Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
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MAKE-UP FOR BOYS
CAPITOLO 7
FRUITS AND VEGETABLES
La Pennyngton High School stava in fondo alla strada. La stessa strada sulla quale si trovava la nostra scuola, ma percorrendo quei venti metri verso il parco – o meglio: la minuscola chiazza di verde striminzito e spelacchiato che il comune si ostinava ad additare come “il polmone verde della città” – si aveva come l’impressione di entrare in un altro mondo, un mondo nel quale tutto era pulito e profumato ed in perfetto ordine. Il mondo dei sogni o, per meglio dire, il mondo che ogni genitore avrebbe sognato per suo figlio.
Anticamente era stato una specie di collegio per educande, infatti aveva il nome di una santa e tutto, ma quando il signor Pennyngton – vecchio benefattore degli anni d’oro della città, del cui nome, alla fine, non era rimasto che un mucchio di cambiali, visti gli sperperi dell’ultimo erede – aveva rilevato l’edificio per farne un convitto, la struttura aveva preso il suo nome e tale era rimasta per tutto l’ultimo decennio, sempre uguale a se stessa, se si dimenticava l’unico momento di apertura verso la modernità che, cinque o sei anni prima, aveva permesso anche alle ragazze di iscriversi e studiare lì.
Ovviamente, fra la Pennyngton e la Churchill High School – che invece era il nostro buco pubblico per disadattati pigri e maldestri – correva una rivalità insopprimibile.
Fino a quel momento per noi era sempre stato piuttosto facile disertare le battaglie all’ultimo sangue che, inevitabilmente, di quando in quando scoppiavano fra gli studenti. Dom era l’unico che non capisse la naturale propensione mia e di Chris a salvarci la vita, fuggendo di corsa quando per caso ci imbattevamo in uno scontro.
Le nostre non erano paure da vigliacchi: alcuni ragazzi s’erano fatti male davvero, in passato, perché magari la cosa cominciava come uno scherzo o una presa in giro un attimino più pesante, ma sfociava prestissimo in un disastro di proporzioni atomiche, con persone che venivano lanciate giù dalle finestre o per le scale o usate come kamikaze sfonda-barriere da entrambi gli schieramenti.
Dom aveva partecipato, una volta. Era uscito miracolosamente illeso, ma si faceva testimone di grandiosità inenarrabili. Roba del tipo “non avete conosciuto la vita se non siete stati al fronte!”, insomma, discorsi che potevo magari accettare da mio nonno ottantenne in vena di memorie di guerra, ma non dal mio migliore amico – allora – tredicenne in vena di suicidio folle.
Quell’anno, comunque, sembravamo tutti destinati a non lasciarci sfuggire proprio niente di quanto accadeva intorno a noi. Frequentare Brian mi stava aiutando a crescere in molti sensi. Magari troppi.
Ovviamente, io e Chris fummo semplicemente trascinati alla morte. Come sempre. Col senno di poi, più ripenso al mio passato più tutta la mia storia si riduce alla metafora del carretto. Con me e Chris seduti pigramente in sella, che neanche ci guardiamo intorno perché tanto sappiamo che comunque andrà sarà un disastro, e Brian e Dom in prima fila, che trascinano il tutto fronteggiando la catastrofe imminente con uno spavaldo sorriso sulla faccia.
[E questo è sempre accaduto perché tu sei sempre stato una ragazzina lagnosa e Chris è sempre stato un vecchio pastore andaluso in aria di pensione.]
Cominciammo a preoccuparci quando li vedemmo fare comunella di fronte ad un gruppo di studenti della nostra scuola che stava per organizzare un attacco. Alle porte dell’estate era praticamente la prassi: mancavano pochi giorni alle vacanze, faceva troppo caldo per continuare seriamente a studiare e qualsiasi studente non avesse esami in vista era già mentalmente proiettato verso uno stato di trance spericolata da spiaggia, cosa che portava tutti a cercare di organizzare un modo per passare il tempo mentre i professori non facevano che prendere giorni di permesso su giorni di permesso, considerando saggiamente la loro paga non valesse la pena di quel caldo e di quegli schiamazzi adolescenziali insopportabilmente acuti.
