Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon.
- "'Sei innamorato, povero caro?'"
Note: In realtà il titolo di questa fic è un grossolano errore XD Stavo cercandone uno quando Nature 1 dei Muse mi ha colpita col suo you are a natural disaster, perciò ho brillato e ho detto "è lui *_*". Siccome io e la Tab non facciamo un cervello in due, lei mi ha subito seguita, per poi ricordare dieci minuti dopo che in realtà io l'avevo già intitolata così una shot della saga. *cade* Motivo per cui abbiamo stabilito che questa sarebbe stata Natural Disaster II, anche perché ci piaceva l'idea che pure il Flerkuza avesse il suo disastro naturale ♥
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NATURAL DISASTER II

A scanso di equivoci e prima di cominciare, vorrei mettere le mani avanti e dire che io non sono un idiota. So che a volte posso sembrarlo, ma non è la stupidità che regola le mie azioni. Sono tante cose, io, sono avventato e sono insensibile e sono alle volte un po’ tonto riguardo certe cose, me ne rendo conto perfettamente, ma non sono stupido, sono in grado di ragionare alla perfezione su ciò che dico e che faccio e so capire quando faccio una cazzata e quando invece ho ragione.
Ecco, forse il problema è che non sono tempestivo. Nel senso, so capire quando faccio una cazzata, ma lo capisco sempre con quel po’ di ritardo che in genere è quello che mi mette nei guai. Probabilmente ormai anche io, avendo avuto le esperienze che ho avuto, dovrei avere assimilato il senso del ghetto, che è un po’ l’equivalente del senso del ragno, solo che invece di percepire donne che urlano in lontananza cadendo da palazzi sotto ai quali devo passare saltando di ragnatela in ragnatela per afferrarle al volo, ti permette di percepire quando stai per fare qualcosa di potenzialmente pericoloso per la tua incolumità. Per qualche motivo, però, il senso del ghetto fatica a radicarsi in me, forse perché sono nato in montagna circondato dalle vacche, che non è proprio l’ambiente ideale per favorire l’attecchimento di una sensibilità simile.
Quale che sia la ragione, comunque, non sono mai riuscito a sviluppare questa capacità. Forse avrei dovuto farmi mordere da un bambino radioattivo del ghetto durante una visita scolastica, forse avrei dovuto chiedere a Daniel mentre lui era ancora un bambino ed io ero in visita scolastica a Tempelhof, ma non l’ho fatto, e quindi non ho mai imparato. Fler invece ha sempre saputo come si fa, per ovvi motivi, ed è per questa combinazione di fattori – il suo saperlo fare e il mio non essere capace – che lui ha provato, più volte, a fermarmi mentre io mi scavavo la fossa con le mie mani, ma io non me ne sono accorto, per cui ho proseguito imperterrito fino a quando non ho sollevato gli occhi e all’improvviso mi sono accorto di avere scavato tanto in profondità da riuscire a stento a intravedere ancora il cielo sopra la mia testa in un cerchiolino minuscolo e altissimo. Eccomi qua, adesso, sul fondo di una buca e senza scala per tornare su. Metaforicamente parlando ma anche no, visto che sono nella sala caldaie del palazzo e se n’è appena andata la luce, motivo per cui non vedo più un cazzo e non riesco a trovare l’uscita.
Immagino vogliate sapere perché mi trovo nella sala caldaie del mio palazzo, perché sia andata via la luce e perché io stia pensando a Fler proprio in questo momento. È presto detto: sono sceso nella sala delle caldaie perché le caldaie sono rotte e io sono l’unico nel palazzo con un minimo di manualità in questo senso – non si può certo pretendere che la signora Lotte si metta a prendere le caldaie a martellate quando queste smettono di funzionare – e pur non essendo un carpentiere posso vantare una certa competenza, se non altro perché disastri simili in casa mia accadono spesso e uno deve saperli fronteggiare, soprattutto se vive da solo. Poi, naturalmente, scendere qui sotto mi ha fatto ripensare all’ultima volta che una cosa simile è capitata, e quella volta ero con Fler. Era passato Capodanno solo da un paio di giorni, Bill se ne stava ancora molto sulle sue e io e Fler passavamo ancora un sacco di tempo insieme, anche se il nostro rapporto era un po’ più freddo di quanto non fosse prima, se non altro perché lui si rifiutava categoricamente di baciarmi, una roba che non ho mai capito, né allora né in seguito. Comunque, fatto sta che lui era a casa mia, stavamo guardando un film stupido in tv quando all’improvviso il gelo è calato su di noi. Viene fuori che le caldaie ci hanno abbandonati, perciò scendiamo entrambi e passiamo un paio d’ore piuttosto divertenti al termine delle quali vinciamo uno a zero contro la Caldaie FC, e giustizia è fatta. Quindi è chiaro che da quel giorno ogni volta che ho avuto a che fare con delle caldaie ho pensato a lui, con risultati alterni sulla mia concentrazione.
Il che ci riporta giustappunto alla questione delle luce che salta, perché poco concentrato com’ero mi sono avvicinato forse troppo avventatamente al quadro elettrico giusto per controllare che non ci fossero problemi con l’alimentazione delle caldaie, e mentre tocchicciavo qua e là per vedere se c’era una qualche ragione per cui la Caldaie FC sembrava chiusa nella propria area e non si muoveva, ecco che loro mi fregano. Contropiede assassino, trappola del fuorigioco che non scatta, rete, uno a zero, palla al centro. Cala il sipario, e pure l’oscurità.
- Merda. – borbotto vagando a tentoni per il seminterrato, agitando le braccia nel buio attorno a me alla ricerca di un qualcosa che possa fungere da punto di riferimento. Le caldaie stesse, o magari una parete, non lo so, qualche superficie che io possa seguire per provare a raggiungere l’uscita. Invece niente, sembra che all’improvviso con lo spegnersi della luce sia sparito anche tutto ciò che c’era in questa stanza prima. Sono perso nel vuoto cosmico, probabilmente non sto neanche camminando sul pavimento, fluttuo a mezz’aria e ho solo l’illusione di essere ancorato ben saldo al terreno perché non riesco a pensare che potrebbe andare diversamente. Forse sto sognando. O forse questo è solo il piano malvagio delle caldaie senzienti, forse non sono nemmeno più nella stanza delle caldaie ma è solo quello che le macchine vogliono farmi credere. Forse non dovevo guardare tutta la trilogia di Matrix da solo, ieri sera.
