Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
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MAKE-UP FOR BOYS
CAPITOLO 5
WAKE UP CALL
La verità incontestabile che ci fosse qualcosa di strano nella mente di Brian mi colpì come un proiettile in mezzo alla fronte nel momento in cui una mattina mi svegliai e lo trovai nel mio letto, al mio fianco.
Lui era già sveglio, guardava con aria vagamente annoiata una rivista che reggeva a svolazzare come una bandiera all’altezza del viso, con una mano sola. Passava l’altra mano fra i capelli, in un gesto distratto, districando nodi inesistenti per il solo piacere di farsi trovare da me in quella posizione una volta che avessi aperto gli occhi, lo sapevo.
Non era la prima volta che succedeva una cosa simile. Tutta la settimana, a partire dal giorno in cui era tornato a casa indossando la mia maglietta, era stata costellata di avvenimenti simili. La notte andavo a letto e lui non era con me. Ma la mattina, appena mi svegliavo, lui c’era. Mi guardava, si assicurava che fossi ben sveglio, mi salutava, poi si alzava e se ne andava.
Il più delle volte, io rimanevo inebetito sul letto a fissarlo, incapace perfino di sollevarmi dal materasso, oppure mi azzardavo appena a chiamarlo, “Brian…?”, con una vocetta stridula, terrorizzata e davvero vergognosa, davanti alla quale lui non si lasciava mai sfuggire l’occasione di sfoggiare un perfetto risolino di scherno, al quale io poi reagivo nascondendomi sotto il piumone – con l’unico risultato di scatenare la sua sguaiata ilarità.
Tutto questo, io l’avevo visto.
Ma non percepito.
All’alba di quel sabato mattina, vedendolo lì, sul mio letto, rilassato, e comprendendo che non aveva alcuna intenzione di alzarsi, almeno in tempi brevi, invece lo percepii. Decisamente.
Brian fece svolazzare ancora un po’ le pagine e poi si voltò a guardarmi, lasciando andare la rivista sul letto fra me e lui.
- Be’? – chiese spiccio, quasi indispettito, sollevando le sopracciglia.
Per qualche secondo, in effetti, non seppi cosa rispondere. “Be’?” poteva dire tante cose. “Be’, che hai da guardare?”, per esempio, o “Be’, che hai ancora da stupirti?”, o ancora “Be’, ma sei cretino?”, che era un po’ anche quello che continuavo a ripetermi da un bel po’ di tempo. “Be’?” poteva dire tutto, ed io dovevo stare attento mentre cercavo di tradurlo in linguaggio comprensibile.
- Solitamente… - dissi alla fine, deglutendo e pregando in ogni lingua perché fosse la risposta giusta, - vai via, quando mi sveglio…
Brian aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, disgustato.
Risposta sbagliata.
- Coglione. – sputò astioso. Riprese in mano la rivista e si mise seduto, aprendola sulle gambe e ricominciando a sfogliarla annoiato, - Non sei contento? – chiese poi, senza neanche guardarmi negli occhi.
- Contento…? – azzardai io, incerto, sedendomi accanto a lui.
Brian annuì, richiudendo la rivista e lasciandola cadere con disinteresse sul pavimento, prima di tornare a concedermi uno sguardo.
- Contento. Del fatto che non vada via. Di stare un po’ con me.
Stava palesemente cercando di farmi impazzire. Era ovvio.
- Tu vuoi stare qui con me…? – chiesi, sempre più confuso, stringendo un lembo della coperta fra le mani.
Brian roteò gli occhi, esasperato.
- Ma sei impossibile. – commentò, sconvolto. – Dovrei smettere di rivolgerti la parola.
- Brian, senti, io ho dei problemi a capire cosa mi stai dicendo… problemi molto seri…
- Mai dubitato di questo. – mi interruppe lui con un ghigno crudele.
Okay, forse gliel’avevo servita su un piatto d’argento.
Ma avrei avuto comunque ogni diritto a sentirmi offeso, spingerlo giù dal letto e buttarlo fuori dalla mia stanza.
Naturalmente non lo feci.
Sospirai, invece, ed abbassai lo sguardo sulle mie mani, che ancora tenevano imprigionato il lenzuolo fra le dita, stropicciandolo e distendendolo per scaricare su di lui la frustrazione che non avrebbero mai potuto scaricare su Brian – solo perché Brian non aveva davvero bisogno di un’altra persona che lo picchiasse. E ovviamente perché non sarei mai riuscito ad alzare un dito su di lui, cazzo!
Lo sentii ridacchiare e socchiusi gli occhi, sperando se ne andasse e chiudesse lì la fiera della vergogna che era diventata quella mattina, ma lui non lo fece. Sollevò un braccio e mi posò una mano sulla spalla, spingendomi verso il basso per cercare di costringermi a distendermi. Provai a sollevare lo sguardo per capire che espressione avesse, ma me ne pentii subito. Scorgere il ghigno malizioso che gli decorava il viso mi aiutò a capire cosa gli passava per la testa, e questo mi spaventò.
- Briaaan… - protestai lamentoso, riscoprendomi incapace di resistere alla sua spinta, - Non… non puoi farlo adesso…!
- E perché no? – ritorse lui, scivolando con le mani lungo il mio petto mentre si sollevava sulle ginocchia, gattonando all’indietro per raggiungere il mio bacino, - A te va!
- Ma a me andrebbe continuamente! – cercai di fermarlo, afferrandogli i polsi con entrambe le mani e spingendolo lontano, mentre lui contrastava la mia spinta con tutto il peso del proprio corpo, - Cristo, ho quindici anni, ti sfido a beccarmi in un momento in cui non sono eccitato!
Lui rise, strizzando gli occhi.
- È questo che mi diverte di te. Sei infantile.