Insomma: quei due stavano lì, indicavano e sghignazzavano come tutte le brave bambine loro simili e poco ci mancava che si mettessero a saltellare entusiasti di fronte a Roger Teabing – il nostro premiatissimo quarterback, unico elemento di vero valore della squadra di football, nonché dell’intera scuola – che organizzava le cariche dei gruppi al fronte e la copertura delle retrovie.
Saggiamente, io e Chris provammo a defilarci all’istante. Brian e Dom si voltarono subito verso di noi, inchiodandoci dov’eravamo con lo sguardo.
Sospirammo e ci voltammo a nostra volta verso di loro, rassegnandoci alla sconfitta.
- Sai cosa? – mormorai lamentoso prima che potessero avvicinarsi abbastanza da ascoltarci, - Io so esattamente perché faccio tutto questo, purtroppo. Ma tu? Perché ti presti?
Chris si strinse nelle spalle e mi concesse un breve sorriso incerto, quando Dom e Brian ci raggiunsero.
- Seguiamoli. – disse Dom autoritario, afferrando Chris per il braccio e saltandogli in groppa neanche fosse stato la sua cavalcatura.
- No. – risposi io, altrettanto autoritario, ma ovviamente non venni ascoltato.
Brian ebbe quantomeno la decenza di non saltarmi sulla schiena, anche perché, per quanto leggero fosse, dubito che le mie gambe sarebbero state in grado di reggerlo, e si limitò a trascinarmi a propria volta lungo la strada che già Chris e Dom avevano intrapreso.
- Ma abbiamo un obiettivo? O un ruolo, in tutto questo? – cercai di informarmi, mugolando sconforto, mentre Chris mi lanciava di tanto in tanto occhiate comprensive ma considerevolmente divertite che mi davano da pensare, anche se non capivo bene in che senso.
Brian si strinse nelle spalle.
- Andiamo lì e vediamo. – rispose tranquillamente.
- Roger non ci ha dato degli ordini precisi. – aggiunse Dom, ancora arrotolato come un bradipo sulla schiena di Chris.
- Roger non vi ha dato degli ordini precisi, perché Roger non vi conosce! – feci notare io, allibito, - Avanti, lo sanno tutti che queste robe le organizzano solo i gruppi di amici per divertirsi un po’ insieme! Che c’entriamo noi?!
- Be’, - puntualizzò pensoso Chris, - noi, in effetti, siamo un gruppo di amici.
- Esatto! Ben detto! – gioì Dom, diventando se possibile un tutt’uno con le sue spalle.
- Dovevi scegliere proprio questo momento per parlare, tu, eh?! – continuai a lamentarmi io, mentre Brian si sollevava a tirarmi esasperato un orecchio.
Lo spettacolo allucinante che ci attendeva di fronte alla Pennyngton era esattamente quanto avevo sempre cercato di evitare fino ad allora. E, per dire la verità, mi sconvolse parecchio.
I cancelli della scuola erano serrati, ed un manipolo di ragazzi e ragazze – con le maniche delle camicie della divisa arrotolate fino alla spalla e le cinture del pantaloni sfilate e strette attorno alle tempie, come bandane di guerra – li presidiavano attentamente, fissando la folla di oppositori con occhi truci e rabbiosi. Alcuni professori – probabilmente i più coraggiosi, o i più abituati a scene simili – stavano raggruppati in cima alle scale, davanti alla porta, fumando indolentemente con aria annoiata. Gli altri dovevano essere nascosti all’interno, probabilmente in segreteria didattica, perché ogni tanto vedevamo venire fuori qualcuno che si accertava delle condizioni in cui versava la situazione e poi tornava indietro, sempre più terrorizzato.
