Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
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MAKE-UP FOR BOYS
CAPITOLO 2
CHRISTMAS TIME

Lungo tutto il tragitto fino a casa, non feci che pensare che non poteva esserci niente di peggio rispetto alla situazione in cui mi trovavo. Mia madre e il signor Molko sembravano al settimo cielo, e questo impediva loro di capire che quella che mi stava seduta accanto sul sedile posteriore della Mercedes non era una semplice ragazzina dall’aspetto caruccio e alternativo, ma una piccola bomba a orologeria il cui conto alla rovescia era già cominciato da tempo, probabilmente da molto prima di arrivare in aeroporto o di salire sull’aereo.
Quando arrivammo a casa e il signor Molko ci confessò candidamente che, dal momento che la camera di Brian non era ancora pronta, ci saremmo dovuti adattare entrambi nella mia, temetti sul serio che la bomba scoppiasse. Brian spalancò gli occhi così tanto che mi fecero paura, e fissò suo padre con il chiaro intento di fulminarlo lì e in quel momento. Il signor Molko rispose col più puro e tranquillo dei sorrisi, e perciò Brian ritenne opportuno spostare l’indirizzo della propria rabbia.
Chi fu il fortunato bersaglio?
Io, ovviamente.
Avevo la spiacevole sensazione
che quella sarebbe stata una cosa
alla quale avrei dovuto abituarmi presto.

[E avresti fatto bene.]