- No, di me ti diverte che sono un cretino! – continuai a lamentarmi, agitandomi per sfuggire alle coperte e all’intreccio delle sue gambe attorno alle mie. – Se non fossi un cretino, questa cosa non sarebbe mai cominciata!
- Non si chiama “cosa”, si chiama sesso. – corresse lui atono, mentre si liberava, afferrava l’orlo della coperta e cercava di abbassarlo il minimo indispensabile per raggiungere i miei boxer senza rilasciarmi le gambe.
Respirai forte, affannosamente, e gli riafferrai i polsi prima che facesse qualcosa di irreparabile.
- Non si chiama sesso! – insistetti. Ero palesemente terrorizzato. – Non stiamo facendo sesso!
Lui sorrise ancora, chinandosi su di me senza più cercare di obbligarmi a lasciargli le braccia.
- Però ci andiamo molto vicini. – concluse. E così dicendo si chinò ancora un po’ e cominciò a strofinare le labbra contro il tessuto dei boxer. Solo le labbra. Semidischiuse. Neanche umide. Non riuscivo a sentire il calore della sua pelle, attraverso il cotone spesso, ma quello del suo fiato sì. Passava attraverso i fori della maglia e raggiungeva il mio sesso, avvolgendolo tutto.
Rabbrividii.
- Brian, fermati, ti prego… - mormorai, cercando di risultare convincente, tirandolo per i polsi nel tentativo di convincerlo ad alzarsi.
- Se mi lasci, ti spoglio… - disse invece lui, tirando fuori la lingua e leccando appena la punta della mia erezione attraverso il tessuto, - Così non è molto divertente…
- Non è affatto divertente! Seriamente, Brian, tutto questo è assurdo-
- Mi piacciono le cose assurde…
- Be’, non piacciono a me!
- La tua migliore amica è un jukebox, Matthew…
Mi morsi il labbro inferiore.
Era un dannato colpo basso.
- Senti, Brian… - dissi condiscendente, - Adesso io ti lascio, ok? Ma tu devi promettermi… - deglutii, osservando il sorriso vittorioso che gli si aprì sulle labbra, - …che non farai niente di… sconcio. – Brian scoppiò a ridere, evidentemente divertito dall’uso che facevo della parola “sconcio”. – Ok? – insistetti, stringendo la presa sui polsi per fargli capire che era il caso di prendermi sul serio.
Lui tornò a sorridere svampito, guardandomi.
- D’accordo. – disse.
Ovviamente stava mentendo.
E io lo sapevo.
Lo lasciai proprio perché sapevo che stava mentendo. Sapevo che l’avrebbe fatto comunque. Sapevo che mi avrebbe spogliato e se lo sarebbe messo in bocca, e non si sarebbe fermato prima di avermi sentito venire sulla sua lingua.
Cose simili accadevano di continuo. Si avvicinava e… mi attaccava, non saprei come altro dirlo, mi attaccava come un cacciatore famelico attacca una preda indifesa. Con una sorta di compiacimento. Con disprezzo. E mi divorava con ingordigia, fino all’ultima goccia.
Io facevo continuamente discorsi come quello. Non si può, non sta bene, potrebbero vederci, non dobbiamo farlo, è indecente, non è normale, c’è qualcosa che non va. Ripetevo continuamente cose simili, le ripetevo perché mi faceva comodo pensare di crederci sul serio, e mi faceva comodo anche pensare che io, almeno, provavo a fermarlo. Provavo a porre un freno a tutto quel disastro. Provavo ad arginare i miei desideri. Lui invece no, era questo che mi ripetevo di continuo, lui invece neanche tenta. Così era molto più facile dargli la colpa e sentirmi meglio.
Mi lasciò senza fiato sul letto anche quella mattina. Mi lasciò senza fiato e, andandosene via, disse “Sarà un bel week-end, questo!”. Interpretai quel commento esattamente per ciò che era, ovvero una presa per il culo, e lo guardai uscire dalla camera trotterellando felice come un bambino.
Ci misi un po’ a trovare la forza necessaria per alzarmi dal letto e raggiungere il resto della mia famiglia in cucina per la prima colazione.
Quando arrivai lì, Brian era seduto al tavolo e guardava con disinteresse la propria tazza ricolma di latte, giocando con le dita fra i biscottini al burro che mia madre aveva disposto nei piattini che poi aveva poggiato accanto alle tazze, sulle tovagliette plastificate.
- Non hai fame, Brian? – gli chiese lei, mentre io prendevo posto accanto a lui.
Lui sorrise malizioso, lanciandomi un’occhiata falsamente complice e intimamente bastarda.
- Ho già mangiato. – rispose.
E, mentre un malessere molto simile a una pericolosa combinazione di nausea e paura si impossessava di me, io pensai che invece, probabilmente, sarebbe stato un week-end di merda.
Dal momento che Teignmouth è un paesino oscenamente piccolo e noioso, d’estate praticamente si svuota. Chiunque abbia le possibilità di farlo, prende baracca e burattini e fugge in qualche luogo esotico o nelle proprie ville sul mare, il più lontano possibile da lì.
Anche Teignmouth ha delle ville sul mare. O almeno, le aveva fino all’ultima volta che ci sono stato, e dal momento che si tratta già di, uh, un milione d’anni fa, più o meno, non so se ci siano ancora.
[Sempre il solito esagerato. Non saranno più di cinque anni.]
In ogni caso, anche Teignmouth ha, o aveva, delle ville sul mare. Solo che, ovviamente, fanno o facevano schifo. Erano dei grandi prefabbricati a due passi dalla spiaggia, molto simili ad enormi palafitte un po’ diroccate. Erano state intonacate di bianco, ma una volta sola, perciò l’aria salmastra, il vento e gli alluvioni avevano provveduto presto a scrostare l’intonaco dal legno, così che erano ricoperte di macchie scure marcescenti e se non erano ancora state dichiarate inagibili era solo perché erano di proprietà della moglie del sindaco.
