Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
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MAKE-UP FOR BOYS
CAPITOLO 3
BUBBLEGUN
Alla fine delle vacanze, qualche giorno prima di rientrare a scuola, il signor Molko irruppe in camera mia e annunciò orgoglioso che i decoratori avevano finito e l’intonaco fresco non era più fresco, che i mobili erano arrivati e gli operai avevano già finito di metterli al loro posto e che, in sintesi, la stanza di Brian era pronta e lui poteva trasferirsi quando voleva.
Nel momento in cui lo disse, Brian stava sfogliando una rivista, avvolto in un piumone e disteso sul sacco a pelo, ed io stavo studiando – o meglio, facevo finta di non guardarlo da sopra le pagine del libro di storia che tenevo mollemente sulle gambe incrociate, dal letto sul quale ero seduto.
Il signor Molko diede la notizia, ci guardò e commentò che non capiva per quale motivo, avendo una scrivania a disposizione, ci condannassimo al torcicollo leggendo in posizioni assolutamente scorrette. Poi si augurò che, una volta in camera propria, Brian utilizzasse la scrivania per leggere e scrivere nel modo più giusto – lui disse “civile” – e si dileguò con un sorriso soddisfatto.
Io e Brian rimanemmo fermi nelle nostre posizioni per qualche secondo, prima che lui si alzasse in piedi, liberandosi faticosamente dalla coperta che lo imprigionava, e io lo seguissi nel movimento con uno scatto isterico, saltando piedi a terra con un tonfo secco.
Sollevò lo sguardo e mi fissò, incredulo.
- Rilassati. – consigliò, vagamente irritato, - Oggi è un grande giorno! – cantilenò poi, abbandonando la rivista sul sacco a pelo e dirigendosi verso la propria valigia, ancora posata in un angolo sotto la finestra. La prese e la sollevò, aprendola sulla scrivania prima di avvicinarsi al mio armadio. – Se lo apro rischio la vita? – chiese divertito, mettendo le mani sui fianchi.
- L’ho sistemato… - risposi io, tornando a sedermi sul letto, consapevole di aver esagerato col movimento di poco prima.
- Dovresti essere felice, tu. Adesso che vado via, potrai tornare a vivere nel tuo adorato caos.
Scrollai le spalle, distogliendo lo sguardo dalla sua figura in movimento davanti alle ante aperte dell’armadio, preferendo evitare di contare i suoi gesti mentre recuperava i propri vestiti e riempiva la valigia per rendere più veloce il trasloco.
- Spero che la tua nuova stanza ti piaccia.
Lo dissi senza nessun motivo particolare.
Era lì, stava andando via, mi aveva maltrattato per giorni, fino a quel momento.
Non avevo nessuna ragione di augurargli una buona permanenza. A ben pensarci, avrei dovuto detestarlo.
- È solo una stanza. – rispose lui, chiudendo la valigia e rimettendola sul pavimento.
Quando uscì da camera mia, l’odore dell’aria cambiò. Il profumo di Brian – non quello del bagnoschiuma, né quello dello shampoo, non l’odore dei trucchi o dell’acqua di colonia, non il deodorante, non il detersivo che usava per i mezzi carichi di lavatrice che si ostinava a pretendere, ma il suo, quello del suo corpo, l’odore della sua pelle, quello che avevo sentito la notte in cui s’era arrampicato sul letto, sopra di me, quello che avevo trovato fastidioso perché m’aveva impaurito – quel profumo abbandonò il mio ambiente, seguendo la sua figura mentre si allontanava da me.
Non mi infastidì riscoprirmi triste nel sentirne già la mancanza.
Mi infastidì la consapevolezza che per lui non sarebbe stato lo stesso.
Certo, dato che generalmente eravamo considerati dal resto dei nostri compagni di classe come qualcosa di molto simile a insignificanti bruscolini di polvere, la nostra “apertura” quanto a rapporti interpersonali non aveva l’occasione di essere esibita tanto spesso. Ciononostante, quando ero diventato “popolare” per via del lavoro in creperia, nessuno di noi s’era infastidito perché la nostra quotidianità fatta di pomeriggi davanti alla playstation era andata distrutta, anzi. Entrambi i miei due migliori amici s’erano dimostrati molto divertiti nell’osservarmi avere a che fare col resto della razza umana per – praticamente – la prima volta in tutta la mia vita.