Comunque, mentre sono qui nel buio che cerco di uscire dal labirinto in cui la stanza delle caldaie s’è trasformata, continuo a pensare a Fler. Il che non è usuale per me, non per il fatto che è Fler, ma perché tendenzialmente io non sono tipo da pensare e ripensare alle cose, soprattutto se mi frustrano. Il pensiero di Fler al momento mi frustra perché non è qui con me e perché penso che, se ci fosse stato lui, a parte spingerlo contro le caldaie, immagino mi avrebbe anche dato una mano e io probabilmente non avrei finito col tagliare la luce a tutto il palazzo mettendomi nella prospettiva di dover pagare l’elettricista di tasca mia e i danni a tutti gli altri inquilini che hanno riposto le loro speranze in me per tornare ad avere il riscaldamento in casa, per dire, che in un palazzo vecchio e pieno di spifferi come questo serve un po’, alle porte di settembre, coi primi venticelli che cominciano a farsi sentire insidiando la salute delle povere ossa di tutti i vecchietti che abitano qui.
E quindi niente, ci penso e mi dico che non sono scemo, l’ho capito dove ho sbagliato. Però non è che l’abbia fatto apposta, non è che abbia pensato “aspetta che vomito addosso a Fler un po’ di rancore per il fatto che io e Bill non ci siamo mai lasciati ma lui si sente comunque in diritto di rifarsi una vita con Bushido”, perché non è così, e poi pure io non è che sia stato un santo, specialmente nell’ultimo periodo. Il fatto è che sul momento non ci ho pensato che poteva essere una cosa che avrebbe potuto offenderlo. L’ho letto e mi è stato sul cazzo il concetto, non so se mi spiego, che quei due molto carinamente potessero sentirsi in diritto di fare il cazzo che volevano anche se la situazione precedente non s’era ancora chiarita. Non ci ho pensato che io stavo facendo la stessa cosa, non sul momento. L’ho realizzato dopo. Non l’ho mica fatto con cattiveria.
In ogni caso, a un certo punto vedo la luce in fondo al tunnel. Sia in senso metaforico che in senso realistico, perché si accende una torcia da qualche parte ed io finalmente riesco ad inquadrare la cornice rettangolare della porta, oltre la quale sta in piedi una figurina minuta, ossuta e un po’ curva, con una gran massa di capelli sottili e cotonati sospesi come una nuvoletta attorno alla testa tonda. Si vede la sagoma degli occhiali enormi che sporge dai lati del viso, ed io sorrido riconoscendo la signora Lotte che mi punta la luce negli occhi. Non sento quasi nemmeno fastidio.
- Peter, - mi chiama con quella vocina da nonna, - stai bene?
- Io sì, signora. – sospiro, seguendo la luce e raggiungendola all’ingresso, - Ma non posso dire lo stesso del quadro elettrico. Credo di aver fatto un mezzo casino. Chiamerò qualcuno per sistemarlo e mi occuperò io di tutte le spese. – dico con rassegnazione.
- Oh, povero caro. – mugola lei, visibilmente preoccupata più per me che per il fatto che la luce sia andata via dall’intero palazzo, - Ma non potevi chiamare quel tuo amico, quel marcantonio, com’è che si chiamava? Patrick? Non lo vedo più da tanto, era così bravo con me.
Sorrido appena, appoggiando una mano sulla spalla esile della signora Lotte e stringendola un po’, delicatamente. Era bravo anche con me, lo sa, signora? Era un sacco bravo anche con me. Ho pasticciato con gli ingranaggi, proprio come stavo facendo poco fa nella stanza delle caldaie, e ho mandato tutto all’aria. Però per sistemare le cose con Fler non posso chiamare un elettricista. A parte che posso permettere a un elettricista di mettere le mani nel quadro elettrico di questo palazzo, ma non posso certo permettergli di fare la stessa cosa col quadro elettrico di Fler, che chissà dov’è, peraltro. Se poi viene fuori che ce l’ha nelle mutande? No, assolutamente. E poi comunque non c’entra, Fler non ha un quadro elettrico. Non è una cosa. È una persona. E io dovrei ricordarmelo più spesso.
- Abbiamo avuto qualche problema. – rispondo sinceramente, abbassando lo sguardo e stringendomi nelle spalle. La signora Lotte mi punta ancora la torcia negli occhi, prima di spegnerla. Stavolta dà un po’ fastidio.
- Povero caro. – ripete, - Vieni da me, ti offro una tazza di tè. Così potrai raccontarmi tutto.
E io mi lascio accompagnare nell’appartamento della signora Lotte, mi seggo su una di quelle sue belle seggiole antiche imbottite e foderate di stoffa pesante, come non ne fanno più al giorno d’oggi, e lascio che lei mi offra il tè col servizio buono, che è in porcellana bianca finissima, tutto ricoperto di decorazioni floreali colorate. Sembra una cosa d’altri tempi, ma mi riscalda il cuore, e non solo perché è calda la bevanda.
Comincio a parlare senza pormi freni, come faccio sempre. Per una volta, mi lascio libero di pensare che potrebbe non essere un errore, nel caso specifico. Fortunatamente, stavolta ho ragione.
- Io e Fler, per un certo periodo, siamo stati insieme. – confesso a capo chino, - Non è che stessimo proprio insieme nel senso canonico del termine, e non sono sicuro di poterglielo spiegare—
- Oh. – ride lei, - Via, via, Peter. Pensi che prima del mio Carmine io non abbia avuto scappatelle, o avventure con qualcuno? – sorbisce silenziosamente un po’ del suo tè, - E poi anche io ho avuto le mie esperienze trasgressive. – dice compitamente, e il modo in cui dice “trasgressive” è lo stesso in cui tutti quelli della sua età pronunciano questa parola, dandole un’accezione quasi tenera, che tu ti aspetti di sentir dire “ebbene sì, anche io mangiavo qualche stuzzichino fuori pasto!”, oppure “ebbene sì, anche io una volta non ho lavato i piatti per tre giorni di fila!”, e invece eccola lì, lei, bella pulita linda e profumata, con la sua faccia da vecchina per bene e la sua voce da vecchina per bene, che mi sgancia la bomba: - Io e la cugina Bertha ne abbiamo fatte, di cose, nella nostra adolescenza, e non erano cose che comprendevano la presenza di maschietti, se capisci cosa intendo, mio caro ragazzo. – dice con una risatina pettegola.