Essendo orribili – e scarsamente pubblicizzate nel resto della regione – erano sempre vuote. Noi tre le usavamo come rifugio quando stavamo a cazzeggiare sulla spiaggia e un acquazzone ci coglieva d’improvviso, o quando volevamo suonicchiare un po’ e tutti i nostri genitori ci avevano già poco cordialmente buttato fuori di casa, minacciandoci di morte se un solo jack fosse stato collegato ad un amplificatore.
Un giorno, dal momento che c’era sole e l’aria era anche miracolosamente calda, stavamo facendo il bagno, e vedemmo arrivare una macchina. Una di quelle belle ed enormi macchine lussuose. Non del tipo sportivo, non di quelle che ti fanno dire “oh, ecco che arriva il tizio random che usa la Spider per rimorchiare”, no, una di quelle macchinone col bagagliaio ampio, qualcosa di molto simile a una BMW per famiglie, di quelle che ti fanno dire “cacchio, questi i soldi ce li hanno davvero”.
Ne venne fuori una coppia stracolma di valige. Erano giovani, non di più di venticinque anni, e sembravano molto felici. Entrarono in casa e lì rimasero per qualche minuto. Poi l’uomo ne uscì, riprese le macchina e sparì lungo la strada. Rimanemmo lì, a mollo, a rimuginare su quanto successo, chiedendoci chi potessero essere e quanto fossero pazzi per decidere spontaneamente di chiudersi in quei luoghi orribili per le vacanze, fino a quando anche lei non uscì dalla porta in costume e pareo, con un piccolo zaino sulle spalle e gli occhiali da sole a reggere i capelli sulla testa. Si fermò un attimo sul porticato, sfiorando il corrimano scheggiato con due dita, prima di imboccare la breve rampa di scale che portava al viale per arrivare direttamente sulla spiaggia.
Giunse quasi fino in riva, stese sulla sabbia un telo di spugna ampio, di un bell’azzurro acceso, e vi si sedette sopra, abbassando gli occhiali da sole sul naso, per proteggere la vista dai raggi del sole – più forti adesso che non era riparata da alcuna tettoia – mentre rovistava nella borsa alla ricerca del tubetto di crema solare, che trovò poco dopo.
La sua pelle era bianchissima, sembrava venisse da un paese nordico, e le punte dei capelli, lisci e castani, lambivano appena le spalle. Sembravano solleticarle dolcemente. Non posso assicurare per le sensazioni degli altri, ma per quanto mi riguarda fu come se quelle punte stessero solleticando anche me. Le sentii scorrermi addosso lungo le braccia fino all’interno del gomito e giù, per raggiungere le punte delle dita, i polpastrelli già rinsecchiti dal tempo passato in acqua.
Inghiottii un blocco d’aria che mi sembrò di cemento, e nello stesso istante io, Chris e Dom ci voltammo e ci guardammo a vicenda.
Balzammo sulla riva tre secondi dopo, e le girammo intorno come avvoltoi per così tanto tempo che lei, alla fine, sorrise e ci chiese cosa volessimo.
Non ho la più pallida idea di cosa dicemmo quel giorno. Più che altro inventammo. Io diventai qualcosa tipo il figlio dell’uomo più ricco della città, Chris si trasformò in un campione di motocross e Dom subì la propria metamorfosi in skater professionista quasi ai livelli di Tony Hawk senza neanche doversi rinchiudere in un bozzolo. Lei si mostrò molto divertita. Disse di chiamarsi Jessica e, probabilmente, per il resto inventò molto anche lei. L’informazione base, quella che prendemmo per vera perché i fatti ci obbligarono a farlo, era che si ritrovava costretta a passare due settimane lì da sola. Il suo fidanzato le aveva promesso che avrebbero passato un po’ di tempo insieme in un posto carino, ma aveva omesso di dire che il posto carino non era poi così carino e che il tempo insieme sarebbe seguito solo ad un periodo di solitudine.
Le chiedemmo quanti anni avesse, e lei disse di averne venti. Mentì, come mentimmo noi quando le dicemmo di averne diciotto. Neanche li dimostravamo, diciott’anni. Lei finse di crederci e ci fece i complimenti, ci disse che avevamo un’aria bambina deliziosa e che le sarebbe piaciuto che le facessimo compagnia finché rimaneva sola lì, dal momento che non conosceva nessuno neanche nei dintorni e immaginava che in quel posto non ci fosse molto da fare, per passare il tempo.
Se avessimo avuto delle antenne, ci si sarebbero drizzate in quel momento.
Fortunatamente non ne avevamo, sarebbe stato parecchio ridicolo se fosse successo davvero.
Non sarebbe esatto dire che nel periodo che seguì entrammo in competizione. Non entrammo davvero in competizione, non ci facevamo la guerra e non ci “litigavamo” la ragazza, nella maniera più assoluta. Quando Jessica non era nei paraggi non facevamo che parlare di lei, e potevamo passare ore a decantare le lodi della sua bellezza – anche se non nei termini riverenti in cui la sto mettendo adesso – ma non stavamo realmente combattendo per averla.
Semplicemente, sapevamo che era solo questione di tempo. Che alla fine avrebbe scelto uno di noi. Che avrebbe pensato al modo migliore per rendere il gioco più intrigante, e che quel modo sarebbe stato il sesso.
Non facevamo che fissarla ammaliati, provandoci come deficienti – alla maniera stupida dei bambini, con boria e senza cautela – ed aspettando che compisse la scelta definitiva.
Alla fine, fu Dominic a spuntarla. Vinse su di lei non perché fosse più bello, più interessante o più sincero. Solo perché ci provò con più insistenza e, come mi confessò in seguito, barò, presentandosi a casa sua anche da solo, senza di noi, cosa che né io né Chris avevamo mai fatto. E immagino fosse perché, alla fine, né io né lui avevamo tutta questa insostenibile voglia di andare a letto con lei.