Il nostro era un rapporto molto semplice. Eravamo uniti. Fedeli. Comprensivi. E ci volevamo bene.
Con l’eccezione di Chris, eravamo anche dannatamente chiacchieroni.
Perciò non mi stupì che Dominic mi assalisse, al ritorno dalle vacanze, e approfittasse di ogni momento utile – cambi d’ora e momenti di pausa fra una parola e l’altra del professore durante la spiegazione compresi – per subissarmi di domande riguardo al “nuovo Bells”. Non valse a niente che io continuassi a ripetergli che il fatto che suo padre avesse deciso di mettersi con mia madre non faceva di lui un Bellamy, continuò a chiamarlo così, anche perché io mi rifiutai di dirgli nome e cognome.
Lo feci per tutta una serie di motivi validissimi.
Primo fra tutti, conoscevo Dom. Dom era una specie di furia, un diavolo ambulante, ed era lo Sproposito fatto persona. Non augurerei a nessuno di finire sotto una sua raffica di parole, possono essere mortali.
Per ovvi motivi, non mi andava che a finire sotto la raffica fosse Brian.
…“ovvi”, poi.
A ripensarci adesso, il motivo principale per cui non presentai subito Brian ai miei migliori amici era uno solo, e per giunta era tutt’altro che ovvio: non mi andava che il mondo ficcasse il naso fra lui e me. Non potevo dire “noi” perché un noi non c’era, e anche “lui e me” poteva essere un’espressione azzardata, a dire la verità, ma a certe cose, quando sei preso, non ci pensi.
Che Brian mi prendesse era indubbio.
Lo ritenevo abbastanza per desiderare che continuasse a prendere solo ed esclusivamente me, fino a quando fosse stato possibile.
- Tanto prima o poi riuscirò a farti confessare. – dichiarò Dom, convinto, accucciandosi sul muretto del cortile nel quale passavamo la pausa pranzo e guardandosi intorno con aria malevola.
Io sospirai, appoggiandomi coi gomiti allo stesso muretto mentre Chris si accomodava per terra, incrociando le gambe.
- Uh, facciamo un gioco! – continuò poi, illuminandosi d’improvviso. Io roteai gli occhi e lanciai un lamento esasperato, ma non lo interruppi. – Io indico i possibili candidati e tu confermi o neghi. Ci stai?
- Che gioco idiota. – commentai seccato.
- Allora, pronto? – mi ignorò lui, sempre più entusiasta, - Via! Che ne dici di… quello?
Seguii il suo dito puntato contro un ragazzino magro e pallido coi capelli biondi, che leggiucchiava qualcosa di non ben definito in un angolo del cortile opposto a quello in cui ci trovavamo noi.
- Cosa ti fa pensare che sia lui? – chiesi curioso, sollevando le sopracciglia.
Lui scrollò le spalle.
- Non so, sto tirando a indovinare. – confessò senza imbarazzo. – Allora, è lui o no?
- No che non è lui. – rispose Chris in mia vece, - Quello sta nella classe accanto alla nostra tipo da sempre, Dom. Una volta gli hai rubato il pranzo…
- Menzogna! – rispose Dom, saltando sul muretto, - Io non lo conosco!
- Ma sì… - continuò Chris pazientemente, - Dicevi che non era facile trovare uno più sfigato di noi, e che era il bersaglio perfetto per un po’ di bullismo, perciò gli hai rubato il pranzo. E non l’hai neanche mangiato, poi, perché nel panino c’erano i cetrioli e tu-
- E piantala! – lo interruppe il diretto interessato, ormai rosso come un peperone, tirandogli un calcio sulla spalla. – Provo ancora. Quello?
Stavolta era un ragazzo alto e magro, che mi somigliava vagamente.
- Non voglio sapere perché hai scelto lui fra i tanti. – borbottai.
- Be’, ti-
- È il figlio della prof di letteratura, Dom. – corresse Chris, scrutandolo attentamente, - Come fai a non ricordartelo? Ci ha provato con te tipo due mesi fa…
- Evidentemente il suo cervello è selettivo. – suggerii, lo sguardo che già vagava altrove, lontano da loro, - Cancella i momenti imbarazzanti.