- Io con questo in camera non ci sto. – sentenziò sicuro, indicandomi con un dito.
- Non chiamarlo “questo”, Junior. Si chiama Matthew. – lo riprese il signor Molko, incrociando le braccia sul petto.
- Oh, non lo ricordavo. – rispose Brian con un sorrisetto cattivissimo, - Chissà, forse è per questo che non voglio dividere la stanza con lui. Non lo conosco.
- Imparerai a farlo. – fu l’ultima parola del signor Molko.
Brian fu costretto, con le cattive più buone che avessi mai visto, a trasferirsi in camera mia, armi e bagagli.
Quando ci ritrovammo soli in camera sentii il cuore sobbalzarmi nel petto e mi voltai a guardarlo, capendo che se il fedele compagno di battiti mi aveva fatto quello scherzetto era stato perché Brian mi stava fissando a propria volta come fossi un alieno o qualcosa di peggio.
- Eh… - balbettai incerto, - Io ho un sacco a pelo... tu puoi prendere il mio letto… - mormorai, cercando di essere gentile.
- Col cazzo che dormirò nel tuo letto, come cavolo ti chiami! – mi investì lui, lanciando la valigia in un angolo e osservandola impietoso cadere di fianco sul pavimento. – Dove sarebbe questo sacco a pelo?
Indicai il mio armadio, e lui non si fece certo pregare per aprirlo.
Ora, io avevo quindici anni.
[Ed eri disgustoso.]
Avevo quindici anni!
Tutti i ragazzini a quindici anni buttano la roba a caso nell’armadio perché la loro madre creda che la stanza sia a posto!
E quindi Brian spalancò le ante del mio armadio e venne investito da una tale quantità di vestiti che avrebbero fatto decisamente meglio a trovarsi in lavatrice, in quel momento, che io pensai sarebbe caduto sotto il peso della stoffa e della puzza.
Ma lui rimase in piedi.
Quando si voltò, gli pendeva un calzino dal braccio.
Lo afferrò con due dita, sollevandolo appena per poi gettarlo con noncuranza per terra. Tutto questo fissandomi, sconvolto e inorridito.
- Non c’è proprio nessun altro posto dove potrei andare a dormire? – chiese a mezza voce, guardando la montagnola di roba sporca ai suoi piedi.
Io mi strinsi nelle spalle, agitato.
- Scusa! – dissi, cercando di riprendermi dallo sconforto, - È che non pensavo… insomma… - lo guardai, mi guardò, sollevò un sopracciglio e io lasciai perdere. – Comunque il sacco a pelo è qui sopra… - conclusi, sollevandomi sulle punte per raggiungere il ripiano, - Se vuoi però quando lo posi puoi metterlo anche più in basso… - mi interruppi, sperando di non averlo offeso facendogli credere che pensassi lui fosse un nano.
- Tanto, per quello che t’importa dell’ordine. – si limitò a commentare lui col gesto vago di una mano davanti al viso.
Arrossii furiosamente, chinandomi a raccogliere magliette e biancheria da terra e stringendo il mucchio fra le braccia per portarlo nella veranda adiacente alla cucina, dove tenevamo la cesta dei vestiti sporchi.
- Tu mettiti a tuo agio… - balbettai, fuggendo da lì, - Io torno subito.
*
Mi rifiutai di tornare a casa per tutto il giorno. Scappai a casa di Dom, esultando perché anche Chris era lì e un po’ di supporto morale era esattamente quello che mi serviva, e mi rovesciai sul suo letto senza neanche salutarlo.
- Usurpi il mio dominio!!! – strillò lui, saltandomi in groppa e cominciando a cavalcarmi come un cowboy da rodeo, - Alzati in piedi e combatti da uomo, Bellamy!!!
- Nooo… - mi lamentai io, affondando il viso nel cuscino, - La mia vita è un disastro…
- Zitto, che fai il lavoro più figo del mondo. – rimbrottò Dom dandomi uno schiaffo sulla nuca.
- Pensa a lui, che consegna le pizze. – ridacchiò giocoso Chris, stiracchiandosi sulla poltrona mezza rotta che riempiva metà della stanzetta di Dom.
Lui gli tirò una pantofola sul naso e lo obbligò al silenzio.
- Com’è che sei finito da queste parti? – mi chiese, afferrandomi per il colletto della maglietta e ondeggiando per cercare di costringermi a voltarmi, mentre io mi aggrappavo disperatamente al suo copriletto.
- Passavo di quiiii… - continuai a pigolare infantilmente.
- Ceeeerto, e passavi di qui perché…?
- Perché ti voglio bene e volevo venire a trovarti! – cercai di mistificare, lasciando finalmente andare il piumone e permettendo a Dom di rivoltarmi come un’omelette.
- Bah! L’hai sentito, Chris?
Chris annuì.
- Si merita un ceffone, vero?
Chris annuì ancora e Dom mi punì con uno schiaffo allucinante sulla fronte, al quale io neanche risposi.
- Dio mio, dev’essere grave… - mormorò il mio cosiddetto migliore amico, scendendo dalla mia pancia e sedendosi sul pavimento a gambe incrociate fra le gambe di Chris, che utilizzò come fossero manubri di un attrezzo per il sollevamento pesi. – Non è che c’era qualche maniaco che ti inseguiva?
- Seh, figurati. – borbottai io, - Come fossi il tipo che attira i maniaci per strada.
- Ora, non far sembrare che ti dispiaccia… - ghignò lui, malevolo.
Io lo guardai. Anzi, li guardai entrambi. Prima lui, poi Chris.
- Mia madre si risposerà. – dissi, come non mi importasse particolarmente. Riuscii a dirlo in quel modo perché in effetti non ci stavo pensando. Pensavo solo a Brian e a quanto mi sembrasse di non riuscire a farne una giusta per farmi accettare da lui, e a quanto sarebbe stata disastrosa la nostra convivenza da quel momento in poi.
Chris annuì tranquillamente, mentre Dom mi fissava incuriosito.
- L’uomo con cui sta… - continuai, un po’ incerto. Non sapevo dove volessi andare a parare e non sapevo dove sarebbe finita quella conversazione. Mi sembrava di inerpicarmi per un sentiero affatto sicuro, non era una bella sensazione, - …ha due figli. Uno di loro due s’è trasferito qui e starà con noi, da adesso in poi.
- Oh. – sbottò finalmente Dom, lasciando perdere le gambe di Chris e cominciando a giocare coi lacci delle due scarpe, - Un altro Bellamy!
- Tecnicamente resterà col suo cognome… - precisai con una scrollata di spalle.
- Cambierai cognome tu? – s’informò lui, premuroso.
- Ma no! – sbuffai infastidito, arrotolandomi nel piumone e distruggendo la composizione perfetta e ordinata delle lenzuola sul letto.
- Insomma, Bells, è gente simpatica? – tagliò corto Dominic, socchiudendo gli occhi e appoggiando il capo al ginocchio di Chris, che continuava ad osservarmi silenzioso.
- Be’. – esitai, colto alla sprovvista, - Non sembrano così male.
