Fandom: RP: Calcio
Personaggi:
Genere: Introspettivo.
Pairing: Dejan/OMC.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash, OMC.
- Questa non è una storia d'amore, o forse sì. E' la storia di una scintilla, di un colpo di fulmine, della prima volta che Ilija ha toccato una palla e ha deciso cosa fare di tutto il resto della propria vita. Non è una storia d'amore. O forse sì.
Note: *si imbarazza in modi prepotenti* Salve è///é Dunque, questa fic, innanzitutto, è un regalo. Un regalo di quelli senza motivo, o meglio, di quelli senza occasione specifica. Un regalo per Def, semplicemente perché c'è. XD Si tratta infatti di una storiella che ho scritto a partire da un suo personaggio originale, Ilija, che potete trovare qui, mentre si shippa amorevolmente con Deki alla lettera I. In questa shot però io non parlo granché del suo rapporto con Deki - cioè, sì, anche, ma non è quello il punto - perché è di Ilija che mi sono innamorata, principalmente, ed è la sua storia che ho provato a raccontare.
Scritta nell'ambito del B.I.Bi.T.A @ maridichallenge.
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FLYING AT THE SPEED OF SOUND

Ilija riceve il suo primo pallone da calcio ad un anno. Non è il primo pallone da calcio che tocca, naturalmente. Il primo pallone da calcio che ha toccato è stato quello di suo padre, e lui non doveva avere più di otto, nove mesi. Suo padre l’ha preso in braccio, l’ha portato verso la bacheca in legno e vetro in fondo al salotto, ha aperto una delle ante finemente decorate e gli ha sussurrato “lo vedi questo pallone? Questo l’hanno toccato i piedi di Miha”. Ilija non aveva la minima idea di chi fosse Miha, o di cosa suo padre gli stesse sussurrando, con gli occhi brillanti e i fitti baffi scuri a coprire tutto il labbro superiore e, quando teneva la bocca chiusa, anche la quasi totalità del labbro inferiore, ma la forma del pallone, quella sì, era intrigante, interessante, piacevole, addirittura, e lui ha allungato un braccio, ha teso le dita della mano e l’ha sfiorato, e forse la scintilla era già lì, anche se lui non può saperlo, non l’ha mai saputo e non lo saprà mai, perché di questo episodio non conserva memoria. Suo padre sì, suo padre ne ha conservato memoria, ma è morto prima di poterglielo raccontare quando anche Ilija avrebbe potuto conservarlo dentro di sé, e perciò il momento è andato perduto, perduto per sempre.
La scintilla, però, no.
*
Il primo pallone tutto suo, però, sì, arriva quando compie un anno. Non a caso, è suo padre a regalarglielo. Dall’episodio che ha posto le basi per ciò che Ilija diventerà fra poco più di venticinque anni non sono passati che pochi mesi, ma la mente dei bambini si distrae facilmente, dimentica facilmente, e così, quando posa gli occhi sulla sfera bianca e nera che suo padre gli fa carambolare fra le braccia mentre stanno seduti sul tappeto colorato della sua cameretta, è come se la vedesse per la prima volta. È come innamorarsi di nuovo, da capo. Qualcosa gli esplode negli occhi, e suo padre la vede. Suo padre la vede e sorride.
Non gli dice niente, però, non vuole che questo diventi uno di quei momenti sacrali, uno di quelli che poi i giornalisti si sentono sempre in dovere di tirare in ballo come fossero chissà che segni di divina premonizione quando poi i giocatori diventano famosi davvero – ha sempre pensato in grande, Dragan, quando s’è trattato di suo figlio, era certo che non sarebbe diventato soltanto un professionista del gioco del calcio, ma un calciatore, di quelli veri, di quelli che di calcio vivono, respirano e si nutrono – no, Dragan non vuole che nessuno pensi che sia merito suo, se il suo piccolino diventerà una stella, non vuole che lo pensi neanche Ilija. Ciò che vuole è solo presentargli la palla. L’amore farà il resto.
E così, in effetti, è.
*
Due giorni prima che Ilija compia cinque anni, Dragan gli compra una maglietta dell’Inter. Ufficiale, naturalmente. E di Stanković, altrettanto naturalmente.
