Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
MAKE-UP FOR BOYS
CAPITOLO 4
CREAM AND CHOCOLATE

Il giorno dopo, quando mi presentai al Cafe Creperie, Tom mi guardò attentamente e strillò. Fu inquietante, perché credetemi, non vorreste mai sentire un quarantenne strillare. A quella maniera inorridita, poi. Io lo guardai di traverso.
- Niente commenti. – dissi astioso, lanciando un’occhiata a Bubbler per cercare di ritrovare un po’ di fiducia nel genere umano.
- Niente commenti?! – continuò a strillare lui, sempre più isterico, strattonandomi malamente e impedendomi di posare uno sguardo più lungo e rassicurante sul jukebox colorato in fondo al locale, - Ripassiamo: perché ti ho assunto?
- Perché io volevo il tuo jukebox. – ricordai placido, sollevando un sopracciglio.
- No, questo è il perché tu ti sei fatto assumere. Io ti ho assunto perché mi serviva un bel faccino cuccioloso per vendere le crepes! E tu rovini tutto… facendoti pestare a sangue!!!
Avrei voluto ricordargli che, in fin dei conti, dal momento che mi avevano pestato, la cosa non doveva avermi fatto tutto questo piacere. In realtà, però, la solita questione del “l’hai fatto comunque consapevolmente” mi frenò, ed abbassai lo sguardo riflettendo sul fatto che avevo davvero rovinato tutto facendomi pestare.
- Mah. – sbuffò il mio datore di lavoro, deluso, incrociando le braccia sul petto e pensando a cosa fare di me. – Ora non posso certo metterti al bancone. Non così conciato. Le ragazze scapperebbero. – si interruppe per guardarmi con disapprovazione, e io annuii, sentendomi in colpa e stupido, - Va be’. – concluse dopo un po’, sospirando, - Per oggi vai in magazzino e fai l’inventario.
Sollevai lo sguardo, spalancando gli occhi.
- Inventario…? – chiesi titubante.
Tom ridacchiò, un’ombra di soddisfazione crudele negli occhi.
- È un modo carino per dirti che al piano di sotto c’è uno stanzone del quale ignoro il contenuto e che sta chiuso da secoli. – spiegò, - Dal momento che non puoi fare altro, vai lì e compila una lista di ciò che c’è. – e così dicendo mi consegnò un taccuino nuovo e una matita perfettamente temperata, che tirò fuori da sotto il grembiule che indossava.
Io continuai a guardarlo esterrefatto.
- Matt? – mi chiamò, inarcando le sopracciglia.
Dischiusi le labbra.
- …scusa, che te ne fai di un magazzino? – chiesi, dimostrando di essere bene intenzionato a non comprendere neanche una parola di ciò che aveva detto, - Hai i frigoriferi e la dispensa qui, dietro i banconi! Che te ne fai di un sotterraneo?!
Lui sospirò.
- È una storia lunga. – cominciò, arrampicandosi sul tavolino accanto al barattolo di nutella gigante, - Praticamente, a quanto pare, durante la seconda guerra mondiale, mio nonno-
- Ok, ok. – lo interruppi scuotendo il capo, già confuso, - D’accordo, ho capito. Vado di sotto.
Lui sorrise trionfante e balzò in piedi, tornando dietro al bancone dei panini per servire due ragazze appena entrate.
Per certi versi, Tom aveva ragione. Non avrei mai avuto il coraggio di mostrarmi in giro in quel modo. Ero riuscito a sfuggire agli occhi di mamma indossando cappellino e occhiali da sole – anche se lei, a giudicare dal sospiro enorme che aveva lanciato osservandomi uscire di casa, doveva aver capito qualcosa – e da quelli di professori ed amici saltando la scuola – senza che mi dispiacesse poi così tanto, oltretutto – ma non potevo certo servire crepes con un sacchetto di carta sulla testa, perciò rinchiudermi in “magazzino” come Quasimodo nel suo campanile si prospettava essere la soluzione migliore, oltre che l’unica possibile.
Anche se di sicuro non la più divertente.