Io spalanco gli occhi e la bocca. Sento quasi la mascella toccare il pavimento, ma lei continua a guardarmi con quel sorriso assolutamente sereno e dolcissimo e allora cerco di ricompormi. D’altronde, le sto comunicando che sono gay. È anche giusto che lei si senta in diritto di ricordarmi che non sono l’unico al mondo.
- …sssì. – annuisco, grattandomi nervosamente la nuca, - Il fatto è che io e Fler— intendo, signora Lotte, noi non è che giocassimo. Nel senso, sì, giocavamo anche, alle volte, ma non era soltanto una… - cerco le parole, fatico a trovarle e mi rendo conto che forse non esistono, per cui invento, - una… esplorazione delle varie possibilità del nostro modo di vedere il sesso, intendo, noi eravamo— avevamo un certo rapporto, una storia.
La signora Lotte sfila gli occhiali, che mentre beveva il tè le si sono appannati tutti, e li pulisce col retro della tovaglia rotonda di raso che copre il tavolino al quale siamo seduti. Rimane lì in silenzio a strofinare le lenti con attenzione a lungo, le scruta quasi con aria decisa, come volesse imporre loro la propria volontà – “non vi graffiate, povere care”, la immagino dire con quel tono fra il severo e il compassionevole così tipico di lei – e poi li inforca nuovamente, sistemandoseli sul naso con un dito e tornando a guardarmi.
- Sei innamorato, povero caro? – mi chiede, con lo stesso tono che le ho immaginato usare prima con le lenti dei suoi occhiali. Sono innamorato, povero me?, mi chiedo, e mentre me lo chiedo cerco di seguire il ragionamento, ma mi s’inceppa. Non so, non è che ci veda come una cosa che abbia a che fare con l’amore, quando penso a me e Fler. Certo, ci ho pensato, alle volte mi è anche sembrato che forse magari in un certo senso in qualche modo da un certo punto di vista avrebbe potuto possibilmente esserlo, ma siamo incasinati un sacco, litighiamo continuamente e quando non litighiamo tendenzialmente ci guardiamo inarcando sopracciglia perché non ci capiamo su quasi nessun livello che non sia quello orizzontale – o anche verticale, se è coinvolta una parete, non poniamo limiti al cielo – quindi, non lo so, amore? Può essere amore anche questo? Signora Lotte, io non lo so.
- Forse. – rispondo, che è la cosa più sincera che posso dire senza dovere usare tutte le parole che ho usato prima pensandolo, e senza dover spiegare alla signora Lotte la questione del piano orizzontale, questione che ormai avrà capito da sé, suppongo, ma un conto è se lo capisce da sola, un conto è se ci mettiamo qui buoni a sorseggiare tè e io le spiego come giocavamo al dottore io e Fler quando fra noi era ancora la pace. Non esiste.
Lei annuisce compitamente, finisce il suo tè e giunge le mani in grembo. Per un attimo, così seduta sulla seggiola con le spalle dritte e il volto serio, mi sembra una di quelle vecchie educatrici severe tipo la signorina Rottenmaier. Mi scende un brivido lungo la schiena, ma poi lei si scioglie in un sorriso caldo e tenero, e allora un po’ mi sciolgo anch’io.
- Cos’è successo? – chiede premurosa, - Avete litigato?
Sospiro, le spalle che mi s’incurvano.
- No. – rispondo, - Non esattamente. Non ce n’era nemmeno bisogno, sono stato un cretino, mi sono comportato male e lui mi ha dato il benservito.
- Oh. – uggiola lei, sporgendosi a battermi una debole pacca su una spalla, - Povero caro. Scusami se te lo dico, ma sei proprio stupido.
L’effetto delle sue parole è paragonabile a quello di un pianoforte o di un quintale di mattoni che mi cadono dritti sulla testa, stile cartone animato. È assurdo, cose simili non succedono, ma sono talmente sorpreso dal sentirmi dire una cosa simile che nell’agitarmi quasi cado davvero dalla sedia.
- Come, scusi? – guaisco, alzandole addosso uno sguardo implorante. Ritiri tutto, signora Lotte. Mi voglia un po’ bene, almeno lei.
- Sei proprio stupido! – ripete lei, sempre sorridendo, ma a voce più alta, come se pensasse che ho problemi di udito o che so io. Non sono sordo, signora Lotte, solo incredulo. – Quanti giorni fa è successa questa cosa?
- U-Un paio di giorni fa, - balbetto io, incerto, - tre al massimo. Più o meno.
Lei scuote il capo, schioccando la lingua, insoddisfatta.
- Quanti giorni vuoi lasciare passare, caro? – mi rimprovera severa, incrociando le braccia sul petto, - Il tuo Patrick avrà tutto il tempo di rifarsi una vita che non ti comprenda, se continui così.
- …signora Lotte, io non credo che—
- Io credo – mi interrompe lei, sorridendo serafica, - che qualsiasi sia stato il motivo della vostra incomprensione, tu abbia capito di avere sbagliato. E mi sembri molto pentito e sofferente a riguardo. Sono sicura che lui non sta aspettando altro che vederti spuntare sulla soglia della sua porta con un mazzo di fiori in mano, pronto a scusarti. – dice con aria sognante. Io mi schiarisco la voce, vagamente a disagio.
- Signora Lotte, - azzardo, - Fler è maschio.
Lei aggrotta le sopracciglia, piccata.
- L’amore è un sentimento universale, - dice, - non conosce differenze di sesso, di razza o di credo religioso. – la fisso con tanto d’occhi perché non riesco a credere che stia facendo questo discorso proprio a me. – E inoltre, - continua con un mezzo sospiro, - non credere che solo alle donne piaccia sentirsi ricordare dal proprio innamorato cosa voglia dire sentirsi amati davvero.
