Genere: Introspettivo, Romantico, (kind of) Erotico.
Pairing: Freddo/Libanese, Freddo/OMC.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Angst, OC, Spoiler per il finale della s2.
- Per le strade di Rabat, il Freddo vede Libano ad ogni angolo di strada, negli occhi di sconosciuti senza nome che ne evocano lo spirito come in una magia ogni volta che si addormentano al suo fianco.
Note: Questa storia palesemente esiste perché la mia capacità di elaborare i lutti a livello di fandom è inesistente "XD In realtà anche a livello generale, ma queste sono cose che non interessano a nessuno. Mi è piaciuto giocare con l'atmosfera onirica del tutto, la continua ricerca di concretezza del Freddo in una storia che alla concretezza non offre il minimo appiglio già concettualmente, viste le premesse. *blatera* Ho riflettuto fino all'ultimo sull'opportunità o meno di postare questa storia che, in questo fandom, è perfino più folle di tutte le altre che ho già scritto e postato e che già di per sé erano folli abbastanza, ma almeno si giustificavano col P0rn Fest, mentre questa nemmeno quello XD Però alla fine ho deciso di sì, perché sì. Spiegazioni razionali, noi ce le abbiamo.
(Per il titolo si ringraziano la Tab e Patrick Swayze. *cough*)
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GHOST

Più o meno, il ragazzo deve avere l’età di Libano quand’è morto. Freddo ci sta sempre attento a non trovarseli troppo giovani, che poi nemmanco gli interessano i ragazzini, a lui. Ce ne sarebbero a mai finire lì per le strade di Rabat, gratis e a pagamento, e se li volesse potrebbe pure permetterseli senza battere ciglio, e non solo quelli pescati negli angoli dei viottoli accanto al mercato o nei dintorni delle moschee, ma anche quelli buoni, quelli cresciuti e istruiti per farti stare bene, per farti dimenticare perfino come ti chiami, tutti i tuoi nomi uno per uno, e Dio sa se non ne avrebbe bisogno, ora forse più di sei anni fa. Ma non li vuole, non gli interessa pagare per un corpo giovane e morbido in grado di muoversi nel modo giusto. Lui li vuole ruvidi, forti, con pesi enormi sulle spalle. Li vuole sporchi e confusi e con la testa altrove. Li vuole tristi o esaltati dalle droghe – e quindi, forse, perfino più tristi di chi è triste e basta – li vuole soli, soprattutto, disperatamente soli. Per fare in modo che non lo siano più, almeno per una sera.
Più o meno, gli assomiglia anche. Non tantissimo, in realtà, ha la pelle molto più scura, è più alto, il suo fisico è più asciutto – niente sugo della signora Maria, per lui, ora o prima o mai – ma ha lo stesso disordinato casco di boccoli che gli ingombra la testa e gli stessi occhi persi nel vuoto dell’ultima volta che ha parlato con lui. Le stesse occhiaie, profonde e stanche, lo stesso modo disordinato di ciondolare da un lato all’altro anche per dare pochi semplici passi. È così sfatto che viene voglia di offrirgli il braccio per aiutarlo a stare in piedi. Perché con il Libanese non ha sentito questo bisogno? Forse perché ha sempre creduto che, in un modo o nell’altro, se la sarebbe cavata anche da solo? Ed è perché lui, morendo, gli ha insegnato che invece, se ti lasciano da solo, continuando a barcollare alla fine cadi, che adesso sente il bisogno di aiutare un qualche perfetto sconosciuto anche se non gli interessa niente di vederlo restare in piedi?