Passai circa tre ore a rovistare fra scatoloni, bauli ed armadi in uno stanzone enorme, buio e polveroso. E trovai di tutto. Cibo risalente ad ere geologiche indubbiamente precedenti alla mia, vestiti fuori moda, barattoli pieni di cianfrusaglie che dubito fossero mai state utili a qualcuno e perfino la porticina di una sottospecie di bunker antiatomico situato ad una profondità non rilevabile che immagino fosse il principale motivo per il quale il nonno di Tom avesse preteso un sotterraneo nella propria creperia.
Quando riemersi a piano terra, stanco e sporco come avessi lavorato in una cava per gli ultimi vent’anni della mia vita – quindi da prima che fossi nato – con in mano una lista infinita ma ancora incompleta di ciò che avevo trovato là sotto, erano passate le otto di sera e l’orario di chiusura si avvicinava. Tom era scomparso da qualche parte – lo chiamai ma non rispose, e non ero sicuro di voler sapere davvero dove fosse – il locale era completamente vuoto ed abbandonato a sé stesso e c’erano ancora tutti i banconi da pulire e riordinare in tempo per le otto e mezza.
Guardai il disastro e decisi che per quel giorno Tom aveva già avuto abbastanza della mia anima e del mio corpo, perciò abbandonai il taccuino e la matita accanto alla cassa, presi uno sgabello, mi avvicinai a Bubbler, mi sedetti al suo fianco, lo accesi, sospirai e lo abbracciai.
- Bubbler… - mi lamentai, sicuro di non essere sentito da nessuno, mentre le note di With A Little Help From My Friends si spandevano intorno a me, - Tu sei fortunato. – confessai, socchiudendo gli occhi e lasciando che i colori del jukebox si infiltrassero fra le mie palpebre, ipnotizzandomi, - Intanto sei un oggetto, e quindi non soffri. E poi sei così bello che puoi solo attirare l’amore di tutti! Invece guarda me: mi va tutto storto. – piagnucolai, decidendomi a cambiare canzone e passare a Love Me Tender, che poteva non essere la scelta più appropriata ma era abbastanza malinconica da incorniciare perfettamente il momento drammatico che stavo vivendo. – Dom continua ad angosciarmi perché crede che io non lo ritenga degno di conoscere la mia famiglia, la squadra di football al completo mi ha massacrato di botte, il mio datore di lavoro mi sfrutta e decisamente il rapporto che ho con mio fratello ha qualcosa che non va…
- Mi sembra di averti già detto che non sono tuo fratello. – disse Brian alle mie spalle, e prima ancora di comprendere la gravità insostenibile della situazione – mi aveva beccato a confidare i miei casini ad un jukebox mentre amoreggiavo con lui ascoltando Elvis!!! – provai l’incredibile desiderio di sciogliermi e scomparire attraverso uno scarico fognario random, perché la sua voce mi aveva mandato tali e tanti brividi lungo la schiena da confondermi.
- Brian! – urlai, scattando in piedi e rovesciando lo sgabello sul pavimento dietro di me.
Lui si stagliava contro la porta d’ingresso della creperia, lo zaino su una sola spalla, una gonna di jeans lunga fino al ginocchio, una maglietta bianca macchiata di sangue, scarpe da tennis sporche di fango e un sorriso grondante derisione dipinto sulle labbra assieme al rossetto sbavato.
- E comunque faresti bene a parlare a voce più bassa. – continuò divertito, - Non mi infastidisce particolarmente se quello che abbiamo fatto in bagno ieri si viene a sapere… - commentò con un sorriso malizioso, - Ma penso che per te potrebbe essere un problema. Capisci, - ridacchiò, - lo dico per il tuo bene. – e qui concluse. Per poi lasciarsi andare ad una risata talmente sguaiata e crudele che io pensai che probabilmente doveva essere disgustato da me al punto da non riuscire neanche ad abbassarsi a tirar fuori una risata da essere umano normale.
Mi allontanai da Bubbler con qualche passo incerto e timoroso e chiesi scusa a Brian per nessun motivo apparente, cosa che lo divertì ancora di più. A quel punto, sollevai lo sguardo e lo fissai, irritato.
