Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno (ok, ci sono accenni di Jobra, se proprio li volete vedere *sbuffa*).
Rating: G
AVVERTIMENTI: Nessuno.
- Zlatan, in visita a villa Ratti, trova qualcuno che non si aspetta.
Note: Cerchiamo di ignorare tutti assieme quanto palese sia il subtext Jobra in questa storia, e fingiamo che sia davvero una gen \o/
No, va be’, scherzi a parte è una gen, perché in realtà io qui non volevo per niente raccontare dei non detti del rapporto fra Zlatan e José XD Piuttosto volevo concentrarmi sull’irrequietezza intrinseca di Zlatan, su come non riesca a sentirsi felice qualsiasi sia il posto in cui si trova. Se è a Barcellona, quando pensa a casa gli viene in mente Milano. E quando invece arriva a Milano, scappa verso casa, che è ritornata Barcellona. Benedetto ragazzo. *sospira*
Comunque l’idea mi martella in testa da quando José ha detto di essersi fatto male al mignolo giocando a basket con suo figlio XD (Sì, mi basta così poco. Oh, insomma.)
Pairing: Nessuno (ok, ci sono accenni di Jobra, se proprio li volete vedere *sbuffa*).
Rating: G
AVVERTIMENTI: Nessuno.
- Zlatan, in visita a villa Ratti, trova qualcuno che non si aspetta.
Note: Cerchiamo di ignorare tutti assieme quanto palese sia il subtext Jobra in questa storia, e fingiamo che sia davvero una gen \o/
No, va be’, scherzi a parte è una gen, perché in realtà io qui non volevo per niente raccontare dei non detti del rapporto fra Zlatan e José XD Piuttosto volevo concentrarmi sull’irrequietezza intrinseca di Zlatan, su come non riesca a sentirsi felice qualsiasi sia il posto in cui si trova. Se è a Barcellona, quando pensa a casa gli viene in mente Milano. E quando invece arriva a Milano, scappa verso casa, che è ritornata Barcellona. Benedetto ragazzo. *sospira*
Comunque l’idea mi martella in testa da quando José ha detto di essersi fatto male al mignolo giocando a basket con suo figlio XD (Sì, mi basta così poco. Oh, insomma.)
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This Will Tell You I Was There
Zuca non ha ancora imparato a giocare a basket, e questa è l’unica cosa che Zlatan può dire con certezza in questo momento, mentre lo osserva maneggiare la palla con aria tutt’altro che convinta, lasciandola rimbalzare a terra e provando a governarla con una mano sola, arrendendosi pochissimi tentativi dopo e sospirando profondamente mentre la regge alta sopra la testa, osservandola come fosse un qualche strano animale dotato di una propria coscienza e bene intenzionato a rendergli la vita difficilissima.
È abbastanza ridicolo, si dice, restare lì dietro la siepe a spiarlo come un ladro o qualcosa di ancora peggiore. Se qualcuno della sicurezza lo trovasse adesso, soltanto il suo nome potrebbe salvarlo da una ben meritata notte dietro le sbarre. Che è, per inciso, qualcosa che Zlatan di sicuro non può permettersi, dal momento che è praticamente fuggito via come un disperato cogliendo l’occasione della partita già giocata al sabato sera – no, non riuscirà mai ad abituarsi a giocare sempre costantemente il sabato – e del posticipo dell’Inter nella serata di domenica. “Parto”, si è detto, “saluto un po’ di vecchi amici, guardo la partita e per lunedì, massimo ad ora di pranzo, sono di nuovo a Barcellona”.
Per qualche motivo, però, l’indirizzo che ha dato al tassista recuperato subito fuori dall’aeroporto non era quello del centro sportivo ad Appiano, e non era neanche quello della sede in centro a Milano. Non era casa di Deki né casa dei bambini, non era casa di Marco, non era casa del presidente, ma Villa Ratti. Casa di José.
Non ha la minima idea del perché si trovi qui – il suo processo mentale è stato qualcosa di spaventosamente simile a “ok, non ho più una casa a Milano, dov’è che vado per non sentirmi del tutto fuori posto?”. Dovrebbe preoccuparsene, perché in fin dei conti a Villa Ratti lui nemmeno ci ha passato tutto questo tempo, dopotutto. Un po’ di cene, sì, qualche domenica pomeriggio con Helena e i bambini – anche perché Vinny adora Titi e Maxi adora la piscina – ma niente di più. Quanto, in tutto, una settimana, facendo il conto delle ore? Non abbastanza per definire quel luogo “casa”, visto che a stento ci riesce con Malmö.