- E allora il problema è…?
Mi fermai a guardarlo.
Il problema.
Forse il problema era l’ennesimo problema che non riuscivo a pormi. Forse non sarebbe dovuto bastarmi un “non sembrano così male”, per accettarli. Forse avrei dovuto essere meno permissivo, nei confronti di mia madre, meno conciliante. Forse avrei dovuto tenerla d’occhio più accuratamente, durante l’anno precedente. Forse, invece di perdermi nell’osservazione ammirata dei jukebox online, avrei dovuto curarmi di lei. Forse allora avrei capito le sue ragioni, avrei capito cosa l’aveva spinta fra le braccia del signor Molko e conseguentemente avrei capito anche cosa aveva condotto Brian nella mia stanza a trattarmi come una pezza perché odiava l’universo creato ed io sembravo l’esponente della razza umana perfetto da prendere di mira per l’occasione.
Forse ero di nuovo arrivato in ritardo rispetto alla mia stessa vita.
La domanda era: potevo parlarne con Dom e Chris?
La risposta era che sì, potevo farlo. Ma non volevo.
*
Sgattaiolai silenziosamente in camera mia. Abbandonai le scarpe in un angolo, lanciai pantaloni e maglietta sulla scrivania, cercai di dribblare il sacco a pelo di Brian senza causare un disastro urtando la struttura del mio letto, infilai una canottiera presa alla cieca nel gruppo di quelle sporche ma non abbastanza da meritare un lavaggio a novanta gradi ed affondai fra le coperte con un piccolo sbuffo profumato di fresco e di pulito.
- Certo che tu e la discrezione siete due universi paralleli. – disse Brian, rompendo il silenzio che mi sembrava d’essere riuscito a mantenere, muovendosi faticosamente all’interno del sacco a pelo.
Saltai a sedere.
- Brian? Eri sveglio? – chiesi ansioso.
- No. – disse lui crudelmente, - Dormivo e ne ero molto felice. E comunque ti puzzano i piedi.
- …dici…? – chiesi curioso, afferrandomi un piede e cercando di portarlo al naso.
Gli occhi di Brian mi seguirono per tutto il tempo, inorriditi.
- Sei osceno. – commentò sospirando, - Ma da dove vieni? Dal Texas?
- Uh? – chiesi io, senza capire, - Mia madre è irlandese, però stiamo in Inghilterra da prima che io nascessi… e mio padre… uhm… credo sia nato in un posto che si chiama Sunnydale o qualcosa del genere…
- Sunnydale…? – sbottò lui, incredulo, - Quindi tu saresti tipo Buffy l’Ammazzavampiri o cosa?
Ci misi un po’ ad afferrare.
- No, mi sa che non era Sunnydale… insomma, è un posto vicino a Newcastle, comunque, me lo ricordo perché quando avevo tipo sei anni ci andammo tutti insieme e mio padre mi portò a vedere lo stadio, un posto enorme, veramente inquietante al massimo, e-
- Diventi logorroico quando sei nervoso, eh?
Lo disse così, semplicemente, fissandosi le unghie con aria distratta.
- Scusa… - mormorai a bassa voce.
- Basta che non si ripeta. Non posso informarti che ti puzzano i piedi e ricevere in cambio la storia della tua vita.
- Sì, lo so. – risposi con un risolino agitato, - Mi dispiace.
Rimanemmo in silenzio per un po’. Lo osservai rigirarsi ancora nel sacco a pelo, alla ricerca di una posizione più comoda. Immaginai non dovesse essere facile, visto che stava praticamente disteso sul pavimento.
Sospirai, chiedendomi per quale sciocco motivo avesse rifiutato così decisamente di usare il mio letto.
- Comunque sia – riprese lui, sospirando pesantemente a sua volta, - i piedi ti puzzano sul serio.
Abbassai lo sguardo.
- Okay… - sussurrai.
Mi alzai in piedi ed andai in bagno.
*
L’indomani mattina, invece d’essere svegliato dal solito strillo isterico di mia madre che si lamentava chiedendosi se fosse umanamente possibile dormire tanto come facevo io, fui svegliato da un cicaleccio concitato ma sommesso, quasi sussurrato, pieno di risolini allegri da ragazzina eccitata.
Era Brian.
Non era passato molto tempo, dal nostro primo incontro, ma decisamente ne era passato abbastanza perché capissi che sentirlo ridere – con un’intonazione che non fosse necessariamente cattiva o derisoria, tra l’altro – dovesse essere qualcosa di simile a un evento degno di uno speciale al telegiornale.
Incuriosito da tutta quella felicità e da tutti quegli affettuosi “Steve, sei un cretino!”, rotolai fra le coperte per voltarmi nella sua direzione e cercare di captare meglio ciò che stava dicendo, forzandomi a tenere gli occhi chiusi nonostante la luce del giorno già invadesse prepotentemente la stanza, infastidendomi anche attraverso le palpebre.
Seguì un minuto di silenzio.
- Non è mio fratello. – disse poi Brian, probabilmente rispondendo a qualcuno che gli chiedeva di me, - E comunque è un animale.
A quel punto, dimenticai tutte le precauzioni che avevo preso perché lui non si accorgesse che lo stavo spiando e scattai seduto sul letto, ben deciso ad una qualche protesta.
Lo trovai che ghignava apertamente, fissandomi furbo e perfettamente a proprio agio.
- Ed ascolta le telefonate altrui. – concluse soddisfatto, accavallando le gambe sotto la copertina imbottita in piuma d’oca del sacco a pelo.
Probabilmente arrossii.
Probabilmente mormorai una scusa poco convinta.
Probabilmente inciampai anche, mentre uscivo in fretta e furia dalla camera.
*
La giornata di Brian era scandita da molti avvenimenti in successione, che lo occupavano al punto da rendergli impossibile occuparsi di qualcun altro oltre sé stesso – nel caso avesse voluto, e dubito volesse, comunque.
La sveglia era puntata per le nove precise, orario in cui apriva gli occhioni e, prima ancora di lavar via dal viso i residui del sonno, afferrava il telefono e chiamava Steve dall’altro lato dell’oceano. Steve era il suo migliore amico. Era facile immaginarlo, perché solo il tuo migliore amico rischia la morte sfidando l’autorità dei genitori per restare in piedi a ciarlare al telefono con te fino agli orari indecenti cui lo costringeva Brian. Gli argomenti di discussione erano i più vari, ma fondamentalmente tutte le telefonate erano un enorme concentrato di odio. Brian odiava l’Inghilterra, odiava gli inglesi, odiava il proprio padre, odiava la nostra casa ed odiava me. Con passione spaventosa. Non fossi stato io, non fosse stato il mio mondo, l’obiettivo del suo rancore, l’avrei trovato incredibilmente appassionante da ascoltare.
Quando si lamenta, Brian è trascinante.