L’esercito della Churchill al gran completo stazionava davanti all’edificio. Dovevano esserci quasi tutti i nostri compagni di scuola. Se non proprio tutti, comunque la maggior parte. Ma, dal momento che c’eravamo anche noi, sono più propenso a credere fossimo proprio tutti.
Il gruppo più estremo, capeggiato da uno sfavillante Teabing in canottiera bianca e jeans sdruciti, passeggiava avanti e indietro davanti alla cancellata, scrutando l’interno con occhiate affamate da predatori della Savana. Si potevano quasi sentire i ruggiti.
Da un lato e dall’altro delle barricate, le cheerleader improvvisavano canti d’incoraggiamento che sembravano davvero inni di guerra.
Un piccolo gruppo di tizi occhialuti e vagamente anonimi stazionava proprio accanto a noi, e continuava a tracciare linee e frecce sullo schizzo della cancellata della Pennyngton: probabilmente stavano buttando giù un piano di sfondamento.
Al mio fianco, Brian affondò con forza le dita nel mio braccio, guardando la scena con un brillio d’eccitazione pura negli occhi. Io me ne accorsi e lo fissai, attonito.
- Cos’è, il brivido della novità…? – inquisii, piuttosto infastidito, perché già supponevo che la nuova avventura ci avrebbe rubato l’intero pomeriggio, cosa che io non potevo permettermi, dal momento che Tom già mi odiava ed ero ad un passo dal licenziamento in tronco.
- Tutt’altro. – rispose Brian, scuotendo vigorosamente il capo, - A New York scene simili erano la norma. Anche in pieno inverno. – concluse con una risatina.
Io roteai gli occhi – mentre lui continuava a ridacchiare malefico – e nel movimento mi accorsi che, da chissà dove, erano spuntati una quantità indecente di sacchi di farina, che ora si muovevano indipendentemente, neanche fossero stati magici, per formare una sorta di muro che, immaginavo, sarebbe diventato la nostra trincea. Ad una seconda occhiata, mi resi conto che i sacchi non si muovevano da soli, ma erano bensì trasportati da altrettanti ragazzi della nostra età, diretti con competenza dal solito Teabing che, evidentemente, era molto in aria di carriera militare, quel giorno.
Quando la trincea fu pronta, ci ritrovammo al sicuro dietro gli sbarramenti alleati senza neanche renderci bene conto di come – o perché – fosse successo. A pochi centimetri da noi, Roger aveva preso posto accanto al gruppo di occhialuti e studiava con loro il piano d’attacco, annuendo con partecipazione ogni volta che quelli ne illustravano un nuovo passo.
Io e Chris ci guardammo, ci rendemmo conto che Dom e Brian erano spariti e lanciammo tutto intorno una serie di sguardi allarmati che si placarono quando, fortunatamente, li individuammo entrambi a due passi da Teabing, in attento ascolto dei suoi ordini.
Ora.
Lo spettacolo era già di per sé ridicolo. Ma Brian e Dom, oltre tutto, guardavano quel ragazzo come avessero voluto divorarlo lì, seduta stante.
Spalancai gli occhi in direzione di Chris.
- Che Brian fosse l’esatto opposto dell’eterosessualità era abbastanza chiaro… - mugolai incerto, - Ma Dom?!
Chris arrossì fino alla punta dei capelli e si strinse nelle spalle. Immaginai dovesse semplicemente essere a metà strada fra il basito e l’allucinato – come me, d’altronde – e mi sedetti al suo fianco con aria scazzata.
Dom e Brian tornarono indietro pochi minuti dopo, allegri come ragazzine con una carta di credito illimitata in Piccadilly.
- L’attacco parte fra un minuto! – annunciò esaltato Dom, tornando ad accucciarsi sulle spalle di Chris, - Caricheremo quando Roger darà il via.
Brian lanciò un’occhiata a Dom in disinvolta scalata della schiena di Chris, poi mi regalò un’occhiata obliqua vagamente disgustata e sospirò profondamente, scuotendo il capo con aria tormentata.
