Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno (accenni di Freddo/Roberta).
Rating: PG-13
AVVISI: Gen, (accenni di) Violence, spoiler fino alla 1x11.
- In seguito ai problemi col nipote del Puma, il Libanese chiede a Freddo di portargli i registri della sua zona per controllare che sia tutto in ordine. Nonostante la manzanza di fiducia che questo rappresenta, Freddo obbedisce. Ma quando arriva trova qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.
Note: La mia gioia nel postare questa fic (si fa per dire, visto che io non sono mai felice di postare niente... diciamo, la mia gioia nell'aver scritto questa fic) sta tutta nel fatto che pur parlando di Freddo e Libano e della loro relazione non è una slash <3 Eppure loro riescono ad essere belli comunque ;__; Cioè, non sto dicendo che sia bella la storia, dico che loro sono belli sia in una relazione di quel tipo che in una relazione che invece col sesso non ha niente a che fare XD E mi andava di provare a raccontarla. :3
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DEVOTION
take me to safety

Non riesce a muoversi. Non saprebbe dire se sia paura o solo stanchezza, forse è un misto delle due cose. Se è stanchezza, però, non è per la fatica che ha fatto nell’ultima mezz’ora, per i colpi che ha inferto con quel posacenere alle teste di entrambi i fratelli Bordini. E se ha paura non è dei cadaveri che sono rimasti per terra di fronte al bar, o del sangue che gocciola fuori dai loro crani spaccati sul pavimento, o di quello che gli è schizzato addosso, o di quell’altro che gli macchia le mani. No, la sua stanchezza e la sua paura sono mostri molto più vecchi, non hanno la sua età ma quasi, c’erano quando ha cominciato a pippare, cerano quando girava attorno al tavolo da biliardo nella stanza sul retro da Franco e parlava ad un mucchio di spiantati di quanto sarebbe stato bello pigliarsi Roma e pigliarsela adesso, prima che se la pigliasse qualcun altro, e c’erano quando s’è infilato nel Garage del Freddo, quando è andato dal Terribile a comprare tutte quelle armi e probabilmente anche prima, fin da quel giorno, quando ha portato Sara sui colli con la macchina del Terribile e poi è successo quello che è successo, forse è stato in quel momento, col braccio aperto in due e le lacrime appiccicose sulla faccia e il pianto addolorato e pieno di vergogna di Sara persa qualche metro più in là – non sarebbe più riuscito a guardarla negli occhi per anni, dopo quella volta – in quel momento, su quel prato, in mezzo al suo sangue che si allargava in una chiazza cupa sotto di lui, per la prima volta ha avuto paura, e drenato dal dolore e dalle lacrime s’è sentito stanco.
Inizialmente aveva pensato che potesse bastare una doccia e un po’ di sonno per scacciare la stanchezza. E che bastasse diventare l’uomo più temuto di Roma per scacciare la paura. Per un po’, qualche anno, aveva quasi funzionato. Ma è adesso che prova ad alzarsi dalla fottuta poltrona in cui è sprofondato da ormai più di due ore, e non ci riesce, che capisce di aver vissuto un’illusione. La paura e la stanchezza sono ancora lì. Lo sono sempre state e lo saranno sempre, perché il mostro che gli fa paura ha una faccia tanto identica alla propria che è come guardarsi allo specchio – la faccia del mostro è insanguinata esattamente come la sua in questo momento – e il mostro che lo sfianca si muove sulle sue gambe, pensa con la sua testa, uccide con le sue mani. Libano si guarda le dita e sono sporche anche loro. Le porta al viso e si sente soffocare. Schiude gli occhi sul buio della stanza e prega che qualcuno, una persona qualsiasi, apra la porta e lo veda, gli parli, gli dica qualcosa, una cosa qualsiasi. Lo aiuti.