- Ti trovo messo piuttosto male, comunque. – dissi, riferendomi al labbro spaccato, che intravedevo nonostante i metri di distanza che ci separavano, e alla macchia di sangue sulla maglietta.
Lui socchiuse le palpebre, offeso.
- Neanche tu sei un piacere da guardare. – ritorse, scrollando le spalle.
Lo guardai, e d’improvviso mi resi conto che era dal giorno prima – da quello che era successo in bagno – che non parlavamo. Stare ognuno in camera propria ci aveva aiutati ad evitarci a vicenda e, sebbene sul momento la cosa mi fosse sembrata utile e piacevole, adesso che me lo ritrovavo davanti mi chiedevo se per caso non avrei fatto meglio a… non so, a smettere di ignorare che ci fosse qualcosa che non andava, per cercare di capire cosa fosse e risolverla.
Perché un problema c’era, doveva esserci.
E io forse avrei fatto meglio a considerare con più serietà il fatto che il mio fratello acquisito mi avesse fatto un pompino nel bagno di casa mia per “spiegarmi” cosa lo costringessero a fare a propria volta quando si trovava negli Stati Uniti.
- Comunque non sono venuto qui per fare conversazione. – riprese Brian dopo qualche secondo, gettando lo zaino per terra davanti alla cassa, - Voglio una crepes.
Allungai una mano timorosa verso Bubbler e lo spensi.
- Stiamo chiudendo. – gli feci notare a mezza voce, cercando di deglutire meno rumorosamente di quanto non avessi fatto fino a quel momento.
Lui roteò gli occhi, irritato.
- Dio mio, non ti ho chiesto di prepararmi un pranzo completo! Voglio solo una crepes! Troppo difficile?
- No, be’… - mi guardai intorno. Erano le otto e un quarto e di Tom nemmeno l’ombra. Avrei comunque dovuto aspettare lui per chiudere, perciò perché non fare almeno fruttare in qualche modo quei minuti in più? – D’accordo. Come?
Scrollò le spalle e indicò distrattamente il barattolone di Nutella sul tavolo, riprendendo lo sgabello che avevo fatto cadere da terra e trascinandolo rumorosamente fino al bancone delle crepes, dietro al quale mi posizionai per accontentarlo.
- Sei fortunato. – cercai di sorridere, preparando il composto di base, - Tom dice che ho un talento per le crepes alla Nutella.
Brian mi guardò come fossi un idiota.
- Come servisse davvero del talento per prepararle.
Incassai, rovesciando il contenuto della terrina sul piano arroventato e forzando un sorriso stentato mentre aspettavo che si solidificasse, componendosi in un sottilissimo cerchio.
- Brian, senti… - cominciai, più per interrompere la pausa silenziosa che non perché davvero mi andasse di parlarne, - A proposito di ieri…
- Attento che non si appiccichi. – mi interruppe lui, indicando il piano cottura.
Io annuii, sollevando la crepes con una spatola e rivoltandola perché prendesse un bel colorito dorato anche sull’altra faccia.
- Dicevo- - ripresi, ma il sospiro di Brian mi zittì ancora.
- Ti piace così tanto parlare? – mi chiese, irritato, mentre io continuavo a giocare con la crepes sul piano, posticipando il momento in cui avrei dovuto servirgliela, - Sinceramente non ho mai capito come la gente possa davvero credere che parlare risolva le cose. Parlare non serve a niente, aggiunge enfasi ad avvenimenti piccolissimi che scomparirebbero nel silenzio nel giro di due giorni, se solo si avesse la decenza di tacere. – si interruppe, tornando a fissare la crepes. – Si sta appiccicando.
- Sì. – annuii spiccio, sollevandola dal piano e poggiandola su un vassoio, delicatamente, perché non si spaccasse.
Lui rimase a guardarmi mentre affondavo il cucchiaio nel barattolo di nutella per ricoprire il suo dolce di cioccolato.
Credevo avesse voluto chiudere il discorso.
In realtà voleva solo avere l’ultima parola.

