dietro al materasso e tirarne fuori le forbici.
Ma era ancora troppo presto. Al sarebbe potuto tornare.
E poi non c’era ancora abbastanza spazio sul suo braccio e non c’erano ancora ferite abbastanza vecchie che valesse la pena di riaprire.
*

Non aveva usato le forbici, quella volta.
Non aveva nemmeno pensato di usare le forbici.
Aveva solo sentito prurito.
Non voleva distruggersi la pelle e la carne a quel punto, non…
…non nelle intenzioni iniziali, almeno.
Quasi ipnotizzato, rimase a guardare le ferite aperte, no, spalancate sull’avambraccio sinistro, e il sangue che ne usciva, rigando la pelle dove ancora era liscia e bianca e scivolando lascivo sul lenzuolo, in gocce lente, pesanti, perfettamente sferiche.
S’era solo grattato un po’.
Davvero.
Sollevò la mano destra, osservando le punte delle dita metalliche.
Il rosso e il bianco troppo chiaro della falsa pelle che copriva le sue dita meccaniche formavano un contrasto invitante, quasi sensuale… lo stava chiamando, il suo sangue stava pulsando per lui…
Si portò l’indice alle labbra, succhiandolo come fosse affamato.
Silicone, e metallo, e l’odore ferroso del sangue…
E le dita divennero due.
E quando quel sangue fu finito fece rifornimento dal braccio dolorante e ricominciò a succhiare. Succhiava spasmodicamente, come i bambini appena nati, giocava con la lingua e le falangi insensibili, giocava immaginando che quelle non fossero le sue dita, perché se non potevano sentire niente allora potevano essere qualsiasi cosa, potevano essere le dita di Al, poteva essere…
…poteva essere quello che voleva, poteva immaginare quello che voleva, poteva immaginare che il braccio straziato che scivolava sulle lenzuola non fosse suo, nonostante il dolore, e poteva immaginare che la mano che stava sfiorando la sua erezione fosse di qualcun altro, nonostante la sensazione tattile della pelle dei polpastrelli, era buio, aveva gli occhi chiusi, e le dita in bocca, era in paradiso e poteva essere tutto e il contrario di tutto, poteva essere sé stesso, e poi Al, e poi di nuovo sé stesso. Non aveva limiti, non aveva confini, solo lui, le sue dita, il suo sangue, la sua mano e il suo cazzo.
- Nii-san!
Spalancò gli occhi sullo sguardo inorridito di Alphonse che, sulla soglia della porta, strizzava la maniglia con una mano come a volercisi aggrappare per non cadere.
- A-Al! – mormorò affannosamente, tirando fuori di scatto la mano dai boxer e facendosi un male cane, - Che… cosa…
- Era… era ora di cena, volevo portarti da mangiare, nii-san, cosa diavolo stavi facendo?!
- Io… stavo-
- Stai sanguinando ancora! – lo interruppe Al, lanciando un grido quasi terrorizzato.
In quattro passi suo fratello fu al suo fianco, e lui non ebbe neanche il tempo di accorgersene che già aveva afferrato il suo polso sinistro con la mano e l’aveva tirato verso l’alto, osservando con disgusto tutto il suo lavoro vanificato e il sangue che ricopriva il braccio fino al gomito in rivoli incrociati come i fili di una ragnatela.
- Avevo… avevo prurito…
- Se le ferite ti davano fastidio, saresti potuto venire a chiamarmi! – lo rimproverò Al, furioso, - Le avrei disinfettate e ripulite, ti avrei cambiato la fasciatura e ti saresti sentito meglio! Perché non l’hai fatto?!
Perché non ci aveva pensato.
Per il sangue.
Perché non voleva scendere dal letto.
Per il sangue.
Perché voleva fosse lui a trovarlo in quelle condizioni.
E per il sangue, dannazione, perché il suo sangue lo aveva chiamato.
- Non… non me ne sono accorto. Dormivo.
- Non dormivi! Nii-san, non dormivi affatto! Stupido!
Abbassò lo sguardo.