E quando la porta si apre davvero – anche se Libano non sa quanto tempo sia passato da quando ha lanciato quell’implorazione disperata nell’eco vuoto della sua testa confusa – non lo stupisce vedere che ad aprirla è stato Freddo.
Lo osserva avanzare nella stanza con aria circospetta, chiudendosi la porta alle spalle senza voltarsi indietro. Porta una borsa con sé, ha l’aria pesante. Libano non riesce neanche a chiedergli che cosa ci sia dentro. In realtà non riesce proprio a dire niente, o a pensare a qualcosa da dire, per quello che varrebbe – molto poco, visto che è come se la lingua gli fosse diventata di pietra, tanto sembra pesante e immobile.
- Ma che cazzo è successo qua? – chiede Freddo, aggrottando le sopracciglia e avvicinandoglisi per guardarlo più da vicino, - Aò, - dice con preoccupazione evidente, spalancando gli occhi quando nota il sangue, - che sei ferito? Chi è stato? Che è successo?
- Niente. – risponde lui, in un sussurro appena udibile. Freddo gli lancia un’occhiata incerta, rimettendosi dritto.
- Chi è stato? – chiede, indicando le sue mani e il suo viso in un gesto vago. Libano deglutisce.
- Io. – risponde.
Freddo lo fissa senza capire per qualche secondo, e poi nei suoi occhi si fa strada la consapevolezza di ciò che le sue parole significano, e quando lo vede voltarsi e correre nell’altra stanza Libano ha la chiara percezione di averlo scelto in previsione di questo momento. Anni e anni prima, quando erano entrambi niente di più che ragazzini con cuori troppo grandi e cervelli troppo pieni, la prima volta che l’ha guardato negli occhi Libano ha visto uno spicchio di futuro, e in questo spicchio di futuro c’era lui che aveva bisogno del Freddo in un momento proprio identico a questo qui.
- Libano, che cazzo hai fatto? – chiede Freddo, tornando davanti a lui. Nei suoi occhi c’è sconcerto e c’è paura, ma soprattutto c’è calma e c’è razionalità. Libano si mette in piedi, barcolla un po’ e gli si aggrappa quando sente di stare per cadere. Freddo lo sorregge, poi lo costringe a guardarlo negli occhi e, quando finalmente ci riesce, non ha bisogno di sentire alcuna risposta da lui. – Resta qua. – gli dice, rimettendolo a sedere, - Ce penso io.
Libano annuisce, e quando lo vede sparire ancora oltre la porta che conduce nell’altra stanza tira su le gambe e cerca di sdraiarsi sulla poltrona il più comodamente possibile. Finisce rannicchiato su un fianco con la testa incastrata nell’angolo formato dal bracciolo e dallo schienale, le gambe raggomitolate sotto il corpo e le braccia strette attorno al busto. S’è sporcato tutti i vestiti, ma non gli importa. Freddo esce dalla stanza tutto sporco anche lui, si mette a cercare qualcosa negli scaffali di fronte a lui aprendo cassetti e stipetti alla rinfusa e si placa soltanto quando riesce a scovare due coperte di lana pesante e scura.
- Fre’… - lo chiama piano, e Freddo si mette in piedi e si volta a guardarlo, le coperte strette fra le braccia. – Io me metto un po’ giù. – gli dice, socchiudendo gli occhi. Freddo annuisce lentamente, e non dice una parola. Libano si lascia scivolare nel sonno e non sa quante ore siano passate quando sente di nuovo la voce del Freddo che lo chiama pianissimo, scuotendolo appena.
- Libano, - gli sussurra, - avanti, svegliati, mo’. Te devi da’ ‘na ripulita.
