Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: R
AVVISI: Slash, What If?, Angst.
- Tre anni fa, Fler e Nadja Benaissa hanno collaborato per Mein Jahr, una traccia dell'album Fremd Im Eigenen Land, e questo lo sanno tutti. Quello che sanno solo loro due, è che durante la collaborazione hanno avuto una storia. E infine c'è qualcos'altro, qualcosa che sa solo Nadja, ma che adesso è arrivato il momento di dire.
Commento dell'autrice: Scrivere questa storia è stato una pena, come facilmente intuibile se si legge il riassunto associato all'articolo che l'ha ispirata. Voglio premettere che non è mia intenzione dare giudizi sul comportamento della Benaissa in questa o in qualsiasi altra sede, per cui nei commenti cercate di tenere le opinioni su ciò che ha fatto per voi, nel caso voleste commentare dopo aver letto XD
Per il resto, non so. La notizia mi ha scossa e la reazione immediata è stata quella di plottarci su. Avrebbe potuto essere una storia più lunga, ma già alla quinta pagina stava cominciando a drenarmi, perciò ho cercato di non perdermi troppo e restare ben attaccata al concetto principale. Spero che possa piacervi :)
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ALLES WIRD GUT


Fler si stupisce della propria capacità di respirare ancora. Immobile in un angolo della stanza, il cellulare ancora stretto fra le mani, resta appoggiato alla parete perché ha la certezza fisica che le sue gambe non sarebbero capaci di reggerlo se solo provasse ad allontanarsi di un passo. E respira. Respira ancora, sente l’aria entrare dal naso e dalla bocca, scivolare lungo la sua gola, riempire i suoi polmoni e poi ripercorrere la stessa strada all’inverso per venire fuori, e questa consapevolezza lo sconvolge più di tutto il resto. Sta respirando. Non si è mai sentito così intimamente consapevole di una cosa simile, il respiro come una qualsiasi delle altre attività del suo corpo.
- Patrick. – lo chiama Nadja dall’altro capo della cornetta, la voce rotta da un singhiozzo che lei cerca in tutti i modi di contenere, - Ti prego, ho bisogno di vederti prima che questa storia finisca su tutti i giornali. Ho bisogno di parlarti.
Fler solleva una mano e la guarda con attenzione. La mano si muove, i suoi occhi la guardano. Lui riesce a percepire con chiarezza il movimento del polso, dei tendini, delle falangi. Percepisce l’immagine che si imprime sulla sua retina e gli impulsi nervosi che la trasferiscono al cervello, rimbalzando di neurone in neurone per mostrargliela così com’è nella realtà, tridimensionale, morbida, un po’ arrossata a causa della forza con cui l’ha tenuta stretta a pugno fino a pochi secondi fa. E sotto tutto questo, costante, il suono lievissimo del proprio respiro. Qualcosa di cui in genere non si accorge, qualcosa che in genere c’è sempre in automatico. Nessuno si ricorda di dover respirare, è il corpo che possiede quell’ordine nella propria memoria fisica, nelle cellule, nelle molecole che le compongono. E lui respira perché il suo corpo respira, lui è vivo perché il suo corpo lo è.
- Patrick, per favore. – insiste Nadja, il singhiozzo che prima ha cercato di trattenere che finalmente esplode nella sua gola, mentre la voce le si spezza definitivamente, - Ho fatto tante cose… - singhiozza ancora, Fler la ascolta piangere ed una lacrima scende per riflesso anche lungo la sua guancia. Ha sempre odiato vedere o sentire piangere le donne. Sua madre, quando lui era piccolo, lo faceva continuamente. Invidiava tanto la vita di Bushido anche perché la signora Luise Maria era forte, indomita, non piangeva mai. Sua madre invece piangeva sempre. Le sue lacrime, quando lo cercava con una mano nella loro cucina minuscola, ogni volta che lui, sentendola piangere, andava a controllare se stesse bene o no, erano bagnate e salate, esattamente come immagina siano quelle di Nadja, esattamente come sono le proprie. – Ho fatto tante cose di cui mi pento, - riprende lei, cercando di riacquistare il controllo della voce, - ma tu sei stato importante. Quindi, per favore, incontriamoci. Ho bisogno di spiegarti.
È solo nell’ascoltare lei che Fler ricorda di avere una voce anche lui. Abbassa la mano, torna a guardare la parete di fronte a sé e d’improvviso gli sembra tutto molto più concreto, tangibile, reale. Schiude le labbra ed annuisce distrattamente, più a se stesso che a lei, visto che lei non può vederlo.
- Sì. – risponde quindi, la voce molto più sicura di quanto non avrebbe immaginato, - Anche subito, però per favore, smettila di piangere.
Lei mugola un assenso incerto, chiedendogli dove gli fa più comodo incontrarsi. Lui le dà l’indirizzo di un locale poco frequentato non tanto vicino da lì, e fissa l’appuntamento fra mezz’ora. Poi riattacca, senza neanche salutarla. Si ricorda che avrebbe dovuto farlo solo dopo aver premuto il pulsante, e con un mugolio dispiaciuto si chiede se non dovrebbe richiamarla per scusarsi e salutarla, solo che ci mette un niente a realizzare quanto sarebbe ridicolo, perciò lascia perdere e rimanda a quando la vedrà.
Entra in camera da letto camminando piano, cercando di non fare rumore. Le serrande sono tutte abbassate, le finestre socchiuse. Chakuza dorme a pancia in sotto, il lenzuolo attorcigliato attorno alle gambe ed un braccio che pende giù dal materasso sfiorando il pavimento, la testa nascosta sotto il cuscino. Fler sorride teneramente nell’avvicinarglisi, e si siede accanto a lui, in punta, per non svegliarlo troppo repentinamente. È stato alla Beatlefield a lavorare con Camora fino alle quattro del mattino, e quando è rientrato Fler l’ha sentito abbattersi al suo fianco borbottando un laconico “non svegliarmi fino a domani pomeriggio”, prima di crollare definitivamente.
