Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Spoiler per tutta la s1 e i primi due episodi della s2.
- "Che nun le voi ‘e porpette?"
Note: Niente, in realtà non ho proprio niente da dire, su questa storia, a parte il fatto che l'ho plottata e cominciata mentre ero lontana da casa, seduta su un letto non mio, e che quando l'ho cominciata accanto a me c'era la Tab, e che per questo motivo ho cercato di finirla in tempo per il suo compleanno, così da potergliela regalare. Lo so che non è un granché, più che altro è molto randomica, e poi - oh, mio Dio! - non è nemmeno slash, in realtà non è proprio un bel niente, ma mi sembrava un pensiero con un certo senso. Credo. Poi boh. XD Auguri, principessa.
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IN COMODATO D’USO

La macchina la riconosce subito, e non potrebbe essere altrimenti. Ricorda perfettamente quando ci ha messo le mani sopra la prima volta, quanto il ragazzino che la guidava gli sembrasse ridicolo e triste. Ricorda di aver guardato la vettura e di essersi chiaramente soffermato sul pensiero della sua evidente inutilità: chiunque altro, nella sua situazione, avrebbe tirato al Sorcio uno scapaccione in mezzo alla fronte e l’avrebbe rimandato a casa con la coda fra le gambe, ma a lui in qualche modo aveva fatto pietà. Sapeva dove sarebbero finiti i soldi di quella vendita: una siringa, una dose, un breve viaggio in paradiso prima di tornare sulla terra troppo velocemente per potersi fermare e poter evitare l’impatto. Uno schianto di quelli belli forti.
Ma Freddo quei soldi glieli aveva dati, nonostante Fierolocchio l’avesse preso da parte apposta per chiedergli se si fosse ammattito del tutto. “È uno scassone, Fre’,” gli aveva detto Fiero, guardandolo stupito, “nun ce li vale mica li sordi che je stai dando.” Ma Freddo sapeva che non era per la macchina che stava pagando. Non era quello lo scassone per il quale stava tirando fuori i soldi, no. Era per il Sorcio. Scassone uguale, neanche maggiorenne e già da rottamare. Ma ancora vivo. Meritava una possibilità, e magari con quei soldi invece di una pera ci si sarebbe comprato un bel caffè per svegliarsi e un paio di vestiti nuovi con cui presentarsi ad un colloquio di lavoro.
Il Sorcio poi coi suoi soldi ci si era fatto una pera, Freddo lo sapeva. Non la prima forse, ma una delle prime di tante. Una delle prime di troppe. Una delle prime di quelle che, una dopo l’altra, avrebbero lastricato la sua strada fino a portarlo dritto dritto fra le braccia di Scialoja, a sputtanare tutti quanti per paura, delusione e rabbia. Ma questo, ancora, in questo momento, Freddo non lo sa. In quel momento, tutto ciò che vede è la Mini di Libano, distrutta e sul fondo di un burrone.
È stato da Dandi, stamattina, e c’è andato apposta per chiedergli se fosse riuscito a recuperarla. “Sì,” gli ha detto lui, “quello stronzo de Priuetti padre ha fatto ‘n po’ de storie, ma ha mollato l’osso appena gli ho fatto ‘n po’ de paura.”
“E ‘ndo sta mo’ la Mini?” gli ha chiesto lui, e Dandi l’ha guardato con tanto d’occhi.
“Perché lo voi sape’?” ha domandato, inarcando un sopracciglio. Freddo s’è stretto nelle spalle.
“L’ho pagata,” ha risposto, “è mia.”
Dandi ci ha messo un po’ a fare mente locale, ma quando è riuscito s’è messo a ridere di gusto.
“E vor di’ che te devo ‘n centone, Fre’. La macchina nun ce sta più.”