La cosa mi offese molto.
Borbottai qualcosa ed incrociai le braccia sul petto, mentre il mio sguardo volava controvoglia alla robusta ed agile figura di Teabing che si posizionava su un sacco di farina, ghignava come una bestia a caccia e poi sollevava un braccio, strillando all’attacco! con quanto fiato aveva in gola.
Poi fui costretto a rivedere i miei canoni di misurazione del tempo.
Perché in teoria gli esseri umani non dovrebbero potersi muovere alla velocità della luce.
Almeno, non sui loro piedi!
Ed invece la massa di adolescenti gorgoglianti voglia di divertirsi e far casino che mi circondava si sollevò in piedi – da acquattata com’era dietro le barricate – e scattò in avanti con una tale frettolosa ansia che, sinceramente, io neanche me ne accorsi. Mi resi conto di ciò che era accaduto solo quando vidi che Chris, nonostante le proprie ritrosie, aveva ceduto ai rimbrotti di Dom – ed alle sue copiose botte in testa – per alzarsi in piedi a propria volta e correre dietro all’orda di barbari strillanti pronti a devastare la scuola nemica.
A comandare il gruppo, il sempiterno Teabing. Come avesse fatto a saltare così avanti a tutti resta un mistero che solo le sue indubbie doti atletiche possono risolvere.
Pochi passi dietro a lui, però, c’era Brian.
Ed al riguardo non c’erano doti atletiche che tenessero: non doveva affatto trovarsi lì.
Mi slanciai in avanti, strillando come un ossesso e tendendo le mani in avanti neanche dovessi salvare un vaso cinese in caduta libera dal primo piano di un palazzo. Gli arrivai accanto in un baleno e lui, per contro, mi guardò con malcelato schifo e borbottò “’cazzo gridi, coglione?”, nella migliore delle tradizioni Brianesche.
- ‘Cazzo grido, mi chiede! – sbraitai a mia volta, cercando con poco successo di fermarlo, - Guarda che è pericoloso sul serio, tirano i professori addosso ai gruppi d’attacco! – lo avvisai, ingigantendo un po’ il pericolo. Va bene, ok, non tiravano esattamente i professori. Ma gli altri alunni sì!
Brian, sordo ai miei richiami, scrollò le spalle e continuò a puntare felice l’ampia schiena di Teabing contro il cancello avversario.
Credetemi: non ho mai avuto l’ambizione di andare da Brian, ridergli in faccia e strillare “Te l’avevo detto!”.
[Anche perché, se avessi avuto ambizioni simili, t’avrei già scaricato molto tempo fa.]
…ecco. Però, insomma, io avevo ragione. Lui, probabilmente, conosceva molte più cose di me sulla vita in generale, sui sentimenti, sul modo di affrontarli. Non ne sono sicuro, ma era probabilmente così.
Io, però, conoscevo le dinamiche di scontro nei paesini. Sapevo che, quando stai in un paese, hai molte meno preoccupazioni nell’agire in maniera illecita. Perché tutti conoscono tutti e il commissario locale magari è lo zio del cugino del fratello della bisnipote del tuo fratellastro acquisito, ed un modo per guadagnarti un “sono ragazzi” ed un calcio in culo fino a casa lo trovi. E quindi nessuno ha inibizioni.
Nello specifico, in quel momento la Pennyngton tirò fuori l’artiglieria pesante: quantità inenarrabili di ortaggi vennero scagliati fuori dalle finestre ed andarono ad infrangersi in parte contro noi poveri dementi che correvamo incontro al disastro ed in parte contro le trincee alle nostre spalle, che cominciarono a cedere una dopo l’altra sotto la pressione del tiro al bersaglio.
Insomma, voglio dire.
Nei paesi è così.