- Quello che abbiamo fatto ieri ti è piaciuto, vero? – chiese a bruciapelo, quasi distrattamente, agitandomi al punto da farmi prudere la pelle e costringermi a grattarmi il naso con le mani ancora sporche. – Se ti è piaciuto, perché non lo dici e basta?
- Non- - accennai, ma lui non mi permise di concludere.
- È del tutto normale. – mi rispose, riprendendo le lamentele che aveva sentito mentre abbracciavo Bubbler, - Sei un ragazzo e c’era una bocca attorno al tuo cazzo. Avrebbe potuto essere quella di chiunque, e se così fosse stato adesso non saresti qui, ma staresti festeggiando da qualche parte bevendo birra con qualcuno dei tuoi amici. – sospirò, poggiando i gomiti sul tavolo di fronte a sé e fissandomi con aria curiosa, - Invece ero io e la cosa ti ha sconvolto. Perché? In fondo non siamo veramente fratelli. Non siamo niente l’uno per l’altro. – si interruppe e rifletté, lasciando scorrere lo sguardo sul mio viso, - Potresti considerarlo come il lavoro ben fatto di una puttana. – suggerì, - Potresti considerare me come una puttana. In fondo, è quello che sono stato ieri. Con la differenza che il mio compenso non è stato in denaro.
Avrei voluto chiedergli che razza di compenso potesse aver tratto dalla propria performance del giorno prima, ma ero troppo impegnato a soffocare nel mio imbarazzo, boccheggiando a corto d’aria come un pesce fuori dalla boccia.
La verità di Brian, l’unica cosa incontrovertibile in lui, quella che scoprii in quel momento, era che lui considerava diversamente sé stesso rispetto al resto del mondo. Era assolutamente convinto dell’inutilità dei discorsi, ma quando si trattava di sé poteva parlare così a lungo da stordirti con quel tono ostentatamente annoiato e strascicato che usava come segno distintivo.
Avrebbe potuto continuare a ripetermi di essere la mia puttana così a lungo che alla fine ci avrei creduto.
Mi riscossi, ripiegando in due la crepes e consegnandogliela sul piatto, incapace però di sciogliere l’unione dei nostri occhi a mezz’aria.
Lui neanche la guardò.
- Ci voglio la panna sopra. – disse capriccioso.
- Le mie crepes sono perfette già così. – risposi senza sentimento, cercando già a tentoni la panna spray sul bancone accanto a me.
Quando riuscii a recuperarla e fui lì lì per spremerne il contenuto sulla crepes, Brian mi rubò il flacone di mano e sorrise.
- Non lì sopra. – spiegò malizioso. Poi sollevò un braccio e lasciò uno sbuffo di panna sul mio naso, lì dove, mi accorsi, era rimasta una punta di nutella quando mi ero grattato.
Si sollevò sulle braccia, arrampicandosi sullo sgabello per inginocchiarsi sul seggiolino e sporgersi verso di me. Rimasi a fissare il suo viso avvicinarmisi nella speranza che, raggiunta una certa distanza, si dissolvesse come un’illusione, come fanno i sogni quando diventano troppo vividi perché la coscienza sia in grado di sopportarli anche se cullata dall’abbraccio protettivo e rassicurante del sonno, ma lui non scomparve. Leccò via panna e cioccolato dalla punta del mio naso e poi si ritrasse, sorridendo famelico.
L’unica certezza che avevo era di esser diventato una preda.