Ed eccola lì, infatti, che non ci sta più. Freddo sa che, una decina di anni fa, quando il Terribile l’ha comprata, quella macchina doveva essere bella un sacco. All’ultima moda, compatta, elegante. Quando lui l’ha comprata dal Sorcio, era già vecchia e mezza scassata, ma adesso, semplicemente, non è più niente. Di ciò che era non resta che un mucchio di lamiere contorte e annerite dal fuoco ormai spento che le ha avvolte per ore in seguito alla caduta nel burrone.
Si avvicina circospetto: il fuoco e il calore si sono ormai estinti, ma la puzza di pelle e plastica bruciate è ancora forte nell’aria. Si sentiva già prima che lo scheletro bruciacchiato della vettura si mostrasse ai suoi occhi, smettendo di giocare a nascondino fra i radi cespugli che spuntano a ciuffi fra i sassi ricoperti di polvere e terriccio giallastro, ed è molto più intensa adesso che il cadavere della Mini è così vicino.
Freddo vorrebbe accarezzare ciò che resta della carrozzeria carbonizzata, ma non riesce – vede ancora troppo chiaramente un se stesso molto più giovane e spensierato allungare una mano e saggiare in punta di dita le imperfezioni della vernice scura sulle portiere e sui fianchi della macchina – perciò si limita ad accucciarsi accanto alla carcassa e scrutarla da vicino, ed è allora che lo vede.
Non ne resta molto – la fodera interna è andata, per esempio – ma qualcosa c’è ancora. Un pezzetto di una manica, brandelli del bavero, la zip quasi del tutto annerita. È la giacca di pelle del Libano. È assurdo che sia qui, ma c’è. E non è neanche una delle ultime che aveva comprato prima di morire, no, è quella che aveva addosso quando s’è introdotto nel suo garage a ferri spianati per riprendersi le armi che aveva comprato dal Terribile, è quella che aveva su durante il rapimento del barone Rosellini, ed è anche quella che indossava quella notte, la notte in cui il Freddo s’è presentato a casa sua per ridargli la macchina e l’ha trovato sulla porta, pronto a uscire, con sua madre alla spalle che urlava “ma ‘ndo vai? Che nun le voi ‘e porpette?”
*
- Che nun le voi ‘e porpette? – strilla la signora Maria, affacciandosi in corridoio dalla cucina. Ha i capelli scarmigliati ed il grembiule sporco di sugo, ma è una bella donna, dal volto giovanile, e queste imperfezioni, così come le piccole rughe che ridisegnano senza pietà il contorno del suoi occhi e della sua bocca, non fanno che renderla più interessante. È incredibile quanto somigli al Libanese. – Va’ che so’ bone, eh.
Libano ha una mano sullo stipite della porta e l’altra stretta a pugno attorno alla maniglia, e lo guarda. La sua espressione è così infantilmente stupita da fare quasi ridere.
- Che ce stai a fa’ qua? – chiede con un filo di voce. Freddo non fa in tempo a rispondergli, perché la signora lo nota e, asciugandosi le mani sul grembiule, esce in corridoio, guardandolo fisso.
- È ‘n amico tuo, Pie’? – domanda. Libano deglutisce, incapace di staccargli gli occhi di dosso, come non riuscisse a capacitarsi della sua presenza.
- Sì. – risponde alla fine, annuendo lentamente.
- Che resta a cena? – insiste la signora Maria, e Libano sembra riscuotersi dal proprio torpore tutto all’improvviso.
- Che? – scatta, la voce resa stridula dalla sorpresa e dall’agitazione, - No!
- E invece sì. – stabilisce perentoria la donna, allungandosi ad afferrare il figlio per un braccio sia per trattenerlo in casa che per scostarlo dall’uscio. – Vie’ dentro, - sorride, rivolgendosi al Freddo con aria divertita, - nun me capita spesso de incontra’ l’amici di Pietro. Com’è che ve siete conosciuti?
- Lavoriamo insieme, ma’. – cerca di tagliare corto Libano, roteando gli occhi, annoiato. – E ‘nfatti mo’ ce lasci anna’.