Sconfitti, subimmo i suoi sproloqui confusi e megalomaniaci su quanto fosse stato fantastico e bellissimo e indimenticabile e su quanto fosse semplicemente meraviglioso che lei gli avesse chiesto di tornare, e lo osservammo intrattenere questa relazione da lontano, con un po’ di sincera invidia. Ovviamente, dopo che lui e Jessica furono passati al “terzo livello” – al secondo c’eravamo passati un po’ tutti, anche con lei – le dinamiche, all’interno del nostro quartetto improvvisato, cambiarono. Dominic e Jessica cominciarono ad appartarsi più spesso. E Chris ed io smettemmo presto perfino di accostarci a loro, quando erano insieme.
Poi, un giorno, il fidanzato di Jessica la raggiunse nella villa a mare. Per un motivo che non sappiamo – e che non sa neanche Dom, ma sarebbe ragionevole supporre lei si fosse sentita in colpa, visto che lei e il fidanzato dovevano sposarsi a breve – Jessica confessò tutto.
Per motivi facilmente immaginabili, la cosa al tizio non piacque.
E pensò bene di “insegnare al moccioso le buone maniere”.
Quel giorno, Dominic imparò che andare con le donne degli altri non è una cosa intelligente.
Io imparai che i giochi pericolosi vanno chiusi in fretta, prima che si facciano mortali.
E Chris imparò ad applicare le bende ai nasi.
Quando dicevo a Brian che “non potevamo” continuare in quel modo, in realtà intendevo che io non volevo. Il problema era che mentivo. E lui lo sentiva. Era un animale anche lui, mi sentiva addosso il desiderio, sentiva che mi sarei lasciato trascinare e, siccome i rari momenti di pseudo-ribellione che avevo lo infastidivano da morire, aveva fatto una missione del conquistarmi.
Una cosa non aveva capito.
Che io ero già conquistato.
E che continuando in quel modo
mi stava solo distruggendo.
Che io ero già conquistato.
E che continuando in quel modo
mi stava solo distruggendo.
Fra una crepes e l’altra, sabato pomeriggio, non feci che pensare a lui. Ogni centimetro cubico dell’aria che respiravo mi faceva pensare a lui, ogni odore ed ogni colore si riduceva ai suoi.
Mi scottai più di un paio di volte e Tom minacciò di licenziarmi così spesso che da quel giorno in poi i clienti abituali mi chiesero spesso “Matt, com’è che sei ancora qui?”, imbarazzandomi.
All’ennesima bruciatura, sospirai e meditai di chiedere a Tom il resto del pomeriggio libero, per andarmi a buttare sull’erba in qualche parco e dormire fino a quando non fosse stato indispensabile tornare a casa, ma in quel momento Chris entrò nel locale e si diresse tranquillo e sorridente verso di me, ed io non potei fare a meno di sorridere a mia volta ed agitare una mano per salutarlo.
- Dov’è Dom? – gli chiesi, quando si fu seduto davanti a me, preparando una crepes da offrirgli, mentre spiavo alle sue spalle con aria curiosa.
- Non è venuto. – rispose lui con una risatina.
Io roteai gli occhi.
- Ce l’ha ancora con me?!
- Ce l’avrà con te finché non ci presenterai tuo fratello, lo sai. – concluse lui, stringendosi nelle spalle.
Io sospirai e rivoltai la crepes. La tenni sulla piastra ancora un po’, poi la misi in un piatto, la condii e gliela passai. Lui ringraziò e cominciò a mangiarla in silenzio dopo averla tagliata a metà.
Generalmente lo faceva quando veniva con Dom. Divideva la crepes in due e ne mangiavano metà l’uno. Mi sembrò strano che lo facesse anche quando era da solo.
- Scusa, ma tutta non riesci proprio a mangiarla? Non è così enorme…
Lui si interruppe, guardò la crepes e poi me. E sorrise.
- L’altra metà te la lascio. – disse piano, - Scommetto che quello schiavista di Tom non ti permette nemmeno di ficcare un dito nella Nutella…
Risi, commosso da tanta generosità.
- In effetti è vero, come mi vede avvicinarmi al barattolo con aria furtiva fa tipo a-hem! e batte una mano sul piano dell’affettatrice… - raccontai rabbrividendo, - È spaventoso!
Lui ridacchiò divertito e riprese a mangiare lentamente, assaporando il cioccolato.
- Matthew. – mi chiamò dopo un po’, con lo stesso tono calmo e pacato che usava sempre, e che quasi impediva agli altri di prenderlo meno che seriamente, - A me sta bene se non ti senti ancora pronto a presentarcelo. Avrai i tuoi motivi. – deglutii. Sapevo che c’era un “ma”. Sapevo che stava arrivando. – Mi auguro solo che prima o poi voi due risolviate i problemi che avete, abbastanza da “condividervi” con noi.
Disse solo questo. Poi insistette che mangiassi con lui e, quando andò via, anche per pagare, nonostante gli avessi detto che quella gliel’avrei offerta io. Mi disse che avrei avuto problemi con Tom, e che l’ultima cosa che voleva era separarmi da Bubbler per due sterline. Io sorrisi e lo ringraziai, incassando il denaro e salutandolo mentre se ne andava.
Condividerci.
Io non volevo condividere me e Brian col resto del mondo.
Non volevo, perché l’impalcatura di sorrisi maliziosi e mani insinuanti che aveva costruito attorno a me aveva fatto dei nostri giochi qualcosa di sporco. Qualcosa di volutamente esasperato. E il solo pensiero di parlarne con qualcun altro, o di mostrarmi in giro abbastanza perché qualcuno potesse intuirlo, mi dava la nausea.
