Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
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MAKE-UP FOR BOYS
CAPITOLO 1
BUBBLER
Avevo quindici anni, quell’estate. Mamma piangeva nella stanza accanto alla mia. Alla TV, che era rimasta accesa per tutto il giorno, un uomo cominciò a piangere a bassa voce. Disteso sul letto, fissando il vuoto, pensai che il pianto di mia madre e quello dell’uomo alla TV si componessero in un duetto veramente meraviglioso. Poi, all’improvviso, il soffitto divenne grigio ed io pensai “Voglio un jukebox”.
Questo è tutto quello che ricordo della giornata in cui mio padre andò via di casa.
Mia madre mi ha raccontato molte cose, di quel giorno. Di avermi chiamato in salotto, di avermi detto di accomodarmi in poltrona mentre lei e papà continuavano a fissarmi dall’alto, semplicemente terrorizzati perché non avevano la minima idea di come gestirmi. Mi ha raccontato che mio padre prese la parola e disse “Matt, io e tua madre abbiamo deciso”, e che lei lo interruppe puntualizzando che era stato lui a decidere tutto, e che quasi scoppiarono a litigare davanti a me perché mio padre cominciò a sindacare su cosa trovava giusto far sapere “al bambino” mentre mia madre giustamente obiettava che per “il bambino” la cosa migliore sarebbe stata continuare ad avere un padre e non uno stronzo che va via di casa.
Mamma mi ha raccontato anche che, a quanto pare, dopo la scenata io semplicemente mi alzai e tornai in camera mia. Papà raccolse la propria roba ed uscì, e lei si rintanò in camera da letto. Quella che era stata la loro camera da letto, e che da quel momento in poi sarebbe rimasta per me la sua camera da letto, nonostante i numerosi uomini che si sono succeduti nell’occupare la metà di lettone che non è più di mio padre da oltre vent’anni.
Tutto questo susseguirsi d’eventi non è che uno sterile racconto. Io non ne posseggo immagini. Non ne ho ricordo. Potrebbe anche non essere mai successo.
Tutto quello che ricordo resta l’incrocio di quei pianti.
E il desiderio di avere un jukebox.
Lei staccò appena gli occhi dalla strada, solo per qualche secondo. Giusto il tempo di voltarsi, incontrare il mio sguardo serio e pacato e tornare a fissare l’asfalto.
- Non avrei neanche idea di dove andartelo a comprare. – disse sinceramente, stringendo la presa sul volante, - Non potresti desiderare un IPod come tutti i ragazzi della tua età…?
Ridacchiai lievemente, coprendomi la bocca con una mano.
- Fa nulla. – dissi, scrollando le spalle.
In realtà faceva.
Erano passati all’incirca quattro o cinque mesi da quando mio padre era andato via, e quello del jukebox in camera era stato l’unico pensiero fisso a tenermi compagnia.
Non era come se fossi “stato male”. Non ero “stato male”. Ero rimasto tranquillo, ero tutto sommato rilassato. La partenza di mio padre per l’Australia – appena tre settimane dopo la sua uscita di casa – non mi aveva sconvolto. Il pensiero di non poterlo più rivedere se non per fantomatici viaggi di vacanze estivi che sapevo non si sarebbero mai verificati, non mi turbò affatto.
Mio padre cantava in una band piuttosto famosa a livello internazionale, ero abituato a non vederlo. Ero abituato al pensiero che non ci fosse. Ed ero abituato al pensiero che potesse trovarsi dall’altro lato del mondo rispetto a me, senza che questo dovesse procurarmi particolari traumi. Era una condizione del tutto normale. L’unica cosa che era cambiata era il rapporto fra lui e mia madre. Perché quel rapporto, in effetti, un tempo c’era stato. Quello fra me e lui, invece, era sempre mancato.
Ciononostante, malgrado il mio stato d’animo non potesse dirsi “sofferente”, di sicuro non ero rimasto lo stesso. Avevo progressivamente perso interesse per qualsiasi cosa mi stuzzicasse prima. Non era stata una cosa intenzionale – neanche me ne rendevo conto, a dirla tutta. Suonicchiavo il piano – e non lo toccai più, se non per una volta, ma il solo contatto con i tasti d’avorio mi infastidì al punto da convincermi a non provarci mai più. Scrivevo racconti – ma smisi. Ogni tanto disegnavo – non era mai stato un passatempo fisso, ma smisi anche con quello.