Libano apre gli occhi, sente dolore ovunque. Non ha cambiato posizione neanche una volta da quando si è addormentato. Freddo è sporco di sangue e di terra, odora di sangue e di terra, e del gelo e del buio della notte. Odora di prati lontani sotto i colli dove nessuno va mai a guardare, odora di quanto sono più luminose le stelle in campagna, perché non ci sono luci artificiali e tutto ciò che puoi vedere è tutto ciò che i tuoi occhi riescono a mostrarti, cioè molto poco. Freddo odora di posti in cui ci si può muovere senza essere riconosciuti. Posti lontani, posti che non sembrano nemmeno Roma. Per un secondo, Libano si pente di non averlo accompagnato. Non perché avrebbe voluto dargli una mano, quanto più per illudersi per una mezz’ora di potere ancora camminare sereno sotto la luce della luna senza dover vivere nel terrore di vedersi spuntare davanti al viso l’occhio nero e senza fondo di una pistola puntata nel mezzo della fronte.
- ‘Ndo sei stato? – gli chiede, e la voce gli esce dalla gola roca e affaticata.
- Meglio che nun lo sai. – risponde Freddo, aiutandolo a mettersi in piedi, - Anzi, è meglio se pe’ quarche giorno nun te fai proprio vede’ pe’ niente.
- I Bordini… - prova a dire, ma Freddo lo zittisce con un gesto spiccio.
- Nun ce pensa’ ai Bordini. – dice piano, guardando altrove mentre lo accompagna fuori dalla bisca e fino in macchina, - Nun so’ più un problema.
Libano annuisce, si siede al posto del passeggero e appoggia la fronte contro il finestrino ghiacciato. La macchina parte pochi secondi dopo, la strada comincia a sfilare veloce sotto i suoi occhi e Libano si lascia ipnotizzare dal susseguirsi continuo delle linee bianche sull’asfalto. Alcune sono più lunghe, altre più corte, altre sono rovinate. L’effetto che hanno tutte quelle imperfezioni è che correndo così veloci quei segni diventano trattini e punti, suoni lunghi e suoni brevi, come quelli del telegrafo. Il Libanese non conosce l’alfabeto Morse, ma anche senza sapere come interpretare tutti quei segni gli sembra comunque di poter parlare con la strada, o almeno che lei stia tentando di comunicargli qualcosa. È quasi deluso quando, una mezz’ora dopo, la macchina si ferma, a due passi dal cancello di casa sua.
Freddo esce fuori prima di lui, gira attorno all’automobile e gli apre lo sportello. Libano, ancora appoggiato al finestrino, riesce a tirarsi indietro appena in tempo per non sentirsi venire a mancare il sostegno. Freddo lo aiuta a venire fuori e mettersi dritto, e quando vede in che condizioni è – dopo aver passato minuti interi a farsi rimbambire dalle voci della strada e da quelle più cattive nella sua testa – lo aiuta anche ad attraversare la strada e il selciato, fin dentro la villa.
- Che devo fa’ mo’? – gli chiede a mezza voce mentre sono ancora sulla porta. Freddo lo spinge dentro con delicatezza, entra a propria volta e, quando allunga una mano per accendere la luce, Libano lo ferma. – No. – dice, - No, voglio sta’ tranquillo per un po’.
Nel buio, Freddo inarca un sopracciglio.
- Volevo solo fa’ ‘n po’ de luce. – spiega.
Nel buio, Libano annuisce.
- Ce lo so. – risponde, - Lascia sta’. Dimmi che devo fa’, Freddo.
Freddo sospira ancora. Lo conduce verso il salotto, si guarda intorno e individua il corridoio.
- Spogliate. – gli dice, - Te preparo un bagno.
Libano resta immobile nel mezzo della stanza osservandolo allontanarsi, e quando è lì lì per sparire lo ferma un’altra volta.
- Nun intendevo proprio mo’, Fre’. – gli dice, - Intendevo dopo. Domani mattina, io che faccio?
Freddo si volta a guardarlo, gli occhi pesanti di stanchezza eppure ancora lucidi.
- Nun ce pensa’ a domani, Libano. – dice, quasi esasperato, - ‘Na cosa per volta. Intanto spogliate e datte ‘na lavata.