E io lì mi blocco un po’, perché oggettivamente qui stiamo entrando in un terreno che io non conosco, quindi mi conviene muovermi in punta di piedi. Di essere pienamente e consapevolmente innamorato di qualcuno, a me è capitato una volta sola, e quella volta in cui è successo le cose sono filate lisce finché il nostro rapporto è rimasto una cosa nostra, circoscritta a noi due. Così avrebbe continuato probabilmente ad essere, se non si fossero messi di mezzo fattori esterni, ma il punto della questione non è tanto questo quanto più il fatto che, allora, né io né Bill avevamo bisogno di ricordarci l’un l’altro che eravamo innamorati. Era una cosa che sentivamo senza difficoltà in ogni bacio, in ogni parola, in ogni gesto, ogni volta che facevamo l’amore. Forse perché il rapporto che avevo con lui era molto più tranquillo, ripetersi continuamente che ci amavamo sarebbe stato ridondante, eccessivo, e quindi capitava di rado che ce lo dicessimo esplicitamente, o che facessimo in modo di ricordarcelo facendo l’uno per l’altro cose fuori dal normale. Ogni tanto capitava, sì, ma non era fondamentale, non dipendeva da quello la nostra tranquillità.
Mi rendo conto solo adesso che la signora Lotte me lo fa notare che non è così per tutti. Che io non posso pretendere che Fler si fidi di me in questo senso, che abbia delle certezze riguardo alla nostra relazione, che si fidi del rapporto che abbiamo, se non gli ho mai dato modo di crearsele, questa fiducia, queste certezze e questa tranquillità. Quando mai siamo stati tranquilli, noi due? Quando mai abbiamo chiarito qualcosa? Quando mai abbiamo posto delle basi serie per una relazione, basi che non affondassero nell’argilla, intendo. Eppure eccomi qui, a pretendere inconsciamente che Fler possa reagire bene al più sbagliato degli spunti di discussione, perché dentro di me pensavo che comunque ormai ci fossimo riavvicinati. Sì, ci eravamo riavvicinati davvero, ma cazzo, stavamo in bilico come sempre. E io non ci ho pensato. Perché ha proprio ragione la signora Lotte, sono proprio uno stupido.
Mi alzo e le sorrido dolcemente, chinandomi a lasciarle un bacio su una guancia.
- Grazie per il tè, signora Lotte, era veramente buonissimo. – le dico. Lei si stringe nelle spalle, imbarazzata.
- Non ho fatto poi niente di speciale. – si schermisce.
La verità è che invece sì.
*
Uscito da casa della signora Lotte, passo appena dal mio appartamento a darmi una ripulita sommaria e afferrare una giacca a caso e poi sono subito per strada, diretto a casa di Fler. Non sta lontanissimo da qua, ma la mia buona mezz’ora di cammino in genere per raggiungerlo me la faccio. Oggi corro. Cioè, non corro proprio, però cammino tanto velocemente che sicuramente marcio, e arrivo in poco più di dieci minuti, e col fiatone, tant’è che poi ne perdo cinque sotto casa sua a cercare di riportare il mio respiro ad un ritmo più normale, piegato in due e con le mani sulle ginocchia. Appena mi ritrovo un po’, mi rimetto dritto e mi attacco al citofono. Suono almeno sei volte, poi mi rassegno all’evidenza: non è in casa. Non che la cosa mi stupisca, visto che Fler odia quest’appartamento, soprattutto quando deve starci da solo.
Mi fermo a riflettere. Può essere solo in due posti. Il primo che mi viene in mente è casa di Bushido, ma siccome, come abbiamo avuto modo di appurare via giornaletto scandalistico ieri, c’è Bill da lui – ed io non immagino che, fra una manciata di mesi, quando tutto sarà preoccupantemente diverso rispetto ad adesso, fuggire a casa di Bushido non sarà più così improbabile, presenza di Bill fra le regali quattro mura o meno – penso che Fler si sarà risparmiato di andare a stabilirsi proprio là, col rischio di dover finire nella dependance con Karima, poi.
La seconda opzione è vagamente più rassicurante, da un certo punto di vista – più precisamente, il punto di vista nel quale non mi tocca andare a casa di Bushido per andarmi a riprendere Fler, che sarebbe una mossa sconveniente in molti più sensi di quanti non riesca a pensarne con un solo cervello – ma dall’altro è un disastro. Perché mi tocca andare a riprendermi Fler a casa di Sido, e io non lo so mica com’è che potrebbe andare a finire una cosa del genere.
Nonostante queste giustificatissime perplessità di base, prendo il coraggio a quattro mani, inspiro profondamente e poi faccio un giro di telefonate, al termine del quale sono un uomo pronto e dotato di un indirizzo verso il quale dirigermi. Arrivo a casa di Sido che sono quasi le sette di sera, il che già mi pone in una posizione di disagio, perché non solo io perfetto sconosciuto appartenente a un’etichetta rivale arrivo in casa del gran capo dell’Aggro Berlin per tirargli via da sotto le grinfie uno dei suoi ex-pupilli, ma ci arrivo anche in prossimità dell’ora di cena. Non riesco ad immaginare uno scenario più preoccupante neanche mettendomici di buzzo buono, e sì che in questo senso la mia fantasia è piuttosto fervida.
Suono al citofono di casa Würdig-Steinert con un po’ di preoccupazione addosso, ma la controllo pensando che non è che abbia davvero alternative rispetto al trovarmi qui in questo momento. Spero solo che Fler capisca il sacrificio che sono costretto a fare per riaverlo, lo apprezzi e mi ricompensi adeguatamente. Tipo calandosi giù dal balcone entro i prossimi cinque minuti.
- Chi è? – risponde la voce un po’ nasale di Sido. La riconosco subito. Quando uno ti dà pubblicamente della merda in una diss anche se tu di tuo non gli hai mai mai mai ma proprio mai fatto nulla di male, tendi a non dimenticarti più il suono della sua voce.
- Sono Chakuza. – rispondo con candore.
Dall’altro lato cala il silenzio per una infinita quantità di secondi.
- Chakuza…? – chiede, ed è come se col mio nome ci si stesse strozzando. – Che cazzo ci fai qui?
- Ecco, io… - borbotto grattandomi una guancia, - sarei venuto per parlare con Fler.
- Ma chi ti dice che sia qui?! – sbotta lui, agitandosi tutto, - Ma santo Dio, ma sei normale?! È casa mia, questa, mica casa di Fler! Sparisci.
- Sì, il fatto è che ci sono già stato a casa sua. – dico precipitosamente, con l’intenzione di fermarlo prima che possa riappendere, - E siccome non c’è ho pensato che potesse essere qui.