- Oh, basta! – sbuffò Dom, scendendo con un saltello dal muretto, - Mi sono rotto. Quando sua signoria deciderà che siamo degni di conoscere la sua famiglia, sarà un giorno da segnare sul calendario. Andiamo, Chris! – concluse sprezzante, muovendosi verso l’edificio scolastico con aria da regina offesa. Evitai di precisare che loro due conoscevano la mia famiglia. Che “la mia famiglia” era mia madre. Che nient’altro al di fuori di lei poteva essere considerato tale.
Fu un pensiero triste, un pensiero che mi attraversò la mente in un lampo, e sfumò subito quando ridacchiai, guardando Dom camminare sul selciato a passo di carica.
Chris mi lanciò uno sguardo esasperato, sollevandosi in piedi con un sospiro di pura rassegnazione. Ricambiai con un’occhiata comprensiva e gli sorrisi, osservandolo allontanarsi al seguito di Dominic, cercando di consolarlo per l’enorme onta subita.
Io mi accomodai al suo posto, sul terriccio polveroso del cortile, poggiando la schiena contro il muro alle mie spalle.
Lo cercai con lo sguardo, quasi ansioso.
Lo trovai accucciato in un angolo, seduto su uno di quei grossi pali bassi e tozzi ai quali si attaccano le catene per delimitare una parte di strada chiusa alle macchine. Guardava attentamente il contenuto del proprio cestino del pranzo, e lanciava sguardi ugualmente attenti al contenitore dell’immondizia dall’altro lato del cortile.
Il lavoro di mamma non doveva essere stato particolarmente gradito.
Socchiudendo gli occhi, mentre spiavo la curva delle sue spalle farsi sempre più piccola e abbattuta sotto il peso della fame che si ostinava a ignorare per non cedere all’impulso di divorare il proprio sandwich, pensai che se avesse continuato a ignorarmi come aveva fatto quel giorno non sarebbe stato difficile nascondere la sua presenza a Dom e Chris.
Lo pensai fino a quando, in un secondo brevissimo e spaventoso, la sua figura magra non sparì dietro una coltre di energumeni che non faticai a riconoscere come la squadra di football al completo.
Poi deglutii e basta.
Fondamentalmente, il modo in cui ti facevano sapere che eri “arrivato a scuola”, era pestarti a sangue fino a che di te non restava un cencio sporco per terra e nient’altro. C’eravamo passati tutti, almeno una volta. Be’, in generale solo una volta. Esattamente come le scimmie del Borneo o chi per loro, la squadra di football perdeva interesse velocemente.
Perciò, se eri uno sfigato o un nuovo studente un attimino spaesato, le botte erano d’ordinanza.
Lo sapevo.
Ma quando li vidi picchiare Brian mi preoccupai lo stesso.
Mi vergogno molto nell’ammettere che, quando successe la prima volta, neanche provai ad avvicinarmi.
[Ti vergogni molto perché sei un cretino.]
Lo tennero fra le mani per decine di minuti
ripassandoselo come una palla, a turno.
Lui li sfidò con lo sguardo,
sprezzante, altero.
Quasi principesco.
A dispetto del sangue che colava dal naso e dalle labbra
e degli occhi pesti cerchiati di viola.
Avevo paura, per lui, per me.
Non mossi un dito.
ripassandoselo come una palla, a turno.
Lui li sfidò con lo sguardo,
sprezzante, altero.
Quasi principesco.
A dispetto del sangue che colava dal naso e dalle labbra
e degli occhi pesti cerchiati di viola.
Avevo paura, per lui, per me.
Non mossi un dito.
Al resto degli studenti non sembrò nulla di strano, e per dire la verità non lo sembrò neanche a me. Confidai nei rituali del branco, sperai che perdessero interesse.
Se Brian fosse caduto in ginocchio…
Se avesse pianto e strepitato…
Se li avesse implorati di lasciarlo in pace…
Se avesse pianto e strepitato…
Se li avesse implorati di lasciarlo in pace…
Avrebbero davvero perso interesse nei suoi confronti.
Non accadde, perché loro tornarono per saggiare il terreno e Brian li sfidò ancora, guardandoli come fossero state insignificanti mosche spiaccicate sul parabrezza della sua limousine. Nonostante fosse lui la mosca che loro stavano schiacciando a suon di cazzotti.
E successe una volta.
…e due, e tre…
A casa, mia madre urlò terrorizzata solo un paio di volte.