Se c’è da pestare un Brian o un Matthew qualunque nel cortile, a scuola, nessuno si tira indietro. Se c’è da schiavizzare un minorenne in una creperia, nessuno ci pensa due volte. Se c’è da buttar giù un alunno da una finestra sperando che becchi il materasso sotto, lo si fa e basta. Se c’è da cominciare una guerra all’ultimo sangue usando fino all’ultimo uovo marcio che ci si è portati da casa, non è neanche una questione da discutere.
Insomma.
Se c’è da tirare fuori una bacinella colma d’acqua e lanciarla dalla finestra nel vuoto di sotto, sperando colpisca qualcuno in testa, be’… be’, nessuno si fa scrupoli, ecco.
Ed infatti fu esattamente ciò che successe. Teabing si accingeva a scalare coraggiosamente il cancello. Brian gli si affiancava, scrutando l’altezza delle sbarre di metallo come a voler saggiare il coefficiente di difficoltà dell’impresa assurda nella quale si stava lanciando. Nel mentre, una bacinella di un azzurro talmente terso da ricordare quello del cielo nelle rare giornate estive in cui l’afa non costringeva l’aria a riempirsi di nuvole grigiastre e poco invitanti, piena d’acqua fino all’orlo e pesante come un fottuto pianoforte, venne lanciata oltre una finestra.
Teabing abbassò lo sguardo e strillò qualcosa.
Brian il suo sguardo stranissimo e dal colore indecifrabile lo tirò su. Verso Teabing, perché della bacinella non s’era accorto.
E dobbiamo anche ringraziare.
Perché se quel dannato coso l’avesse preso in un altro punto della testa
non sappiamo nemmeno se sarebbe sopravvissuto.
Perché se quel dannato coso l’avesse preso in un altro punto della testa
non sappiamo nemmeno se sarebbe sopravvissuto.
Io non spiccicai una parola. Neanche aprii la bocca. Osservai quel pezzo di plastica apparentemente innocuo piovere a cascata addosso a Brian e non dissi nulla.
Venne investito dall’acqua in caduta libera con un fragore spaventoso. La bacinella lo sfiorò sulla fronte, rotolò con un tonfo sordo sulle sue spalle e poi andò a schiantarsi sull’asfalto, dove continuò a girare su se stessa e tremare come una cassa armonica per un bel po’, prima di fermarsi.
I vari suoni che produsse furono gli unici che si sentirono per un minuto buono. Entrambi gli schieramenti di studenti, tutti ugualmente scioccati, fissavano Brian, immobile al centro della scena come un attore protagonista nel mezzo di un monologo. Osservavano il lieve rivolino di sangue che gli solcava la fronte disperdersi in corsi sempre più distratti, aiutato dall’acqua che lo infradiciva fin nel midollo, e scendeva lateralmente lungo la tempia e lo zigomo, imbrattandogli i capelli e scorrendo in gocce grandi e pesanti sulla maglietta bagnatissima.
Brian non sputò un lamento. Rimase fermissimo, come cristallizzato. Dallo sgomento, dalla paura, dal dolore, non lo so.
So che, dopo qualche secondo, cominciammo a sentire rumori strani provenienti dalla strada che faceva angolo con quella sulla quale si trovavano le nostre scuole. E non erano rumori rassicuranti.
Poco dopo, infatti, dall’angolo venne fuori una piccola delegazione formata dai proprietari del panificio a qualche metro dall’incrocio, alcuni panettieri e la famiglia che gestiva il carretto della frutta limitrofo al gran completo.
Nessuno di loro sembrava particolarmente disposto a sbottare “sono ragazzi” e rimandarci a casa. Neanche con un calcio in culo.
Scoppiò il finimondo. Ognuno cercò di recuperare chi aveva di più caro – alcuni caricati fin sulle spalle; scene, davvero, da guerriglia urbana. Le classiche cose che puoi fare solo a sedici anni, e dopo i quali cominci a vergognarti come un ladro – e di prendere la strada di casa per rifugiarsi prima di incappare nelle conseguenze peggiori che potessero discendere da una bravata simile.