- Chaku. – lo chiama piano, accarezzandogli la schiena nuda. Lui borbotta qualcosa di incomprensibile e si volta dall’altro lato, inspirando ed espirando profondamente. Fler ride. – Chaku. – lo chiama ancora, accarezzandolo un’altra volta, e stavolta il mugolio di Chakuza è più presente a se stesso, e Fler lo osserva riemergere da sotto il cuscino e guardarsi un attimo intorno con aria persa prima di voltarsi, individuarlo e tornare ad appoggiarsi subito dopo, stavolta, però, con gli occhi aperti.
- Ehi. – dice, la voce ancora un po’ roca, solo per fargli capire che è lì, è sveglio e ora può parlare.
- Ehi. – sorride Fler. Sente l’impulso di chinarsi a baciarlo sulle labbra, ma qualcosa lo trattiene, perciò evita. Non vuole dargli baci che non siano profondamente voluti, non vuole fare niente, con lui, che non sia profondamente voluto. È l’unica regola che si sono dati quando si sono messi insieme, non fare niente se non lo si vuole a tutti i costi, ed è una regola che Fler non intende tradire. – Devo uscire un’oretta.
- Mh-hm. – annuisce lui, rigirandosi supino e grattandosi mollemente lo stomaco mentre si stiracchia tirandogli inavvertitamente una ginocchiata lieve contro il fianco. – Scusa. Dov’è che vai?
- Incontro un vecchio amico. – risponde lui, alzandosi in piedi e sistemandosi i jeans attorno ai fianchi e poi lungo le gambe, - Tu puoi continuare a dormire, è ancora presto per te.
- Ok. – risponde Chakuza, spiegando il lenzuolo perché torni a coprirlo e rigirandosi su un fianco, col solo risultato di scombinare tutto da capo. Fler ride a bassa voce, uscendo dalla stanza, e quando si ritrova per strada, due minuti più tardi, si pente di non averlo salutato con un bacio. Anche stavolta, pensa che forse dovrebbe tornare indietro, baciarlo e poi uscire, ma esattamente come prima si rende conto di quanto sarebbe sciocco, perciò alla fine lascia perdere, si dice che in fondo starà fuori solo un’ora e potrà baciarlo quando sarà tornato a casa. Non è la fine del mondo.
Nadja è già davanti al locale, quando lui arriva. Visto anche l’orario, non lo stupisce vedere tutti i tavolini all’esterno vuoti. Spera sia così anche all’interno. Lei passeggia nervosamente a qualche passo dall’entrata, indossa un soprabito corto e scuro e gli occhiali da sole. I suoi capelli ricci sono raccolti in uno chignon un po’ disordinato alto dietro la testa, alcune ciocche ricadono a solleticarle la nuca e lei le allontana con una carezza nervosa mentre continua a passeggiare, più per darsi qualcosa da fare che perché ne abbia voglia. È sempre molto bella, non lo stupisce vedere che nell’anno che hanno passato distanti non è cambiata di una virgola.
- Nadja. – la chiama, cercando di non sembrare arrabbiato, anche perché in effetti non lo è. Lei si volta nella sua direzione, le labbra solitamente piene così tese da sembrare una linea sottilissima. – Hai fatto colazione? Io sono ancora a stomaco vuoto. Ti offro qualcosa. – sorride, invitandola ad entrare all’interno del locale ed aprendole la porta.
- Scusa se ti ho chiamato così all’improvviso. – dice lei, prendendo posto ad uno dei tavolini più nascosti in fondo e sfogliando distrattamente il menu, - Non l’avrei mai fatto, ma il mio avvocato ha pensato… - sospira, - Ed ha ragione. Non ho chiamato solo te, ho fatto un giro di telefonate per avvertire quante più persone possibile, ma ci tenevo ad incontrarti, altrimenti non so cosa avrei fatto se poi—
- Nadja. – la interrompe lui, sporgendosi in avanti e poggiandole una mano su una spalla, - Ho capito, ok.
Lei inspira ed espira a fatica, sfilando gli occhiali da sole e riponendoli sul tavolo. Ha gli occhi cerchiati ed arrossati, il pallore del suo viso è quasi spaventoso.
- Patrick, devi fare le analisi. – gli dice seria, le mani strette in grembo, - Devi davvero, perché c’è una… una buona possibilità che io ti abbia infettato.
Il corpo di Fler si tende tutto all’improvviso, e per molti minuti lui nemmeno parla, si limita a fissarla negli occhi, come se questo già da solo bastasse ad ottenere una qualche risposta per domande che non ha nemmeno formulato nella propria testa. Un cameriere si avvicina, Nadja prende solo un bicchiere d’acqua, lui chiede un caffè perché sa che ne avrà bisogno.
- Che possibilità c’è che io sia malato? – chiede a fatica quando il caffè arriva e con esso anche qualche biscotto. Nadja ne prende uno, prima di rispondergli.
- Tu non sei malato, Patrick. – gli dice, guardandolo dritto negli occhi con estrema serietà, - Nemmeno io lo sono e nemmeno la mia bambina lo è. C’è qualcosa, dentro di noi, qualcosa che potrebbe diventare una malattia, col tempo, ma per adesso è solo un virus. Solo questo, solo un virus, uno stupido organismo milioni e milioni di volte più piccolo di noi, dentro il nostro corpo.
Fler assimila l’informazione senza comprenderla veramente. Nadja morde il biscotto, ne morde uno anche lui.
- Che possibilità c’è che questo virus sia anche dentro di me? – le chiede allora lui, buttando giù il caffè tutto in un sorso.
Lei si mordicchia un labbro, distogliendo lo sguardo.