Non ricordo come riuscì a trascinarmi lontano dal piano arroventato, o come finimmo addosso a Bubbler. So che lui si chinò in ginocchio davanti a me e prese ad armeggiare con la fibbia dei miei pantaloni, che io mi voltai indietro per cercare di sfuggire almeno con lo sguardo allo spettacolo indecente e imbarazzante del mio fratellino chino davanti a me mentre cercava di spogliarmi e che, nel farlo, vidi che il jukebox era lì e pensai che non mi andava che vedesse. Era un pensiero del tutto irrazionale, e avrebbe dovuto preoccuparmi molto di più che potesse vederci Tom tornando all’improvviso, o un cliente a caso che entrasse, felice di aver trovato un bar ancora aperto a quell’ora nel bel mezzo della settimana, ma sul momento non lo realizzai. Tirai Brian per la maglietta, aiutandolo a mettersi in piedi, e lo trascinai giù per le scale, in magazzino.
Lui non ebbe modo di capire, o comunque di reagire, perché io fui più veloce, ma quando fummo là sotto interpretò quel mio gesto come un’affermazione di superiorità o di dominio nei suoi confronti, e pensò di ristabilire le posizioni iniziali mandandomi a sbattere con uno spintone contro un’impalcatura alle mie spalle, che, traballando pericolosamente dopo la collisione col mio corpo, rovesciò metà degli scatoli che conteneva sul pavimento, graziandoci da morte certa per puro miracolo.
Osservai uno scatolone rotolare per terra e aprirsi in due mentre lo scotch vecchio di mille anni che lo teneva chiuso si sgretolava nel movimento, e lo vidi rovesciare il proprio contenuto sul pavimento. Ne vennero fuori decine di dischi, e io mi concentrai sulle loro forme regolari, sui colori sgargianti, sulla grana perfetta del cartoncino appena rovinata dall’incuria e dal tempo. Osservai la lucentezza di alcune e l’opacità di altre, ne vidi di più grandi e più piccole, ne vidi alcune in bianco e nero e altre giallo banana, e poi rosa confetto, e blu più blu della notte.
E nel frattempo Brian mi divorava ad occhi chiusi, come non volesse vedermi, come non gl’interessasse affatto che fossi io e proprio io la persona che aveva fra le labbra e fra le mani in quel momento.
Io lo vidi in quel modo e mi arrabbiai. Ero davvero furente nei suoi confronti.
Perché a me importava che fosse lui. Mi interessava che fosse lui a fare ciò che stava facendo, e se fosse stata un’altra persona non sarebbe stata la stessa cosa, e io non ne identificavo i motivi ma lo sapevo. Lo sapevo perché me lo dicevano i brividi che mi correvano addosso quando lo sentivo parlare, e lo sapevo perché me lo diceva la paura folle che avevo di restare solo con lui, e lo sapevo anche perché me lo diceva il desiderio spasmodico che avevo di farmi considerare da lui, di ricevere un sorriso, di ricevere un grazie.
Tutte queste cose, tutti questi sentimenti, parlavano di Brian.
Era il suo nome ripetuto all’infinito dentro la mia testa.
Erano le sue immagini, proiettate nel mio cervello come in una telecamera a circuito chiuso. Frammenti delle sue labbra, dei suoi occhi, delle sue ciglia lunghissime, della sua pelle immacolata e luminosa. Del trucco, del profumo, degli abiti. Dell’abitudine di rigirarsi il filo del telefono fra le dita. Di mordicchiarsi un pollice mentre studiava.
Era il colore dei lividi sulla sua pelle, la lucentezza dei suoi occhi mentre veniva picchiato e deriso, e anche quella macchia sulla maglietta che indossava in quel momento.
Era tutto questo ed era anche il sesso.
Non potevo prenderlo per qualcosa che non era.
E decisamente non era “niente”.
*
Crollai a terra, esausto, perché le gambe non mi ressero. Era solo questione di tempo, perché anche durante tremavano al punto che avevo paura di crollare già da molto prima, ma per orgoglio e vergogna mi forzai a restare in piedi fino alla fine. E ci riuscii, anche, fino a quando non venni, e a quel punto persi il controllo sui miei arti – tutti – e caddi.
Brian si scostò appena, strisciando sul pavimento polveroso fino a poggiare la schiena contro l’impalcatura e appoggiarvisi, guardandosi intorno.
Ripresi fiato e per prima cosa riportai i pantaloni al loro posto. Mi infastidiva terribilmente trovarmi in quella situazione con lui. Mi sentivo così… idiota.
Lasciai che il mio sguardo gli scivolasse addosso, mi sorpresi a fissare la macchia di sangue sulla sua maglietta e per la prima volta da quando l’avevo visto entrare nella creperia realizzai consciamente che dovevano averlo picchiato anche quel giorno.
Mi morsi un labbro.
Sapevo che avrei dovuto stare zitto.