Era stanco, stanco, stanco di sentirlo parlare. Ogni volta che Al parlava sembrava dirgli un no. Che fosse per un abbraccio, per una dormita, per del cibo rifiutato o per i suoi stupidi dannatissimi tagli, ogni volta che Al parlava era un rimprovero, ogni volta era un no diverso.
Non avrebbe potuto prendersi cura di lui in completo silenzio?
Non avrebbe potuto sorridergli e basta, una volta tanto…?
- …stai fermo qui. Non muoverti. – gli ordinò suo fratello, pacato, lasciando la stanza e ritornando poco dopo, con qualcosa in mano.
Aguzzò lo sguardo, per capire cosa fosse, ma riuscì a vederlo veramente solo quando lui accese la luce.
Erano un paio di manette.
Argentate, lucide, nuove.
Spalancò gli occhi.
Si sarebbe potuto aspettare di tutto, di tutto, ma non… di certo non quello.
- Al…? – chiamò, titubante, mentre suo fratello distoglieva lo sguardo.
- Io non volevo fare una cosa del genere, nii-san…
…il che però non spiegava la presenza di quelle manette lì…
- Ma tu mi ci costringi. Cerca di capire.
Certo, Al.
Tu dimmi semplicemente cosa devo capire, e ti assicuro che io lo capirò.

Suo fratello si avvicinò, un po’ incerto, poggiando le manette in punta sul comodino, dove lui non sarebbe arrivato a prenderle se non gettandosi nel vuoto praticamente a peso morto.
- Per favore, non muoverti. – gli sussurrò poi, arrossendo vistosamente e ammanettandolo alla spalliera del letto.
Attonito, lui lo guardò, sentendosi per la prima volta come non fosse l’unico pazzo in quella casa.
- Al…
- Devo farlo, nii-san. – spiegò il ragazzo, senza riuscire a guardarlo negli occhi, - O tu continuerai a farti questo. E io non posso permettertelo.
- …
Era Al che non capiva.
Al non aveva la minima idea di quanto lui fosse eccitato in quel momento.
Al non comprendeva che avrebbe dato la vita perché lui lo prendesse in quel momento, in quella posizione, con i polsi ancora bloccati alla ringhiera gelida, col rumore delle manette contro il metallo come colonna sonora e il dolore ai polsi e alle spalle come accompagnamento.
- Mi dispiace, nii-san.
E così dicendo uscì dalla stanza, senza ripulirlo, senza medicarlo e senza cambiare le lenzuola.
Quando tornò, portava con sé un vassoio con un piatto colmo di denso minestrone di verdure e un bicchiere d’acqua.
Sembrava che per lui fosse tutto normale.
Si sedette sulla sponda del letto, appoggiando il vassoio sul comodino e controllando da vicino la condizione delle sue ferite, sporgendosi su di lui, col petto così vicino al suo viso che lui riuscì, per un attimo, a chiudere gli occhi e inalarne il profumo come se lo stesse abbracciando.
- Sembra che si stiano chiudendo senza problemi. – constatò Al con un sorriso minuscolo, - Hai visto che se non ti tocchi va meglio?
Lui, ancora troppo… troppo sconvolto, sì, dal suo comportamento, non trovò la forza di dire niente.
Continuando a sorridere, Al prese un cucchiaio di minestra e glielo portò alle labbra.
Un moto di disgusto gli investì lo stomaco, e scosse il capo violentemente, sbattendo contro il cucchiaio proteso verso di lui e sporcandosi una guancia.
- Ah! Nii-san! Guarda cosa hai combinato! – sbuffò Al, ripulendolo con un dito.
Ed osservò suo fratello guardarsi intorno alla ricerca di un tovagliolino con cui pulirsi, fissò la punta di quel dito in movimento e la trovò ipnotica, e lentamente, quasi senza accorgersene, dischiuse le labbra.
Quando gli occhi vaganti di Al si fermarono sul suo viso, a Ed sembrò che sia lui che suo fratello avessero smesso improvvisamente di respirare.
Al lo fissava, probabilmente chiedendosi cosa fosse giusto fare in un momento come quello.
Poi, poco a poco, avvicinò l’indice al viso di Ed, fermandosi a pochi centimetri dalle sue labbra.
Era terrorizzato, Ed poteva vederlo nei suoi occhi.