Col tempo, imparai a conoscere Steve. Steve è una persona con la quale è incredibilmente facile andare d’accordo. È il tipo d’uomo che, perfino nelle situazioni più orribili o assurde, ti dà una pacca sulla spalla e ti dice “su, su, non fare così, tanto lo sai che in un modo o nell’altro ne veniamo fuori”. Ovviamente, Brian lo amava. Dal momento in cui rispondeva al momento in cui interrompevano la chiamata i suoi occhi luccicavano in maniera adorabile. Risplendeva tutto. Una meraviglia, da guardare.
L’altro oggetto di conversazione preferito da Brian era Stef. Non avevo idea di chi fosse, all’epoca, sapevo solo che quando Brian lo nominava il suo respiro sapeva quasi di zucchero e gli si imporporavano le guance.
Stef veniva fuori immediatamente, quando Brian era giù di morale. Se era successo qualcosa di spiacevole il giorno prima, Stef era la prima persona di cui chiedeva, e poi poteva stare ore a commentare ogni informazione passata da Steve con frasi adoranti del tipo “è così figo!” e “non puoi capire quanto mi manca”. Se, invece, non era successo niente di particolare, Stef tardava ad arrivare. Brian si interessava di più alla vita di Steve, gli faceva un mucchio di domande, cose anche stupide, del tipo “com’è il tempo lì?”, o “di che colore è il cielo?”, poi passava un po’ di tempo a lamentarsi per cose inutili e per la mia palese incapacità a vivere la vita in maniera normale in una stanza che non sembrasse un porcile e solo alla fine veniva fuori Stef. Poco prima di chiudere al telefono. Come fosse stata una buonanotte, o un augurio per una buona giornata, Brian si faceva cullare da ciò che Steve gli diceva di lui e sorrideva teneramente fino a quando il discorso non si esauriva.
Mi piacerebbe poter dire che quelle telefonate gli facevano bene.
In realtà lo mettevano terribilmente di malumore. Gli davano modo di ricordare esattamente tutti i motivi per cui odiava trovarsi dov’era e per cui avrebbe desiderato trovarsi altrove, e questo lo aiutava a raccogliere il proprio odio negli occhi, come avrebbe fatto per un po’ d’acqua in una bottiglia, in attesa di riversarlo sulla prima vittima sacrificale disponibile.
Non c’è bisogno che io dica chi era la sua vittima preferita.
[Ma c’è bisogno che io precisi che ti stai lamentando troppo.]
Finita la telefonata mattutina con Steve, Brian si alzava, ripiegava il sacco a pelo, lo ficcava in un angolo della stanza – perché “il solo pensiero di aprire il mio armadio lo disgustava”, e infatti per tutte le vacanze natalizie tenne i propri vestiti in valigia, fino a quando suo padre non lo obbligò a piantarla con quella storia – andava a lavarsi, tornava in camera, si spogliava, si vestiva e poi, se io non ero già scappato perché, in mattinata, lui aveva detto qualcosa che mi aveva in qualche modo ferito o messo in imbarazzo, mi buttava fuori. Riapriva i cancelli del forte solo quando era perfettamente truccato. Usciva da quella stanza con gli occhi pittati di nero e le labbra illuminate da una quantità indecente di lucidalabbra, i capelli ravviati dietro le orecchie o lasciati liberi di ricadere lungo il viso, arricciandosi in punta. Vestiva sempre di nero o di bianco. Aveva una quantità enorme di gonne, che indossava sopra collant scurissimi o pantaloni sottili. Più raramente a gambe scoperte.
Quando voleva costringere chiunque lo guardasse
a distogliere gli occhi, principalmente.