- C’è un’alta possibilità che tu possa essere sieropositivo. – risponde lei, - È per questo che vorrei che facessi subito il test. Prima lo sai, meglio sarà per te e per tutte le persone che ami. Non è una battaglia che puoi combattere da solo.
- È il mio corpo. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia, - Posso—
- Patrick, ascoltami. – sospira lei, chiudendo gli occhi e massaggiandosi stancamente le tempie, - Io so cosa significa tenersi dentro una cosa del genere, fronteggiarla in solitudine giorno dopo giorno per anni. Pesa sul cuore, sui polmoni, sullo stomaco. Puoi stare fisicamente bene e non riuscire comunque a dormire per giorni solo per l’ansia e la tristezza che il fatto in sé ti provoca.
Fler abbassa lo sguardo, mordendosi un labbro.
- Non è che abbia grande scelta, dopotutto. – dice a bassa voce, - Dovrò farlo per forza.
- Esattamente. – risponde lei, annuendo. – E noi sai quanto mi dispiace, davvero.
- Be’, avresti potuto pensarci prima. – le ricorda atono, poggiando la tazzina sul piattino.
- Lo so. – dice immediatamente Nadja, abbassando lo sguardo, - Patrick, credimi, mi dispiace davvero aver combinato questo gran casino. Ma ero confusa e sola, sono sempre stata confusa e sola, e ho sempre avuto paura che se l’avessi detto a qualcuno tutto ciò che avevo conquistato negli anni mi sarebbe stato strappato via. Cosa che, in ogni caso, è destinata ad accadere adesso. – aggiunge con un sorriso triste. – Queste sono le conseguenze del silenzio, Patrick. Tienile da conto, se intendi mantenere il segreto.
Fler annuisce, incerto su cosa dovrebbe fare adesso. Nadja lo toglie d’impaccio bevendo in pochi e lunghi sorsi tutta la propria acqua, e poi alzandosi in piedi, lasciando sul tavolino abbastanza denaro per pagare quello che hanno preso almeno tre volte.
- Posso— - dice lui, mettendo mano al portafogli, ma lei lo ferma con un sorriso.
- Lascia che sia io ad offrire. – dice, girando attorno al tavolino e chinandosi a baciarlo su una guancia, prima di allontanarsi. – Chiamami, quando vuoi. Proverò ad esserti d’aiuto, qualsiasi cosa mi succederà da qui a una settimana. – gli raccomanda poi. È scomparsa il secondo dopo. Fler sente la bocca amara ed è quasi sicuro che non sia solo colpa del caffè. Lascia tutti i soldi di Nadja sul tavolino e, un minuto dopo, esce anche lui, diretto a casa.
L’appartamento è ancora immerso nel buio quando lui sale le scale ed entra. Non s’è mosso niente, rispetto a quando è uscito, ed è quasi sicuro che, se entrasse in camera, troverebbe Chakuza arricciato su se stesso nella stessa posizione in cui l’ha lasciato.
Sta ben lontano da lì, comunque, e non perché non voglia vederlo, ma perché ha paura di trovarlo già sveglio e dovergli spiegare tutto adesso. Non è sicuro di sentirsi pronto, non è sicuro che lo sarà mai. Sa che prima o poi dovrà farlo, ma spera solo che non siano questi minuti, queste ore, questa giornata. Vuole aspettare, anche se non sa cosa significherebbe nell’atto pratico: aspettare quanto, e fino a cosa? Sono domande che razionalmente si pone, ma non è la stessa parte razionale di lui che le ha poste quella che risponde “non lo so, voglio aspettare e basta”.
Si inumidisce le labbra e va in cucina, cercandosi qualcosa da fare. Non lo trova perché in cucina non c’è nulla per lui. I piatti sono puliti – o per meglio dire, non sono mai stati sporcati, visto che lui e Chakuza non condividono un pasto in casa da almeno due settimane – e lui non sa cucinare abbastanza da pensare di mettersi lì dietro ai fornelli per lasciar scorrere via i pensieri come in un fiume come Chakuza fa abitualmente ogni volta che è triste o stanco e non sa cos’altro fare.
Visto che non ha nulla da fare, scosta uno degli sgabelli alti dal tavolino tondeggiante attaccato alla parete per un lato e si siede, restando a fissare le venature del legno sulla superficie liscia. Gli viene quasi da ridere se pensa che quelle venature, pur essendo il tavolo in legno – o almeno, in uno dei suoi derivati – non appartengono all’albero da cui quella tavola è stata ricavata. Perché dopo è stata trattata in mille modi, è stata scartavetrata, lucidata, foderata, lucidata ancora e poi le è stata applicato addosso uno strato di plastica sottilissima con quella stampa lì, che imita i disegni naturali del legno pur non avendoci niente a che fare. È assurdo se si pensa che sarebbe bastato prendere un albero e dividerlo in varie tavole per avere lo stesso effetto, anzi, migliore, ma questo non è stato fatto perché il legno dell’albero è troppo grezzo per finire nelle case delle persone. Le persone vogliono cose finte, cose morte. Fler si appunta mentalmente di comprare un tavolo in legno vero quanto prima, per sostituire questo.
- Si è rigato. – dice Chakuza, apparendogli alle spalle e sbadigliando sonoramente mentre si dirige verso i fornelli, intenzionato a preparare il caffè.
- Mh? – chiede lui, incerto, sollevandogli gli occhi addosso. Lui, perfettamente a suo agio in mutande di fronte al piano cottura, come sarebbe a suo agio anche se indossasse un casco di banane per cappello e una gonnella di noci di cocco allacciata attorno ai fianchi, per il semplice fatto che è l’ambiente della cucina in sé a renderlo così tranquillo e sicuro, gli indica la superficie del tavolo con un gesto distratto.
- Si è rigato quando ci ho posato su una teglia, qualche settimana fa. – spiega, concentrato sulla macchinetta del caffè da preparare, - Stavi guardando questo?