Poi il signor Molko la prese da parte e lei smise.
Il signor Molko, da parte sua, non chiese mai niente, e nemmeno commentò.
Durante i pranzi e le cene io guardavo Brian
e non riuscivo a reggere le sue occhiate.
Non erano colme d’odio, non mi rimproverava.
Solo…
…non si aspettava che io volessi davvero aiutarlo in quella situazione.
Aveva sempre saputo che non avrei fatto niente per lui.
Si crogiolava nella ragione che sapeva di avere.
e non riuscivo a reggere le sue occhiate.
Non erano colme d’odio, non mi rimproverava.
Solo…
…non si aspettava che io volessi davvero aiutarlo in quella situazione.
Aveva sempre saputo che non avrei fatto niente per lui.
Si crogiolava nella ragione che sapeva di avere.
E poi successe che, durante l’ennesimo pestaggio, Brian si scheggiò un dente.
Successe che soffocò un urlo e si accasciò sul terriccio sporco di sangue e saliva, pressandosi forte le mani sulle labbra. Successe che la squadra di football lo vide come un trionfo e si allontanò, ridendo forte. Successe che Brian si risollevò da terra – da solo, nessuno che lo aiutasse, me compreso, ovviamente – e tornò a casa ignorandomi, per quanto io lo seguissi a pochi passi sulla strada.
Successe che il signor Molko lo rimproverò.
Che gli disse che “non poteva ricominciare a quel modo”. Che “non era disposto a ripetere ciò che era già successo a New York”.
Successe che Brian sorrise sprezzante anche a lui, ritrovando coraggio e mostrando orgoglioso l’incisivo rovinato in punta, e poi andò a rintanarsi tranquillo in camera propria.
Successe che, osservandolo trattenere le lacrime, mentre si sbatteva la porta alle spalle, decisi di punto in bianco e senza nessun motivo che vederlo in quelle condizioni mi faceva stare male come avessero picchiato anche me. E poi mi sentii in colpa, perché in realtà io non ero affatto stato picchiato.
Perciò, quando il giorno dopo – proprio alla fine della pausa pranzo, dopo che avevo già litigato con Dom rispedendolo involontariamente in classe – la squadra di football tornò al completo sul luogo del delitto per ripetere la performance, semplicemente mi staccai dal muretto e mi frapposi fra lui e loro.
Ricordo che, per farmi coraggio, feci un discorso molto commovente sull’ingiustizia e sul non essere in grado di sopportare ancora un comportamento tanto meschino nei confronti di un indifeso.
Ricordo gli occhi gelidi di Brian dardeggiare dietro di me, contro di me, ricordo il suo sguardo freddissimo colpirmi la nuca.
Ricordo i ghigni divertiti dell’esercito di scimmie che invano fronteggiavo.
E ricordo le botte stordirmi al punto da non ricordare più chi fossi e perché mi trovassi lì. Ricordo la ghiaia del cortile infilarmisi in bocca, ricordo la polvere giallastra del terriccio bruciare nelle mie ferite, nei tagli sugli zigomi e sulle sopracciglia, ricordo la chiara sensazione del mio cervello che veniva sbalzato avanti e indietro nella scatola cranica come una nave senz’ancora nel mezzo del mare in tempesta. Ricordo la nausea – non credevo fosse possibile, ma quando ti picchiano così tanto, anche se magari non ti beccano al ventre, ti viene da vomitare – e ricordo il dolore sordo e spaventoso ad entrambe le braccia, quando uno di loro le afferrò e le bloccò dietro la mia schiena perché un altro potesse divertirsi a prendermi a testate.
Ricordo che, quando la campanella suonò, loro si allontanarono soddisfatti. E ricordo che io invece rimasi a terra e pensai chiaramente che non sarei mai più stato in grado di muovermi.
Ricordo che quando riuscii a riaprire gli occhi dovevano essere passati molti minuti, perché il cortile s’era fatto silenzioso.
Ricordo che vidi una fetta di cielo azzurrissimo. Solo un pezzetto, perché non riuscii a sollevare completamente le palpebre.
Poi il mio campo visivo venne invaso dal viso di Brian.
Si assicurò che fossi ancora vivo con un’occhiata spiccia. Se “rude” fosse un aggettivo da occhiate, userei quello.
Mi guardò e sospirò.