Non faceva colazione. Quasi mai. Si piegava a mangiare qualcosa al volo solo quando la sera prima era successo qualcosa che l’aveva costretto a saltare la cena, e quindi sarebbe stato difficoltoso per lui raggiungere l’ora di pranzo prima di morire di stenti, magro com’era.
La sua mattinata continuava tranquilla e felice all’insegna del rendere impossibili le vite di chi lo circondava. Dal momento che, in fondo, non aveva un cavolo da fare, passava il tempo a seguire mia madre e farle gentilmente notare che mettere la roba sporca in un cesto posto in un angolo della cucina avrebbe potuto non essere la scelta più igienica in assoluto, oppure che la sua scelta di mettere del pepe nello stufato per il pranzo avrebbe potuto non essere la più azzeccata, visto che lui non gradiva particolarmente la cucina piccante.
Mia madre andava in fibrillazione ogni volta che lui appariva dal nulla, e lui lo sapeva e utilizzava quell’atteggiamento compito e mansueto per poter continuare a rompere le palle senza che nessuno potesse tacciarlo di maleducazione. Era dannatamente furbo, in quel senso. Perfino quando suo padre lo avvicinava e strillava “Non credere, Junior, che non abbia capito il tuo piano!”, lui non perdeva mai la calma. Si limitava a guardarlo con innocenza, sollevare un sopracciglio e scrollare le spalle, annunciando che “se la sua presenza non era gradita, per lui non era un problema tornarsene a casa”. Cosa che irritava oltremodo il signor Molko. Giustamente.
I momenti peggiori della giornata erano pranzo e cena. Se, durante le mattinate e i pomeriggi, Brian poteva nascondersi in camera a fare ciò che preferiva mentre io ero obbligato alle giornate intere in creperia – visto che il concetto di “vacanze” evidentemente non rientrava nel vocabolario di Tom – durante i pasti era obbligato a stare a tavola con tutti gli altri. E questo lo irritava oltremodo.
Durante quei momenti della giornata sembrava perdere tutta la serafica calma che lo contraddistingueva per tutto il resto del tempo. Diventava agitato. Presuntuoso. Vagamente isterico. Si comportava in maniera più che indisponente, e quella che mostrava era la classica maleducazione esibita e orgogliosa dei ragazzi viziati. Non aveva niente a che fare con la sottile crudeltà della quale imbeveva le battute acide che si lasciava “sfuggire” durante il giorno. Non era altrettanto meditata.
Solo che desiderava stare lontano da tutti noi. Non si sentiva parte del nostro nucleo familiare, non si sentiva parte del nostro ambiente, neanche voleva. E perciò era il suo stesso istinto che lo guidava in quel senso, spingendolo a comportarsi male perché suo padre perdesse le staffe – cosa che avveniva sempre più spesso, man mano che passava il tempo – e lo mandasse in camera sua.
Era tutto ciò che Brian desiderasse.
Un angolino piccolo e silenzioso. Uno spazio proprio in cui rotolarsi nel disagio e nel rancore.
Io lo capivo, perché era più o meno la stessa cosa che avevo fatto io quando mio padre era andato via. Non ero mai stato un tipo irritante né mi interessava diventarlo – anche perché ci tenevo ad avere ancora amici e persone care a cui rivolgermi, nel momento in cui fossi uscito da quella strana fase di confusione che stavo attraversando – perciò non avevo usato la cattiveria ma l’assenza.
Il risultato era stato lo stesso, però.
Io avevo perso i contatti con la mia famiglia e, quando m’ero risvegliato, ritrovandola, avevo trovato tutto diverso.
Mi sarebbe piaciuto poter dire a Brian che per lui sarebbe stato lo stesso. Che, quando fosse uscito da quel momento, si sarebbe guardato intorno e avrebbe provato paura, delusione e tristezza.
Non lo feci mai.
Avevo l’impressione che Brian lo sapesse già.
*
Le giornate di Brian si concludevano sempre allo stesso modo. Ovvero nello stesso in cui erano cominciate. Afferrava il telefono e ciarlava. Solo che non chiamava Steve. Per la buonanotte preferiva rivolgersi a suo fratello, Barry.
Le telefonate con Barry, generalmente, erano più brevi di quelle con Steve. Brian stava in silenzio, per lo più. Ascoltava. Con sguardo sognante. Fissava il vuoto, rigirandosi il filo del telefono fra le dita, sorridendo e annuendo, mugugnando ogni tanto un assenso o un diniego.
Non ho mai capito la natura di queste telefonate. Probabilmente perché io non ho un fratello. Non è mai stato facile, per me, concepire un rapporto in cui una conversazione potesse effettivamente andare avanti anche se a parlare era solo uno dei due.
Ogni tanto Brian pretende da me conversazioni simili.
Io mi ritrovo a fallire di continuo.
Litighiamo sempre, quando succede.
Spero che prima o poi si rassegni.
E al contempo vorrei non lo facesse mai.