Minimo un pomeriggio in commissariato.
Con genitori disapprovanti a seguito.
Per non parlare delle paternali sulla maturità.
Con genitori disapprovanti a seguito.
Per non parlare delle paternali sulla maturità.
Vidi Teabing scendere di fretta dal cancello e guardarsi un attimo intorno, sospettoso, come non sapesse se avvicinarsi a Brian per chiedergli come stesse o meno. Ma dovette decidere per il meno, perché si allontanò quasi subito senza dirgli niente.
Chris, da qualche parte dietro di me, aveva già recuperato Dominic – che rideva come l’emerito cretino che era, peraltro – e mi stava strillando di darmi una mossa, perché eravamo già abbastanza nella merda in quel modo senza dover decidere di farci pure beccare.
Io annuii distrattamente ed afferrai Brian per un polso. Piano. Giusto per scuoterlo.
Lui mi guardò e non disse una parola.
Sospirai e cominciai a trascinarmelo dietro.
- Io lo sapevo che sarebbe finita così. – borbottai, cercando di inseguire la sagoma di Chris nella folla, - Cazzo! Ma mai nessuno che mi ascolti, porca puttana! Tanto, chi ci va sempre di mezzo? Ma Matthew, ovviamente! È Matthew quello che si prende le cazziate, è Matthew che rischia di perdere il lavoro, è Matthew che deve giustificare tutto! Ma cazzo!
Brian si fermò, si chinò a raccogliere una zucchina da terra e me la ficcò in bocca. In un movimento unico e sveltissimo. Praticamente da ninja.
Soffocando per la presenza molesta nella mia bocca, mi voltai verso di lui e mugugnai qualcosa di incomprensibile, affannato come un moccioso appena zittito da un ciuccio.
- Taci un po’. – mi disse lui, lo sguardo basso ed una nota sconosciuta di imbarazzo vergognoso ad imporporargli le guance, - Usa la bocca per qualcosa di utile.
“Usarla per qualcosa di utile” avrebbe voluto dire chinarmi sulla sua fronte e lasciargli un bacio sulla ferita. Non avrebbe risolto niente, ma forse ci saremmo sentiti meglio entrambi. Rimanere lì a succhiare una zucchina mentre correvo affannosamente verso casa, trascinandolo per un polso, non sembrava la cosa più utile che potessi fare in assoluto, in quel momento. Ma non protestai.
Il signor Molko non la prese comunque bene. Gelido, per quanto affatto rude, chiese a Brian di seguirlo in cucina e lì rimasero entrambi per una mezz’oretta, mentre mia madre analizzava la mia pelle fino a cercare di identificarne l’incastro cellulare, per assicurarsi fossi davvero tutto intero.
Io mi lamentai tutto il tempo. Quando Brian uscì dalla cucina e si diresse con aria stravolta direttamente in camera propria, io lo seguii automaticamente. Mia madre non me lo impedì ed io gliene fui grato.
Lo trovai già arenato sul letto, la faccia premuta con forza contro il cuscino – c’era già una piccola crosticina a coprire il taglietto sulla fronte, ma la federa si macchiò comunque di rosso – ed il respiro affannoso.
- Ehi… - biascicai avvicinandomi e trascinandomi alle spalle il pouff fino al suo letto, per sedermi al suo fianco, - È stato molto duro?
Brian scrollò le spalle.
- Non è questo… - ansimò faticosamente, - Non mi sento bene.
- Oddio. – cominciai ad angosciarmi io, chinandomi su di lui mentre lui mugugnava una lamentela a caso e s’infilava ancora vestito sotto le coperte, - Che hai? Cosa ti senti?
Sollevò lo sguardo per lanciarmi un’occhiata dubbiosa.
- Te lo dico se mi prometti che non darai di matto. – concesse infine, incerto.
Io promisi – gli avrei promesso pure la luna, se fosse servito a farlo parlare.