Era terrorizzato ma non spostava di un millimetro quel dannato dito.
E lui doveva raggiungerlo, doveva raggiungerlo, dannazione, sarebbe morto se non l’avesse almeno toccato!
Si tese, si inarcò, cercò di raggiungerlo e non ci riuscì, e allora tirò fuori la lingua e riempì lo spazio che lo separava da quel dito benedetto, e quando l’ebbe catturato fra le labbra giurò a sé stesso, e sul nome di Dio, che non l’avrebbe più lasciato andare.
- N-Nii-san… è strano… - mormorò Al, gli occhi socchiusi e lucidi d’imbarazzo, incerto fra la possibilità di tirarsi indietro e quella di rimanere immobile.
Ed si limitò a mugugnare qualcosa, continuando a succhiare il suo dito fino ad aver completamente spazzato via il sapore della minestra, per assaporare il gusto salato e stupendo della pelle di suo fratello.
- Nii-san, aspetta… - ansimò il ragazzo, mettendosi in ginocchio sul letto, facendosi minuscolo e combattendo contro sé stesso per impedirsi di abbandonarsi a quel gioco assurdo eppure così sensuale – E’ troppo strano, non va bene…
Senza neanche premurarsi di riaprire gli occhi, Ed mosse una gamba, e poco dopo il suo piede destro si stava strusciando, lento e lieve, sui pantaloni di Al, cercando di raggiungere la sua erezione oltre il tessuto ruvido e pesante dei pantaloni.
Il respiro già irregolare di Al venne rotto da un singhiozzo di stupore e piacere. Solo allora Ed riaprì gli occhi, serrando più decisamente le labbra attorno al suo dito mentre lo titillava incerto con la punta della lingua. Riaprì gli occhi e lo vide chino su sé stesso, privo di forze, totalmente rapito dal piacere allucinante che gli provocava il movimento del piede di suo fratello. Soddisfatto, tornò a chiudere le palpebre, a sprofondare nel suo mondo di immaginazione, i gemiti di Al gli davano la traccia sonora, i movimenti del suo bacino quella ritmica e il sapore ormai dolciastro del suo dito quella fisica. Bastava seguire quelle tracce, quelle tracce erano la strada per il paradiso.
Pian piano, gli ansiti di Al cominciarono a farsi più forti e più liberi, e quando lo guardò per la seconda volta i lineamenti del suo volto erano distesi, le sue labbra dischiuse e umide, le sue spalle scosse dai sospiri.
Chiuse gli occhi per l’ennesima volta, era distrutto dal desiderio di continuare a guardare Al godere e allo stesso tempo non riusciva ad abbandonare completamente la dolcezza dell’immaginazione e occhi chiusi, e poi…
…e poi suo fratello decise di benedirlo.
Suo fratello salvò la sua fottuta anima.
O almeno, così si sentì lui, salvato, quando una mano di Al percorse lenta lo spazio vuoto che la separava dal suo corpo e lo sfiorò da sopra i pantaloni del pigiama.
Per la sorpresa, lasciò perfino andare il suo dito, ma Al non spostò la mano, e anzi, quando sentì che anche il suo piede s’era fermato, prese ad agitare il bacino mormorando stancamente “Nii-san… nii-san, non fermarti adesso… nii-san…”. E lui si sentì come se stesse vedendo la luce, come se quello di fronte a lui non fosse più semplicemente Al, ma un angelo, un dio, il Dio del sesso, il Dio dell’amore, il Dio del piacere, non lo sapeva, ma di qualunque cosa fosse dio lo stava salvando, stava muovendo la mano e lo stava salvando, stava muovendo i fianchi e lo stava salvando, gli stava sfiorando il viso e le labbra con le dita e lo stava salvando.
Riprese a muovere il piede. E Al venne subito, con un singhiozzo strozzato che gli otturò la gola e lo costrinse a tossicchiare. Ma non si fermò, continuò a muovere quella mano santa, “Sbrigati, nii-san, sbrigati…”, “Sì, Al, mi sbrigo, mi sbrigo, non ti fermare, continua… così… Al, così…”, da quanto tempo non mormorava così?, aveva mai mormorato così?, aveva mai goduto così?, gli era mai successo, nella sua vita, di essere così stupidamente felice per qualcosa di tanto piccolo come una manina in movimento lento sul suo sesso…?