- Hai pensato male! – ribatte lui con naturalezza, - Ma vedi tu se posso avere a che fare con uno stalker mitomane. Ma poi fosse John Lennon, santo Dio. Ma io non lo so, veramente. Senti! – riprende, tornando palesemente a parlare con me come non ha fatto negli ultimi trenta secondi, - Quando e se rivedrò Fler, gli riferirò che sei passato a cercarlo. Ora evapora. Sciò. Tornatene da— - e si interrompe all’improvviso, troppo all’improvviso per non costringermi ad inarcare un sopracciglio, incerto. Sento suoni di colluttazione provenire dall’interno dell’appartamento. Sido urla un “no!” molto accorato, che quasi mi commuove. Sto cullandomi col pensiero che forse Fler era nascosto da qualche parte e ora sta picchiando il suo ex-datore di lavoro per il modo becero in cui mi ha trattato, quando una voce femminile, molto più dolce e giovane di quella di Sido, prende il suo posto, salutandomi cordialmente.
- Ehm, scusi il disturbo. – dico con evidente imbarazzo, stringendomi nelle spalle, - Io non voglio mandarvi a monte la serata, vorrei solo parlare con Fler, se fosse possibile.
- Ma certo che è possibile. – risponde la signora Sido. Anche lei ha la voce identica a come l’ho sentita registrata su cd, più precisamente in una canzone che ha cantato con Fler. – Prego, sali pure, non badare a mio marito. – cinguetta felice, aprendomi il portone, - Settimo piano.
Io lancio un’occhiata veloce al palazzo e noto che è l’ultimo. Deglutisco con paura: se qualcuno vorrà defenestrarmi dal settimo piano, sia quel qualcuno Sido o Fler, non avrò scampo. Dico io, pure voi, non potevate abitare al primo?
Quando esco dall’ascensore, sulla soglia della porta ad attendermi non c’è Sido, naturalmente, ma lei. E io mi c’incanto un po’, perché la signora qui è di una bellezza sconcertante. A parte che avrà massimo venticinque anni, in pratica è una ragazzina, che uno si chiede per quale motivo non solo stia con uno come Sido, che volendo ci può anche stare, ma gli abbia dato perfino una figlia. Ma comunque. Indossa un vestitino rosso corto che le lascia scoperte le spalle, ed attorno alla vita ha un grembiulino di quelli che si fermano a metà coscia, tutti svolazzanti. È truccata, indossa bracciali e orecchini, ha i capelli sciolti sulle spalle e un paio di deliziose décolleté nere ai piedi. Sembra un po’ uscita da una soap-opera, ma in generale non fatico a capire perché Sido dovesse essere così furioso solo perché avevo interrotto il rituale di preparazione della cena.
- Peter Pangerl, vero? – chiede lei, salutandomi con un sorriso ed una stretta di mano piuttosto femminile. Io ricambio con aria un po’ persa, ed immagino che il mio sguardo stupito parli per me, perché lei si affretta subito ad aggiungere: - Fler ci ha detto tutto, di te.
Ah, penso io. E non è un “ah” felice e soddisfatto, tutt’altro. Ho una brutta sensazione, che aumenta d’intensità man mano che avanzo e m’introduco in casa Würdig-Steinert, che per inciso è un appartamento enorme arredato in maniera molto calda, con la carta da parati alle pareti e le tende lunghissime e sbuffanti su tutte le finestre e tutti i balconi e un sacco di divani imbottiti ovunque. E quadri, foto e dischi d’oro e di platino appesi alle pareti.
- Guardi, davvero, non voglio disturbare, per cui—
- Dammi pure del tu. – sorride lei, - Mi chiamo Doreen. Che ne diresti di restare a cena? Ormai è quasi ora, sto preparando il pollo con le patate.
La prima cosa che mi viene da dire è: ma ce l’hai messo il rosmarino nel pollo, Doreen? Perché non viene altrettanto saporito senza. Trattengo il commento sulla lingua, fortunatamente, e la seguo mentre mi fa strada lungo il corridoio. L’odore che viene dalla cucina, dovunque essa sia, comunque è buono.
- Non sono sicuro di poter accettare adesso. – dico con un mezzo sorriso, - Se non dovessi risolvere le cose con Fler, poi restare a cena potrebbe essere imbarazzante.
- Oh, - ride lei, divertita, - Fler è il minore dei tuoi problemi, adesso. – e così dicendo, mi introduce in salotto, dove Sido sta seduto sul divano, le braccia incrociate sul petto e la testa incassata nelle spalle, e fissa il televisore senza nemmeno vederlo, le labbra piegate in un broncio talmente lungo che con un po’ di fantasia lo vedo sfiorare il pavimento.
- Buonasera. – saluto, agitando una mano con aria un po’ impacciata. Sido mi lancia un’occhiata imbufalita.
- A te pare una buona sera? – borbotta, tornando immediatamente a fissare la tv, - Perché a me no.
Aggrotto le sopracciglia e faccio per rispondergli che ho capito che la mia presenza qui lo infastidisce, ma non mi pare il caso di agire come un bambino di cinque anni, visto che siamo tutti uomini adulti e capaci di ragionare, mi sembra, quando un dolore lancinante a uno stinco mi costringe a retrocedere dai miei propositi e a piegarmi in due mugolando pietosamente e stringendomi la gamba.
- Che cosa…? – borbotto, chiedendomi se per caso non sia stata Doreen a rifilarmi un pestone con quelle sue deliziose scarpette alla moda dai tacchi a spillo, ma guardando in basso realizzo che non è stata affatto Doreen a farmi del male, ma piuttosto una copia di Sido in miniatura, con capelli scuri appena più lunghi acconciati in un caschetto corto alla base del collo e i lineamenti appena un po’ più dolci rispetto a quelli di suo padre, ma palesemente riconoscibili. La bambina brandisce una spada di legno, e suppongo sia questo l’attrezzo che ha usato per gambizzarmi. – E tu chi sei? – chiedo con un po’ di terrore. La bambina solleva la spada e me la cala sulla testa come una mannaia. – Ahi! – strillo, e, mentre Doreen si copre la bocca con entrambe le mani e poi si allunga a sfilare la spada dalle mani di quella che sospetto fortemente essere la figlia, Sido, dal divano, ride di gusto.
- Brava bella di papà. – dice compiaciuto, - Vieni qui, Maja. – prosegue, chiamandola a sé e battendo una mano sul cuscino al proprio fianco con aria orgogliosamente paterna.