Freddo apre la porta e lo invita ad entrare in casa. Il ragazzo – non sa nemmeno il suo nome – neanche lo guarda: entra, e pure di corsa, così di corsa che inciampa sul gradino e si fa un paio di passi saltellando, in bilico su un piede solo, prima di rovinare a terra con un tonfo secco. Geme e si fa piccolo piccolo sul pavimento, porta le ginocchia al petto e le stringe con le braccia, nascondendo il viso sotto la frangia di boccoli che gli spiove sulla fronte appena fa tanto di abbassare il capo. Freddo sospira, chiude la porta e gli si avvicina. Si inginocchia accanto a lui e gli passa le braccia attorno alle spalle, tirandolo su. Il ragazzo non oppone resistenza, d’altronde nessuno lo fa mai, è la prima forza e il più grande vantaggio del pagamento posticipato. Non tira fuori un soldo prima di averli presi, e loro – tutti loro – sanno che non vedranno contante finché lui non sarà venuto, perciò non si lamentano, non protestano, lo lasciano muoversi. Il ragazzo si fa aiutare, lascia che Freddo lo tiri su e cantilena qualcosa nella propria lingua. I suoi occhi sono distanti, semichiusi ed incredibilmente liquidi, annegati in un velo di lacrime che non verranno mai piante. Altre lacrime, sì, sicuramente altre lacrime saranno piante quando lui sarà uscito, quando sarà tornato a casa propria, sempre che una casa ce l’abbia, ma queste no. Queste gli si asciugheranno fra le ciglia e Freddo non avrà mai modo di vederle, come non ha mai avuto modo di vedere piangere il Libano quando gli ha detto che sarebbe andato via – un’ombra di lacrime c’era anche lì, chissà se dopo essere uscito da casa sua qualcuna è riuscita a rotolargli sulle guance e perderglisi sulle labbra o nella barba – così come anche Libano non ha mai potuto vedere le lacrime che lui ha versato al suo funerale. Non si piange. Mai. Si soffre in silenzio. Sempre.
Lui e il ragazzo non parlano. D’altronde, non avrebbe idea di come comunicare. Non conosce ancora la sua lingua, e d’altronde, anche se la conoscesse, dubita che lui riuscirebbe a sentirlo, oltre la pesante cappa di svagatezza che lo avvolge per intero. Lo conduce verso il letto e lui si abbandona fra le lenzuola che sanno di pulito, prima di schiena e poi rigirandosi sullo stomaco, affondando il viso nel cuscino morbido e stringendolo fra le mani per schiacciarselo con più forza sul naso. Mugola compiaciuto e Freddo sorride appena, arrampicandosi sul materasso alle sue spalle ed appoggiando le mani sui suoi fianchi magri e appuntiti.
Non si lascia sfuggire un fiato, invece, quando Freddo spinge la punta della propria erezione contro la sua apertura. Trattiene il respiro per una manciata di secondi e gli si arrossano violentemente le guance. Freddo ignora quell’avvampare improvviso, una pelle troppo liscia per illuderlo di avere fra le mani qualcun altro, e si concentra sul modo in cui le punte dei suoi capelli, umide di sudore per l’afa soffocante della notte marocchina, sfiorano la sua nuca abbronzata. Tira via il colore dall’immagine, cerca di concentrarsi come stesse guardando una vecchia fotografia in bianco e nero, e d’improvviso i toni diversi della grana delle loro pelli non lo disturba più. Nel grigiore generico che i suoi occhi fingono per lui c’è una macchia troppo scura per ricordare il bianco quasi abbagliante della pelle di Libano, ma va bene così. Va bene così anche perché quando gli si appannano gli occhi – e lui stesso non saprebbe dire se sia colpa dell’orgasmo o del peso enorme che gli si scioglie sul cuore ogni volta che ripete lo stesso rituale ogni sera – non vede più niente. I gemiti, anche se la voce non è la stessa, gli bastano. Ed è perfino meglio che non siano ansiti di piacere, perché Libano, lui no, non sarebbe mai venuto gemendo come una ragazzina. E quindi, che il ragazzo sconosciuto ringhi e sospiri invece di mugolare compiaciuto va benissimo.
Si allontana da lui che ancora il ragazzo trema, le dita serrate attorno al cuscino con tanta forza da avergli sbiancato le nocche. Lo lascia sul letto e va in bagno. Si appoggia al lavandino e si guarda allo specchio, a lungo. Si cerca e non si trova. Il suo riflesso gli restituisce l’immagine di un uomo che dimostra molti più anni di quelli che può dire di portare sulle spalle. Tutto in lui è invecchiato, soprattutto gli occhi. Più opachi di un tempo, perfino più spenti. Se Robertina lo vedesse adesso, probabilmente gli chiederebbe dove siano finiti tutti i sogni che li riempivano, e lui le risponderebbe che sono morti da un pezzo, ma non saprebbe dirle quando, di preciso. Forse quando ha ucciso Sergio, forse quando ha posato gli occhi addosso a Donatella e ha deciso di concedersela, forse una notte lontana di tremila anni fa, una notte che pioveva e il mondo sembrava un posto orrendo in cui vivere, tutto, Brasile compreso.
Inspira ed espira, si sciacqua il viso, torna in camera da letto. Il ragazzo è crollato a pancia in giù con la faccia affondata nel cuscino. Respira regolarmente. Dorme. Freddo gli si avvicina, lo copre con un lenzuolo e poi si stende al suo fianco, abbastanza distante da non sfiorarlo nemmeno per sbaglio. Sente il sudore asciugarglisi addosso, come l’odore del sesso, l’odore di una pelle sconosciuta, speziata ed esotica, e chiude gli occhi solo per un attimo, illudendosi che quando li avrà riaperti sarà tutto esattamente come prima.