L’anno è il duemilanove, la stagione sembra quella giusta – non sarà giusta abbastanza, l’anno dopo andrà meglio, ma Dragan non sarà lì per vederlo – ma in realtà non importa, Dragan non tifa per l’Inter, tifa per la Stella Rossa, ma Stanković è una questione a parte, Stanković è Stanković, e Dragan vuole che suo figlio abbia la sua maglietta, per il suo quinto compleanno. Vuole che la indossi, quando giocherà a pallone per strada coi suoi amichetti la sera stessa in cui avrà spento le candeline, mangiato la torta e scartato i regali. Vuole che continui ad indossarla anche anni dopo, motivo per il quale la compra già grande, enorme, da adulti, così non smetterà mai di andare bene.
È cara, e doverla comprare online non aiuta granché col prezzo, e il periodo non è buono, ci sono tante spese, Ilija l’anno prossimo dovrà cominciare ad andare a scuola, i soldi andrebbero risparmiati, ma non oggi, non per questo, perciò la compra, e senza ripensamenti. È felice di averlo fatto. In realtà, “sono felice di averlo fatto” è l’ultima cosa che pensa prima di chiudere gli occhi, quella sera, andando a letto.
Non li riaprirà più.
*
La maglietta arriva il giorno dopo. Nessuno le bada. Sonja la prende in consegna dalle braccia del postino e poi infila la scatola nel ripostiglio, nascondendola sullo scaffale più in alto, dove pensa che Ilija non riuscirà mai a trovarla.
Dopodiché, torna a piangere suo marito.
*
Ilija ritrova la maglietta poco più di tre anni dopo. Ha invitato un paio di amichetti a casa per il pomeriggio, Sonja ha preparato loro i biscotti e lui, da bravo ometto di casa, li ha distribuiti con un bicchiere di latte ciascuno. Dopo un po’, giocare alla Playstation ha cominciato a diventare noioso, comunque, ed i suoi amici gli hanno chiesto se non avesse per caso un qualche gioco da tavolo. “Il Monopoli, magari!” ha chiesto Ivica, battendo le mani con entusiasmo. Ilija c’ha pensato per un po’ e poi ha ricordato la vecchia scatola di Risiko praticamente mai utilizzato che ha ricevuto per Natale un paio di anni fa – un paio d’anni, però, possono essere una vita, e per un bambino che comincia a dimenticare il suono della voce di suo padre possono equivalere anche a qualche secolo di silenzio – ed è andato a controllare nel ripostiglio, per vedere se per caso fosse stata conservata là.
Non l’ha trovata, ma in compenso ha trovato quella scatola impolverata e assolutamente anonima che non ricordava di aver mai visto, perciò l’ha presa fra le mani e si è arrampicato al contrario lungo l’impalcatura in ferro della parete attrezzata, tornando a terra. E poi l’ha aperta.
Ora stringe il tessuto fra le mani, e non sa che si tratta dell’ultimo regalo di suo padre. Non sa perché questa maglietta si trovi qui, non sa cosa rappresenta e non riesce neanche a capire perché dovrebbe rappresentare qualcosa per lui, visto che lui, a calcio, nemmeno gioca.
Di fronte ad un altro bicchiere di latte e a qualche altro biscotto, sua madre provvede a rispondere.
*
Sonja guarda suo figlio giocare, seduta a bordocampo. Sulla panchina, accanto a lei, c’è uno spazio vuoto ad occupare il quale lei si diverte ad immaginare le forme di Dragan. Le sue spalle ampie, la pancia appesantita dagli anni e dalla birra, i folti capelli neri, quei suoi baffi così ridicoli che lei ha sempre odiato, e che ora le mancano quasi più di tutto il resto. Vorrebbe che Dragan fosse lì, vorrebbe osservare l’espressione del suo viso adesso che Ilija rincorre il pallone e tutti gli avversari rincorrono lui nel tentativo di fermarlo, senza riuscirci. È sicura che il suo sorriso sarebbe estatico, gli brillerebbero gli occhi. A lei viene solo voglia di piangere.
- È bravo. – dice mister Mirković, avvicinandosi a lei ma restando in piedi, - È un peccato che non abbia cominciato prima.
- Non è ancora troppo grande, vero? – chiede Sonja, una punta di paura ad incrinare la voce. Mister Mirković le sorride rassicurante, battendole gentilmente una mano contro una spalla, come a volerle fare forza.
- Andrà bene. – le dice, - Ma dovrai parlargli.
Sonja si volta a guardarlo quasi di scatto, preoccupata.