Passavo le mie giornate ad ascoltare musica. E non era solo una questione di udito. Potevo trascorrere interi pomeriggi ad esaminare le copertine dei CD, facendovi scorrere sopra la mano alla ricerca di imperfezioni nel cartone, o, se l’artwork era in rilievo, a saggiarne colli e valli per imprimerne la forma nei polpastrelli. Io e la musica avevamo un rapporto molto fisico. Mi sarebbe davvero piaciuto poter avere un jukebox, sarebbe stato il regalo perfetto, il giocattolo perfetto.
Chiaramente allora non la vedevo in questi termini.
Un jukebox non sarebbe stato un giocattolo, sarebbe stato l’altare del personalissimo santuario che avrei costruito in camera.
Ma quando sei adolescente vedi tutto in maniera talmente distorta che a ripensarci dopo ti dai i brividi da solo. Non hai percezione chiara di niente. È tutto esageramene grande. O esageratamente piccolo.
Io sapevo di avere un problema. O meglio, sapevo che avrei dovuto averlo. Avrei dovuto sentire il bisogno di parlare con qualcuno di ciò che provavo, di ciò che l’assoluta mancanza di mio padre significava in quel momento, di ciò che aveva sempre significato, in qualche luogo oscuro della mia testa.
Ma questo problema, in effetti, mi sembrava esageratamente piccolo. Insignificante.
Al contrario, la fissazione per la musica era enorme. Si gonfiava, come una spugna, occupava tutto lo spazio nella mia testa. Dom continuava a ripetere che avrei dovuto lasciarne un po’ anche per il cervello, quando cercavo di spiegare come lo sentivo. Chris si limitava a ridacchiare sotto i baffi, mandandolo su tutte le furie.
Potevo capire la paura di Dom. Avevo già stressato incredibilmente lui e Chris perché imparassero a suonare rispettivamente batteria e basso, dal momento che avevo intenzione di mettere su una band. Era stato molto felice nel momento in cui io avevo perso interesse nell’idea, ma ora quel ritorno di fiamma lo metteva in agitazione, aveva come il presentimento che da un momento all’altro avrei potuto investirlo di nuovo con quell’idea strampalata, e che lui non sarebbe stato in grado di sottrarsene.
Poverino.
Se penso a com’è finita, aveva ragione lui.
Ma non sarebbe successo prima di un altro anno, almeno, e il filo di pensieri che sto seguendo non è ancora arrivato a quel punto. Manca un tassello fondamentale.
Manca Brian.
Devo arrivare prima a lui.
Quando sarò arrivato a lui, arriverà anche il resto.
Poi un giorno tornò a casa, irruppe in camera mia e mi trovò disteso sul letto ad osservare curioso la copertina di una rivista musicale random. Io mi voltai a guardarla, e le vidi passare negli occhi una quantità enorme di cose. Prima di tutto che in quel momento avrei dovuto studiare, e che quindi adesso era indecisa se dirmi o meno ciò che pensava. Poi che probabilmente quello che stava per dirmi avrebbe soltanto incasinato ancora di più la situazione. E infine che be’, io sembravo tenerci, e quindi così sia.
- Pensi ancora di volere quel coso?
Scattai a sedere, abbandonando la rivista sul copriletto.
- Me ne hai comprato uno?
Lei sospirò.
- No. – confessò abbassando lo sguardo.
- Oh. – dissi io, demoralizzato, imitandola.
- Però ne ho visto uno in quella creperia che c’è in Saint James street… - aggiunse, scrollando le spalle, - Puoi provare a parlare con il proprietario… magari te lo vende.
Ora, so che può sembrare idiota. Ma la mia giornata veramente cambiò sapore, colore e odore, in quel momento. Era la prima volta che mia madre mi dava una piccola speranza in quel senso, e dannazione, non avevo mai visto un vero jukebox, prima di allora!