E invece Libano è sdraiato oltre il corpo del ragazzo addormentato, la schiena appoggiata alla parete, una gamba sollevata, l’altra distesa. Lo copre sono il lenzuolo. Sorride, comunque, anche se il suo è un sorriso distante. Tenero, ma come sbiadito. Può quasi guardargli attraverso, poi aguzza la vista e l’effetto si dissolve. Libano è più concreto che mai, e fa paura, perché non è reale.
- Nun tre trovo tanto bene, Fre’. – gli dice dolcemente. È più sereno di quanto Freddo non l’abbia mai visto, e si domanda se sia davvero così, se il suo spirito sia davvero in pace, o se piuttosto sia lui che vuole crederlo fortemente, e perciò se lo dipinge in questo modo.
- Nun me la passo tanto bene, per ora. – gli risponde, cercando di sorridere allo stesso modo, come per rassicurarlo. Probabilmente non gli riesce bene, però. – Te che stai a fa’ qua? Nun era comodo ‘ndo stavi prima?
Libano si stringe nelle spalle, guardando per un attimo la notte fuori dalla finestra.
- Che te devo di’, a me le cose troppo tranquille nun è che me piacciono tanto. – risponde, - Ce n’è ‘n sacco de tranquillità, ‘ndo sto mo’. È utile, da ‘n lato, te fa vede’ meglio certe robe. Dall’altro è ‘na rottura de cojoni. Fre’, accetta ‘n consiglio da ‘n buon amico, cerca de nun mori’ mai. – ride, e ride anche il Freddo, ma piano, per non svegliare il ragazzo. Ha l’impressione che, se lui aprisse gli occhi, l’incantesimo si spezzerebbe, e Libano volerebbe via. È un’impressione che ha avuto sempre con ogni ragazzo. Per questo, con ognuno di loro, è stato molto silenzioso.
- So’ felice che me sei venuto a trova’. – dice, sistemandosi meglio contro la parete per restare seduto, - Perché nun veni più vicino? – gli chiede, battendo un paio di pacche sulla minuscola porzione di materasso che separa il suo corpo da quello che dorme al suo fianco. Libano sorride, scuotendo il capo.
- Nun c’è spazio. – risponde.
- Se fa’, ‘o spazio. – ribatte lui, scostandosi appena.
- Nun è abbastanza. – sorride ancora Libano, - E te mo’ dovresti anna’ a dormi’.
Freddo sputa fuori un no affaticato, gravido di dolore, che gli si stende addosso come un vestito fradicio e appesantito dall’acqua. Allunga un braccio, ma lo fa con troppa violenza. Si sposta, urta il ragazzo addormentato, lui si sveglia e Libano scompare prima che Freddo possa riuscire a toccarlo. Non saprà mai se c’era davvero. Questo lo disturba in modi che non riesce neanche a spiegarsi, perché a rigor di logica dovrebbe esserne felice. Cosa avrebbe fatto se le sue dita, sfiorandogli il braccio, si fossero appoggiate su qualcosa di concreto? Pelle tiepida, ruvida, conosciuta? Come avrebbe reagito nel ritrovarsi davanti addosso il proprio mondo capovolto e sparpagliato in giro come in una camera disordinata? Se Libano fosse tornato dalla morte, se la forza della sua disperazione fosse stata tale da permettergli di sentirlo… cosa avrebbe pensato? Sarebbe riuscito a pensare qualcosa? O forse gli sarebbe esploso il cuore. Un battito dopo l’altro dopo l’altro e un altro ancora e poi più niente. Percepire il Libanese sotto le dita gli avrebbe aperto il cuore in due? O forse no?
Il ragazzo lo guarda solo un attimo, poi si gira dall’altra parte e si riaddormenta. I suoi occhi sono appannati e confusi, Freddo non è neanche sicuro che sappia dove si trova, o perché. Può capirlo bene, perché ogni tanto il dubbio sorge anche in lui.
Si rigira su un fianco, incassa la testa fra le spalle e si impone di dormire. Non ci riesce, ma per lo meno l’aria resta spenta e muta per tutto il resto della notte, e lui può fingere di non sentire gli occhi di Libano puntati contro la nuca, e ignorarli.