L’orgasmo lo colse a ondate, come la marea, venne a lungo, spingendosi ostinatamente contro la mano ormai ferma di suo fratello, disgustato dalla sensazione di bagnato dei boxer e dei pantaloni ed estasiato dal calore stupendo che la pelle di Al emanava, e che passava attraverso tutte le barriere e lo raggiungeva nel suo intimo, come se si stessero toccando, completamente nudi, senza ostacoli.
Rimasero entrambi in silenzio per molto tempo, senza osare rilasciare i sospiri pesanti che avrebbero avuto bisogno di liberare per tornare a respirare normalmente.
Poi Al sollevò il capo, massaggiandosi le tempie con le dita.
- …non ti toglierò le manette. – disse semplicemente, nascondendosi gli occhi con la mano aperta appoggiata sul viso.
Ed si morse il labbro inferiore.
Non gli fregava niente di quelle dannate manette. Avrebbe adorato anche tenerle fino alla fine della sua vita, se solo Al gli avesse assicurato che sarebbe tornato a toccarlo in quel modo stupendo ogni giorno e per sempre.
Quando suo fratello si alzò dal letto, lo fece così repentinamente che tutto il materasso tremò, e a lui venne la nausea.
E quando poi lo vide oltrepassare la soglia della porta, ebbe la nettissima sensazione che non l’avrebbe rivisto per molto tempo.
Ed ebbe paura.
- Al! – gridò, prima che lui riuscisse a chiudere la porta, - Non te ne andare!
Lui gli rivolse uno sguardo che diceva “non posso fare nient’altro”, e la chiuse di scatto, senza dargli neanche il tempo di replicare.
*

Doveva complimentarsi con suo fratello, quelle manette erano una forma di tortura molto sofisticata e crudele. Era sicuramente per quel motivo che, fra tutti i metodi che avrebbe potuto scegliere per impedirgli di tagliarsi, aveva scelto proprio quello. Le manette gli davano l’opportunità di muoversi, almeno un po’, e di sfiorare il metallo della spalliera del letto con la pelle. Adorava quella sensazione, il metallo gelido contro la sua pelle bollente di dolore a causa dei tagli, era magnifico, c’era qualcosa di poetico nel brivido che gli correva lungo la spina dorsale quando trovava quel contatto.
C’era qualcosa di molto meno poetico, invece, in quello che gli era rimasto fra le gambe dopo che la premurosa mano di Al aveva deciso di fargli un regalino e permettergli di venire senza neanche spogliarlo.
Si chiedeva se suo fratello capisse che cosa avevano fatto, o se lo considerasse piuttosto un gioco stupido e un po’ strano.
O se credesse, chissà, che l’eiaculazione fosse un processo psicologico, privo di implicazioni fisiche.
Infastidito, si agitò sul materasso, consolato, nel silenzio, dal sommesso clangore delle manette sul ferro.
Quelle manette erano una benedizione divina. Sentirle tintinnare lo rallegrava. Percepire la loro stretta quando cercava di cambiare posizione lo riempiva di gioia, e lo eccitava da morire. Non erano che brevissimi momenti, sensazioni fugaci che gli riempivano il cuore di speranza: se le manette erano ancora lì, Al sarebbe tornato per prendersi cura di lui.
Non poteva usare i tagli per obbligarlo a tornare, ma le manette, loro sì.
Le manette lo illudevano di avere ancora qualche potere sul libero arbitrio di suo fratello.
Ma era, ovviamente, solo un’illusione.
E infatti non vedeva suo fratello da due giorni.
L’aveva sentito entrare e uscire di casa per andare a lavoro e fare la spesa, l’aveva sentito passare innumerevoli volte davanti alla porta della sua camera, ma non aveva mai visto il suo volto fare capolino dall’uscio, né mai aveva sentito la sua voce.
E questo lo faceva sentire male.
E lo faceva sentire solo.
Si sentiva come se gli avessero rubato un’icona sacra, si sentiva, sì, privato della sua divinità, della sua fede. Il suo Dio era morto.