Volai fuori di casa e la metropolitana mi portò, caotica e ordinaria come al solito, fino a destinazione.
La creperia era in realtà un piccolo bar. All’esterno aveva un giardinetto piuttosto grande, ricolmo di tavolini, mentre all’interno c’era solo la cassa, un bancone sempre stracolmo di panini e un ripiano enorme per fare le crepes, spalleggiato da un grandissimo frigorifero e da tutta una serie di scaffali contenenti ingredienti di ogni tipo.
Il jukebox era in fondo.
Spento, inutilizzato da chissà quanto tempo.
E bellissimo.
I colori scivolavano dal rosa al giallo passando per tutte le tonalità intermedie, il che gli dava un aspetto psichedelico davvero affascinante, ed era una riproduzione fedelissima di un modello che avevo visto online, il Bubbler, praticamente il jukebox più famoso della storia della musica.
Lo amavo.
Lo amavo, lo amavo e lo volevo.
- Prego. – disse una voce alle mie spalle, e io mormorai “il jukebox” prima ancora di voltarmi.
Quando lo feci, però, ripiombai nel silenzio. Davanti a me si stagliava un uomo non troppo alto ma decisamente robusto, che mi fissava sorridendo in un modo che probabilmente a lui doveva sembrare aperto e conciliante, ma in realtà era quantomeno spaventoso.
- Buonasera… - borbottai incerto, torturando gli orli delle tasche dei jeans fra le dita.
- Buonasera! – rispose lui entusiasta, restando in attesa della mia ordinazione.
Io mi guardai intorno e gli chiesi un panino.
- Un panino come? – insistette lui, senza capire che non si trattava d’altro che di una scusa.
Scrollai le spalle e buttai fuori un “cotoletta e patatine” poco convinto, preparandomi a spendere quella sterlina e mezzo e buttarla nell’immondizia appena uscito da quel posto.
Il tizio mi rifilò un panino enorme. Uscivano patate, pezzi di carne e foglie di lattuga da ogni lato. Mi sedetti al bancone del bar, su uno sgabello, e lo poggiai sul piattino che mi aveva passato, cominciando ad esaminarlo per togliere tutto ciò che non mi convinceva. A cominciare dalla lattuga.
- Pensavo… - dissi, dopo un’enorme serie di incertezze, senza riuscire a sollevare lo sguardo dal panino che stavo crudelmente sezionando, - …il jukebox è in vendita?
Lui posò nel lavandino il bicchiere che stava lavando e mi fissò.
- Perché? – chiese curioso. Il suo tono mi costrinse ad alzare gli occhi e guardarlo a mia volta.
- Io lo comprerei. – dissi serenamente, ripetendomi che la sola vista di Bubbler era abbastanza per ridarmi coraggio.
Lui continuò a scrutarmi con attenzione, prima di ridacchiare nervosamente.
- Mi dispiace, ragazzino, il Bubbler non è in vendita.
Il Bubbler.
Cioè era un modello originale?!
- Era tipo di mio nonno. O qualcosa del genere. Capiscimi, - disse sbuffando, - non è che a me interessi, te lo darei pure gratis, ma non sono io il proprietario, qui.
- No…? – piagnucolai indecentemente, giocando con la lattuga unta di maionese nel piatto.
- No. È tutto di quel vecchiaccio di mio padre. – spiegò con astio, - Credimi, se potessi cambierei praticamente il novanta per cento di tutto quello che c’è qui dentro. – borbottò, accompagnando le parole con ampi gesti delle braccia e schizzandomi d’acqua su tutta la faccia.
- E non c’è proprio niente da fare…? – chiesi io, asciugandomi il viso con una manica, cercando di non mostrarmi infastidito, - Vorrei davvero quel jukebox, ci penso da mesi…
- Mmmh. – mugugnò lui, pensieroso, - Senti, io qui devo fare tutto da solo. Il che in genere non è particolarmente faticoso, perché per la maggior parte del giorno questo posto è semivuoto. – illustrò con uno sbuffo annoiato, - Solo che da queste parti c’è una scuola, e quindi all’uscita d’improvviso mi ritrovo invaso da stupidi adolescenti che… - mi lanciò un’occhiata, - Be’, da ragazzini come te.
Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare, perciò mi limitai ad annuire incerto e fissarlo ammirato.
- Quindi, tu vuoi il Bubbler. Io voglio una mano d’aiuto. Possiamo risolvere!
M’illuminai. Pensai che volesse propormi un accordo del tipo “lavori qui a pieno regime pulendo i cessi per due mesi e alla fine il Bubbler sarà tuo”, ed ero già pronto ad accettare con slancio, quando lui disse “Vieni a lavorare con me! Così potrai stare col Bubbler tutto il tempo che vorrai!”, ed io ero così preso da tutti i miei sogni di gloria che quasi neanche me ne accorsi, e accettai lo stesso.
Quando me ne resi conto, era troppo tardi.
- Aspetta. – balbettai, - Intendi lavorare qui a tempo indeterminato…?
Lui annuì tranquillamente.
- Ma è illegale! – protestai agitato, - Ho quindici anni!
- Basterà l’autorizzazione dei tuoi. – risolse lui semplicemente, con una scrollata di spalle.
- Ma… - cercai altro da dire, e non trovai niente. Lanciai un’occhiata a Bubbler, nell’angolino buio. Così, ricoperto di polvere e abbandonato a sé stesso, faceva veramente tristezza. – D’accordo. – annuii, - Ma ad una condizione.
Il tipo sorrise furbo.
- Lo rivuoi funzionante, eh?
Annuii ancora, con più decisione.
- E sia. – concesse lui, - Per quello che m’importa. Ma te ne occuperai tu, ok?
- Sì!!! – risposi entusiasta, scattando in piedi e rischiando di scivolare in terra dallo sgabello, - Certo che sì!
Un Bubbler originale sotto la mia unica e totale responsabilità!
Il mondo era un luogo bellissimo.
Fu così che venni assunto al Cafe Creperie.
Tom Kirk, il mio datore di lavoro, l’uomo che avevo incontrato quel giorno, decise che avevo un talento per le crepes alla nutella e mi mise a fare solo quello. Lo feci per mesi. Ogni giorno uscivo da scuola e mi fiondavo al locale; lì rimanevo ore: preparavo crepes per i miei stessi compagni di classe – che da quando avevano saputo che lavoravo lì avevano deciso di approfittare di me come mai avevano fatto prima, sperando in qualche sconto che il comportamento burbero di Tom mi salvò dal negare, dal momento che lo negava già lui più che bene – e rimiravo il mio Bubbler luminoso e colorato che mangiava vecchi dischi dei Beatles e di musica ballabile varia ed eventuale che naturalmente mi disgustava, ma non era quello il punto.
Fu così improvviso che è quasi assurdo pensarci.
Passai dal niente al tutto in un paio di giorni.
Dai pomeriggi noiosi riverso sul letto e fissare per la milionesima volta la copertina di Diamond Dogs a quelli pieni di chiacchiere e scherzi dietro il bancone della caffetteria, con Dom e Chris che cercavano di infilare le dita nel barattolone di Nutella da tre chili che tenevo su un tavolino lì a fianco e le ragazze che mi imploravano per un pezzettino di crepes gratuito.
Penso che in assoluto quella fu l’esperienza che più mi aiutò a risolvere il “problema” che non avevo ma che decisamente avrei dovuto avere. Anche se è stupido dirlo in questi termini.
Comunque sia, mi aiutò anche a non accorgermi di tutta una serie di cose delle quali, però, sarebbe stato utile prendere coscienza prima. Per dirne una, l’abitudine di mia madre di cambiare uomo ogni due-tre mesi senza nessun motivo apparente. Il continuo viavai di tizi sconosciuti dalla sua camera da letto. La sua tristezza.
Dal momento che non me ne accorsi, non riuscii ad accorgermi neanche di quando tutto questo finì. Mia madre ricominciò a rifiorire. Il viavai scomparve del tutto. E lei riprese ad uscire di sera.