*
Il ragazzo di stasera è più giovane degli altri. Naturalmente non è un ragazzino, perché un ragazzino non avrebbe senso, ma è probabilmente il più giovane che si sia mai portato in casa. Più o meno, deve avere la stessa età che aveva Libano quando s’è infilato nel suo garage, la pistola spianata e i lineamenti del viso tesi dal nervosismo. Lo rivede con una facilità impressionante se solo prova a chiudere gli occhi, e infatti lo fa.
Il ragazzo lo spinge contro la parete ed appoggia le labbra sul suo collo. È molto più sveglio di altri, molto più attivo, molto più vivo. Freddo china il capo e gli lascia spazio, se lo stringe addosso ed affonda la mano fra i suoi ricci, percorrendoli in una carezza estasiata dalla radice alla punta e poi scivolando lungo il profilo ruvido del suo viso. Ha la barba piuttosto lunga, gli ricopre gli zigomi, le guance, il mento. Sorride nell’accarezzarlo piano, mentre il ragazzo gli si struscia addosso con urgenza. È incredibilmente silenzioso, e Freddo può sovrapporre la traccia della propria immaginazione a quella decisamente più fisica del suo tocco.
Nella sua mente, Libano entra nel suo garage come nella realtà, ma è solo. Ed è solo anche lui. E Freddo non perde tempo a cercare di spiegarsi perché avrebbero dovuto esserlo, così come non perde tempo a cercare di trovare una spiegazione logica quando lo immagina avvicinarsi, schiacciarlo contro lo sportello chiuso e impolverato della Mini e baciarlo con forza, infilandogli le mani sotto il maglione esattamente come il ragazzo le infila adesso sotto la camicia ampia e già sbottonata che indossa. Non servono spiegazioni, l’invenzione è più sicura. La bugia è confortevole. La verità è molto più aspra, appuntita, dolorosa. Freddo c’è passato in mezzo troppe volte per non saperlo. È coperto di cicatrici anche per questo.
Stringe fra le braccia la sua illusione per tutto il tempo che gli viene concesso – il tempo in cui i fianchi magri del ragazzo ondeggiano spingendosi contro i suoi, il tempo in cui la sua erezione si tende e si gonfia fra le sue dita, il tempo che ci mette l’orgasmo a montare nel suo bassoventre come l’onda anomala di un maremoto prima di esplodergli dentro – e quando gli crolla addosso gli rimane in mano solo realtà. Fianchi spigolosi, disgustosamente sconosciuti, il tessuto ruvido di un paio di jeans sdruciti, una vecchia maglietta bianca arrotolata fino a sotto le ascelle, la sua schiena flessuosa imperlata di sudore, i ricci scompigliati lungo il collo che spiovono ai lati del viso. Il ragazzo sorride, soddisfatto, ansimando un po’. Freddo si allontana da lui e si stende fra le lenzuola scombinate che sanno di troppi profumi troppo diversi per poterne identificare uno solo. Domattina le cambierà. Quando comincia a non identificare più gli odori, vuol dire che hanno già visto passare troppi ragazzi.
Il ragazzo si sistema fra le coperte e sprimaccia il cuscino prima di appoggiarvi sopra il capo. Continuando a sorridere, gli dice qualcosa. Non in arabo, però. In inglese. Freddo ne mastica un po’ – molto poco, in realtà – ma il suo accento è tanto forte che non ci capisce niente comunque. Gli fa un cenno che può significare tutto e niente, fiducioso che il ragazzo lo tradurrà nella cosa che vuole sentirsi dire in quel momento, e infatti così è. Il suo sorriso si allarga appena, mostrando una chiostra di denti bianchissimi, e i suoi occhi brillano allegri per un istante prima di chiudersi. Freddo ascolta il suo respiro, aspetta di sentirlo scivolare nella regolarità pigra del sonno, e quando questo accade percepisce un respiro diverso sovrapporsi al suo, e sorride, schiudendo gli occhi e voltando il capo.
- Nun te stanchi mai de viaggia’? – gli chiede. Libano si solleva sui gomiti, lanciandogli un’occhiata stranita. Indossa gli stessi vestiti del ragazzo che giace addormentato fra loro.
- Che vor di’ viaggia’? – domanda curiosamente, guardandolo fisso.
- Fa’ avanti e indietro da ‘ndo stai a qua. – risponde Freddo, reggendo lo sguardo e sorridendo un po’, - Tutti i giorni.
Libano ride appena, tirandosi su sulle braccia e mettendosi seduto. Il suo corpo, sprofondando nel materasso, non produce suoni, ne alcun altro effetto sul mondo che sembra stare toccando ma che, in realtà, è il primo a non riuscire a toccare lui.