- Paul. – borbotta Doreen, incrociando le braccia sul petto, - Ma quanto la vizi?
- Ma perché mi ha picchiato? – piagnucolo io, gettando dal settimo piano non me stesso ma la mia decenza, e pensando che forse sarebbe stato meglio il contrario.
Doreen si stringe pudicamente nelle spalle.
- Le abbiamo grossomodo spiegato perché Fler è qui. Sai, lei gli vuole molto bene.
Osservo lo scricciolo in salopette e camiciola bianca che si arrampica sul divano accanto a suo padre e mi dico che sono messo proprio bene. Ma proprio bene. Sospiro.
- Posso vedere Fler, adesso? – chiedo, col tono di uno che pensa che ciò che ha subito fino ad adesso rappresentasse il giusto tribolato percorso per giungere a destinazione, un po’ come quei principi azzurri che sanno di dover affrontare il bosco di rovi e il drago sputafuoco prima di giungere alla stanza della principessa nella torre più alta del castello. Con tutte le dovute distinzioni fra Fler e una qualsivoglia principessa, in fondo è un po’ così per davvero.
Doreen sorride, riaccompagnandomi in corridoio. Indica una scala a chiocciola in ferro battuto proprio in fondo al corridoio stesso, e mi dice che la stanza di Fler è nel sottotetto, al piano di sopra. Parto già ad immaginarmi Fler recluso in una stanza larga due metri ed alta uno e mezzo, tutto curvo su se stesso come il Gobbo di Notre-Dame, ma quando salgo effettivamente le scale vedo che il cosiddetto sottotetto di Doreen in pratica è semplicemente il piano di sopra. Sì, c’è il tetto spiovente, ma vorrei ridiscendere per spiegare a Doreen che il sottotetto al più è un’intercapedine polverosa alta venti centimetri, mica questa reggia inondata dal sole che filtra dall’enorme finestra tonda che c’è sul prospetto.
Mi avvicino all’unica porta chiusa sul piano – le altre, e sono due, sono aperte, e danno una su un piccolo bagno e l’altra su un ripostiglio dentro il quale fa bella mostra di sé una scaffalatura metallica piena di ogni ben di Dio, neanche in questa casa ci si fosse preparati accatastando provviste in caso di una guerra atomica – e sento provenire dall’interno i suoni campionati di un videogioco. Un uomo palesemente non italiano ma che fa di tutto per sembrarlo strilla “Mamma mia!” con aria addolorata, e Fler impreca. Ho il terrore di aprire questa porta e trovarmi davanti agli occhi una versione regredita ai quattordici anni del Fler che conosco. Me lo figuro incazzato col mondo e soprattutto con me e mi chiedo se la finestra tonda sia sigillata e se per caso nel ripostiglio ci siano delle lenzuola vecchie che potrei annodare per calarmi discretamente fino in strada senza dover disturbare nessuno uscendo dalla porta principale.
Scrollo via dalla testa queste immagini moleste e busso.
- Adesso scendo! – risponde Fler, senza neanche chiedermi chi sono. Avrà visto l’orario ed avrà immaginato che Doreen fosse venuta a chiamarlo. Sento i suoni provenienti dal videogioco interrompersi all’improvviso, e poi le molle del letto sul quale è sdraiato scricchiolano nel momento in cui si alza. I suoi passi un po’ strascicati attraversano la stanza per un paio di secondi e poi la porta si apre. E invece di Doreen ci sono io. Sorpresa. - …Chakuza. – esala, e che non è contento di vedermi sarebbe ovvio anche per un cieco sordo e muto.
- Ciao. – lo saluto un po’ incerto, - So che non ti aspettavi di rivedermi—
- No che non me lo aspettavo. – mi interrompe lui, glaciale, - Se non sbaglio, ti avevo avvertito di non farti più vedere.
- Lo so. – annuisco consapevole, - Ma ne ho parlato con la signora Lotte, e lei pensa che—
- Ne hai parlato con la signora Lotte?! – sbotta lui, interrompendomi ancora. Fler, lasciami finire un discorso, già che io ho problemi pure se mi si lascia parlare senza interrompermi dall’inizio alla fine, ti ci metti pure tu che mi blocchi ogni tre secondi, poi non ti lamentare se mi s’inceppano gli ingranaggi e dico stronzate.
- Il punto non è questo. – dico, cercando di riportarlo verso la questione principale, che sennò qui facciamo notte.
- Invece il punto è proprio questo! – insiste lui, alteratissimo, così tanto che è tutto rosso a chiazze per quanto si agita. La pressione, Fler. – Il punto è che per nostra grande sfortuna Dio o chi per lui ti ha dotato di una bocca ma non del manuale di istruzioni, e di conseguenza tu la utilizzi senza sapere come, motivo per il quale nove volte su dieci lo fai a sproposito! Il punto è che come ti muovi fai un casino, ed alle volte basta pure che stai fermo e semplicemente dai aria al cervello per via orale per combinare disastri inenarrabili! Ti si dovrebbe aprire una finestra sulla nuca, così quando senti che devi schiarirti le idee la apri e non devi necessariamente parlare per dare all’ossigeno una via per raggiungere i tuoi neuroni! Avrei dovuto pensarci quando te l’ho quasi spaccata in due, quella testa di cazzo che ti ritrovi, dovevo farlo allora! Alla signora Lotte lo va a dire lui, certo! Ma andare dal tuo padre confessore, se ne hai uno, che almeno è obbligato a mantenere il segreto?!
Si ferma all’improvviso, proprio quando cominciavo a pensare che non ci sarebbe più riuscito, e resta immobile davanti a me, ansimando un po’. Ha gli occhi lucidi, ma capisco subito che non è che stia per piangere, è soltanto la rabbia e l’agitazione. Inspiro profondamente.
- Posso entrare? – chiedo, e mi preparo a sentirmi rispondere di tutto.
- Sì. – dice invece semplicemente lui, scostandosi dall’uscio per farmi passare. Io muovo qualche passo all’interno della stanza, che è letteralmente un casino, con vestiti buttati ovunque, giocattoli – che spero non siano suoi – sparsi sul pavimento e il letto disfatto ai piedi del quale c’è un cestino per la carta straccia pieno di confezioni di dolciumi vuote. – Scusa il disordine.
Gli lancio un’occhiata perplessa, e noto che ha chiuso la porta.