Non mi accorsi di niente. E così, quando si presentò in camera mia e, imbarazzata come una ragazzina, mi confessò che le sarebbe piaciuto farmi conoscere “una persona speciale”, non ebbi immediatamente una percezione chiara di ciò che stava succedendo. Mi limitai a guardarla come se fossimo idioti entrambi e le chiesi chi fosse.
- Si chiama Brian Molko. – gorgogliò lei gioiosa, - S’è trasferito qui qualche mese fa, è un mio collega.
Allora cominciai a subodorare qualcosa. Non capii, ma mi sembrò che qualcosa da capire ci fosse. Il che non era mai stato del tutto automatico, per me.
- Ci vediamo da un po’… - continuò mia madre dolcemente, - Sai Matt, so di aver fatto tanti errori, con gli uomini, in quest’ultimo periodo… - errori dei quali io non ero a conoscenza, e per i quali non sentii il bisogno di perdonarla, - …ma credo davvero che lui sia quello giusto. – quello giusto, disse, me lo ricordo, disse proprio così, - E ci terrei a fartelo conoscere.
Rimasi lì, seduto alla mia scrivania, incerto sul da farsi. Annuii, lei lo prese come un “ok” ed uscì.
Io pensai solo che da quel momento in poi avrei avuto un “padre” per casa.
Non mi sembrò tanto diverso dall’idea di comprare un nuovo vestito o, chessò, un cucciolo di cane.
Preparai lo zaino per il giorno dopo, spensi il pc, infilai le cuffie dell’IPod che avevo finito per farmi comprare comunque nelle orecchie e mi misi a letto.
Mamma preparò l’incontro col signor Molko per il giorno dopo. Si informò sui miei orari scolastici, sui miei orari lavorativi, e quando le assicurai che sarei tornato a casa solo per cena lei annuì e disse “perfetto”.
Quando rincasai, il signor Molko era già lì.
Era un uomo sulla quarantina, sembrava decisamente più vecchio di mia madre e dimostrava certamente più anni di quanti non ne avesse in realtà. Corti capelli brizzolati, limpidi occhi celesti e un sorriso affascinante. Modi da galantuomo. Abbigliamento impeccabile. Mi salutò chiamandomi “Matt” e mi disse che gli faceva molto piacere conoscermi, che ero “esattamente come Marylin mi aveva descritto” e che gli sembravo un ometto simpatico.
Gli risposi che anche lui mi sembrava un ometto simpatico, e lui rise di gusto.
Risi anche io.
E rise mamma.
Ci sedemmo a tavola e mangiammo i pomodori ripieni che mamma aveva preparato con cura per tutto il pomeriggio, perché la salsa tonnata fosse densa e non sapesse troppo di maionese, e perché il mais non uscisse dai bordi, cadendo sul piatto. Divorammo tutto, antipasto, primo, secondo e contorno. Quando arrivammo al dolce – budino al cioccolato. A mamma non piaceva, ma si ostinava a dire fosse un dolce divertente. Io lo amavo, questo mi bastava. – sapevo già tutto quello che c’era da sapere sulla vita del signor Molko. Che era americano. Che era divorziato. Che aveva due figli ma stavano negli Stati Uniti.
E soprattutto che amava mia madre.
Mi bastò.
Io assistetti a quel discorso imburrando una fetta biscottata alle nove di una domenica mattina. Quando sentii la parola “Junior” d’improvviso gli sbuffi di burro che non riuscivo ad appianare persero interesse e sollevai lo sguardo.
- Junior…? – sillabai incerto, poggiando il coltello sul tavolo e allungando una mano verso il barattolo di marmellata.
- Oh. – rispose il signor Molko, sorseggiando il proprio caffé. E li si fermò.
- No, non gliene ho parlato. – disse mia madre, annegando lo sguardo nel cesto di biscotti in mezzo alla tavola.
Il signor Molko annuì compitamente.
- Non preoccuparti, Mary. – le sorrise, conciliante, - È meglio se a dirglielo sono io.
- Dirmi cosa? – insistetti, un po’ nervoso, aprendo il barattolo e affondando il coltello nella conserva.
Il signor Molko sospirò.
- Matt, tu sai che ho due figli, no?