Io sapevo che, se la cosa era degenerata fino a quel punto, era solo perché, come avevo finalmente capito quella mattina, nella testa di Brian c’era qualcosa che non andava.
Quindi, l’unico modo per salvarmi era sistemarla.
- Sono occupato. – disse atono, incapace di cancellare del tutto dagli occhi quell’ombra di stupore che l’aveva colto quando ero entrato.
- Devo parlarti. – risposi io, stringendo i pugni e inumidendomi le labbra secche per l’agitazione.
Brian sospirò e sussurrò a Barry dall’altro lato dell’oceano che l’avrebbe richiamato l’indomani. Salutò e interruppe la conversazione, poi si sollevò dal pouff zebrato che aveva preteso di farsi comprare qualche giorno prima e incrociò le braccia sul petto, fissandomi con astio.
- Spero che almeno sia una cosa importante. – sibilò, assottigliando gli occhi.
- Lo è. – dissi io, annuendo, - Riguarda noi due.
- Oddio! – ritorse lui, lamentoso, slacciando le braccia da sopra il petto e lasciandole ricadere come abbandonate lungo i fianchi, - Dimmi che questo momento non è arrivato!
Mi morsi il labbro inferiore, aggrottando le sopracciglia.
- Brian, te l’ho detto mille volte, questa cosa non può continuare.
- Cos’è? – chiese lui con una smorfia infastidita, - Non ti bastano quelli che ti faccio di mia spontanea volontà? Sei venuto a cercarne ancora? – proseguì, avvicinandosi minaccioso.
Okay.
Non mi stava ascoltando.
- Non ne voglio affatto ancora! – provai a difendermi, anche se il solo fatto che si stesse avvicinando mi dava i brividi e mi eccitava, - Sto provando a spiegarti seriamente come la penso riguardo a questa storia!
Brian roteò gli occhi e mi raggiunse, spintonandomi verso il letto con dei colpetti lievi e misurati sul petto, che divennero d’improvviso più forti e irritati nel momento in cui dovettero costringermi a cadere sul materasso.
- Brian! – lo richiamai, furioso. Lui si chinò in ginocchio davanti a me, ed io scattai in piedi.
- Cosa cazzo stai facendo?! – strillò lui infastidito, voltandosi a guardarmi mentre lo evitavo e mi rifugiavo dietro il pouff, poggiando le mani sullo schienale e stringendolo bene fra le dita, come non volessi rinunciare alla possibilità di utilizzarlo come un’arma impropria da scagliare contro di lui, se ce ne fosse stato il bisogno.
- Te l’ho detto! – ripresi, cercando di contenere l’ansia e la rabbia nel tono di voce, - Questa storia deve finire qui!
- Non farmi incazzare, Matthew. – disse lui, spettrale, facendo leva con una mano sul materasso per alzarsi in piedi e venendomi incontro.
Io girai attorno alla poltrona, continuando a sfuggirgli, mentre nei suoi occhi si faceva strada tanta di quella furia omicida che sentii la pelle come raggrinzirsi sotto i vestiti.
- Matthew! – mi chiamò ancora lui, sconvolto, spostando con un colpo secco il pouff lateralmente e scattando per afferrarmi i polsi. Io evitai la stretta e lo afferrai a mia volta, imprigionandolo.
Mi guardò come volesse uccidermi. Sollevò il viso, piantò i propri occhi nei miei e mi guardò come fossi la genesi di tutti i suoi problemi, il danno da eliminare per far tornare tutto al proprio posto.
Io lo fissai a mia volta, rintontito dall’intensità di quello sguardo, e lo lasciai andare.
- Hai… - deglutii, cercando di parlare chiaramente, senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi, - …hai capito quello che ti ho detto?
Brian fece come per allontanarsi. E per un secondo credetti davvero che l’avrebbe fatto. Che si sarebbe voltato e sarebbe andato via.
Ma non successe.
Avanzò ancora, e stavolta io non indietreggiai. Si fermò ad un passo da me, e rimanemmo a guardarci, mentre io mi rendevo conto di non riuscire più a respirare bene. Avevo come l’impressione che Brian riuscisse a controllare il flusso di ossigeno attorno a me, che riuscisse a dosare la quantità di aria respirabile che potesse giungere alle mie narici.
Pensai distrattamente che, continuando in quel modo, mi avrebbe ucciso, e feci per parlare, per dire qualcosa, qualsiasi cosa, una cosa che spezzasse quella tensione, quell’incantesimo, che mi liberasse.
Brian sollevò un braccio e mi afferrò per il colletto della camicia, strattonandomi finché non fui a pochi centimetri dalle sue labbra.
- Non me ne frega un cazzo di quello che hai detto. – disse disgustato.
- Brian… - provai io, ma non riuscii a concludere, perché lui annullò la già minuscola distanza che ci separava e forzò la mia bocca con la propria.
Ricordo che pensai di sentirmi invaso. Ricordo la sua lingua muoversi frenetica sulla mia, ricordo le sue labbra sulle mie come tenaglie, la sua mano sulla mia nuca e l’altra ancora a stringere il tessuto della camicia per impedirmi di sfuggire. I suoi occhi chiusi, serrati, come sempre.
Ricordo che continuai a parlare. Parole senza senso, senza significato, non mi sforzai neanche di trovare delle parole vere, tanto sarebbe stato comunque impossibile decifrarle. Lui continuò a baciarmi senza vedermi ed io continuai a parlare senza dire nulla, fino a quando non lo sentii grugnire esasperato e staccarsi da me con violenza, come stesse tagliando i legami fra noi con un’accetta.
Mi guardò. Ansimava. Ansimavo anche io.
- Hai rotto il cazzo. – bisbigliò, le guance arrossate e le labbra tremanti di rabbia.
Mi tirò ancora, mi costrinse a voltarmi e mi scaraventò sul pouff, sul quale caddi dopo aver inciampato sul tappeto in ciniglia che copriva il pavimento della sua camera e che, a causa del nostro rincorrerci confuso, s’era gonfiato e arrotolato in più punti.