- Chi te dice che sto da ‘n’artra parte, tanto pe’ comincia’? – gli chiede il Libanese, e Freddo si ferma a rifletterci per qualche secondo.
- Vuoi di’ che stai sempre qua? – domanda titubante. Libano ride ancora.
- Forse. – risponde enigmatico, - O forse voglio di’ che pe’ tutto er resto der tempo nun ce sto. Né qui né là. Qualunque posto sia là.
Freddo sospira, chiudendo gli occhi e gettando indietro il capo lentamente. Cerca di rilassare i muscoli ancora in tensione e si lascia avvolgere dal profumo di Libano mentre lo sente muoversi tutto attorno a sé. È l’unica cosa di lui che sia percepibile fisicamente, perché il suo corpo non fa rumore. Anche il suono del suo respiro sembra scomparso, ora assieme al proprio può sentirne solo un altro, ed è quello del ragazzo addormentato, sebbene il ritmo non sia quello del sonno. È buffo, si dice, ma a tratti sembra che il Libanese usi il ragazzo per respirare, perché il suo fantasma non può.
Quando riapre gli occhi, Libano è in piedi accanto al letto, dal suo lato. Lo guarda in silenzio, e Freddo ricambia.
- Perché vieni qui? – gli chiede a bassa voce. Libano piega le labbra in un sorriso vagamente tenero.
- E m’o chiedi proprio te? – risponde, chinandosi appena. Freddo trattiene il fiato, nel vederlo avvicinarsi. Poi chiude gli occhi. Quando li riapre, lui è sparito. Il ragazzo, al suo fianco, mugola a bassa voce e poi si sveglia. Gli chiede qualcosa, fa un discorso abbastanza lungo, ma la sua voce è ancora impastata e Freddo capisce solo le parole sorry e water.
- Seh. – gli risponde, alzandosi dal letto e dirigendosi in cucina. Sollevandosi sui gomiti come Libano ha fatto non più di cinque minuti fa, il ragazzo lo guarda interrogativo, senza capire, ma sorride dolcemente quando lo vede tornare indietro con un bicchiere pieno d’acqua fresca in mano. Freddo pensa solo che vuole restare solo, per avere la certezza che Libano non tornerà a fargli visita, stanotte. Se non c’è nessun altro nella stanza con lui, si dice, Libano non può respirare. A meno di rubare il suo, di respiro. Ma non è sicuro che questo possa verificarsi, in realtà non è sicuro di niente, l’unica cosa che sa è che vuole quel ragazzo fuori di lì al più presto.
Non arriva neanche a chiedergli di andarsene, comunque. Dieci minuti dopo, il ragazzo si mette in piedi, si risistema sommariamente, ringrazia per la bella serata e si dilegua.
*
Guardando distrattamente l’uomo che si dimena e scivola avanti e indietro sotto di lui, Freddo pensa che Libano avrebbe più o meno la sua età, se fosse ancora vivo. È un uomo più maturo degli altri, in genere non ne porta a casa di così vecchi, l’idea di potersi confondere più del solito lo terrorizza, anche se ne ha incontrati parecchi che avrebbero potuto fare al caso suo, se gli fossero interessati. Forse sono i suoi occhi che ormai trovano somiglianze perfino dove non ce ne sono. Lo tradiscono, come fanno ogni volta che uno dei suoi ospiti passeggeri s’addormenta, e loro gli mostrano le immagini di un uomo che non c’è più come fosse ancora in vita.
Freddo geme, affondando profondamente dentro al suo corpo e stringendolo per i fianchi ammorbiditi dall’età ma ancora piuttosto spigolosi. Guarda i capelli che gli si sono appiccicati al collo e per il resto giacciono in onde scomposte, sparsi sul cuscino bianco, e sente montare nel bassoventre un calore amico e familiare, che non è solo il calore dell’orgasmo che sta per esplodergli in corpo, è qualcosa di diverso, qualcosa di più antico, qualcosa di disperatamente simile a una sensazione che, quand’era a Roma, provava continuamente, che Libano fosse accanto a lui o meno.
Roma sapeva del Libanese in ogni luogo. Ogni strada, ogni palazzo, ogni piazza parlava di lui. A Freddo bastava uscire dal garage e fare una passeggiata per sentire lo stomaco fare le capriole, per sentirlo scaldarsi e tornare al suo posto più leggero.