…prima pregava sempre. Pregava perché Al tornasse, e fosse gentile, e rimanesse con lui, e gli accarezzasse dolcemente i capelli, e lo ripulisse con una pezza bagnata di acqua tiepida, o semplicemente cambiasse le lenzuola, o lo aiutasse a indossare un pigiama pulito.
Adesso non riusciva neanche più a pregare.
Era sporco, era sudato, le macchie di sangue rappreso sulle lenzuola gli davano la nausea, i polsi gli dolevano e sentiva le braccia come atrofizzate, e non aveva neanche la forza di pregare per il ritorno di suo fratello.
Non riusciva a fare altro che osservare il tempo passare.
Capendo sempre più, minuto dopo minuto, che quella è l’unica cosa che sa fare. Il tempo non lenisce il dolore, non cura le ferite, non aiuta a dimenticare e non rende agrodolci i ricordi amari.
Il tempo passa.
Troppo in fretta o troppo lentamente, ma passa e basta. Non ha proprietà magiche, non serve a nulla, non serve neanche a invecchiare davvero, o a diventare più saggi, serve solo a ripetere stupidamente e tragicamente sempre gli stessi pensieri, sempre le stesse azioni, sempre gli stessi errori.
Il tempo serve solo ad andare via. E ad essere sempre di meno.
Lui non l’aveva mai capita, prima, questa cosa. Si era sempre detto “Ho tempo, per ridare ad Al il suo corpo”, e quando il corpo era tornato e lui s’era ritrovato catapultato in quella città assurda e devastata che era la Monaco del 1923 s’era detto “Ho tempo, per tornare a casa mia, nel mio vero mondo”, e quando poi era tornato, e aveva rivisto Al, e poi entrambi erano ritornati indietro, e quando per i primi tempi, malgrado fosse tutto un disastro, lui era riuscito a tenere insieme i cocci del suo cervello, s’era detto “Ho tempo, ho tutto il tempo del mondo per far capire ad Al cosa provo per lui, ho tutto il tempo per lasciare che si abitui al pensiero, e Dio, poi avrò tutto il tempo per godere del suo amore, quando avrà imparato a ricambiarmi”.
Ma era rimasto fregato.
Perché “tutto il tempo”, non esiste. Esiste solo il tempo restante.
E da qualunque lato lo guardi, è sempre troppo poco.
*

E poi, dopo qualche giorno, non avrebbe neanche saputo dire quanti, improvvisamente accadde. Il suo corpo fece qualcosa come risvegliarsi da un lungo sonno, e la fame esplose tutta in un momento. Non fu neanche una cosa graduale, non fu come sentire il bisogno di Al ogni giorno un po’ di più fino a non potere resistere oltre, fu come stare bene e tutt’a un tratto sentirsi morire di bisogno e malinconia.
Non poteva sopravvivere a quel sentimento, era troppo forte e luminoso, era così nitido e pesante, gli schiacciava il corpo contro il materasso, si sentiva affossato nella gommapiuma, poteva sentire le punte delle forbici premergli contro la schiena, non poteva resistere, non poteva, non poteva e basta, perciò si mise a urlare.
Non chiamava neanche il suo nome.
Perché quasi non lo ricordava più.
Aveva solo voglia di rivederlo, e perciò pianse e gridò come i bambini piccoli, che non hanno altro modo per comunicare oltre a quello. Pianse, e gridò, e si dibatté come un pesce a corto di ossigeno, sbattendo contro la spalliera, contorcendo le braccia, rischiando di cadere dal letto e distruggersi i legamenti delle spalle. Gridò e gridò e gridò ancora fino a quando non sentì dei passi veloci correre lungo il corridoio, e poi la porta si aprì e la luce si accese, e Al era lì, col fiatone, una mano ancora sulla maniglia e l’altra sull’interruttore della luce, le guance arrossate, i capelli scarmigliati e un semplice pigiama addosso.
- Nii-san! – urlò, correndogli incontro, - Che cos’hai?!
E lui, per prima cosa, pensò “Che ore sono?
Che orario ho scelto, per mettermi ad urlare come un ossesso?”.
Guardò Al, stupito, come si fosse svegliato in quel momento, e non seppe cosa dirgli.