- Brian… - ripresi, dopo aver recuperato abbastanza fiato, - Mi è venuta un’idea…
- Non voglio sentirla. – disse, inginocchiandosi ai miei piedi, stavolta senza che facessi niente per fermarlo.
- Potrebbe farti bene… - continuai, sollevando una mano e posandogliela sulla testa. Lui rimase per un attimo incerto, aspettando che decidessi cosa fare di quel tocco, se usarlo per costringerlo a concludere il lavoro che stava già iniziando – scavando con le dita oltre la fibbia, fra i jeans e i boxer – o ad allontanarsi definitivamente. La mia mano si limitò a scivolare fra i suoi capelli fino alla guancia, e lui se la scrollò di dosso con un gesto infastidito. – Potrebbe fare bene a entrambi…
- So esattamente cosa potrebbe fare bene a me. È non è niente che tu possa anche solo arrivare a concepire. – gli bastarono quattro carezze per prepararmi. Quattro carezze ed ero in suo potere. – E per quanto riguarda cosa potrebbe far bene a te… so esattamente anche questo.
Sentii ancora la sua bocca su di me, per la seconda volta in pochi minuti, e allora la sensazione non fu più quella di un’invasione, ma quella di una prigionia. Ma era così ugualmente opprimente che non ci feci caso.
Rilasciai il capo indietro, mentre il pelo ispido del pouff mi infastidiva i fianchi nudi.
- Voglio portarti in un posto… - ansimai, riportando le mani sulla sua testa e lasciandole lì, consapevole del fatto che stavolta non si sarebbe fatto distrarre, non le avrebbe scostate, non le avrebbe mandate via, - Lascia che ti ci porti, ti prego…
Si separò da me appena il tempo di dirmi di tacere, prima di ricominciare a scivolarmi addosso lentamente, fino in fondo.
Ma io continuai a parlare. E non so nemmeno cosa dissi. So solo che fra un ansito e l’altro decine di parole continuarono ad uscirmi di bocca, e potei sentire il suo fastidio crescere tutto intorno a me, nel nervosismo col quale afferrava il mio sesso alla base, o col quale stringeva le labbra, trattenendosi appena dal mordere, tutto intorno alla mia eccitazione. E potei sentirlo anche nei grugniti che continuava a lasciarsi sfuggire mentre si muoveva, e le sue mani mi scorrevano sui vestiti, cercando di raggiungere le labbra per obbligarmi a stare zitto, ma io parlavo e parlavo e parlavo e parlavo, continuando a chiedergli di venire con me, di lasciarsi condurre, che volevo aiutarlo, volevo il suo bene, doveva lasciarsi aiutare, doveva lasciarsi salvare. E pensavo aiutami a salvare me stesso, Brian, ti prego.
E poi venni e mi spinsi contro di lui in un gesto involontario, e lui si tirò indietro quasi subito e, senza neanche guardarmi in viso, sputò per terra. A un passo dai miei piedi, sul bel tappeto nuovo che aveva preteso in tinta col pouff.
Si sollevò da terra, guardandomi con odio puro.
Fece per andarsene, ma lo trattenni per il polso – e non so dove trovai la forza per farlo, sinceramente.
- Verrai con me, domani? – chiesi, quasi implorandolo.
Lui provò a liberarsi agitandosi come un’anguilla, ma lo tenni ben stretto. Lo tenni stretto finché non mi fecero male le dita, lo tenni stretto finché non percepii perfino il suo dolore, lo stridere delle ossa sottili del polso sotto la pelle.
- Va bene! – strillò alla fine, esasperato. E solo allora lo lasciai andare.
Il mio rifugio segreto era una vecchia baracca diroccata nel folto di una foresta di montagna che si ergeva nel bel mezzo del nulla a centotrentacinque chilometri dalla città. Io e Brian non avevamo spiccicato una parola per tutta l’ora e mezza che era servita al treno per portarci da una stazione all’altra, né avevamo osato dire granché per il resto del tempo – più o meno lo stesso – che era servito ai nostri piedi per scalare la montagna, aiutati da un bastone, e raggiungere il luogo nascosto dalle fronde e dai cespugli resi umidi e scuri dall’ombra delle folte chiome delle querce.
Eravamo ancora scossi per via di quello che era successo il giorno prima. Per quella lotta di unghie e denti alla fine dei quali io gli avevo strappato un consenso che lui aveva concesso solo dopo un combattimento tale da far pensare si trattasse di un pezzo del proprio corpo.
Per una mezz’oretta, Brian non aveva fatto che lamentarsi.
Brian era una ragazzina così pigra…
Ricordo che disse qualcosa sulle proprie unghie,
e sul fatto che, come risarcimento danni, mi avrebbe costretto a rifargli la manicure.
Ricordo che io accettai.
Brian era una ragazzina così pigra…
Ricordo che disse qualcosa sulle proprie unghie,
e sul fatto che, come risarcimento danni, mi avrebbe costretto a rifargli la manicure.
Ricordo che io accettai.
Quando entrammo nella baracca, Brian si guardò intorno con orrore.
Le assi del pavimento erano quasi tutte marce, e promettevano una profusione di schegge conficcate nella schiena o in qualsiasi altro centimetro di pelle libera da vestiti, e oltretutto all’interno dell’unica stanza regnava un totale caos di residui del bosco – foglie, escrementi di animali, immondizia varia ed eventuale, un disastro.
- Noi dovremmo dormire qui? – chiese incredulo, indicando il tutto con un ampio gesto del braccio.
Io annuii, senza rendermi conto di cosa intendesse dire.
- Dove sono i letti? – insistette lui, probabilmente ancora troppo sconvolto per comprendere appieno il guaio in cui s’era cacciato accettando di seguirmi in quell’impresa assurda.