- Seh, lavorare, te? E quando mai? – ride amaramente la signora, spingendoli entrambi verso la cucina, - Assaggiate qualcosa, prima, che è già pronto in tavola. Com’è che te chiami, te?
- Fabrizio. – risponde immediatamente lui, teso come non gli è mai capitato di essere, neanche durante un interrogatorio. Ed ha solo dovuto dirle il proprio nome.
- Fabrizio. – annuisce lei, indicandogli la sedia ed invitandolo a prendere posto. Freddo lancia un’occhiata a Libano e lui la ricambia con sincero sconcerto, ma si stringe nelle spalle e poi, con l’aria di uno che non sa cos’altro fare, si siede. Freddo decide di imitarlo, accomodandosi a propria volta. – E te che fai nella vita? – chiede la signora Maria, servendo le polpette. Freddo si schiarisce la voce, imbarazzato, e Libano si passa una mano sul viso, evidentemente terrorizzato.
- Palazzinaro. – inventa. Libano lo guarda e Freddo gli legge negli occhi che vorrebbe scoppiare a ridere, ma fortunatamente non lo fa.
- Ah. – annuisce la signora Maria, servendogli un’abbondante mestolata di polpette al sugo, che si trasforma immediatamente in due mestolate di polpette al sugo, motivate probabilmente dal compiacimento che prova nel sentire che il figlio ha anche amici che lavorano, oltre ai tre scapestrati coi quali si ostina ad andare in giro di notte, - E senti, nun me lo poi trova’ ‘n lavoro pure a mi’ fijo? – domanda con una mezza risata, passando a riempire il piatto di Libano.
- T’ho detto che ce lavoramo già insieme! – insiste lui, visibilmente accigliato. La signora Maria sospira ancora, sollevando gli occhi al cielo in un’implorazione silenziosa.
- Pie’, te il lavoro nun sai manco ‘ndo sta de casa. – conclude, scuotendo solennemente il capo. Il Libanese posa la forchetta sul tavolo in un gesto secco e rumoroso. Mentre la porcellana del piatto contro il quale ha sbattuto ancora tintinna, scampanellando come le campane la domenica, lui si alza. Freddo non ha ancora toccato le sue polpette.
- ‘Nnamo, va’. – dice burbero, ignorando le proteste di sua madre e dirigendosi speditamente verso la porta. Non si guarda mai indietro, dà per scontato che Freddo lo stia seguendo, e in effetti, dopo essersi alzato a propria volta in piedi ed essersi scusato sommariamente con sua madre, Freddo lo segue.
- Nun lo sapevo mica che stavi ancora co’ tu madre. – dice dopo un po’. Stanno scendendo lungo la tromba delle scale, sono ormai arrivati al primo piano. Libano non aspetta di essere al piano terra per girarsi ed inchiodarlo contro la parete lì dove si trova, un braccio a schiacciargli il collo e l’altro a bloccare il suo quando, nel tentativo di difendersi, corre ad afferrare la pistola incastrata fra la schiena e i pantaloni.
- E allora come cazzo facevi a sape’ ‘ndo stavo? – chiede in un ringhio furioso, premendosi contro di lui per impedirgli di reagire e liberarsi dalla sua stretta, - Che cazzo de intenzioni hai, Soleri?
- T’ho detto… - ansima Freddo, cercando di scalciarlo lontano senza riuscirci, - T’ho detto che Soleri me ce chiamano solo ‘e guardie.
- E fra poco ‘n te ce chiamerà più nessuno si nun me dici che cazzo sei venuto a fa’ ‘n casa de mi’ madre. – insiste Libano, facendo scivolare una mano attorno alla sua vita e recuperando la sua pistola, prima di puntargliela dritta sullo stomaco, da sotto la maglietta. Nel sentire il metallo ghiacciato della canna contro il ventre, Freddo si riscuote all’improvviso, e con un colpo di reni più potente degli altri riesce a spingere lontano da sé il Libanese, aggrappandosi al corrimano per non cascare giù per terra mentre, indebolito dalla prolungata mancanza di ossigeno, cerca di riprendere fiato, ed osservandolo mentre anche lui recupera l’equilibrio, puntandogli sempre addosso la pistola.