- Dico, te la ricordi o no casa mia? – chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui ride appena, superandomi e sedendosi sul letto. Io lo seguo e faccio lo stesso, sedendomi abbastanza lontano da non rappresentare un fastidio, mentre lui mi guarda e io lo guardo e sostanzialmente, per cinque minuti buoni e non sto esagerando, non facciamo altro che scrutarci a vicenda come fossimo un rompicapo e dovessimo cercare di risolverci. Cosa non del tutto distante dalla realtà, peraltro.
- Che cosa ci sei venuto a fare qui, Chaku? – mi chiede alla fine, sospirando affranto. È frustrato e nervoso, glielo sento addosso. Se abbassa lo sguardo, adesso, non è perché sia triste, o almeno, non è solo per questo. È solo che non sa più cosa fare con me, perché le ha provate tutte e nessuna funziona. Forse siamo solo incompatibili e dovremmo proprio smetterla di continuare a rincorrerci sapendo perfettamente qual è la fine che faremo ogni volta. Forse dovremmo. Forse.
- Volevo solo parlare un po’. – rispondo io. Lui mi lancia un’occhiata pesante come un macigno.
- Siccome spesso parlando tu risolvi i problemi… - borbotta, e io mi stringo nelle spalle.
- Magari non si risolverà niente, ma non mi andava di lasciare che si chiudesse senza che tu sapessi. – dico, facendo sfoggio di grande coraggio.
Fler inarca un sopracciglio, per nulla impressionato.
- Sapessi cosa? – chiede giustamente. Eh. Sapesse cosa? Che cos’è che voglio dirgli, se quando la signora Lotte mi ha chiesto se lo amo non sono riuscito a tirare fuori niente più che un forse? Se dico “ti amo, forse” a Fler adesso, mi sa che mi defenestra sul serio. Stavolta le parole mi tocca sceglierle con cura, e mi tocca farlo adesso. Non posso sbagliare e poi pentirmene fra tre giorni. Non ora.
- Che non ti voglio fuori dalla mia vita. – dico a bassa voce, sforzandomi di guardarlo negli occhi anche se mi imbarazza farlo, perché i suoi sono chiari e limpidi e molto spesso ho avuto l’impressione che riuscisse a leggermi nella testa meglio di quanto non potessi fare io con me stesso, e la cosa mi ha sempre fatto paura, perché in un certo senso questo gli dava delle possibilità di controllo su di me, possibilità che non potevo avere nemmeno io, e fino ad oggi forse inconsciamente io ho sempre pensato che questo fosse un male, un pericolo, o comunque qualcosa cui non volevo sottostare, e invece mi ritrovo adesso a guardarlo e chiedermi perché mai l’abbia pensato. Io a quest’uomo una notte di dicembre di due anni fa ho affidato la vita. Qual è la differenza, adesso, perché non potrei farlo ancora e ancora e ancora? Deglutisco. – Se mi chiedessero se posso fare a meno di chiunque altro… - mi mordo un labbro, ci rifletto davvero, e capisco che sto dicendo la verità, - Se mi chiedessero se posso fare a meno di Bill, direi di sì. Sì, potrei. Ma non voglio te fuori dalla mia vita. Non adesso, e probabilmente mai.
Mi ritrovo all’improvviso senza fiato. Credo di aver detto tutto quello che dovevo dirgli senza fare cazzate nel mentre, ed è possibile che la cosa mi abbia prostrato più di quanto non credessi, il che ci sta, perché è faticoso muoversi in una cristalleria essendo un elefante, ma comunque mi sento in un certo senso come se avessi compiuto la mia missione, come se adesso non ci fosse nient’altro che posso fare, a parte sedermi nella mia bella navicella spaziale e osservare dall’oblò se le cinquanta testate atomiche che ho seppellito nella pancia dell’asteroide in rotta di collisione verso la Terra saranno sufficienti a fermarne l’avanzata. Insomma, se potrò tornare a casa da eroe o se osserverò dallo spazio il mio pianeta – tutto quello che mi interessa proteggere adesso – mentre si disintegra in particelle minuscole, togliendomi una casa e perfino senso di esistere.
Fler resta in silenzio per un’eternità. È sempre così quando aspetti un verdetto da cui dipende tanto, ti pare ogni volta che chi deve dartelo si prenda tutto il tempo dell’universo solo per torturarti. Mi innervosisce, anche se razionalmente so che non lo sta davvero facendo apposta, e a un certo punto sono così nervoso che schiudo le labbra per dire una cosa qualsiasi, la prima che mi passi per la testa, e sono ben consapevole che potrebbe essere la cazzata che rovinerebbe tutto, per cui sono grato, immensamente grato, quando Fler allunga una mano e mi appoggia un dito sulle labbra, zittendomi.
- No. – dice, con aria piuttosto allarmata, ed è alquanto offensivo notarlo, visto che ci penso, in realtà, - Sta’ zitto.
Arriccio le labbra in un broncio poco compiaciuto, ma in realtà il movimento serve solo a lasciargli un bacio involontario e un po’ goffo sul polpastrello. E spero che il brivido che ho sentito io nel darglielo sia lo stesso che ha sentito lui nel riceverlo, e sia questo il motivo per cui ritira la mano e mi guarda con gli occhi spalancati, perché se non è così, se in realtà tutto quello che sta pensando è che sono un deficiente e non vuole più vedermi, giuro che dalla finestra mi ci butto da solo. Ma non per cosa, perché quegli occhi così incerti non li reggo, non li posso reggere, non ci bastano già i miei ad essere confusi per entrambi?, e mentre sono qui che mi faccio problemi enormi e controllo davvero quanti passi mi separano dalla finestra – o magari dalla porta, via, non vogliamo fare troppo i melodrammatici, o spaccare questo bel vetro pulito oltre le tendine rosa di una stanzetta in cui spero Fler non vorrà passare altro tempo oltre al necessario – all’improvviso qualcosa nei suoi occhi si schiarisce, si scioglie, e quando lo vedo avvicinarsi boccheggio a vuoto per un paio di secondi come un pesce fuori dalla boccia, un attimo prima di sentire le sue labbra che si premono contro le mie, e allora ciao, arrivederci, campane a festa, perché io smetto di capire qualsiasi cosa e non mi importa più di niente.