- Non ci sono letti. – risposi io con naturalezza, - Ho portato il sacco a pelo.
- Il… il sacco a pelo?! – chiese lui, sollevando un indice, come volesse assicurarsi che io stessi parlando proprio di un’unità.
- …be’, sì… io sono un figlio unico, non ne ho mai avuti due…
- E dove credi che dormiremo io e tu?!
Mi prese alla sprovvista.
Non avevo osato pensare che avrebbe ceduto con facilità, ma neanche avevo davvero immaginato che il pensiero potesse infastidirlo. Non dopo tutte le volte che s’era fatto trovare fra le mie lenzuola nell’ultimo periodo.
- …pensavo che avremmo potuto dormire insieme…
Lui mi guardò.
Fece per dire qualcosa, ma richiuse le labbra con un gesto lento e stanco.
Le labbra di Brian erano ipnotiche.
Le labbra di nessun’altra ragazza erano belle
come quelle della mia.
Le labbra di nessun’altra ragazza erano belle
come quelle della mia.
- Se vuoi… posso dormire lì… - dissi, indicando un mucchio di foglie morte mezze putrefatte accatastate in un angolo.
Lui si voltò a guardarle e lanciò un sospiro esasperato, passandosi una mano fra i capelli resi elettrici dall’umidità.
Se ne accorse e tirò fuori un elastico dalla tasca dei jeans.
Li raccolse in una coda.
Brian era troppo, troppo carino.
Li raccolse in una coda.
Brian era troppo, troppo carino.
- Domani mi servirà qualcuno che riporti il mio cadavere in città. – disse, col tono annoiato di una principessa delusa, - Non posso rischiare che ti spacchi la schiena dormendo su quella roba, o che i parassiti ti divorino durante la notte.
Sollevò lo sguardo, e neanche si sforzò di sorridere per rassicurarmi.
- Dormiremo insieme. – concluse, muovendo qualche passo intorno alla stanza, più per interrompere il contatto visivo con me che non per dare davvero un’occhiata in giro.
- Avanti, non fare così… - dissi io, sfilando lo zaino dalle spalle, - Adesso vediamo di catturare qualche animaletto, accendiamo un fuoco e- - mi interruppi perché lo sguardo inorridito che mi rivolse mi terrorizzò.
Che occhi enormi.
- …Matthew, non esiste. Prepara il dannato sacco a pelo e andiamo a dormire. Sono esausto.
Mi rassegnai.
Sarebbe stata una notte drammatica.
Avrebbe dovuto esserlo.
Sistemai il sacco a pelo sul pavimento, dopo aver trovato un paio di metri di travi che non mi sembrassero così marce da cedere sotto il nostro pur leggero peso, e gli dissi che poteva andare quando voleva.
Brian quasi non aspettò nemmeno che finissi la frase. E aspettò ancora meno per chiedere casualmente “Be’, non vieni?”, come fosse stato normale.
Io cominciai solo in quel momento a capire esattamente che avremmo dormito insieme. Che saremmo stati appiccicati per tutta la notte. Tutta l’intera dannatissima notte.
Non era neanche lontanamente paragonabile al trovarlo nel mio letto al mattino perché aveva deciso di farmi venire un infarto o qualcos’altro di troppo simile ma non ugualmente mortale.
Mi accomodai titubante al suo fianco, schiacciandomi quasi istantaneamente contro la parete opposta a lui. Un po’ perché temevo di dargli fastidio, e un po’ perché avevo paura di quanto la sua vicinanza avrebbe potuto “infastidire” me.
Sapevo che sarebbe stato un fastidio non ignorabile.
- Non ti mordo mica. – disse lui, atono, senza guardarmi, - Puoi avvicinarti.
Lo presi come un ordine.
Volevo farlo.
Volevo toccarlo.
Volevo toccarlo.
Dentro al sacco a pelo c’era pochissimo spazio. Davvero, davvero poco. Ricordavo di averlo usato l’ultima volta quando avevo dieci anni, o qualcosa di simile. Dovevo essere nella stessa baracca. Con me doveva esserci anche mio padre.
Probabilmente avevamo riso molto.
Passato la serata cantando e mangiando patate arrostite.
Lui doveva avermi raccontato qualche storia spaventosa.
Con la torcia puntata sotto al viso.
Perché non riuscivo a non pensare
che mi sembrava non ci fosse niente di vero in quei ricordi?
Passato la serata cantando e mangiando patate arrostite.
Lui doveva avermi raccontato qualche storia spaventosa.
Con la torcia puntata sotto al viso.
Perché non riuscivo a non pensare
che mi sembrava non ci fosse niente di vero in quei ricordi?
Gli passai un braccio attorno alle spalle, e per riflesso lui appoggiò il capo sul mio petto.
Una cascata di capelli nerissimi e sottili invase la mia visuale. Non l’avevo visto scioglierli, e non mi aspettavo che sarebbe stato così arrendevole.
Probabilmente era solo stanco.
Ogni tanto ho l’impressione di aver approfittato di Brian
come fosse stato una bimbetta sprovveduta.
Ogni tanto ho l’impressione di aver approfittato di Brian
come fosse stato una bimbetta sprovveduta.
- Stai comodo?
Annuì lentamente, sfregando con dolcezza contro il tessuto morbido della mia maglia. Sentii una sua mano scorrere su per il mio fianco, e poi fermarsi sul mio petto all’altezza del cuore, mentre le sue gambe si facevano strada fra le mie, alla ricerca di un po’ di spazio.
- Posso stare così? – chiese con una vocina flebile e quasi ridicola.
Non pensai nemmeno per un minuto che lo fosse.
- Certo. – dissi, sorridendo più apertamente.
Dopodichè persi il controllo sui miei arti.