Dopo quelle telefonate, Brian si assopiva immediatamente. Aveva il sonno leggero, ma facile. Se stavo abbastanza attento, riuscivo a non svegliarlo. Purtroppo, spesso tutte le mie attenzioni non bastavano. E altrettanto spesso le dimenticavo.
Anche quella sera successe. Sbattei un paio di volte un po’ ovunque – mai imparato ad andare a tentoni nel buio – lanciai lontano i vestiti, imprecai per trovare una dannata maglietta da usare per la notte – Brian aveva immediatamente preso il vizio di farle sparire quando cominciavano a puzzare – e mi gettai a letto. Non mi sembrava di aver fatto così tanto rumore, ma nel momento in cui Brian sospirò e io sentii il tessuto del sacco a pelo frusciare attorno al suo corpo capii che la mia idea di “tanto” probabilmente andava rivista.
- Fai sempre tutto questo casino? – chiese lui senza risparmiare acido, sollevandosi appena per appoggiare una guancia sul palmo della mano e il gomito sul cuscino rotondo che usava per dormire.
- Scusa. – risposi io per la millesima volta in una settimana, - È che sono sempre stato abituato a stare da solo, quindi spesso non mi rendo conto di dare fastidio, comportandomi come al solito.
Brian annuì lentamente. Riuscii a vederlo anche nel buio.
Perché i suoi occhi brillavano.