C’è ancora un’ombra di quell’emozione ogni volta che viene fra le cosce di uno sconosciuto. Farebbe di tutto per riuscire a ritrovarla per intero, per riuscire a sentirsi anche solo per un attimo esattamente come si sentiva ogni volta in cui metteva piede da Franco e Libano era lì, seduto al solito tavolino, le carte da gioco già in mano, e gli diceva “oggi hai dormito fino a tardi, eh?”. Ma la completezza di quella sensazione è persa per sempre, Freddo ne ha sepolto una parte consistente quando Libano è morto. Ne resta solo una traccia sbiadita, ed è per riavere quel poco che Freddo fa ciò che fa, ogni notte. Visto che è tutto ciò che può sperare di conquistare, è tutto ciò per cui vale la pena di lottare.
Freddo crolla al suo fianco subito dopo essere venuto. Si sente stanco, vuoto e assonnato. Quasi rintontito, come se il mondo fosse improvvisamente diventato un luogo ostile, inospitale. Si sente come se ci fosse qualcosa, dentro di lui, che sta cercando di spingerlo fuori dai confini del proprio stesso corpo. Si sente traspirare attraverso la propria pelle, e pensa confusamente che dev’essere più o meno così, quando muori, solo più doloroso. Lui, invece, dolore non ne prova. Solo un vago senso di abbandono e nostalgia.
Piano piano, lentamente, il suo cuore riprende a battere ad un ritmo più normale. L’uomo accanto a lui si sta concedendo un po’ di riposo. Il suo respiro è lento, ma sta solo sonnecchiando. Freddo apre un occhio solo e sbircia intorno a sé. Il Libanese è lì, ovviamente, sdraiato a pochi centimetri da lui, sudato e ansante, il capo rovesciato all’indietro, i ricci umidi, gli occhi chiusi, le labbra semiaperte e gonfie di baci. Non l’ha mai visto così, e questo basta a stringergli lo stomaco in una morsa di desiderio che, se potesse, conserverebbe per sempre.
La sua immagine è sbiadita, come se ci fosse un’interferenza da qualche parte, qualcosa che gli impedisca di mostrarsi in modo più nitido. Freddo capisce che è così perché l’uomo non sta dormendo profondamente, ma solo riposando gli occhi. Vede i loro petti alzarsi ed abbassarsi allo stesso identico ritmo. Quello del Libanese ogni tanto scompare, e a Freddo viene da ridere. Solo che non ci riesce. Non trova il riflesso, non trova lo stimolo. Vorrebbe allungare una mano e lasciargliela passare attraverso per convincersi una volta per tutte che lui non c’è, è solo un’immagine con la quale il suo cervello si diverte a tormentarlo, ma non trova la forza si sollevare il braccio.
Pochi minuti dopo, senza mai essersi veramente addormentato, l’uomo spalanca gli occhi, si alza, si riveste e se ne va. Libano sparisce ben prima che sia sparito lui, oltre la porta. Nell’accomodarsi meno casualmente fra le lenzuola, mentre si lascia scivolare nel sonno, Freddo si rende conto improvvisamente che c’è una cosa che non è mai cambiata, sera dopo sera. Erano diversi i ragazzi, più o meno somiglianti, più o meno giovani, più o meno disponibili, ma una cosa restava sempre uguale.
L’immagine del Libanese nella sua testa non si è mai modificata di un dettaglio.
*
Non sa quanto tempo sia passato, quando sente la sua voce chiamarlo. Non tanto, comunque, visto che il nodo all’altezza dello stomaco è ancora lì, e ancora caldo, così come il desiderio che gli infiamma i lombi, schiacciato contro il materasso come fosse in punizione. Schiude gli occhi con addosso la netta impressione di stare sognando, e un po’ per questo e un po’ perché ormai ci ha fatto l’abitudine non lo stupisce trovare Libano sdraiato a pancia in giù sul letto accanto a lui. Neanche si rende conto della stranezza di poterlo vedere senza il tramite di nessun ospite sconosciuto addormentato al suo fianco. È normale trovarlo lì, e questo già da solo dovrebbe essere assurdo, perché quando era vivo non sarebbe stato normale affatto. Eppure ora lo è, e nel sollevargli gli occhi addosso Freddo si concede perfino un mezzo sorriso tenero, alzando un braccio e sfiorandogli una guancia con due dita.
Toccarlo. Quello sì è inaspettato. Sentire il tepore della sua pelle con le nocche, sfiorare i suoi capelli con la punta dei polpastrelli, quello è incredibile, è assurdo, è bellissimo. Freddo ritrae la mano e lo fa con terrore, schiudendo le labbra senza trovare la forza di dire niente.