- C’è qualcosa che non va? – chiede, e Mirković scoppia a ridere, scuotendo il capo e sedendosi sulla panca accanto a lei. Il cuore di Sonja si frantuma e se non scoppia è solo perché lei riesce a riprendersi abbastanza in fretta da capire che quello è il suo posto, non il posto di un fantasma.
- No. – dice l’allenatore, tornando a guardare i ragazzini che giocano, - È tutto a posto, solo che non vuole mai togliersi quella maglia. – ridacchia, indicando Ilija che tira e segna e poi esulta, stringendo la maglietta di Stanković fra le mani e strattonandola un po’, - Sta cominciando a diventare complicato. Cambia squadra ogni dieci minuti, gli altri ragazzini si confondono.
Sonja torna a guardare suo figlio, e sorride. Sa che Dragan ne sarebbe fiero, e questo le basta.
*
Ilija toglie la maglia da solo, a un certo punto. Sua madre non ha mai bisogno di chiederglielo. Semplicemente, si rende conto di non poterla più costantemente tenere addosso, e si rende conto di usarla un po’ come una protezione, la sua sicurezza, quella cosa minuscola e insignificante alla quale però si aggrappa per sentirsi forte. Sa che non è così che dovrebbe essere, sa che un calciatore dovrebbe sentirsi forte a prescindere dalla maglia che indossa.
È ancora un ragazzino – a quattordici anni, non potrebbe neanche sognare di riferirsi a se stesso con un altro nome – ma conosce il calcio, sa che il più delle volte militare nella propria squadra del cuore resta un sogno, un desiderio inespresso, un desiderio irrealizzabile e puerile, perciò sfila la maglia dell’Inter e, quando il gioco comincia a farsi serio, infila quella della Stella Rossa.
I colori che gli restano marchiati a fuoco sulla pelle, però, non cambiano.
*
Non ha il tempo di debuttare in campionato con la Stella Rossa. Vorrebbe, ed è quasi sicuro che questo potrebbe essere l’anno del salto, il suo nome ha cominciato a girare insistentemente nell’ambiente, gli manca tanto così per passare fra i grandi, ma l’Inter arriva prima. Prima di tutti. Prima perfino del suo desiderio di averla.
È sempre stata lì, in realtà, nascosta fra le pieghe di pensieri che lui stesso per primo preferiva non esplorare neanche in parte, ma quando il suo agente lo porta fuori a pranzo e, sorridendo davanti a un Big Mac, gli spiega che hanno ricevuto un’offerta per passare a Milano durante il mercato estivo, qualcosa dentro il cuore ed il cervello di Ilija si mette in moto. Una specie di meccanismo, un ingranaggio rimasto immobile troppo a lungo e che, quando si attiva, comincia a far ruotare anche tutti gli altri ingranaggi ad esso collegati. Ilija può sentirne il rumore, il martellare incessante di quella fantasia proibita, il richiamo atavico di quella maglietta nascosta nell’armadio ormai da anni. Parla con la voce di suo padre, un’eco che credeva sopita e che invece gli riecheggia nel cervello, rombante come il grido del tuono.
Il suo agente non ha neanche bisogno di sentirgli dire di sì. La risposta nei suoi occhi è sufficiente.
*
- E tu che ci fai qua? – gli chiede mister Stanković, ed Ilija si volta di scatto, cercando i suoi occhi, chiedendosi istintivamente come sia possibile che lui lo conosca e rispondendosi da solo, una volta che il primo attimo di confusione è passato, dicendosi che sicuramente anche lui sarà stato avvisato del suo arrivo. Ilija non è stato comprato per la Primavera, no, è stato comprato per la prima squadra, ma appena arrivato ad Appiano i campi della Primavera sono stati il primo luogo che ha chiesto di visitare. Stringendo fra le braccia il sacchetto di plastica stropicciato che contiene la sua prima maglietta.
- Curiosavo. – risponde, stringendo imbarazzato nelle spalle. – È un piacere conoscerla. – aggiunge con un mezzo sorriso, porgendogli la mano. Dejan la stringe con un po’ di stupore, annuendo brevemente.
- Tu sei Brajić, giusto? – domanda Dejan, sorridendogli dolcemente, - Ilija Brajić. Sono contento del tuo arrivo.
- Anche io lo sono, mister. – annuisce lui, ancora vagamente confuso, e Dejan scoppia a ridere.