Annuii, spalmando la marmellata sulla fetta e osservando il burro colorarsi di rosa.
- Ecco, io e tua madre – e mi accorsi che mamma non si lamentò, non negò, sorrise e basta, - pensiamo sarebbe una bella cosa se potessimo essere… più come una famiglia vera.
Addentai la fetta, continuando a guardarlo.
- Mio figlio minore, Brian, ha la tua stessa età.
Risi.
- Ha il tuo stesso nome! – commentai divertito, - È la prima volta che vedo una cosa simile dopo Indiana Jones!
Lui rise con me, continuando a bere il caffé.
- Abbiamo pensato di farlo venire qui. E vivere tutti insieme. – confessò tranquillo, - Speriamo che per te vada bene.
Finii la mia fetta biscottata, bevendoci su un po’ di latte caldo.
L’unica cosa che mi colpì, in quel momento, fu che lui e mia madre si consideravano un’unica entità pensante in sincronia, e che mi dispiaceva non essere parte di quel groviglio caldo e accogliente che la loro unione mi sembrava.
Sorrisi.
- Certo che mi va bene.
Non credo che il ragazzo dall’altro lato protestò.
Il successivo sorriso del signor Molko non era il tipo di reazione che si ha quando si deve cominciare un litigio per convincere qualcuno delle proprie ragioni… era la reazione che si ha quando si sa di averla comunque vinta.
In ogni caso, la domenica successiva eravamo all’aeroporto. Io mi guardavo intorno con aria curiosa e mia madre si mordicchiava le unghia, ansiosa, mentre il signor Molko si sollevava sulle punte per superare un gruppo di giganti scandinavi in arrivo nella piovosa Inghilterra probabilmente per una partita di calcio.
Successe tutto in due secondi.
Due davvero.
Io adocchiai un manifesto con sopra la pubblicità di un nuovo panino di McDonald’s, decisi che lunedì avrei ucciso Tom e sarei fuggito al primo locale disponibile per mangiarlo, e quando tornai a guardare l’atrio della sala arrivi lo vidi.
Quasi contemporaneamente, il signor Molko sollevò un braccio e disse “Brian!”, ridendo felice come un bambino.
Furono due secondi.
So che è banale, so che è stereotipato, ma furono i più lunghi della mia vita.
Era una ragazzina.
Bassa e magra.
Con uno strano casco di capelli scuri e spettinati sulla testa.
Una maglia nera stretta con le maniche più lunghe dell’universo.
Una gonna.
Un paio di collant.
E un paio di anfibi.
Bassa e magra.
Con uno strano casco di capelli scuri e spettinati sulla testa.
Una maglia nera stretta con le maniche più lunghe dell’universo.
Una gonna.
Un paio di collant.
E un paio di anfibi.
Brian.
Si avvicinò sbuffando, ed io seguii il movimento delle sue labbra. Sembrarono arrotondarsi e gonfiarsi in una piccola morbida palla, increspandosi come le onde del mare.
Rosse, piene e leggermente umide.
Non mi degnò di uno sguardo. Si limitò a scrutare con malcelato odio il proprio padre, lanciando la valigia ai suoi piedi e mettendo una mano sul fianco.
- Contento? – sputò fuori, velenoso.
- Junior, ti prego… - mormorò il signor Molko, roteando gli occhi.
- Avresti almeno potuto costringere anche Barry a venire. – continuò il ragazzo, senza interessarsi a nient’altro che non fosse il proprio genitore.
- Barry ha una famiglia e dei figli, Junior… - rispose lui, prendendo la valigia da terra e rimettendola dritta sulle rotelle.
- Piantala di chiamarmi Junior. È meschino che tu lo faccia solo perché sai che mi infastidisce.
Il signor Molko ghignò apertamente.
- Posso presentarti la mia compagna, o la sbranerai?
- Non ne avrei motivo. – rispose Brian con un sospiro, socchiudendo gli occhi. Solo allora sembrò cominciare a guardarsi intorno sul serio. E, prima di guardare mia madre, lanciò un’occhiata alla propria sinistra e mi sfiorò. Non diede neanche segno di accorgersi della mia presenza… ma che mi vide lo so.