Brian sospirò.
- Mi sa che mi sta venendo la febbre. – annunciò infine con una melodrammatica occhiata al soffitto, aggiustandosi più comodamente sul materasso.
Io dischiusi le labbra.
Avrei sinceramente voluto rimproverarlo. Voglio dire: se si fosse limitato a seguire i miei consigli, sarebbe andato tutto alla perfezione. Io sarei andato a lavoro, nessuno si sarebbe fatto male, lui non sarebbe finito a letto con la febbre. Ad un passo da giugno, cavolo!
Però… non so. Lo guardai, le guance un po’ rosse e gli occhi lucidi, le labbra contratte in una smorfia sofferente e le dita strette attorno alla trapunta – e non riuscii proprio a trovare le parole adatte.
Sospirai a mia volta e mi sollevai dal pouff, facendo il giro del letto e scostando le coperte accanto a lui, prima di scalciare lontano le scarpe e sdraiarmi al suo fianco.
Lui mi fissò sconvolto, gli occhi spalancati sul mio viso, come non riuscisse a credere io l’avessi fatto davvero.
- Dammi un bacio, dai. – dissi io, sporgendomi verso di lui, - Così ci dividiamo la febbre.
Seguì un momento di lungo e deprimente silenzio.
Non so se vi è mai capitato di voler fare i fighi sensibili e dire una cosa romantica, così, sull’impronta dell’ispirazione, per poi rendervi esattamente conto di cosa avete fatto…
[Ossia la figura del cretino.]
…e cominciare a pentirvene in quel momento con la consapevolezza che continuerete a farlo anche per tutto il resto della vostra esistenza finché morte pietosamente sopraggiunga.
Fu quella la sensazione che provai io, comunque, quando Brian scoppiò a ridere.
- Non c’è bisogno che tu mi faccia notare così chiaramente che è ridicolo… - borbottai imbarazzato, allontanandomi e rannicchiandomi sotto le coperte a qualche centimetro da lui, - Me lo diceva mia madre quando ero piccolo e stavo male. Diceva che se le davo un bacio un po’ della mia febbre sarebbe passata a lei ed io sarei stato subito meglio.
- E funzionava? – mi chiese lui, passandosi una mano sotto le ciglia per scacciare una lacrima di puro divertimento.
- Ovviamente no. – risposi, aggrottando le sopracciglia, - Però mi aiutava a calmarmi e dormire. E poi era una cosa tenera!
Brian sorrise e scosse il capo. Sembrava, comunque, più divertito che esasperato.
Si sporse a darmi un bacetto a fior di labbra.
- In effetti lo è. – annuì, rimettendosi a pancia in su e poggiando un braccio sulla fronte come a volersela massaggiare, - È molto tenero.
Io respirai finalmente per la prima volta dopo almeno dieci minuti, e mi accomodai meglio fra le lenzuola. Ci addormentammo quasi subito.
Tu me ne hai date all’infinito.
Me ne davi almeno una ogni giorno.
Una sciocchezza, ma era la cosa giusta. Al momento giusto.
Mi meraviglio, davvero, di aver cominciato a capire di amarti così tardi rispetto a quando ho effettivamente iniziato a farlo.]
continua...
Ogni tanto vengo a vedere se per caso hai aggiornato questa bellissima storia e, anche se vengo delusa dall’assenza di nuovi capitoli, mi trovo sempre a rileggere questi 7…è una storia speciale, spero tanto che troverai la voglia di continuarla! Tra l’altro, è così particolare che se cambiassi i nomi dei personaggi sarebbe una storia originale vera e propria, potresti farci un libro… ma non cambiarli mai! Il mollamy dà sempre quel tocco in più! :D Eh niente, volevo solo dirti che continuo a farmi del male leggendola e rileggendola pur sapendo che probabilmente non saprò mai come andrà a finire ç_ç
ki2k2ka
06/05/2014 01:56