“Sto male” non avrebbe reso l’idea. “Ti voglio” non sarebbe stato tutto. “Niente” sarebbe stato falso.
Eppure stava semplicemente male, e lo voleva, e in fin dei conti non aveva davvero niente, nessun motivo per urlare in quella maniera allucinante, per… per essersi comportato in quel modo fino a quel momento.
- Nii-san… - lo chiamò ancora Al, stringendolo forte, - Nii-san, ti fanno male le braccia? Ti fanno male le spalle? Ti levo le manette! – e così dicendo lo lasciò lì, su quel letto, e corse a recuperare le chiavi in camera sua, per tornare in un lampo, pochi secondi dopo, e liberarlo dalla sua prigionia.
Avere le braccia libere gli dava una strana sensazione, gli faceva uno strano effetto.
Sciolse le spalle e si massaggiò i polsi, ancora silenzioso, ancora incapace di pensare a quello che stava succedendo.
Suo fratello gli sfiorò lievemente il braccio e lui lo guardò in viso.
Dischiuse le labbra, sentì il bisogno di fare qualcosa, di ringraziarlo, forse, ma non ne trovò la forza, non ne trovò il coraggio.
La voce non usciva.
E Al lo guardò a lungo, mordendosi le labbra, in attesa di una risposta, di una rassicurazione, di una carezza, e quando capì che da quell’idiota di suo fratello non sarebbe arrivato niente di tutto questo, lentamente chinò il capo e si mise a piangere, e mentre Ed osservava e ascoltava quel pianto sommesso, d’improvviso capì.
Al era semplicemente un ragazzino. Semplicemente il suo fratellino minore.
E lui ne aveva fatto di tutto, ne aveva fatto un oggetto del desiderio, ne aveva fatto un infermiere, ne aveva fatto un lavoratore, un carnefice, Cristo, perfino un dio!, e lui non era niente di tutto questo.
Al era semplicemente un ragazzino.
E lui avrebbe dovuto prendersene cura.
E invece aveva preteso che Al fosse tutto quando si trattava di dare e poi diventasse niente quando si trattava di ricevere, fosse anche una banale spiegazione.
Senza rispondere mai a una domanda.
Senza dare mai un segno di riconoscenza.
O d’affetto.
Stancamente, sollevò una mano, cercando di accarezzarlo su una guancia.
Ma Al lo scacciò, alzandosi in piedi con uno scatto improvviso e risollevando gli occhi.
Lo guardò fiero, le guance rigate di lacrime e i lineamenti tesi, e strinse i pugni.
- Nii-san, sei uno stupido! – esplose infine, con voce rotta, - E io sono stufo! Sono stufo di preoccuparmi così per te, sono stufo di guardarti mentre continui a farti del male come se la mia presenza non contasse niente, sono stufo di vedere che ti prendi gioco di me come se lo stupido fossi io! Sei tu lo stupido, nii-san, sei tu lo stupido!
Interdetto, rimase a guardarlo.
Al si aspettava che lui dicesse qualcosa, almeno allora, sì, ma cosa? Doveva scusarsi? Doveva alzarsi e toccarlo? Doveva dirgli “sei stato uno splendido fratello, Al, ti sono davvero grato”, doveva fare questo? E quanto ridicolo sarebbe stato? E quanto inutile? E quanto falso?
È che ti amo, Al. Se c’è qualcosa per cui devo ringraziarti, è per avermi permesso di continuare ad amarti senza scacciarmi neanche una volta. Se c’è una cosa per cui devo ringraziarti, è per essere uno sciocchino che non ha ancora capito quanto e come questo tuo fratello ti ama, perché se l’avessi capito, se l’avessi capito io sarei già lontano, io sarei già solo, e probabilmente sarei già morto.
Non è per le cure, e non è per la dolcezza.
È per il sentimento d’amore inutile e incondizionato.
Per la gioia ottusa in cui ho vissuto fino a questo momento. Perché non credere che sia impossibile, Al, uno può rotolarsi per giorni nel suo stesso sangue e staccarsi la pelle a morsi ed essere allo stesso tempo così incredibilmente felice da avere voglia di piangere. Ed io lo ero, Al.