Io pensai che doveva aver aspettato che mi riprendessi. Che probabilmente mi avrebbe aiutato. Che magari era dispiaciuto, o chissà, contento che l’avessi difeso.
Ricordo che questo pensiero mi rese irrazionalmente felice e mi fece sentire anche enormemente stupido, ma che al lato stupido della cosa non pensai poi molto. Sul momento.
Fu invece tutto quello che rimase, quando Brian si sollevò, scuotendo il capo e mormorando “sei un coglione”, prima di sparire dalla mia vista e rientrare a scuola.
Fissai la boccetta di alcool disinfettante posata sul lavabo, imprecando mentalmente contro l’acqua ossigenata, che aveva deciso di nascondersi proprio nel momento in cui avevo più bisogno di lei. Pensai per un attimo che probabilmente Brian avrebbe meritato che lo presentassi a Dom. Lo pensai con cattiveria, perché ero davvero quasi arrabbiato con lui – in fondo, non potevo esserlo del tutto, perché mettermi in mezzo era stata una mia scelta. Poi sentii la porta aprirsi alle mie spalle e, mentre mi maledicevo da solo per non aver chiuso a chiave, sollevai lo sguardo sullo specchio e lo vidi.
Il suo riflesso fissava negli occhi il mio. La sua espressione era del tutto indecifrabile.
Distolse lo sguardo e si mosse velocemente verso la tazza del water, sopra la quale si sedette.
- Non mi ero accorto che fossi qui. – disse, piegandosi su sé stesso e poggiando i gomiti sulle ginocchia, intrecciando le dita nello spazio fra le gambe aperte.
Indugiai appena sull’orlo della gonna che cadeva fra le sue ginocchia, lui se ne accorse e sbuffò ed io seppi che quando aveva detto di non sapere che fossi in bagno aveva mentito.
- Avresti almeno potuto aiutarmi coi cerotti. – dissi astioso, afferrando l’alcool e tamponando il beccuccio del flacone con un batuffolo di cotone.
Lui ghignò.
- Spero che ti serva da lezione. – disse, continuando a guardarmi come meritassi solo disapprovazione.
Il suo comportamento mi irritò, perciò tornai a fissare il mio riflesso nello specchio, pressando il batuffolo su una guancia e stringendo i denti per il bruciore. Ciononostante, non avevo alcuna intenzione di dargliela vinta, quella volta. Avevo preso tante di quelle botte che mi sentivo davvero poco propenso alla condiscendenza.
- Ho imparato solo che i cazzotti si danno con le nocche. – dissi sprezzante, immaginando che quella frase potesse essere presa come un’affermazione di forza interiore, nonché di ammirevole orgoglio.
Brian sollevò un sopracciglio – colsi il movimento nello specchio, perché il bagno era abbastanza piccolo da non permettere che qualche particolare potesse sfuggire alla lastra riflettente – e incrociò le braccia sul petto.
- Ti conviene smetterla di fare tanto il galante. – sbottò irritato, - Tanto non mi lascerò scopare.
Smisi di respirare. Ed anche di vedermi davvero riflesso nello specchio.
Perfino l’alcool smise di bruciare, smisi di sentire qualsiasi cosa che non fosse il calore assurdo che mi divampava sulle guance, arrossandole, e quello altrettanto assurdo e sconvolgente dello sguardo di Brian, che mi scivolò addosso con sospetto e sdegno, cercando di scavare una fossa nel mio petto.
- Io non… - mi voltai a guardarlo, annaspando. Sarebbe stato davvero assurdo se avessi risposto “non voglio scoparti”. Sul serio. – Che vuol dire? – sputai fuori, confuso, cercando di trovargli una soluzione sul viso.
Brian roteò gli occhi.
- Ti prego. Fammi il piacere. – disse, con aria esasperata, appoggiandosi di schiena alla cassetta dello scarico fissata sulla parete alle sue spalle. – Comunque sia, non devi preoccuparti per me. A New York ero abituato a ben altro. – si prese un secondo di pausa, puntellandosi il mento con l’indice. – Almeno qui siete sinceri. – riprese poi con un ghigno divertito, - Quando dite che i froci vi fanno schifo, li picchiate e basta.
Tossicchiai lievemente, cercando di inumidirmi le labbra, ma sembrava secca perfino la lingua. Poggiai il batuffolo sporco di sangue rappreso sul bordo del lavandino, abbandonando le braccia in grembo e ruotando sullo sgabello per poterlo guardare più agevolmente in viso.