Libano aspetta di sentire l’acqua cominciare a scorrere in bagno, e poi calcia via le scarpe. Sfila la cintura dai passanti e la lascia cadere a terra. Sbottona i pantaloni e lascia cadere a terra anche loro. Se li toglie come quando era piccolo, pestandone gli orli per tenerli ancorati al pavimento mentre lui ne tira fuori le gambe una dopo l’altra. Sua madre lo rimproverava sempre, diceva che gli si rovinavano. Che già ne aveva pochi e per comprargliene un altro paio avrebbe dovuto fare i salti mortali. “Stacci attento alla roba tua, Pietro”, gli diceva sempre. Ma Libano non ci stava attento mai.
Mentre sfila la camicia sporca di sangue e la lascia cadere a terra nel mucchietto formato dai pantaloni e dalle scarpe, Libano pensa che sua madre forse pensa di odiarlo perché è un criminale, perché finirà ammazzato giovane, perché non è onesto, ma in realtà non è così. Sua madre lo odia perché lui non ha mai avuto cura dei suoi vestiti. E questo ha sempre voluto dire solo una cosa, e cioè che lui non l’ha mai rispettata. Ha sempre pensato di doverla proteggere, di doverla ricoprire d’oro, di farla diventare la donna più invidiata di Roma, ma non è stato mai capace di rispettarla per ciò che era. E ormai non riesce nemmeno più a capire se volesse farla vivere da regina perché l’amava o semplicemente perché non si dicesse in giro che la mamma del Libanese era una poveraccia sola, triste e arrabbiata con tutti.
Si toglie di dosso la canottiera, i calzini e le mutande. Quando attraversa il corridoio, vede che la luce in bagno è accesa.
- Spegnila. – dice a Freddo. Il rumore dell’acqua si interrompe, e Freddo per qualche secondo nemmeno respira.
- Te c’ho già visto nudo, Libano, nun me pare er caso de—
- Nun è perché so’ nudo. – dice lui, - Spegnila e basta. – insiste. Freddo sospira un’altra volta, ma si alza ed obbedisce. Solo quando la casa è piombata nuovamente nel buio e nel silenzio, Libano riprende a camminare. Quasi va a sbattere addosso al Freddo che lo aspetta sulla soglia per accompagnarlo. – Ce lo so ‘ndo sta la vasca. – dice, quasi offeso.
- E statte ‘n po’ zitto. – sbotta lui, afferrandolo per un braccio e conducendolo nella giusta direzione.
È dura mettersi a mollo nel buio più totale, è dura anche solo sollevare una gamba e infilarsi nella vasca, visto quanto si sente pesante, ma l’abbraccio dell’acqua calda è così piacevole che una volta superata la parte difficile Libano non sente più nemmeno la fatica. Si lascia andare seduto e si appoggia con la schiena alla parete liscia dietro le proprie spalle, restando immobile a respirare nel silenzio umido e saturo di vapore del bagno.
- Pulisciti. – gli dice Freddo, - Io te aspetto de là. – Libano non si muove. Neanche accenna a recuperare spugna e bagnoschiuma. – Libano? – lo chiama Freddo, e quando non ottiene risposta sospira ancora e si piega in ginocchio accanto alla vasca, tirando su le maniche del maglione fino ai gomiti e recuperando il necessario per lavarlo lui.
- Scusa, sai. – dice Libano, lasciandosi maneggiare come un neonato. Freddo gli passa la spugna gonfia d’acqua sulle braccia, sulle spalle, sul petto e sul viso.
- Perché te devo lava’? – chiede Freddo in una mezza risata. Libano si concede un sorriso.
- Anche. – risponde, tornando a rilassarsi contro la parete della vasca.
Non ci può restare molto, comunque, e di questo si dispiace.