- Puoi anche venire fuori, eh. – dice piano Zuca, riprendendo a far rimbalzare la palla.
Imbarazzato, Zlatan esce dal proprio nascondiglio, grattandosi nervosamente la punta del naso. Zuca sta venendo su incredibilmente simile a suo padre, ed è facile notarlo soprattutto nel suo atteggiamento: distaccato ma cordiale; è un po’ rigido, forse, ma il suo sorriso è caldo e tenero, sinceramente affettuoso.
- Ciao. – lo saluta timidamente, quasi sentendosi in soggezione nei suoi confronti e nei confronti dell’intimità di quel posto, un’intimità che sta violando. – Dov’è papà?
- È dentro ad aiutare mamma con qualcosa. – risponde Zuca vago, prendendo le misure fra se stesso e il canestro. – Volevi parlare con lui?
Per qualche secondo, Zlatan resta spiazzato da quella domanda posta con innocenza, perfino un po’ stupida: il tono di Zuca sembrava essere quello che avrebbe usato per chiedergli la stessa cosa se, per presentarsi all’improvviso a casa Mourinho, Zlatan avesse semplicemente dovuto attraversare la strada, e non prendere due taxi e un aereo come invece era stato costretto a fare.
- No, io… - comincia balbettando, - Forse. – ammette quindi, scrollando le spalle. – Non lo so con certezza.
Zuca gli solleva addosso gli occhi castani chiarissimi, e lo scruta con un po’ di sospetto.
- Tu stai a Barcellona adesso, vero? – chiede, come a volersene sincerare. Zlatan annuisce in silenzio. – E hai una bella casa? – continua Zuca, palleggiando un paio di volte.
- In realtà sto ancora in albergo. – risponde lui con un mezzo sorriso, grattandosi la nuca, - Non ho ancora trovato un posto adatto.
Zuca annuisce compitamente.
- Papà dice che non lo troverai mai. – commenta con distacco, - Dice che per te fermarti è impossibile, e che quando ti sembrerà di aver trovato un posto adatto, in quel momento vorrai già andartene via. Dice – continua – che è questo che è successo con la villa che avevi trovato qui a Milano, quella che hai dovuto vendere prima di partire per Barcellona. Dice che ti succederà anche lì.
- Tuo padre dice un mucchio di cose, mh? – chiede Zlatan, indispettito, mani sui fianchi e smorfia offesa sul volto.
- Sì. – ride Zuca, - Lui parla tanto. – e poi gli porge la palla da basket. – Giochi?
Zlatan lo guarda, un po’ stupito, prima di prendere la sfera fra le mani e palleggiare con una disinvoltura notevolmente maggiore rispetto a quella che ha sfoggiato Zuca fino a questo momento. Il bambino lo osserva riprendere confidenza con la palla, girare un po’ in cerchio attorno a lui palleggiando con concentrazione e poi correre a canestro, insaccando il pallone con un salto talmente fluido e naturale da non sembrare nemmeno vero.
- Aaah! – gioisce, battendo le mani e saltellandogli accanto con entusiasmo, - Era vero quello che diceva papà!
- Sentiamo, - ride Zlatan, scompigliandogli i capelli chiari, - cos’altro diceva papà?
- Che quando salti sembra che voli! – annuisce Zuca, ridendo a propria volta e grattandosi il naso infastidito dalle punte della frangetta lunghissima che è scesa a solleticarlo sotto la pressione delle lunghe dita di Zlatan.
E Zlatan sorride intenerito, consegnandogli la palla e poi stringendolo ai fianchi, sollevandolo abbastanza da permettergli di fare canestro ridendo entusiasta e sgambettando allegro ed agitato come il bambino che è, prima di adagiarlo nuovamente sul campetto di cemento.
- Vieni dentro, dai! – ride Zuca, prendendolo per mano e cominciando a trascinarlo verso casa, - Papà sarà contento di vederti, devi vederlo come borbotta da quando sei andato via! Sembra diventato nonno Félix!