Non l’aveva neanche notato.
- Chaku. – dice, così piano che a stento si sente da sé, - Chaku, - ripete a voce più alta, - devo dirti una cosa.
Forse è a causa del tono della sua voce, ma Chakuza capisce subito che deve dirgli qualcosa di serio. Posa la caffettiera sul fornello ma non accende il fuoco, e si volta a guardarlo con aria preoccupata.
- Che succede? – chiede, faticando a mantenere la voce calma.
Fler distoglie lo sguardo. Non ha provato quel discorso neanche una volta, non sa come dovrebbe dirglielo. Si chiede se esista un modo migliore di un altro, per farlo, e conclude che probabilmente la risposta a questa domanda è no.
- Oggi, quando sono uscito, ho incontrato una mia vecchia amica. Nadja Benaissa. – comincia a raccontare, - Non so se la conosci.
- Ma secondo te come faccio a non conoscere la Benaissa? – ride nervosamente Chakuza, grattandosi la nuca, - Era una delle No Angels, no?
- Già. – annuisce Fler, sorridendo brevemente, - Noi abbiamo avuto una storia, qualche anno fa. L’avevo invitata a cantare con me una canzone per Fremd Im Eigenen Land e abbiamo passato molto tempo insieme, e sai, lei era molto bella, lo è ancora, e molto simpatica, e, voglio dire, una pazza, ti basterebbe conoscerla per saperlo, è una che la vita se l’è goduta tutta. – sospira pesantemente, abbassando lo sguardo. – Oggi mi ha detto di essere sieropositiva.
Chakuza non si muove, resta immobile sul posto, silenzioso. In quel silenzio, Fler ha tutto il tempo di pensare che è ridicolo, davvero ridicolo che durante la sua storia con Nadja – durata quanto? Tre mesi? – non abbiano fatto altro che scopare sempre senza pensare alle precauzioni, mentre con Chakuza, che frequenta ormai da quasi un anno, non ha mai fatto l’amore senza preservativo. È assurdo davvero, ma al momento non può che ringraziare per essere stati entrambi scrupolosi abbastanza quando contava.
- Voi avete… - la voce di Chakuza è ruvida e quasi fastidiosa, quando riesce a trovarne abbastanza da poter parlare, - Avete fatto sesso senza proteggervi?
Fler abbassa lo sguardo, sentendosi solo in quel momento, per la prima volta, incredibilmente stupido.
- Non mi ha mai detto di essere… - prova a giustificarsi, ma lascia perdere nel momento in cui si rende conto di quanto sciocca sarebbe questa come scusa: Nadja ha sbagliato, ma ha sbagliato altrettanto lui a pensare di potersi fidare di una ragazza sostanzialmente appena conosciuta che peraltro già ai tempi era abbastanza nota per essersi ripassata tutta Berlino e dintorni più di una volta e non sempre senza che questo portasse a conseguenze di vario genere. - …sono stato un idiota. – conclude quindi, - E adesso mi toccherà espiare.
Chakuza lo guarda per qualche secondo, il viso privo di espressione.
- Farai il test? – chiede. La sua voce è distante, distante anni luce da lui.
- Certo. – annuisce subito Fler, cercando di dare un’impressione di sicurezza che in realtà non possiede, un po’ perché spera di acquistarne così almeno una parte, ed un po’ perché ha bisogno di vedere Chakuza più sereno. È importante che Chakuza sia più sereno, adesso. Fler vuole provare a renderlo possibile.
- Io non… - mormora Chakuza, incerto, appoggiandosi al tavolo di fronte a sé e piegandosi un po’, come non riuscisse a sostenere il peso di quella confessione prima di tutto a livello fisico, e solo dopo a livello mentale, - …non sono pronto. Non— ho bisogno di tempo, Pat.
- Be’, io non ne ho molto. – risponde lui, stringendosi nelle spalle.
- Ma che cosa ti aspetti da me?! – quasi grida Chakuza, all’improvviso, fissandolo negli occhi con rabbia. C’è un fuoco che gli esplode dentro, ed è così repentino che Fler ne è spaventato. – Che cosa ti aspetti, che ti dica che non è un problema? Che non mi terrorizza a morte? Che ti starò accanto indipendentemente da tutto il resto? Io non— non posso farlo, non voglio mentirti e non me la sento di… - non conclude la frase, ma ciò che vorrebbe dire è evidente. Non se la sente di legarsi a lungo termine con qualcuno che un lungo termine potrebbe non avercelo più nel giro di un paio d’anni.
Fler non può biasimarlo. Ma così com’è certo di non poterlo fare, è anche certo, per qualche secondo, di smettere di sentire il proprio respiro che corre veloce dentro di lui – naso gola polmoni e inverso – e questo blocco dura tanto a lungo che lui per primo si chiede come sia possibile riuscire a sopravvivere tanto a lungo anche senza respirare per niente.
- Mi dispiace. – riesce a tirare fuori a fatica, e solo dopo essersi ricordato che deve essere lui a rimettere in moto il suo apparato respiratorio, perché il suo corpo sembra aver dimenticato del tutto che invece è compito suo. – Non so cosa dire, Chaku. Mi dispiace.
Chakuza appoggia i gomiti al tavolo e si prende la testa fra le mani, strofinandosi gli occhi chiusi coi palmi bene aperti per qualche secondo, prima di tornare a guardarlo.