- Non chiamarmi mister, non sono il tuo mister. – lo corregge, - E dammi del tu, già che ci sei. Ilija.
Ilija trattiene il respiro, annuendo lentamente, fissandolo negli occhi.
- Va bene. – mormora, - Dejan.
- Deki. – lo corregge ancora lui, - Gli amici mi chiamano così.
Ilija annuisce ancora.
- Deki. – sussurra.
Dejan annuisce compiaciuto, inspirando profondamente, le mani sui fianchi.
- Bene, Ilija. – dice quindi, - Cosa c’è dentro quel sacchetto?
Ilija trattiene il respiro, e poi tira fuori la maglietta. L’espressione che si disegna sul volto di Deki, quando gli chiede l’autografo, è impagabile.
*
- Fa sempre così schifo? – domanda Ilija, stretto nella coperta che Dejan gli ha gettato addosso appena l’ha visto presentarsi sulla soglia di casa sua, fradicio di pioggia, gli occhi già gonfi di lacrime e il fiato corto per la corsa.
- Cosa? – chiede di rimando lui, avvicinandoglisi con una tazza di caffè bollente, e sedendosi sul divano al suo fianco. È incredibile quanto poco spazio riesca ad occupare Ilija in questo momento, nonostante sia tanto alto e robusto. – Perdere una finale? Prendere un palo a tre minuti dalla fine? Doversi fare forza a presentarsi alla consegna delle medaglie per il secondo posto anche se vorresti soltanto prendere a calci sulle gengive chiunque ti si trovi intorno nel raggio di cinquecento metri?
- Tutte queste cose insieme! – quasi urla Ilija, cercando invano di sopprimere un singhiozzo sofferente. Non riesce a smettere di piangere, ed i suoi tentativi sono così plateali ed infantili da risultare quasi commoventi, ma Dejan lo sa – perché si è trovato in quella stessa situazione molte, molte volte – che non c’è niente che si possa provare per fermare il flusso prepotente di tutto quel dolore, di tutta quella frustrazione, di tutta l’ansia accumulata nel corso di dodici mesi, e che si sperava di poter diluire in lacrime di gioia, non certo in quelle – tanto più amare – di delusione.
- Sì. – risponde quindi, passando una mano fra i suoi capelli umidi, - Sì, fa sempre così schifo.
Ilija si raggomitola ancora di più su se stesso, nascondendosi sotto la coperta.
- Che mestiere di merda. – commenta amaramente, fra un singhiozzo e l’altro.
Dejan sorride appena, stringendoselo contro.
*
Torna a trovarlo a casa sua un paio di sere dopo. Va meglio, naturalmente, il dolore che sembrava così insopportabilmente acuto solo qualche giorno prima adesso è diventato meno invadente, più sordo. Sta lì, in un angolino, ogni tanto pulsa fastidiosamente quando, guardando la tv, becca un telegiornale che parla delle altre squadre che invece avanzano in Champions League. Tutte squadra che hanno ancora una possibilità di vincerla. La possibilità che l’Inter ha perso.
Ma sta bene, davvero, non fa più tanto male, e quando si presenta a casa di Dejan non sta certo cercando consolazione o chissà cos’altro – non ne ha mica bisogno, poi – per cui non è colpa sua se rivedere la sua faccia porta nuovamente a galla tutto. Porta nuovamente a galla troppo.
- Devo andare. – balbetta, ancora sulla soglia. Dejan inarca un sopracciglio.
- Ma sei appena arrivato. – gli fa notare.
Ilija, correndo giù per le scale, non ha modo, né tempo, né voglia di sentirlo.
*
Domani è il compleanno di Dejan, e Ilija sa esattamente cosa vuole fare. Non sa come dovrebbe farlo, non sa nemmeno come cominciare a pensarci senza sentirsi sciocco e fuori luogo e completamente pazzo, ma che lo vuole, questo è sicuro. Com’è sicuro che riuscirà a prenderselo.
Ci riflette a lungo, per tutta la notte. Guarda la maglietta che porta sempre con sé, l’autografo di Dejan in bella vista sul tricolore che la decora al centro del petto, e ne accarezza le lunghe strisce orizzontali. È tutto così buio che a stento riesce a distinguere un colore dall’altro, ed è abbastanza divertente pensare che in effetti questi colori sono nati proprio dalla notte, e quindi è normale che non riesca a distinguerli.