In fondo, davvero…
Io lo sono.

- Nii-san… non mi aspetto che tu mi dica qualcosa. – mormorò Al, quando ebbe ripreso il controllo del suo respiro, - Non adesso, almeno. Mi rendo conto che devi odiare questa vita che fai, che devi odiare me, perché altrimenti-
- Al-
- …altrimenti non faresti tutto quello che fai, perciò credo sia meglio che tu vada, nii-san.
…come?
- Al, aspetta… dove credi che voglia andare, scusa…?
- Non lo so, dove vuoi, dovunque potrai essere felice! Dove non avrai bisogno di farti tutto questo!
- Al, un secondo, adesso non drammatizziamo…
- Drammatizzare?! Drammatizzare, nii-san, ti sembra che io stia drammatizzando? Voglio dire, tu com’è che definisci il tuo comportamento?!
- Ok, lo so, hai ragione, ma io mi rendo conto-
- Non ti rendi conto di niente! Dio, non parlare come se capissi qualcosa, perché ti assicuro, ti assicuro!, non hai capito proprio niente di niente e non sai proprio niente di niente!
- Tesoro, ti assicuro-
- Non chiamarmi tesoro!!!
- Al! Adesso sta’ un po’ zitto e lasciami parlare, Cristo santo!
Suo fratello s’irrigidì tutto, spalancando gli occhi e stringendo le labbra.
- Scusa, Al. – mormorò Ed poco dopo, abbassando lo sguardo, - So che non è abbastanza semplicemente scusarsi, e so che ti meriti dei ringraziamenti, anche, e se non l’ho ancora fatto fino ad adesso devi capire che non è perché ti odiassi o chissà che altro, ma solo perché sono stato un egoista e uno stupido e non ho capito davvero cosa stavo combinando.
Alphonse lo guardò, smarrito, cercando di capire cosa suo fratello stesse cercando di dirgli.
- Cioè… nii-san, non capisco, ti sei pentito o… che altro…?
Al suono della parola “pentito”, Ed fece una smorfia.
- Non sono pentito, Al. Ho fatto tante cose di cui mi pento, nella mia vita, ma non sono pentito di aver dato sfogo così ai miei sentimenti. È stato sempre meglio questo, che perderti.
- …non capisco, nii-san, non capisco!
Edward si massaggiò le tempie, sospirando esausto.
- Senti, non è importante che tu capisca tutto quello che sto cercando di dirti-
- E’ importante, nii-san, è questa la cosa sulla quale ti sbagli! Ti sei sempre sbagliato, su questa cosa! Ci sono milioni di fatti… milioni di pensieri che tu non ritieni importanti, e ti ostini a non dirmi niente perché… non capisco più se è perché vuoi proteggermi o perché sei solo un idiota, ma in ogni caso non importa! La sostanza è che io non posso più vivere così, va bene? Non ce la faccio più! Chiamami egoista, chiamami vigliacco, quello che vuoi, ma va’ fuori da questa casa e lasciami in pace!
Lasciarti in pace…?
Tu vuoi che ti lasci in pace mentre il mio più grande desiderio sarebbe prendere queste manette e legarmi a te per sempre…?

Per molti minuti, Ed osservò suo fratello affaccendarsi affannato in giro per la stanza, con le lacrime agli occhi, mentre trascinava per il pavimento una valigia aperta che andava riempiendo con tutti i suoi vestiti e la sua biancheria.
E tutto quel movimento convulso e frenetico era sbagliato.
Era sbagliato più di tutto il resto.
Tra le milioni di cose che andavano al rovescio, nella sua vita e nella sua dannata testa, quella era la peggiore.
Dischiuse le labbra. Sospirò profondamente. Si armò di coraggio come dovesse affrontare un combattimento mortale.
- Ti amo. – disse in un sospiro, fissando gli occhi sul corpo improvvisamente immobile di suo fratello.
Al sollevò il capo da un cassetto, un paio di calzini ancora in mano, e lo guardò stupito.
- Cos’hai detto…?
- E’ questo, quello che non ti ho detto. Quello che non ritenevo importante tu capissi. Tutto qua.