- Ok, ho esagerato. – dice quindi, sospirando profondamente, - Non… non è ancora nemmeno detto che tu abbia il virus, magari sei stato fortunato. E anche allora, la medicina ha fatto dei passi da gigante, e… tutte quelle altre cose che si dicono per alleggerirsi la coscienza in questi casi. – sospira ancora, e Fler si sente stringere il cuore. – Aspettiamo di sapere qualcosa di certo, e poi ne parleremo tranquillamente. Vedrai che la risolveremo, in qualche modo. – si sforza di sorridergli, e Fler si sforza di rispondergli. Sorridere riesce male ad entrambi, ma tutti e due comprendono che più di così, in quel momento, non possono fare, per cui si accontentano. – Ora scusami, - riprende Chakuza subito dopo, - ma devo andare a farmi un giro. Ti prometto che torno presto, ho solo bisogno di…
- Ok. – annuisce subito lui, - Ok, Chaku, ti capisco. Credimi. Non ho smesso di capire i tuoi bisogni solo perché tre anni fa sono andato a letto con una donna che potrebbe avermi reso sieropositivo. Te lo assicuro.
Chakuza annuisce, ignorando volutamente la frecciata. Fler si alza in piedi, passandosi una mano sugli occhi e sulla fronte.
- Tu che fai, nel mentre? – chiede Chakuza a bassa voce. Fler scrolla le spalle.
- Penso che mi metterò a riposare. – risponde pensieroso.
- Stai male? – chiede subito Chakuza, ansioso, - Non ti senti bene?
- Sto benissimo, Peter. – risponde lui, lanciandogli un’occhiata infastidita e cercando subito dopo di tornare calmo. Non vuole litigare, non adesso. È l’ultima cosa che gli serve. – Ho solo voglia di mettermi a dormire. Sarà sempre meglio che vagare per casa senza niente da fare. Ora chiamo il medico e mi faccio prescrivere le analisi. E poi mi metto a dormire. Ok?
- Okay, okay. – annuisce Chakuza, sollevando le braccia in segno di resa, - Sono solo preoccupato, Pat. Vienimi incontro.
- Veniamoci incontro entrambi, Peter, o non ne usciremo facilmente. – borbotta lui, lasciandolo lì ed infilandosi in camera da letto. Mentre solleva la cornetta e cerca il numero del medico nella rubrica del cellulare, lo sente entrare in bagno. La porta si chiude, poco dopo l’acqua della doccia comincia a scorrere. La segretaria solleva la cornetta, dall’alta parte della città, e Fler si concede di smettere per un attimo di pensare a Chakuza per concentrarsi un po’ su se stesso. Prende appuntamento per l’indomani di buon mattino, non spiega alla segretaria perché, lei non ha alcun bisogno di saperlo. Discuterà la faccenda direttamente col medico.
Augura una buona giornata alla segretaria e chiude la conversazione, restando immobile seduto sul letto per qualche secondo prima di decidersi a scalciare via le scarpe e i vestiti e mettersi sotto le coperte dallo stesso lato ancora caldo del corpo di Chakuza. Quel calore lo rassicura, in qualche modo, e si addormenta subito. Non sente Chakuza entrare in camera per vestirsi ed uscire, pochi minuti dopo.
In compenso, lo sente rientrare. Sono le tre del mattino, quando accade. Ha dormito per tutto il giorno ed è abbastanza sicuro di averlo fatto non tanto per stanchezza o per qualche generico malessere, quanto più perché emotivamente incapace di sopportare lo scorrere lento delle ore fino a domani. Comunque lo sente rientrare molto più tardi di quanto non avesse promesso, eppure non riesce a chiedergli niente, e nemmeno a criticarlo. Da qualche parte, dentro di sé, sa di non avere alcun diritto a biasimarlo neanche questa volta.
Resta comunque sveglio fino all’indomani mattina.
*
Nella settimana che passa da quel giorno al giorno in cui lui e il dottor Falkenberg sono seduti uno di fronte all’altro nel suo ufficio, e Fler si torce le mani mentre il dottore fruga fra gli incartamenti della sua cartella clinica per trovare i risultati del test, Chakuza passa a casa pochissimo tempo. Fler lo sente rientrare a notte fonda più delle volte in cui lo sente uscire, e questo perché in genere Chakuza non aspetta nemmeno che lui sia rientrato dall’Ersguterjunge per uscire a propria volta. Quando s’incontrano a casa, o quando Fler lo chiama al telefono, non lo ignora e non è scostante, ma sono solo scampoli di tempo che gli concede mentre impiega tutto il resto della propria giornata ad occuparsi in tutti i modi possibili pur di non pensare a lui.
Il dottor Falkenberg gli ha già detto che, considerata la grande distanza di tempo intercorsa fra il rapporto sessuale non protetto e il test, ci sono ben poche possibilità che questo possa essere fallibile. Il risultato che ne verrà fuori sarà quello definitivo, e sebbene Fler non sappia che tipo di risultato aspettarsi sa esattamente cosa aspettarsi in generale dal test in sé: stabilirà cosa sarà del resto della sua vita, stabilirà se gli toccherà pagare un errore finché vivrà o se potrà farla franca, in modo da non doverlo ripetere in futuro. In ogni caso, è evidente che la lezione che la vita gli sta impartendo è inflitta con una violenza che non avrebbe mai sospettato.
Ha paura. Avrebbe voluto che Chakuza lo accompagnasse, ma Chakuza non c’è, perciò a lui tocca essere forte per entrambi, per se stesso che è già lì e per Chakuza che ci sarà comunque, anche se non subito. Fra qualche ora, anche domattina, non importa: prima o poi lo rivedrà, ed anche allora dovrà essere forte per tutti e due. Esattamente come adesso.
Il dottor Falkenberg sospira pesantemente, lasciando scivolare il foglio coi risultati delle analisi sulla scrivania, fino a lui.
- Il test mostra che nel suo sangue sono presenti gli anticorpi per il virus dell’HIV. – dice gravemente, - Stando a questo ed a ciò che mi ha raccontato, non c’è alcun dubbio né nessun motivo per ritenere che i risultati del test possano essere errati. – si sporge in avanti, accarezzandogli la spalla in un gesto consolatorio ma freddo, che dà da pensare a Fler su quante persone deve aver provato a consolare nella stessa maniera per tutta la propria vita, - Mi dispiace, signor Losensky.