- Ehi, piano, piano! – punta i piedi Zlatan, frenando così bruscamente che Zuca, già tutto proiettato verso la villa, rimbalza all’indietro come un elastico, finendo per rovinargli addosso. Lo regge per le spalle, rimettendolo dritto ed evitando i suoi occhi quando gli si posano addosso con curiosità, preferendo concentrarsi sullo zaino con poche cose che ha portato con sé da Barcellona ed ha abbandonato accanto al campo quando il bimbo gli ha chiesto di giocare. – Forse non è il caso di disturbare, dai. Devo tornare a casa, e poi è quasi ora di cena.
- Oh… - mugola Zuca, visibilmente deluso, - Papà sarà triste di non averti potuto salutare. – considera a bassa voce.
- Tu non dirgli che sono passato, ok? – chiede con una certa urgenza, recuperando lo zaino e sistemandoselo in spalla, - E… ehi. – richiama la sua attenzione con un sorriso, - Quando passi la palla, guida la traiettoria con la sinistra e dai la spinta con la destra, e che sia bella forte, ma precisa. – Zuca lo guarda come stesse parlando in aramaico. Aggrotta le sopracciglia sottili ed inclina un po’ il capo, prendendo poi a fissare nuovamente la palla come fosse tornato lo stesso oggetto oscuro e misterioso di mezz’ora prima. Zlatan ride di cuore. – Andrà meglio col tempo. – dice, sentendosi improvvisamente pieno di qualcosa che non riesce nemmeno a definire, e tranquillo. – Va sempre meglio, col tempo.
Zuca lo saluta debolmente con la mano, e Zlatan sparisce lungo il viale quasi correndo. Se prende il primo aereo, fa in tempo ad essere a casa prima di sera.
- Non capisco perché tua madre si ostini a chiedermi aiuto con le mensole in casa, quando è evidente che io le complico solo la vita. – si lagna José uscendo nuovamente in giardino e passandosi una mano fra i capelli scompigliati. – Giochiamo? – chiede, cercando il figlio con gli occhi e trovandolo a pochi centimetri da sé, sorridente come quando l’ha lasciato.
Zuca annuisce e si allontana saltellando. Palleggia impacciato, ma riesce almeno a governare la palla con una sola mano, nota José compiaciuto. Si vede che si è allenato, mentre lui era dentro.
- Palla! – grida il bambino, fermandosi all’improvviso e voltandosi verso di lui, tirandogli addosso una cannonata di invidiabile potenza e disastrosa precisione. José si allunga per cercare di recuperarla senza che faccia danni; la intercetta con il mignolo, deviandola abbastanza da impedire che vada ad infrangersi contro la finestra della cucina, e subito dopo lancia un grido che, per quanto abbia cercato di trattenerlo fino a mordersi a sangue il labbro inferiore, terrorizza Zuca abbastanza da costringerlo ad inarcare le sopracciglia e spalancare gli occhi, indietreggiando di qualche passo prima di riprendere coraggio e corrergli preoccupato accanto. – Papà! – lo chiama agitato, - Scusa!
- È tutto ok, è tutto ok… - tira fuori José, abbozzando un sorriso affaticato e tastando delicatamente il dito per cercare di capire cosa sia successo. Fa male, e parecchio anche. Sospira, cercando di riacquistare il controllo dei nervi abbastanza da costringersi a placare il dolore o costringere il cervello ad ignorarlo almeno in parte, e poi si rimette dritto. – Ma chi diavolo ti ha insegnato a tirare così? – chiede quindi, inarcando un sopracciglio.
Zuca storna lo sguardo, vago, e scrolla le spalle. José lo fissa con attenzione, incerto, e poi i lineamenti del suo volto si stendono in un attimo, mentre solleva lo sguardo e lo gira celermente intorno, come alla ricerca di qualcuno.
- Papà…? – lo chiama Zuca, guardandolo dal basso con aria colpevole, - È tutto a posto?
- …sì. – annuisce lui dopo un attimo di incertezza, circondandogli le spalle con un braccio e sospingendolo piano verso casa. – Torniamo dentro, dai. – conclude. Ma non riesce ad impedirsi di guardarsi ancora nervosamente intorno alla ricerca di Zlatan, pur rientrando in casa.