- Che te pija? – gli chiede Libano, inarcando le sopracciglia.
- Te sei morto. – dice Freddo. Libano inclina il capo, continuando a guardarlo.
- Dimme ‘na cosa che nun so. – ribatte. Freddo ringhia infastidito, mettendosi a sedere di scatto. Libano rimane sdraiato e lo guarda dal basso, apparentemente a proprio agio.
- Sei morto. – ripete Freddo, - Nun ce potresti sta’ qua.
Lentamente, Libano si solleva e si mette seduto a propria volta, le gambe incrociate, le braccia abbandonate in grembo, le spalle un po’ curve. È chinato verso di lui abbastanza che potrebbe sfiorarlo col proprio respiro, se ne avesse uno. Ma il suo petto non si muove, non ci sono sbuffi d’aria tiepida che s’infrangono contro le labbra di Freddo, nonostante lo spazio che li separa sia quasi nullo. Gli si stringe lo stomaco nel rendersene conto. Libano fa per dirgli qualcosa, ma Freddo solleva un braccio ed appoggia le dita sulle sue labbra. Sono calde e un po’ umide. Sono morbide, soprattutto. Con la gola ingombra di un peso talmente enorme che potrebbe essere il suo cuore che si arrampica per venire fuori dal suo petto prima che si faccia troppo piccolo e lo schiacci, Freddo prova a deglutire, e ci riesce solo a fatica.
- Perché nun respiri? – gli chiede, la voce ridotta a un rantolo.
- Perché so’ morto. – risponde lui, le labbra che sfiorano le sue dita ad ogni parola.
- Ma sei caldo, te posso tocca’. – ribatte Freddo, - Perché l’unica cosa che te manca è er respiro?
- Perché so’ morto, Fre’. – ripete Libano, sollevando una mano e stringendo le sue dita fra le proprie, allontanandosele dalla bocca. – Er calore de ‘n corpo, er sapore che c’ha, l’odore, so’ tutte cose che te poi ricorda’ pe’ anni e anni. Ma er respiro quanno è finito è finito. E te nun c’eri quanno è finito er respiro mio.
Freddo geme ancora, il dolore che gli riempie il corpo sembra traboccare. Lo sente invadere vene e capillari, gonfiarsi, diventa più grande di lui e lo avvolge. Non ha mai provato niente di simile, non si è mai sentito così impotente. Non conosce un modo per scacciare questa sofferenza, e non ha un posto dove scappare, perché se l’ha inseguito in Marocco l’avrebbe inseguito anche in Brasile, e ci sarebbe stata anche se fosse rimasto a Roma. Il pensiero di dover convivere con una cosa simile lo terrorizza, lo sfianca, lo devasta.
- Er sapore tuo… - sussurra, lo sguardo basso, le dita immobili fra quelle di Libano, - Io nun me lo posso ricorda’. Nun l’ho mai assaggiato.
Libano sorride appena, sollevandosi sulle ginocchia e sporgendosi verso di lui.
- Inventatelo. – soffia sulle sue labbra, un attimo prima di coprirle con le proprie.
Per un secondo, Freddo ha l’impressione di essere stato baciato dal vento.
Poi chiude gli occhi, e qualcosa la sente. Nascosta in fondo, in fondo dentro il suo corpo, c’è qualcosa che germoglia e si fa grande in pochissimo tempo mentre le labbra del Libanese assumono una consistenza più fisica, aprendosi e chiudendosi sulle sue finché lui non si decide a schiudere le proprie, concedendo alla sua lingua il libero accesso che, accarezzandolo piano, stava chiedendo già da un po’.
Il sapore del Libano è più dolce di quanto non avrebbe mai pensato. È quasi inaspettato, ed è divertente sapere di averlo creato per lui. È strano ed è meraviglioso sapere di aver inventato da sé qualcosa di così sorprendente, di così simile a qualcun altro. Il sapore del Libano è dolce ma è forte, invasivo, prevaricatorio, come lui. S’insinua sopra e sotto la sua lingua, gli confonde i sensi. Freddo ringrazia di avere gli occhi chiusi, perché sente la stanza girargli intorno. Non vuole aprirli. Li terrà così.