Lo osservai liberarsi della parte superiore del sacco a pelo ed alzarsi in piedi.
Indossava solo un paio di slip.
La pelle bianchissima…
…rifletteva il colore della luna.
E si tingeva di azzurro nell’oscurità della stanza.
Una creatura da un altro pianeta.
Ecco cosa sembrava.

Mi si avvicinò, ed io rimasi a guardarlo, le labbra dischiuse. Non riuscivo neanche a pensare.
La verità è che, come mia madre, non lo capivo. E non capirlo mi spaventava, perché era minaccioso. Le persone cercano sempre di conoscere ciò che le minaccia, perché così riescono a trovare tutto meno spaventoso. È solo un’illusione, perché una cosa pericolosa resta pericolosa sia che tu la conosca sia che ne ignori completamente la natura, ma è uno dei piccoli trucchi che la mente umana utilizza per rassicurarsi.
Io non so se ho mai voluto rassicurazioni, da Brian. O su Brian.
Ma che lo trovassi spaventoso, che mi atterrisse, addirittura, è sempre stato indubbio.
- Se mi avvicino – disse lui, gelido, - ti infastidisci?
Deglutii.
- Non… perché dovrei...? – balbettai incerto.
- C’è gente che lo fa. – rispose lui con una scrollatina di spalle, - Una persona si avvicina e loro lo trovano fastidioso. – si avvicinò di un passo, - Non dipende neanche dalla persona che si avvicina, spesso. – sorrise appena, - È solo un meccanismo di difesa. Si riesce a trovare fastidioso il calore della pelle, il suo profumo, l’idea del suo sapore o la sua consistenza. Ci si attacca a qualsiasi pretesto. – era a un passo dal mio letto. Sollevò un ginocchio e lo puntò sul materasso, arrampicandosi e sollevandosi davanti a me, che rimasi seduto e impotente sotto il suo sguardo freddo. – Dì la verità: - concluse, - se mi avvicino così, ti infastidisco?
Lo guardai. Avevo la gola secca e continui brividi freddi scorrevano lungo tutto il mio corpo. Avevo come l’impressione che volesse sbranarmi, o farmi a pezzi e lasciarmi lì.
Perciò fui sincero.
Ed annuii.
E quello fu un errore enorme.

Lui mi scavalcò e tornò coi piedi per terra, dirigendosi velocemente verso il sacco a pelo e rintanandosi sotto le coperte, infastidito.
- Come tutti. – dichiarò tranquillo, - Anche io mi sento infastidito quando fai casino. Perciò, da oggi in poi, cerca di pensarci. – si interruppe qualche secondo. – Non sei più solo. – aggiunse poi, sarcastico, - L’egoismo non è una bella cosa, fratellino.
*
Il modo in cui aveva usato quella parola, quel “fratellino”, il modo in cui l’aveva sputata, così, controvoglia, cercando di caricarla di tutte le note negative e infastidite che aveva le capacità di usare, mi scosse. Non mi aveva mai chiamato in quel modo. Anzi, quando suo padre si ostinava a fargli notare che sarebbe stato il caso si abituasse all’idea, lui opponeva un ostinato rifiuto che non ammetteva repliche, e metteva tutti al loro posto – il più lontano possibile da lui – con uno sguardo crudele e uno sbuffo insofferente.
Mi urtò – mi fece male – che usasse quella parola per la prima volta con l’unico intento di spararmi addosso. Mi urtò più quello che non il fatto mi stesse dando dell’egoista. Anche perché io sapevo di esserlo, non potevo dargli torto. Non m’infastidiva che lui occupasse i miei spazi, ma non avevo perso nemmeno uno dei vizi che erano stati miei quando ero solo. Il che, per lui, significava, in sintesi, che non m’importava molto del fatto che adesso ci fosse qualcun altro oltre me.
In realtà mi importava davvero che lui ci fosse. Non avrebbe potuto essere altrimenti.
Ma be’, mi sembra di aver già detto che avevo quindici anni.
Anche se sì, Brian, lo so
che non è una giustificazione.