Perché sentii i suoi occhi addosso, e quegli occhi non guardano mai in maniera lieve, non sono mai leggeri, non sono mai discreti. Sembra vogliano spezzarti in due ogni volta che ti si posano sulla pelle.
L’incontro fra Brian e mia madre fu quanto di più esilarante successe quel giorno. Era ovvio che lo trovasse adorabile da guardare, ma che avrebbe preferito mille volte poter rimanere solo a guardarlo senza necessariamente doverselo portare in casa. In fondo, posso capirla. Lui non era esattamente il tipo di adolescente maschio nel pieno delle proprie facoltà fisiche e mentali che immagini verrà a bussare alla tua porta. Era decisamente atipico, e non solo sembrava fiero di esserlo, sembrava anche uno di quei casini ambulanti impossibili da sbrogliare.
Questo fu il motivo per cui mia madre ne fu terrorizzata e si comportò con lui come se Brian fosse una principessina d’altri tempi e lei la dama di corte incaricata di farle compagnia. Mi chiedo ancora come sia riuscita a resistere all’impulso di aprire per lui la portiera della macchina.
Mamma non era abituata ad avere il controllo delle cose, ma era sempre lei a perderlo. Non qualcun altro a sottrarglielo. Cosa che invece Brian sembrava del tutto intenzionato a fare.
Comunque per me fu abbastanza semplice. Mi limitai ad osservare quello scricciolo in azione, trattenendo a stento le risate per tutte le occhiatacce che lanciava al signor Molko e tutte quelle che si sforzava di non lanciare a mia madre.
Fu semplice, fino a quando il signor Molko non distrusse tutto con l’uscita più infelice della giornata.
- E lui sarà il tuo nuovo fratello. – disse, mettendomi un braccio attorno alle spalle e spingendomi verso Brian.
Lui mi guardò.
Inequivocabilmente. Per molti secondi.
Socchiuse le palpebre, e il suo sguardo divenne veramente cattivo.
Catalizzò su di me tutto l’odio che provava e incrociò le braccia sul petto.
- Io ho un solo fratello. – sentenziò secco, - Tu chi saresti?
Deglutii.
- Matthew. – risposi incerto.
Lui roteò gli occhi e scosse il capo come a dire “sì, be’, chissenefrega” e poi si allontanò senza più calcolarmi.
Finì così, praticamente. C’infilammo velocemente in macchina e prendemmo l’autostrada per tornare a casa.
- Non sei felice di essere in Inghilterra…? – chiese incerto il signor Molko, fissando il figlio riflesso nello specchietto retrovisore.
Brian si rincantucciò nell’angolino più lontano da tutti nel sedile posteriore, le braccia ancora strette e serrate sul petto e l’espressione più schifata che avessi mai visto in faccia a qualcuno.
- Non potrà essere peggio di casa. – borbottò impietoso, prima di ripiombare nel silenzio.
Cercai di non calcolare nessuno, perché sinceramente speravo di fare uscire di testa mio padre prima che ci fosse bisogno di abituarmi a una convivenza con degli estranei. Speravo mi avrebbe rimandato a casa. Speravo che entro la fine della settimana successiva sarei tornato negli Stati Uniti. Alla mia vita schifosa. Che però quantomeno era prevedibile.
Speravo in un mucchio di cose, l’unica cosa in cui non speravo eri tu.
Il che dimostra che ho sempre avuto scarso intuito per le scommesse.]
continua…
Ogni tanto vengo a vedere se per caso hai aggiornato questa bellissima storia e, anche se vengo delusa dall’assenza di nuovi capitoli, mi trovo sempre a rileggere questi 7…è una storia speciale, spero tanto che troverai la voglia di continuarla! Tra l’altro, è così particolare che se cambiassi i nomi dei personaggi sarebbe una storia originale vera e propria, potresti farci un libro… ma non cambiarli mai! Il mollamy dà sempre quel tocco in più! :D Eh niente, volevo solo dirti che continuo a farmi del male leggendola e rileggendola pur sapendo che probabilmente non saprò mai come andrà a finire ç_ç
ki2k2ka
06/05/2014 01:56