Mi sporgo in avanti, spingendolo sul letto, e sul momento non è che mi rendo conto del fatto che sto davvero per provare a fare sesso con lui qui e ora, penso solo che ce l’ho premuto addosso e mi piace e ne voglio di più. Lui, peraltro, non è che opponga resistenza più di tanto: tira su una gamba, puntando il piede contro il materasso e strisciando all’indietro, afferrandomi per il colletto della maglietta e trascinandomi con sé mentre io mi sistemo fra le sue cosce e nel momento stesso in cui i nostri bacini si toccano devo allontanarmi un secondo perché mi manca seriamente il fiato. Sto per scopare! Sto per scopare con Fler! Nessuno di voi che non sia me può capire quanto questo avvenimento sia glorioso e vada celebrato. Semplicemente non potete, è la cosa più bella del mondo, e siccome pensavo che non sarebbe più avvenuto al momento sono così felice che mi scoppia il cuore nel petto.
Fler sorride contro le mie labbra, appoggiando la fronte alla mia.
- Piantala. – borbotta divertito, gli occhi chiusi, le ciglia che tremano appena. Mi struscio contro di lui perché so che non è questo che mi sta chiedendo di smettere di fare.
- Ma non sto dicendo niente. – protesto, ritardando la sua risposta di qualche secondo coinvolgendolo in un altro bacio.
- Non ad alta voce, forse. – risponde lui, la voce sottilissima e persa. Non apre gli occhi, e mi tiene stretto a sé con possessività mentre faccio di tutto per spogliarci entrambi senza causare disastri, e penso che sia bellissimo che lui possa dirmi che non ho parlato ad alta voce ma qualcosa l’ho detta comunque, anche se era una cosa stupida. C’è qualcosa, nel modo in cui Fler mi capisce, che non ho mai provato con nessun altro. L’idea delle anime gemelle mi è sempre stata un po’ sullo stomaco, se devo dire la verità, ma se ci credessi, sono sicuro che crederei anche che Fler sia la mia. Perché è così evidente, così lampante, che anche uno stupido come me non può non accorgersene.
Il letto cigola rumorosamente sotto di noi – cigola quando mi avvicino, quando lui schiude, piega e solleva le gambe per farmi posto, quando entro piano dentro di lui e ritrovo nel suo corpo il posto che credevo di avere perduto per sempre e invece, a sorpresa, è ancora lì – ma io non ci bado, e non ci bada neanche Fler. Pensiamo entrambi solo distrattamente alla porta – lo so perché ci voltiamo a guardarla tutti e due nello stesso momento, prima di scoppiare in una risata senza fiato che ci scuote ma non c’impedisce di continuare a venirci incontro spinta dopo spinta – ma tutto comincia a farsi annebbiato e confuso nel momento in cui lui sussurra il mio nome sul mio collo, e io mordo il suo e mi muovo un po’ più svelto, con un po’ più di forza, e Dio, non mi capacito di quanto mi sia mancato il modo tutto suo in cui Fler mi prende dentro, il modo in cui è capace di farmi mancare il fiato piegando il collo o inarcando la schiena anche se niente di tutto questo dovrebbe turbarmi come invece fa. Eppure succede, e penso che questo in sé racchiuda un po’ tutto, i motivi per cui ci siamo trovati, e persi, e ritrovati, e ripersi, e ritrovati ancora, e i motivi per cui penso che continuerà ad essere così sempre, fra noi, perché non dovrebbe accadere, eppure succede. Eppure succede.
Lo stringo con forza fra le dita, accarezzandolo al ritmo delle mie spinte, e vengo molto prima di lui perché lui – lo so che lo fa apposta, lo vedo dal modo in cui sorride – rotea i fianchi e stringe i muscoli attorno a me apposta per tirarmi questo bello scherzetto, solo che non me ne frega niente di essere venuto per primo, in realtà non me ne frega proprio un accidenti di niente, continuo a muovermi dentro di lui, più piano, con calma, finché ancora sono duro e posso arrivare a sfiorarlo in quel punto che gli fa inarcare la schiena ed arricciare le dita dei piedi, ed è allora che lui getta indietro il capo, schiude le labbra, respira affannosamente e si abbandona completamente fra le mie braccia, soddisfatto, mentre viene fra le mie dita.
Per un po’, restiamo in silenzio, ad ascoltare il suono dei nostri respiri mentre, da concitati e spezzati, si fanno sempre più calmi. Resto completamente spalmato addosso a lui, e lui mi tiene sopra di sé senza spostarsi di un millimetro, come se non sentisse il minimo fastidio per il mio peso. O ci siamo incastrati benissimo, o semplicemente non gli va di allontanarsi. Mi stanno bene entrambe le opzioni.
- Sai? – dico dopo un po’, sollevando gli occhi. Lui abbassa lo sguardo a incontrare il mio e piega un po’ il capo in un gesto curioso. – Doreen mi ha invitato a cena. – rivelo con candore.
Lui inarca un sopracciglio.
- Qui? – chiede.
- No, a casa dei genitori di Sido. – mi acciglio io, - Per farmeli conoscere, sai com’è, visto che ormai sono di famiglia.
Lui ride, tirandomi uno scappellotto contro la nuca e muovendosi appena sotto di me. Vorrei dirgli di non farlo, che è una cosa molto pericolosa soprattutto adesso che sono ancora troppo sensibile e lui è ancora troppo nudo, ma ho appena il tempo di schiudere le labbra che sentiamo provenire un paio di tonfi dal pavimento. Bum bum, e basta.
Nella mia testa si affollano le ipotesi più disparate, compresa la possibilità che questa camera sia posseduta o che lo sia l’intera casa di Sido, o chissà, Sido stesso!, questo spiegherebbe perché sua figlia è in realtà Rosemary’s baby, ma poi Fler ride, si stringe nelle spalle e si stiracchia come un ragazzino.
- Mi sa che è pronta la cena. – ipotizza con tono divertito.
A me sa che ho proprio bisogno di qualcuno che mi spieghi come sono le cose quando nella mia testa si sono già trasformate in un delirio senza un perché, invece.
- Vieni a stare da me. – gli dico in un fiato, guardandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata con stupore sincero, e poi mi sorride.
- Parliamone dopo. – propone, - A pancia piena. E da vestiti. Okay?
Annuisco, perché come ho già detto mi serve che qualcuno mi guidi. E penso di averlo trovato.
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