Ero comunque abbastanza stupido e cocciuto da non farmi abbattere da quell’attacco. Non riuscivo a considerare Brian un incidente di percorso, come invece lui faceva con me.
Poco dopo Natale, poco prima di Capodanno, durante uno dei giorni che ero riuscito a strappare a Tom come “vacanza non retribuita”, mi avvicinai e cercai di essere gentile. Lui stava fissando la scrivania con aria assente, come contasse i tarli, e lasciava scorrere lo sguardo sulle varie incisioni con le quali avevo punito quel tavolo durante i pomeriggi noiosi passati sui libri prima di una verifica o un’interrogazione in classe.
Afferrai uno sgabello e strisciai fino al suo fianco, sedendomi. Lui mi guardò, una smorfia infastidita a rimescolare i lineamenti solitamente eleganti del suo volto, e si strinse nelle spalle, sulla difensiva.
- Ho pensato – dissi, incoraggiante, - che potesse servirti una mano per rimetterti in pari col programma, prima di ricominciare la scuola. – arricciai le labbra, - Io non sono certo un genio, però me la cavo abbastanza… - buttai lì, aprendo il quaderno degli appunti di matematica davanti a lui.
Brian fissò il quaderno. Poi me. E alla fine socchiuse gli occhi e sospirò.
- Primo. Sono molto più intelligente e sveglio di te. – spiegò pazientemente, - Per abituarmi al vostro programma ci metterò circa un’ora. Se è veramente difficile. – precisò con supponenza. – E secondo, di “rimettermi in pari” non mi frega un accidenti. Come non mi frega un accidenti di questa fottuta scuola, o – digrignò i denti, irritato, - o del tuo cazzo di aiuto.
Non sapevo nemmeno come avrei dovuto sentirmi.
Rifiutato, arrabbiato, deluso, frustrato.
Lo guardai, perfettamente consapevole di sembrare un cretino deficiente, e non spiccicai parola.
Lui continuò a fissarmi, come aspettandosi una risposta. Poi capì che non l’avrebbe avuta e scollò le spalle.
- Sparisci. – disse.
Ubbidii.
Sarebbe stato utile
accorgermi dei milioni di errori
che continuavo a fare con lui.

*
[Un incidente di percorso.
Ci sono cose che desideri. Quelle sono “le tue volontà”.
Ci sono le cose che non ti piacciono ma devi affrontare. Quelle sono “le cose che bisogna fare”.
Poi ci sono le cose che non vuoi, che dovresti affrontare ma che sai in partenza non affronterai mai. Quelli sono “gli incidenti di percorso”.
Desideravo tornare a casa. Non perché mi mancasse ma perché era l’unica cosa che conoscevo, l’unica cosa sulla quale mi sembrava di poter contare. Schifosa, ma sempre uguale. Quasi rassicurante, nel suo orrore continuo. Tornare era la mia volontà, ma non l’avrei mai fatto.
Dovevo affrontare mio padre. Da anni mi portavo dietro l’invadenza della sua personalità, il peso delle sue parole, che mai, in nessuna occasione, ero riuscito a vedere come semplici “parole”. Perché non lo erano mai state. Erano sempre stati ordini, indipendentemente dal tono col quale erano espressi. Bisognava che io lo affrontassi, ma non avrei mai fatto neanche quello.
Io non ti volevo. Sapevo che avrei dovuto affrontarti. Sapevo che avrei dovuto guardarti in faccia e dirti “neanche so chi sei, e non ce l’ho con te perché tu sei tu, ma non per questo ti odio meno”. Sapevo che fare un discorso simile sarebbe stato sicuramente più onesto – e probabilmente anche più efficace – che non continuare a riempirti di meschinità gratuite.
Torturarti, però, era dolce. Era semplice. Un innocente antistress.
Potevo nascondermi dietro all’astio, dietro a un mucchio di motivi validi.
Validi per odiare qualsiasi cosa tranne te, ovviamente.
In effetti è assurdo che, invece di prendermela con “qualsiasi cosa”, me la prendessi con te.
Affrontarti, però, non era quello che volevo.
E non farlo è stato l’unico proposito della mia adolescenza che sia riuscito a mantenere.
…almeno fino a quando tu non mi hai reso impossibile continuare a farlo.]

continua…


back to poly
  1. Ogni tanto vengo a vedere se per caso hai aggiornato questa bellissima storia e, anche se vengo delusa dall’assenza di nuovi capitoli, mi trovo sempre a rileggere questi 7…è una storia speciale, spero tanto che troverai la voglia di continuarla! Tra l’altro, è così particolare che se cambiassi i nomi dei personaggi sarebbe una storia originale vera e propria, potresti farci un libro… ma non cambiarli mai! Il mollamy dà sempre quel tocco in più! :D Eh niente, volevo solo dirti che continuo a farmi del male leggendola e rileggendola pur sapendo che probabilmente non saprò mai come andrà a finire ç_ç

    ki2k2ka
    06/05/2014 01:56

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