- Stai bene?
Lui mi lanciò un’occhiataccia incredula.
- Prego? – chiese, guardandomi dall’alto in basso e accennando con un eloquente cenno del capo alla cerniera dei miei pantaloni ancora aperta.
- Parlo… del tuo labbro… - precisai imbarazzato, richiudendola, - Ti hanno picchiato, vero?
Sorrise.
- Il capitano ci teneva a farmi sapere che, anche se il mio fidanzatino me l’aveva fatta scampare il giorno prima, non dovevo montarmi la testa.
- …ah.
Mi passai una mano fra i capelli.
Avrei dovuto scusarmi.

- Senti, io lo so come vanno queste cose. – continuò Brian, sospirando, - Gesti simili non fanno che peggiorare la situazione. Non farlo più. – mi guardò. – Fatti gli affari tuoi. Sul serio.
Non trovai di meglio da fare che annuire. Il suo sembrava uno di quei consigli freddi che si danno alle persone con qualche problema ma delle quali in fondo non ti frega un accidenti. Lanci lì una cosa qualsiasi sperando sia d’aiuto, ma la dimentichi subito dopo.
Mi alzai faticosamente in piedi, salendo al piano di sopra e dirigendomi verso lo stanzino accanto al bagno, dal quale recuperai il mio zaino, nel quale cominciai a rovistare ancora prima di tornare in magazzino.
- Cadrai e ti spaccherai un braccio. – mi fece notare Brian, osservandomi scendere le scale con la testa completamente immersa nello zaino.
Quando riemersi ero già in ginocchio davanti a lui.
Tirai fuori la maglietta che portavo di ricambio per indossarla a fine giornata e gliela porsi.
- Metti questa. – dissi, - Quella è macchiata.
Lui inorridì e mi fissò.
- Non crederai davvero che indosserò qualcosa di tuo! – strillò, tirandosi indietro come spaventato.
Io portai la maglietta al viso e l’annusai. Lui osservò quel movimento sgranando gli occhi e schiudendo le labbra, io lo colsi di sfuggita e lo trovai bellissimo.
- È pulita… - commentai, dopo averla annusata.
Brian deglutì. Osservai ammirato il pomo d’Adamo correre velocemente dall’alto al basso lungo la sua gola, mi venne voglia di sfiorarlo con le dita ma non lo feci.
Lui distolse lo sguardo e sospirò.
- E va bene. – concesse, strappandomi la maglietta di mano. – Ma sarà la prima e l’ultima volta, fratellino.
*
[Riflettendo sull’amore avevo capito che non sarebbero mai state le piccole cose né i gesti eclatanti a convincermi di essere innamorato o meno di un’altra persona.
Non potevano essere le piccole cose, perché in genere le piccole cose sono quelle che si fanno quando si ha voglia d’essere amati, non quando si ama davvero. Gesti sciocchi e teneri, come aiutare coi compiti o aprire la portiera della macchina o dividere il panino del pranzo dopo che quello dell’altro è caduto a terra, sono paragonabili all’aiutare una vecchina ad attraversare la strada o una signora incinta a portar su la spesa. Vuoi sentirti approvato, vuoi sentire un grazie e allora le aiuti. Ma non sono prove d’amore.
Non potevano essere neanche i gesti eclatanti, perché i gesti eclatanti sono quelli che si fanno quando vuoi dimostrare qualcosa a qualcuno. Rischiare la propria vita per salvare un neonato da una casa in fiamme, ma anche mettere una gonna inguinale e andare in giro senza mutande a mostrare il culo alla gente sotto lo sguardo inorridito di papà quando hai sedici anni e ti sembra che i tuoi ti stiano castrando, non sono altro che tentativi d’affermarsi nei confronti del mondo. Anche lasciarsi picchiare in vece di un’altra persona… non è una prova d’amore, è un modo per dire “eccomi, ci sono anche io e sono abbastanza forte da contrastare il mondo intero, perciò consideratemi!”. Non sono prove d’amore neanche queste.
Ero sempre stato convinto che non potesse trattarsi di gesti piccoli e teneri né di eventi enormi e sconvolgenti.
Avrebbe semplicemente dovuto essere la cosa giusta al momento giusto.

Puoi crederci, Matt?
Era una delle poche cose sulle quali avessi ragione.]

continua…


back to poly
  1. Ogni tanto vengo a vedere se per caso hai aggiornato questa bellissima storia e, anche se vengo delusa dall’assenza di nuovi capitoli, mi trovo sempre a rileggere questi 7…è una storia speciale, spero tanto che troverai la voglia di continuarla! Tra l’altro, è così particolare che se cambiassi i nomi dei personaggi sarebbe una storia originale vera e propria, potresti farci un libro… ma non cambiarli mai! Il mollamy dà sempre quel tocco in più! :D Eh niente, volevo solo dirti che continuo a farmi del male leggendola e rileggendola pur sapendo che probabilmente non saprò mai come andrà a finire ç_ç

    ki2k2ka
    06/05/2014 01:56

Vuoi commentare? »





ALLOWED TAGS
^bold text^bold text
_italic text_italic text
%struck text%struck text



Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare. Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).