Fler annuisce, abbassando lo sguardo sulle proprie mani abbandonate in grembo. Resta in silenzio, però, limitandosi a minuscoli cenni col capo mentre il dottor Falkenberg comincia a parlare di quanto sia stato fortunato a mantenere un regime di vita sano fino ad ora e quanto abbia del miracoloso che la diagnosi sia stata effettuata per tempo, e poi continua illustrandogli le terapie che dovrà seguire, e parla di farmaci e diete, no, regimi alimentari – Fler si ascolta respirare e si dice che “regime alimentare” è proprio una brutta parola, dieta è molto più simpatica, una di quelle cose leggere che si vedono nei settimanali femminili, la dieta del sedano, la dieta dei frutti rossi, la dieta solo pasta, regole alle quali puoi fare uno strappo, ma un regime alimentare? Duraturo? Una dittatura che si instaura nella sua vita, la dittatura legalizzata del suo corpo su tutto il resto di sé – e di tutto ciò che il dottore dice lui non coglie che frammenti. Sente il proprio respiro, l’aria che gonfia i polmoni e questi ultimi che poi si spremono per buttarla fuori quando non serve più, e questo copre tutto il resto. Tutto il resto, anche il virus. Lui respira ancora. È ancora lì.
Lui e il dottor Falkenberg si congedano con una ricetta e un appuntamento per la settimana prossima. La prima cosa di cui ha voglia Fler, quando si trova da solo per strada, è mangiare un gelato. Cerca di ricordare se un alimento simile fosse permesso nel regime alimentare del dottor Falkenberg, ma stava ascoltando solo distrattamente e molti dettagli gli sono completamente sfuggiti. Non sa se può permettersi un gelato e non si sente dell’umore di rischiare. Il dottor Falkenberg gli ha detto che è fortunato, perché è giovane e il suo fisico è forte, non crollerà immediatamente alla prima minaccia, dovrà solo stare un po’ più attento. Chissà se il gelato è una delle cose alle quali dovrà stare sempre attento, da ora in poi. Chissà a quante altre cose che prima notava solo per caso dovrà fare attenzione, fino a quando tutto non gli crollerà comunque fra le mani indipendentemente da quanto sia stato cauto prima.
Messo da parte il gelato, comunque, l’unica cosa che vuole fare è vedere Bushido. Ci pensa all’improvviso, senza seguire nessun tipo di filo logico. Non sa neanche se al momento sia a casa, e per la verità nemmeno ci pensa quando sale in macchina e si dirige verso quella sua villa enorme dal colore tremendo. Non importa se c’è o non c’è, lo aspetterà, in ogni caso. La verità è che non ha voglia di tornare a casa e trovarla vuota, e che lo sia è una certezza. Non ha voluto rischiare col gelato, ma rischia volentieri con Bushido. Alle volte, un’incognita è meglio di una certezza, e questo caso è esemplare in questo senso.
Bushido, comunque, c’è. È inverosimilmente teso, quando gli apre la porta. Fler lo guarda a lungo, senza dirgli una parola. Bushido capisce in quel silenzio tutto ciò che c’è da capire, e se lo trascina addosso, stringendolo forte fra le braccia, un braccio attorno alle spalle ed una mano pressata sulla sua nuca, per impedirgli di muoversi.
- Mi dispiace, Atze. – gli sussurra in un orecchio. La voce gli si spezza subito in un singhiozzo che dà a Fler i brividi per quanto è inatteso e strano. Lui non ha ancora pianto. – Mi dispiace un casino, cazzo.
Fra le sue braccia, Fler si rilassa subito. Improvvisamente, tutto torna e sembrargli più vivo e reale di quanto non fosse fino ad un minuto prima. Le lacrime di Bushido, il suo respiro che si mescola col proprio, il calore che sprigionano i loro corpi tesi e nervosi così avvinghiati nel mezzo dell’ingresso, e quando si accorge di stare piangendo a sua volta non riesce ad impedirsi di essere felice perché lo sta facendo, perché da qualche parte sente che ancora vale la pena di piangere per qualcosa, per la sua vita che sta cominciando a disintegrarsi, per Chakuza con cui non passa un’ora intera insieme da una settimana, per quello che ha e che perderà, per quello che ha avuto e perso in passato e non potrà più provare a riprendersi, per quello che aveva sperato di avere in futuro e invece non riuscirà ad avere mai. Vale ancora la pena di piangere, e lui può ancora farlo, e questa è una cosa bellissima.
- Vuoi restare qui, stanotte? – gli chiede Bushido, mezz’ora e un paio di bicchieri d’acqua per smettere di singhiozzare dopo, - Ci sono tutti i letti che vuoi.
- No, torno a casa. – risponde lui con un sorriso mesto, - E poi cosa dovrei farmene di tutti i letti che voglio? Legarli uno all’altro per i fianchi e poi farli scivolare giù dal tetto con le lenzuola legate a mo’ di pallone aerostatico per cercare di prendere il volo?
Bushido ride, tirandogli un cazzotto debolissimo contro una guancia, più un buffetto che altro.
- Sei un cazzone. – lo apostrofa, spingendolo verso la porta, - Fuori dai piedi.
- Me ne vado, me ne vado. – lo rassicura lui, sollevando entrambe le braccia in segno di resa e lasciandosi spingere senza protestare né opporre resistenza, - Ci si sente, comunque.
- Sì, ma che sia vero. – si raccomanda Bushido, guardandolo severamente, - Non mi rifilare balle, Fler. Se dici che chiamerai, fallo davvero.