Non sa cosa ci sia di tanto divertente, in realtà. Ma è nervoso, e il suono debole della propria stessa risata sembra in qualche modo capace di consolarlo mentre si alza in piedi, ripone la maglietta al proprio posto in valigia e poi esce dalla sua stanza in ritiro.
*
Rivederlo è spaventoso. E allo stesso tempo bellissimo.
Non che l’abbia ignorato, negli ultimi giorni, ma non sono mai stati da soli. Ed esserlo adesso, sapendo cosa sta per chiedergli, sapendo cosa sta per prendersi e sapendo ciò che sta per regalargli, è perfino più emozionante. Gli batte il cuore così forte che potrebbe esplodere, non l’ha mai sentito spingere con tanta prepotenza contro la cassa toracica, neanche dopo gli allenamenti più stancanti, neanche dopo le partite più emozionanti.
È così ridicolo, ma nel momento in cui gli si avvicina tutto quello che riesce a pensare è il suo nome, sul retro della maglietta che suo padre gli ha regalato. Si fa più grande e più grande e più grande man mano che anche il calore emanato dal suo corpo diventa più intenso, così come diventa più ansioso e affannoso il ritmo del suo respiro.
Sfiorarlo è come chiudere un cerchio. Ed aprirne un altro, perfino più grande, subito dopo. Come sfiorare con un dito la superficie di un lago e guardare le onde spandersi una dopo l’altra, la perfetta immagine fisica dell’eco. Come l’eco della voce di suo padre. Quella che credeva di aver perduto.
E invece è ancora lì. È sempre lì. Ed è lì per sempre.
*
Ilija si stringe nelle spalle, ridendo imbarazzato.
- È solo una palla. – commenta divertito, ed Alen gli tira un calcio da sotto il tavolo.
- Peccato che pesi quel quintale, e sia fatta d’oro. – gli ricorda, e Ilija ride ancora, e come ride lui ridono tutti i suoi compagni di squadra, da un lato all’altro dell’enorme tavolata che hanno imbandito nella mensa ad Appiano, per festeggiare. Il Pallone d’Oro è lì, fa bella mostra di sé dall’altro lato del tavolo. Occupa un posto a sedere, come fosse una persona vera, ma non lo è. È solo una palla.
Quando lo dice, Ilija ci crede davvero. È solo una palla. Ma sorride fra sé, pensando che nessuno ha idea di quanto importante sia una semplice palla per lui.
*
- Non volevo disturbare. – sorride Dejan, ed Ilija sorride a propria volta, allontanandosi dall’uscio per lasciarlo entrare in casa. – Congratulazioni.
- È solo una palla. – ribadisce Ilija, ridacchiando divertito. Dejan annuisce, ma la luce nei suoi occhi parla chiaro, e racconta ad Ilija di un uomo che non ha bisogno di sentirsi dire la verità per comprenderla.
- Non abbiamo avuto più occasione di parlare, dopo quella volta. – riprende l’uomo, sedendosi sul divano. Ilija annuisce, sedendosi al suo fianco.
- Non volevo che pensassi che la mia intenzione fosse, tipo, di tenerti legato a me, in qualche modo. Lo so che non sei il tipo. Davvero, - insiste, - quella notte è stata… solo quella notte. Ne avevo bisogno io più di te.
Dejan sorride ancora, avvicinandosi di qualche centimetro.
- No, non credo. – commenta, ed Ilija arrossisce.
- Non capisco. – biascica, stringendosi nelle spalle. Dejan sorride, ed è così vicino. Così vicino.
- Bugia. – sussurra.
Ilija non ha bisogno di sentirsi dire altro. Chiude gli occhi ed ha nove mesi, poi un anno, poi cinque, otto, dieci, tredici, quattordici, diciotto, diciannove, e poi è un uomo, e non ha mai cambiato colore. E suo padre è sempre stato al suo fianco. E quella maglietta è sempre lì, c’è sempre il nome di Dejan stampato sulla schiena, come a guardargli le spalle. Ed ora assieme al suo nome ci sono anche le sue mani.
Ilija è abbastanza sicuro da non avere altro da chiedere al mondo.
Ed è lì che invece apre gli occhi e sorride al suo riflesso nello specchio sulla parete di fronte, mentre le labbra di Dejan scivolano morbide e affamate lungo il profilo del suo collo.
C’è sempre qualcos’altro da chiedere. E mille modi complessi per appropriarsene.
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