Il ragazzo si rimise dritto in piedi, rimanendo fermo dov’era, come avesse paura che fare un solo passo potesse cambiare la realtà per com’era in quel momento.
- Tu… cosa intendi, con queste parole?
- …in che senso…?
- Perché… ho immaginato mille volte… - si interruppe, stringendo i pugni e abbassando lo sguardo, - Ho immaginato mille volte di dire io a te le stesse identiche parole… e sempre, ogni volta tu rispondevi “Anche io ti amo, Al, in fondo sei mio fratello”. E non è così… non è così che ho bisogno di te, nii-san.
…il mondo… se il dannato mondo aveva deciso di regalargli un ultimo sogno, prima di distruggere definitivamente ogni briciolo di razionalità e lucidità dentro di lui, e se quello era il sogno che gli era stato destinato in dono, poteva dirsi soddisfatto. Bella mossa. Davvero bella.
- Sei mio fratello, Al. – disse, sospirando pesantemente e abbandonandosi sulla spalliera del letto, - Ma neanche io ho bisogno di te in questo modo.
Al strinse i denti, socchiudendo gli occhi, che da lontano, a Ed, sembrarono brillare.
- Il mio “ti amo” ha lo stesso significato del tuo.
*

L’aveva osservato scoppiare a piangere disperatamente, coprendosi il viso con le mani e le braccia, crollare in ginocchio e poi gattonare verso il suo letto, arrampicarsi sul materasso e stendersi al suo fianco, stringendolo così forte che più volte si era sentito mancare il respiro. E ogni volta, ogni volta aveva pensato “che bella morte, che bella morte!”, con l’anima talmente in festa che gli sembrava di essere a un matrimonio, o a un battesimo, mentre in realtà quel momento non era altro che un funerale.
Il funerale di tutto quello che era stato fino ad allora, il funerale del modo in cui fino ad allora aveva amato Al, il funerale del modo in cui aveva pensato a lui, a sé stesso, alla loro relazione e a tutta la loro vita.
Un funerale gioioso.
Il suo sei aprile.
C’era questo poeta, un poeta italiano, Heide era un appassionato di tutte queste cose… gliel’aveva fatto conoscere lui. Si chiamava Petrarca. Quando era morta la sua donna, quest’uomo si era sentito perso e distrutto, e quella era stata anche la fine della sua vita, era stato un funerale anche per lui, in un certo senso. Ma poi aveva fatto in modo che nel suo canzoniere la data della morte della sua donna corrispondesse perfettamente con la data della nascita del figlio del dio in cui credeva, con la venuta di Cristo sulla terra. Ed era stato come rinascere.
Immaginava che quelle piccolezze potessero essere cose in grado di salvare un essere umano.
Come un’epifania, un’illuminazione, un piccolo miracolo.
…esattamente quello che era successo a lui, in fondo. Certo, non era stato salvato da una donna, né da Dio, ma era stato salvato dal suo fratellino e dall’assoluta devozione che provavano l’uno per l’altro.
Forse tutto questo non aveva lo stesso valore purificante della storia di quel poeta, ma… be’, qualunque valore avesse, era intenzionato a farselo bastare, e stavolta per davvero. Sinceramente. E completamente.
Ridacchiò, un po’ amaramente. Buffo che, pur sentendosi così felice, non avesse ancora trovato il coraggio di mettere un piede per terra.
Ma quando la stanza ripiombò nel silenzio, lui si accorse che vero silenzio non era. Perché qualcuno stava canticchiando. C’era una piccola voce melodiosa che si accompagnava come un campanellino al suono dell’acqua scrosciante sulla porcellana dei piatti.
Al faceva le pulizie. E canticchiava.
Ed fissò a lungo la porta della camera, mentre il cuore gli esplodeva nel petto.
Poi si liberò dalle coperte. Si mosse incerto verso la porta. Si sedette per terra, schiena contro legno, occhi chiusi, il sorriso più beato del mondo sulle labbra.
Ascoltò in silenzio, fino a quando non fu sazio, accompagnando la musica con lenti movimenti del capo, felice di essere lì, in quel momento, di esserci ancora, di esserci arrivato intero, e salvo.
E poi, sereno, si addormentò.
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