La mia mano risalì autonomamente verso la sua, disincastrandosi dal tessuto avvolgente del sacco e coinvolgendo le sue dita piccole e tozze in un giochino idiota. Ci sfioravamo i polpastrelli come nel film di Spielberg, ET, era una cosa veramente stupida.
Brian ne rise.
Una risatina piccola e divertita.
Non sembrava trovarlo così stupido, in fondo.
Che l’avesse trovato tenero lo capii poi.
Brian era un mistero,
lo era allora come non lo sarebbe stato mai più.
Era fantastico.
Brian era un mistero,
lo era allora come non lo sarebbe stato mai più.
Era fantastico.
Poi mancai la presa.
Fu del tutto accidentale.
Credo che lui pensi che l’abbia fatto apposta.
Mancai la presa e le nostre dita si intrecciarono.
E pensai distintamente che i nostri corpi
sembravano fatti apposta per incastrarsi.
sembravano fatti apposta per incastrarsi.
- Credo di essere nato apposta per incontrarti.
Dovevo essere pazzo.
Devo esserlo ancora.
Devo esserlo ancora.
Sollevò lo sguardo e mi fissò con un paio d’occhi giganteschi, indecifrabili, appena offuscati da un velo di sonno.
Non ho la minima idea del perché lo dissi. A ripensarci, suona melenso e terribilmente stereotipato. E non ci conoscevamo da abbastanza tempo, ed io non avevo ancora una percezione abbastanza chiara di quello che c’era fra noi per dire una cosa simile con tanta leggerezza. Ma lo dissi lo stesso, perché fu esattamente quello che sentii.
- Nessuno mi aveva mai detto una cosa simile… - confessò a mezza voce.
Per quanto stereotipato fosse,
non doveva averlo sentito tanto spesso.
E questo faceva male al cuore.
non doveva averlo sentito tanto spesso.
E questo faceva male al cuore.
- Mi sembra logico, - risposi io, - è come coi puzzle. Non è che ci possono essere tre pezzi che vanno insieme. Ce ne possono essere solo due. E qui c’ero già io. Quindi non può esserci stato nessun altro.
Lui dischiuse lievemente le labbra.
Ho già detto che le amavo?
- Non intendevo in senso letterale, Matt…
[Intendevo che eri il primo.
L’unico.
Che mi avesse considerato – e non perché valevo una scopata.
Che avesse deciso di fare della mia serenità un obiettivo primario – e non perché vi era obbligato per legge.
Che fosse stato gentile.
Che fosse stato, semplicemente, con me.
Ma tu non capivi.
Tu eri un adorabile idiota.
Io…
…forse ti amavo già allora solo per questo.]
Sorrise lievemente.
- Non importa. – disse.
Si sollevò appena, sfiorandomi le labbra con due dita prima di catturarle con le proprie.
Non era la prima volta che mi baciava, eppure sembrava lo fosse. Il bacio cui mi aveva forzato il giorno prima non aveva niente a che vedere con quello che ci stavamo scambiando in quel momento. Avevo lo stomaco sottosopra, sentivo il cuore battere fortissimo e, non ci fosse stato il sacco a pelo a tenermi immobile, come imprigionato, gli sarei sicuramente saltato addosso.
Ma la cosa non mi preoccupò per più di due secondi.
Ci pensò lui a prendere in mano le redini del gioco.
Le travi sotto di noi cedettero quasi subito – non avevo preventivato che avrebbero potuto dover sostenere una spinta superiore a quella dei nostri corpi addormentati – ma il fatto che le fondamenta della baracca fossero già considerevolmente affondate nel terriccio umido della montagna ci permise di non fare un volo troppo pericoloso, e di continuare a baciarci come se nulla stesse succedendo.
Capii che non sarebbe rimasto solo un bacio quando le sue mani cominciarono ad arrampicarsi su di me, risalendo fino al collo e poi tornando indietro, giù, fino alle gambe, con navigata ed esasperante lentezza.
Non c’era spazio neanche per spogliarsi.
Lo osservai, del tutto incredulo, aprire la zip dei miei jeans e abbassare i suoi con un gesto tanto urgente ed affamato che sembrò unico, e poi lo guardai voltarsi e inumidirsi una mano con la saliva, sedersi su di me e aiutare la mia erezione già fastidiosamente dolorosa a farsi strada dentro di lui, senza nemmeno un gemito di dolore.
Un raggio di luna colpiva le sue labbra umide, passando attraverso uno spiraglio della porta mezza scardinata, rendendole brillanti, accentuando il loro tremolio infantile, seguendole nel loro sollevarsi ed abbassarsi al ritmo delle mie spinte calme e caute.
Ero un amante devoto.
Me lo dicesti tu.
Lo ricordo bene.
Me lo dicesti tu.
Lo ricordo bene.
Non lo sentii chiamare il mio nome, nemmeno per una volta.
Avevo paura stesse pensando a qualcun altro.
Sapevo che lo stava facendo.
Sapevo che lo stava facendo.
Ma era la mia mano, quella che cercava.
Era il mio corpo, quello al quale si stringeva.
Ero io che lo stavo toccando, in quel momento.
Quando venne implorai Dio che mi permettesse di continuare a farlo venire così per sempre.
continua…
Ogni tanto vengo a vedere se per caso hai aggiornato questa bellissima storia e, anche se vengo delusa dall’assenza di nuovi capitoli, mi trovo sempre a rileggere questi 7…è una storia speciale, spero tanto che troverai la voglia di continuarla! Tra l’altro, è così particolare che se cambiassi i nomi dei personaggi sarebbe una storia originale vera e propria, potresti farci un libro… ma non cambiarli mai! Il mollamy dà sempre quel tocco in più! :D Eh niente, volevo solo dirti che continuo a farmi del male leggendola e rileggendola pur sapendo che probabilmente non saprò mai come andrà a finire ç_ç
ki2k2ka
06/05/2014 01:56