- Lo farò. – annuisce lui, ridendo appena, - Davvero. – aggiunge più seriamente, prima di imboccare il viale e infilarsi nuovamente in macchina. Sente gli occhi di Bushido piantati sulla schiena per tutto il tragitto e anche per cinque minuti buoni dopo aver messo in moto l’autovettura ed essere partito alla volta di casa. Poi quella sensazione incredibilmente fisica comincia a scemare, lasciando il posto a quella altrettanto pressante che lo prende ogni volta che sente di essere vicino a vedere Chakuza, quella forza che, per prima, l’ha attratto così inesorabilmente verso di lui. È come sentirsi tirare nella sua direzione, e Fler si ritrova quasi senza accorgersene a pigiare ostinatamente il piede sull’acceleratore per fare il più in fretta possibile. È certo che Chakuza sarà a casa. Non ci sono più incognite, nella sua mente.
Quando apre con le proprie chiavi ed entra in casa, infatti, Chakuza è lì. Stava facendo qualcosa, anche se Fler non riesce ad identificare cosa. Tutto ciò che sa è che lo prende di sorpresa mentre è fermo a metà del corridoio, e che quando si volta a guardarlo Chakuza ha gli occhi umidi e arrossati, come avesse appena smesso di piangere. Fler riesce solo a stento a trattenere il sorriso che vorrebbe nascergli spontaneo sulle labbra al pensiero che, in due posti diversi, stavano entrambi piangendo contemporaneamente per lo stesso motivo.
- Ce l’ho. – gli dice all’improvviso, spezzando il silenzio perfetto che avvolgeva la casa, - Sono positivo. Ho l’HIV.
Chakuza molla ciò che sta tenendo in mano e lo lascia cadere a terra. Fler non riesce a vedere cos’è perché il secondo successivo Chakuza gli è addosso e lo sta stringendo come se dalla forza con cui se lo tiene ancorato addosso dipendesse il destino intero della loro relazione. Fler pensa che è così e prega con tutte le proprie forze che Chakuza non lo lascia andare mai più.
Invece succede. Chakuza sta di nuovo piangendo, quando si allontana. Lo sta facendo anche Fler.
Lo segue quando si incammina lungo il corridoio.
- Mi dispiace. – mormora confusamente Chakuza, - Mi dispiace, Pat, io non posso. Non ce la faccio.
- Chaku…? – lo chiama lui, senza capire cosa stia succedendo. Lo segue e non capisce, e continua a non capire almeno fino a quando Chakuza non entra in camera da letto, e lui lo segue anche lì, e nota il borsone aperto e già mezzo pieno sul pavimento.
- Mi dispiace. – ripete Chakuza, affaccendandosi fra la cassettiera e l’armadio. Prende cose alla rinfusa, non le sistema ordinatamente, giusto quello che gli serve per qualche giorno. Fler è combattuto fra il desiderio di pensare che si tratti solo di una cosa temporanea e il pensiero più razionale che stia semplicemente prendendo le prime cose che gli capitano sottomano per tornare poi quando sarà certo che non ci sia nessuno in casa, e recuperare il resto.
Serra le labbra, non parla più. Resta sulla soglia della porta osservandolo tirare su il borsone sul letto, chiuderlo e tirarselo in spalla. Si scansa per lasciarlo uscire dalla camera e lo segue anche in corridoio. Lo osserva chinarsi per recuperare qualsiasi cosa gli fosse caduta prima, e poi lo osserva anche quando posa il borsone a terra, apre uno spiraglio della zip ed infila – cosa sarà? Una maglietta? Un paio di calzini – alla come viene, richiudendola subito dopo con un gesto secco. La zip s’inceppa, Chakuza non le bada. Esce di casa il secondo dopo. Fler continua a non dire una parola. D’altronde, ora che è solo, non vede nemmeno perché dovrebbe farlo.
*

Non ha una chiara percezione di quando tutto, nella sua vita, cominci a muoversi a scatti. A volte si sente come se stesse guardando se stesso in un film la cui pellicola però continua a incepparsi nel proiettore. Ci sono inquadrature che durano infinità, blocchi improvvisi, momenti di nero assoluto di cui non ricorda niente già un’ora dopo. Conserva solo frammenti di quotidianità. Sa quando si sveglia, sa che si fa una doccia, fa colazione e prende le sue pillole. Sa che è dura abituarsi ad una routine che fatica a sentire propria. Sa che la casa resta vuota solo un paio di giorni, dopodiché comincia a riempirsi di gente ad orari alterni perché proprio nessuno vuole lasciarlo solo, proprio nessuno a parte Chakuza.
- Ci ho parlato, sai, - gli dice Bushido in un giorno a caso di una settimana a caso da quando lui è andato via, - con Chaku, dico. Non sta bene.
- Nemmeno io. – risponde lui, stringendosi nelle spalle. Bushido gli sorride, accarezzandogli la testa in un gesto tenero e incredibilmente intimo.
- Sai cosa intendevo. – gli dice. Fler annuisce, perché è vero, ma non gli interessa poi molto. Avrebbe bisogno di lui lì, sofferente o meno, ma Chakuza non c’è, e non c’è perché non vuole esserci. Cosa dovrebbe interessargli, dunque, del suo dolore?
- Mi dispiace. – dice, ma questa è una bugia. Non può dire che gli dispiaccia davvero, non può dire niente perché per lo più si sente come se stesse fluttuando a mezz’aria. Fa le cose, ma non c’è niente che riesca a toccarlo davvero. Le persone scivolano davanti a lui come ombre sulle pareti. Il sole sorge al mattino e tramonta alla sera, veloce come nei fast forward dei documentari su Discovery Channel. Il letto, in camera, ha ancora il profumo di Chakuza attaccato alle fibre stesse del materasso, perché le lenzuola le ha già cambiate parecchie volte, ma il profumo resta ancora lì. E Fler si dice che è assurdo non riuscire a mantenere un ricordo visivo o tattile che sia uno di persone che gli gravitano intorno continuamente e di cui dimentica ogni dettaglio dopo due minuti, ma conservare ancora la perfetta percezione di quella combinazione di odori conosciuti che, sommati assieme, compongono il suo profumo. È assurdo ed è ridicolo. E soprattutto fa male.