Appoggia le mani sulle sue spalle, ne sente i muscoli contrarsi e stendersi quando, stendendosi sul materasso, trascina Libano con sé, e lui è costretto a puntare le mani ai lati del suo corpo per non rovinargli addosso. Freddo sorride fra le sue labbra perché se è un fantasma, quello che lo sta baciando, non dovrebbe avere nessun problema a restargli addosso senza schiacciarlo, a fluttuare a due centimetri dal suo corpo. Eppure Libano si tiene su con le mani, eppure la sua pelle è calda, eppure il suo cuore batte – perfino il suo cuore batte!, quando può averlo sentito? La memoria corre indietro, indietro, indietro, è notte e gli fa male il braccio, gli hanno sparato?, è sdraiato sull’asfalto, riesce a malapena a tenere gli occhi aperti, Libano lo chiama due, tre, quattro volte, lui gli risponde, “vie’ co’ me” gli dice Libano, si fa passare un braccio attorno alle spalle, lo aiuta a tirarsi su, eccolo lì il battito del suo cuore, thump thump thump, Freddo ha la testa appoggiata contro il suo petto per tutto il tempo, thump thump thump – il suo cuore batte e la sua voce ha un suono e i suoi baci sono carezze e le sue mani gli scorrono addosso ma lui non respira, il suo respiro non c’è, e quando Freddo prova a dargliene uno tutto quello che sente è il rumore lontano di migliaia, milioni di gocce di pioggia che s’infrangono sull’asfalto, sulle macchine, sulle persone, sull’ombrello del Dandi e sul suo corpo morto abbandonato per terra, e quello è un suono che non vuole sentire, perciò stringe i denti e schiude le gambe, distraendosi con l’esplosione improvvisa di calore che lo avvolge bruciando il dolore quando i loro bacini si scontrano l’uno contro l’altro.
Getta indietro il capo e s’inarca sotto il suo corpo, stranamente consapevole di ciò che lo aspetta, malgrado non si sia mai trovato in questa situazione con nessuno dei numerosi ragazzi che s’è portato a casa nel corso degli anni. Lo sente premere contro la propria apertura e si meraviglia nel rendersi conto di non provare alcun dolore. Sorride, spingendosi contro di lui e gemendo con forza.
- Che te ridi? – gli sussurra addosso Libano, e la sua voce è allegra, divertita.
- È perfetto. – risponde lui, senza fiato, - Ce lo sapevo io.
- Sapevi che? – chiede ancora Libano, spingendosi in profondità dentro al suo corpo e strappandogli dalle labbra un gemito così gonfio di piacere da sembrare quasi liquido. – Quante vorte t’o sei immaginato?
- Tante. – ansima Freddo, allacciandolo al collo e baciandolo piano, - Troppe.
Libano lo stringe fra le braccia, continuando a muoversi avanti e indietro dentro di lui, Freddo incrocia le gambe dietro la sua schiena e cerca di tenerlo contro di sé il più possibile, quasi aspettandosi di sentirselo svanire da sotto le dita da un momento all’altro. Ma lui non scompare, il segnale è chiaro è preciso, non c’è nessuna interferenza, stavolta, è lì come non è mai stato lì prima e come non riuscirà mai più ad esserlo dopo, probabilmente. Freddo strizza le palpebre e visualizza la sua immagine nel buio confuso e allo stesso tempo desolatamente vuoto della sua mente, la fissa a lungo, finché è sicuro di averla ormai impressa indelebilmente nella retina, e poi apre gli occhi.
Viene guardandolo, e Libano sorride venendo a propria volta dentro di lui. È l’unico momento in cui Freddo riesce quasi a credere che sia lì per davvero.
Si rilassa contro il cuscino, sentendo tutta la foga che l’ha tenuto sveglio e teso fino a quel momento scivolare lentamente via dal suo corpo, lasciandolo vuoto come se si fosse sgonfiato all’improvviso. Si sente pesante, stanchissimo, assonnato. Non ha la forza di schiudere le palpebre, ma sa che Libano è ancora lì.
- Quanno aprirò l’occhi, - chiede con rassegnazione, - domani mattina, dico, te nun ce sarai più, vero?
Libano sbuffa una mezza risata. Freddo si sente accarezzare i capelli, ma stavolta è davvero come sentire il vento scuoterli.
- Ce lo sai già. – risponde. Freddo annuisce, ma nell’attimo in cui comincia a scuotere la testa sa già che non c’è più nessuno a guardarlo.
Si azzarda ad aprire gli occhi. La stanza è più vuota del solito. Chiude gli occhi immediatamente, perché quello che vede non gli piace. Non sa come farà a farselo piacere in futuro. Ci proverà, però. E se non dovesse riuscirci, farà quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio, e tornerà a Roma. Per restarci.
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