- Avanti, Libano, vieni con me. – gli dice Freddo, la voce contratta nello sforzo di tirarlo su. Sono parole che Libano ha già sentito, ma allora è stata la sua voce a pronunciarla. Freddo gli sta ricambiando il favore o sta semplicemente facendo qualcosa di bello per lui? Libano non lo sa, e non lo saprà mai perché ha paura di chiederglielo. Questo, come le altre mille cose che non gli ha mai chiesto per il terrore di sentirsi rispondere qualcosa che non avrebbe gradito. Perché ti sei messo in batteria con me? Perché sei rimasto, anche mentre prendevo decisioni che non ti andavano giù? Perché sei ancora qui, nonostante siano già andati tutti via da un pezzo? Perché, anche se sei ancora qui, a volte mi sembra che tu non ci sia più?
- Io nun posso anna’ da nessuna parte. – gli dice, mentre lui recupera un asciugamano e glielo fa passare attorno alle spalle, aspetta di vedere se si muove e, quando vede che resta immobile, comincia ad asciugarlo. – Me dici de nun farmi vede’ pe’ quarche giorno, ma io ‘ndo vado, Fre’? Nun ce l’ho mica ‘n posto ‘ndo anna’.
- Nun ce pensa’ mo’. – dice Freddo, finendo di asciugargli il viso ed osservandolo divertito mentre arriccia il naso e sbuffa come un bambino. – ‘Nnamo, va’. L’unico posto ‘ndo puoi anna’ mo’ è er letto. Te fai ‘na bella dormita, poi domani se vede.
- Nun c’ho sonno. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia, ma si lascia condurre verso la propria camera, al piano di sopra. – Fre’, nun c’ho voglia de anna’ a dormi’.
- E ‘nvece mo’ ce vai, Libano. – scatta Freddo, interrompendo le sue lagne e voltandosi a guardarlo quando sono ormai a pochi centimetri dal letto, - Ora me fai er favore de smetterla ‘na buona volta de fare la testa de cazzo, e te fai consiglia’ da uno che te vole bene.
Libano aggrotta le sopracciglia, arrabbiato.
- Che saresti te? – chiede dubbioso.
- Che so’ io, sì. – ritorce lui. Lo spintona verso il letto, osservandolo cadere sul materasso e poi rannicchiarsi sotto le lenzuola con aria stanca e un po’ persa, mugolando ogni tanto di dolore come fosse appena tornato a casa dopo un pestaggio. Libano si accorge appena di Freddo che abbandona la stanza, è troppo preso a cercare di capire perché senta male ovunque, in ogni parte del corpo, come se davvero l’avessero preso a cazzotti quando così non è. Nessuno l’ha colpito, nelle ultime ore, ed in generale anche le numerose volte in cui qualcuno l’ha fatto il dolore che lui ha provato non è mai stato così devastante, così incredibilmente svilente come quello che prova adesso, che sembra schiacciarlo contro il letto come se la gravità avesse improvvisamente raddoppiato o triplicato la forza con cui insiste su tutta la superficie del suo corpo.
- Fre’, sto ‘no schifo. – geme, gli occhi chiusi ed entrambe le mani sugli occhi. Quando sente qualcosa di duro e spigoloso franargli sullo stomaco, sputa fuori l’aria in un gesto talmente improvviso che ha paura gli possa esplodere il petto, e strabuzza gli occhi, allarmato, solo per posare lo sguardo sul registro della zona del Freddo. Si tira a sedere con uno sforzo sovrumano, sentendo tendini e legamenti stirarsi fin quasi al limite della sopportazione, quasi scricchiolare per quanto si sono consumati, e per la prima volta detesta che la coca lo renda così incredibilmente sensibile e consapevole del suo corpo. È una sensazione che, tutte le altre volte che l’ha provata, l’ha riempito di potere, di forza. Ora fa solo male.
Scivola con due dita sulla copertina ruvida del quaderno rigido, e poi si volta a guardare Freddo, una domanda inespressa negli occhi.