Cambia il materasso dopo un mese ed una settimana. Non ricorda di essere andato a comprarlo, ma sa che è nuovo perché, quando va a dormire, alla sera, improvvisamente il profumo di Chakuza è sparito.
Il tempo rallenta con una facilità impressionante, cose prima impensabili diventano la normalità senza la minima difficoltà. Svegliarsi e non sentire più il bisogno di allungare il braccio per cercare il suo corpo sull’altro lato del materasso. Oppure farlo ancora, ma non stupirsi più quando non trova niente. Buttare via il caffè che avanza perché se n’è preparato troppo e poi rassegnarsi a comprare una caffettiera più piccola. Tornare a casa senza chiedersi più se ci sia qualcun altro ad aspettarlo. La sua vita, a parte queste cose, è piuttosto normale. Il fatto che Chakuza sia andato via ha cambiato la sua quotidianità ben più di quanto non l’abbia cambiata il virus, perché il virus ha preteso da lui soltanto che aggiungesse qualche azione in più alle solite da compiere giorno dopo giorno, ma l’assenza di Chakuza lo obbliga a strapparsi di dosso abitudini che amava tanto quanto amasse lui. Rinunciare è molto più difficile che integrare, è la prima cosa che scopre dopo quasi due mesi che non lo vede e non lo sente nemmeno per sbaglio.
E poi, all’improvviso, così come ne è uscito, Chakuza rientra nella sua vita. In silenzio.
*

Squilla il telefono, Fler solleva la cornetta e chiede chi è. Dall’altro lato non risponde nessuno, ma del tutto irrazionalmente, senza sapersi spiegare perché né come, Fler sa che il respiro un po’ affannoso che sente rimbombargli nelle orecchie è quello di Chakuza.
- Chaku. – lo chiama, e l’ansia di pronunciare il suo nome dopo più di un mese in cui è stato lontano dalle sue labbra è tale che quasi gli si attorciglia la lingua, e le lettere si fermano lì a bloccargli la gola, soffocandolo fino a che non trova la forza per sputarle fuori.
Chakuza riattacca immediatamente, e Fler si morde un labbro con tanta forza da tagliarsi. Quando sente il sapore del sangue sul palato e sulla lingua, però, squilla il campanello, e lui si alza in tutta fretta, copre i metri che lo separano dalla porta in pochi, ampi passi e la spalanca. Chakuza è appena oltre l’uscio, lo guarda con gli occhi sgranati e umidi ed ha ancora il cellulare in mano, tenuto mollemente fra le dita che però tremano abbastanza da fargli pensare che scivolerà dalla sua presa, schiantandosi a terra quanto prima.
In effetti, è esattamente quello che succede nemmeno un minuto dopo, quando Chakuza si slancia in avanti e le sue labbra collidono con quelle di Fler, che però si allontana da lui di scatto, piantandogli le mani sul petto e muovendosi di qualche passo all’indietro.
Chakuza lo fissa con aria interrogativa, le sopracciglia inarcate verso il basso, lo sguardo ferito. Fler si succhia un po’ il labbro ferito.
- Mi esce sangue. – dice, la voce gli si spezza in un singhiozzo addolorato mentre pensa alle implicazioni che una semplice ferita riesce già ad avere sul suo comportamento, sulla sua intera vita. Roba alla quale non ha mai pensato. Roba alla quale ha dovuto cominciare a pensare. E Chakuza non era lì mentre lui cominciava a pensarci, ad elencare tutti i posso e i non posso, e Fler pensa che se intende restare dovrà insegnarglieli, e non fa che pregare che lui resti davvero e gli lasci il tempo di farlo.
Chakuza si chiude la porta alle spalle con un gesto brusco, e lo raggiunge in tre passi decisi. Gli appoggia le mani sui fianchi, stringendolo possessivo, e lo guarda serio, come se ciò che sta per dire fosse la cosa più importante che abbia mai pensato in vita sua. Fler riesce a vedersi riflesso nei suoi occhi chiarissimi ed è felice di essere, in questo momento, la cosa più importante cui Chakuza abbia mai pensato da quando è vivo.
- Io non sono ferito. – dice lui. Sono le prime parole che gli dice da quando è entrato. Suonano male, fuori posto, forse perché la sua voce è un po’ arrochita dal pianto e dall’ansia, per cui le ripete. – Io non sono ferito, Fler. – ribadisce, e poi se lo tira contro, e lo bacia profondamente, e stavolta Fler si lascia andare perché a Chakuza va bene così, lo sente sulle sue labbra e sulla sua lingua, lo sente in quel bacio che si muove lento contro la sua bocca. Non c’è pericolo. Può lasciarlo fare. Chakuza non è ferito. Solo lui lo è, ma finché uno solo di loro due è ancora sano c’è speranza per entrambi. – Andrà tutto bene. – gli dice Chakuza, allontanandosi da lui ed accarezzandogli una guancia. Fler non piange perché non vuole, perché non ne ha bisogno e perché è così stupidamente felice che non riesce a fare altro che sorridere. – Te lo prometto, - sorride anche Chakuza, - non me ne andrò più da nessuna parte.
Fler riesce a sentirlo perfettamente, subito dopo aver assorbito quelle parole per ciò che sono e per quello che significano. Il tempo riprende a scorrere, non è una cosa né veloce né lenta, è semplicemente una cosa che succede. Il labbro gli fa male, le mani di Chakuza sono calde, i suoi occhi umidi, il suo sorriso sincero. Tutto riprende a muoversi fluidamente, ed è solo perché entrambi, nonostante tutto, l’hanno voluto. E lui sta ancora respirando.
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