Lasciai che i miei occhi strisciassero per qualche secondo sulla sua figura snella fasciata di nero, praticamente distesa sulla tazza, appoggiata alla parete con rilassato abbandono, le braccia molli lungo i fianchi e le cosce ancora dischiuse.
Ci misi davvero tutta la mia buona volontà, per trovare la forza di parlare ancora.
- Che vuol dire…? – ripetei incerto, - Cosa ti facevano in America…?
Lui arricciò il naso.
- Te lo devo spiegare? – chiese.
Sembrava divertito. Ed era estremamente malizioso.
Avevo paura di vedere dove volesse andare a parare.
E una voglia matta di scoprirlo.
Annuii impercettibilmente. Credo che lui neanche lo vide.
Aveva comunque già deciso.
Raddrizzò la schiena, cadendo in ginocchio davanti a me con un movimento fluido e abitudinario, perfettamente consapevole e tranquillo. Posò le mani sulle mie ginocchia e le lasciò scivolare lungo le mie cosce, fino ai fianchi – il palmo perfettamente aderente al tessuto dei jeans, le dita bene aperte – ai quali si appese, insinuandosi quasi per sbaglio sotto la cintura, fino alla pelle. Io lo guardai, lo fissai bene in viso, scrutai i suoi occhi perfettamente vuoti, luminosi, enormi e sicuri, e riuscii a fissarli finché lui non fece guizzare la lingua fra le labbra. Poi riuscii a concentrarmi solo su quelle. Rosa, piene, così apparentemente morbide e innocenti.
Sorrise appena, un ghigno più che un sorriso, sollevò solo un angolo delle labbra.
Faceva davvero paura.
Le sue dita scivolarono sotto la cinta fino a raggiungere la fibbia dei pantaloni, che sciolsero senza problemi, per indugiare poi sul cotone dei boxer già gonfi.
Avrei dovuto essere in imbarazzo.
Non riuscii perché Brian non me ne diede il tempo, chinandosi su di me e scostando l’elastico per raggiungere la carne viva e pulsante al di sotto, solleticandola per qualche secondo col respiro prima di accoglierla gentilmente in bocca, fino in fondo, facendomi tremare e gemere senza controllo fin da subito.
Avrei dovuto fermarlo, ma non volevo.
Avrei dovuto dirgli qualcosa, ma non avrei saputo immaginare cosa.
Avrei dovuto interrompere il movimento della sua lingua e delle sue labbra attorno al mio sesso, ma non volevo, non potevo privarmi di quella sensazione splendida, di quel calore bagnato, dello sfregamento lento e ritmato della mia pelle contro la sua.
Quello che stavamo facendo – quello che lui stava facendo a me – era indecente e sbagliato e stupendo.
Quando, continuando a leccarmi con devozione, strinse il mio sesso alla base e si aiutò con le mani per farmi venire, “indecente” era già scomparso.
Scomparve “sbagliato” nello stesso momento in cui aumentò il ritmo delle spinte, ingoiandomi interamente con un ansito che non riuscii a decifrare.
Alla fine, rimase solo “stupendo”. Fu quello che mi convinse a poggiare una mano sulla sua nuca e attirarlo a me mentre venivo fra le sue labbra.
Brian non protestò. Rimase immobile. Si sollevò solo quando gli permisi di muoversi, e questo avvenne solo quando ebbi recuperato abbastanza fiato da chiedergli scusa.
Ma lui uscì dal bagno senza una parola, e neanche mi sentì.
continua…
Ogni tanto vengo a vedere se per caso hai aggiornato questa bellissima storia e, anche se vengo delusa dall’assenza di nuovi capitoli, mi trovo sempre a rileggere questi 7…è una storia speciale, spero tanto che troverai la voglia di continuarla! Tra l’altro, è così particolare che se cambiassi i nomi dei personaggi sarebbe una storia originale vera e propria, potresti farci un libro… ma non cambiarli mai! Il mollamy dà sempre quel tocco in più! :D Eh niente, volevo solo dirti che continuo a farmi del male leggendola e rileggendola pur sapendo che probabilmente non saprò mai come andrà a finire ç_ç
ki2k2ka
06/05/2014 01:56