- Controlla. – dice Freddo, indicando il quaderno con un cenno del mento, - È tutto in regola.
Libano torna a guardare la copertina blu scuro. La accarezza ancora, come fosse un animale domestico.
- Me l’hai portato. – dice con aria un po’ svagata. Freddo di stringe nelle spalle.
- Lo volevi. – risponde, come fosse ovvio che, siccome lui gliel’aveva chiesto, nonostante fosse una palese mancanza di rispetto nei suoi confronti, a lui toccava ingoiare il boccone amaro e portarglielo, a capo chino.
- Hai pensato de nun portarmelo? Anche ‘na vorta sola. – insiste Libano, la voce sempre più sottile, quasi lontana.
- Sì. – risponde prontamente Freddo, - Più di una. Ma ho deciso de fa’ le cose per bene, oggi. Perciò so’ ito da Roberta e c’ho parlato. E quanno ho risorto co’ lei, me mancava solo de risolve’ co’ te.
Libano si volta a guardarlo, i suoi occhi sono enormi, scurissimi, quasi neri.
- Stai di nuovo co’ Robertina? – gli chiede in un soffio. Freddo annuisce, e Libano si lascia sfuggire un sorriso minuscolo. – Me fa piacere. – dice, - Nun eri felice senza.
Freddo solleva un angolo della bocca, improvvisando un mezzo sorriso stanco in risposta a quello ugualmente provato del Libanese. Si siede sulla sponda del letto, le braccia abbandonate in grembo, ed accenna nuovamente al registro con un’alzata di spalle.
- Nun lo controlli?
Libano sorride un’altra volta, con più convinzione.
- Me fido. – annuisce, poggiando entrambe le mani aperte sulla copertina, come a volersi assicurare che il quaderno resti chiuso.
- Nun sembrava, tre ore fa. – gli ricorda Freddo, incrociando mollemente le braccia sul petto.
Libano annuisce ancora, in una mezza ammissione di colpa.
- Nun me so’ comportato bene. – concede.
- So’ mesi, ormai, che nun te comporti bene. – gli fa notare Freddo, e Libano torna a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Mo’ nun t’allarga’. – protesta burbero in uno sbuffo offeso, e Freddo si mette a ridere.
- Senti, - dice, mentre Libano mette via il registro e si distende sotto le coperte, lasciandosi un po’ cullare da quel suono che sembra quasi resuscitare tutta la casa, - mo’ nun ce sta’ a pensa’. Ce so’ ‘n po’ de cose che nun funzionano più, Libano, nun me va’ de pijatte ‘n giro pe’ fatte sta’ tranquillo. Ma nun ha senso metterci a pensacce mo’. Fatte ‘na dormita. Domattina passo e—
- Che, vai via mo’? – chiede allarmato Libano, aprendogli di scatto gli occhi addosso. Freddo gli ricambia l’occhiata con un identico senso di allarme, stringendosi nelle spalle.
- Ho lasciato Roberta sola a casa mia. – dice a mo’ di scusa. Libano inarca le sopracciglia quasi impercettibilmente, e nel suo viso tutto cambia. È incredibile come un gesto così minuscolo possa stravolgere la sua espressione fino a questo punto. – Vabbe’. – dice Freddo, arrendendosi ed alzandosi in piedi solo per spostarsi di un paio di metri e mettersi a sedere sulla poltrona a pochi passi di distanza, - Famo che resto pe’ stanotte. Robertina la chiamo domani.
Libano si concede un mezzo sorriso. Fra le pieghe delle sue labbra distese in quella smorfia tranquilla, Freddo legge un po’ di soddisfazione, e piega l’angolo della bocca in risposta. Solo quello, però. È meglio che non s’allarghi troppo nemmeno il Libanese, che s’è già allargato a sufficienza per questa e pure per l’altra vita, se esiste.
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