- Calmati. – gli dice, - Nun so’ qui pe’ fa’ der male a tu’ madre. E quanto all’indirizzo tuo, l’ho trovato da me. C’avevo da parlatte.
Libano aggrotta le sopracciglia, scrutandolo incerto.
- E dimme. – lo invita con una scrollata di spalle.
- Metti via er fero. – ribatte Freddo con un mezzo sorriso, - E poi vie’ fori, che più che ditte ‘na cosa te la devo da’.
Il Libanese non sembra molto convinto dalle sue parole, ma mette via la pistola – naturalmente senza restituirgliela – e scende a piano terra, per poi uscire sul piazzale pieno di macchine parcheggiate proprio davanti casa. Fra le tante, c’è anche la sua.
- Nun te l’eri riportata al garage? – chiede, un mezzo sorriso ancora un po’ spaesato che nasce sulle labbra. Freddo scrolla le spalle, osservandolo mentre si avvicina alla vettura e ne accarezza le linee morbide con la stessa dolcezza con cui, suppone, accarezzerebbe i fianchi di una ragazza.
- Ho pensato che era meglio se la tenevi te. – risponde, avvicinandoglisi un passo dopo l’altro.
- E perché? – chiede ancora Libano, - L’hai pagata, no?
- Me puoi rida’ li sordi. – butta lì lui, e Libano si mette a ridere di gusto.
- Manco morto. – risponde, battendogli una pacca sulla spalla. – Tie’, te ridò er fero. – concede, sfilandosi la pistola dalla cintura e passandogliela, - È tutto quello che avrai da me.
Freddo sbuffa, recuperando l’arma e nascondendola immediatamente sotto la giacca.
- Famo che t’a lascio in comodato d’uso. – propone, incrociando le braccia sul petto. Libano gli lancia un’occhiata incerta.
- Sarebbe a di’?
- Sarebbe a di’ – spiega Freddo, sorridendo appena, - che mo’ nun me la ripaghi, ma io te la lascio lo stesso. Però te, quanno nun la usi più, m’a rendi.
La perplessità sul volto del Libanese si fa perfino più profonda, mentre lui soppesa le sue parole.
- E che ce guadagni te? – domanda, - Quanno smetterò de usalla sarà ‘no scassone.
Freddo sorride ironico, inclinando appena il capo.
- E perché, mo’ che te pensi che è? – lo prende in giro, e Libano scoppia a ridere, tirandogli una spallata che quasi lo manda a sbattere contro il cofano. – E piano, che si me l’ammacchi poi so io che ce perdo!
- Sì, sì, ce perdi, ce perdi… - ride ancora il Libanese, scuotendo il capo ed asciugandosi gli occhi, - ‘Nnamo, che te porto a pija’ ‘na birra, su ‘sto comodato d’uso. – lo invita, aprendo la portiera e prendendo posto al volante.
A Freddo non ci vogliono più che un paio di secondi per imitarlo.
*
Gli ci vuole molto più tempo per smettere di piangere. È la prima volta che piange da anni, e le due gocce che ha versato di fronte alla tomba del Libanese mentre lo seppellivano, naturalmente, non contano. Non erano niente. Questo sì che è pianto. Tanto forte che gli fa male il petto, la gola, perfino tutti i lineamenti del viso, contratti nello sforzo da minuti interi. Piegato su se stesso accanto alla carcassa fumante della mini, incapace di allungare una mano fra le lamiere per recuperare la giacca del Libanese – o almeno ciò che ne resta – piange per una quantità di tempo infinita. Gli sembra di veder tramontare il sole e vederlo poi di nuovo sorgere, anche se sa che è impossibile.
Quando si rimette in piedi, probabilmente non è passata più di mezz’ora. Ma non importa. Alla fine, è solo tempo. Lui la macchina non la riavrà più indietro. E qualcuno pagherà per questo.
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