Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Violence.
- La routine delle sere di David è molto semplice. Torna a casa, cena, fa una doccia, guarda la TV. Poi risponde al citofono e fa entrare Bill, preparandosi ad ospitarlo per la notte.
Note: Prima di tutto, credit vari ed eventuali.
- A Yul per il secondo concorso sulla JostFic che mi ha ispirato la storia.
- A Tab perché mi ha costretto a scriverla XD
- Ai Depeche Mode, perché la citazione all’inizio è tratta da Personal Jesus (album: Violator), e la storia è ispirata alla canzone. Intesa in modo più positivo rispetto alle intenzioni originali (dannato gruppo emodepresso!).
- A Sara per la traduzione del testo di Beichte che appare in quella meraviglia di quote che è “Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello” (perché se c’è una cosa che Bill sa fare, ecco, quella è scrivere), ed – ovviamente – ai Tokio Hotel per la canzone in sé.
- A Juccha per il titolo >*< E per il concetto sul provare a dire “ti amo” solo per sentire l’effetto che fa. Ti lovvo <3
Per il resto, non ho molto da dire. Anzi, non ho niente da dire. Riesce ad essere – in modi del tutto assurdi – una storia semplicissima ed anche una delle più difficili che io abbia mai provato a raccontare. Un disastro, insomma ._.”
Per quanto mi riguarda, la trovo molto affascinante. Ma forse mi sto facendo ammaliare dall’emoangst XD Grazie per aver letto fino a qui (e grazie a Yul, lei sa perché XD). Grazie a Misa, grazie alla Lemmina, grazie a Nai. Baci :*
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UNDEAD UNWASHED UNHOLY

Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who’s there

- Stavolta con quale dei due hai litigato?
Bill mi passa davanti, sfrecciando veloce verso il soggiorno. Si lascia alle spalle la porta aperta, il fruscio dei propri capelli e l’odore familiare delle proprie lacrime. Lo so che in teoria le lacrime non dovrebbero avere un odore, ma l’odore di quelle di Bill si sente sempre, ed è riconoscibilissimo. È il trucco che si scioglie. Che cola lungo le guance. È l’odore del sangue che esce in una singola goccia quasi asciutta sulle sue labbra – le morde sempre con una violenza inaudita, quando cerca di smettere di piangere. È l’unica persona che conosco che, per smettere di piangere, sopprime il dolore più grande con un dolore più piccolo. Non ha senso. Niente di lui ha mai avuto senso.
Lo osservo fermarsi davanti al divano, passare velocemente le dita sotto le ciglia e sulle guance e poi voltarsi finalmente a guardarmi. Sul suo viso non c’è quasi più traccia di niente. Cerca sempre di ripulirsi, prima di voltarsi verso di me.
- Posso restare da te stanotte? – chiede con un’incertezza solo mal simulata. Lo sa lui e lo so io che non dirò di no. E lo sappiamo entrambi semplicemente perché ci aspettavamo questo momento.
In realtà non ho neanche bisogno di chiedergli con quale dei due abbia litigato, posso intuirlo piuttosto facilmente solo osservandolo: ha il borsone in spalla. Il borsone è una vecchia borsa Adidas di quelle che in genere si usano per la palestra. Come faccia Bill – che è notoriamente più pigro di un bradipo – a possedere una cosa simile, va oltre la mia capacità di comprensione. Comunque, quando deve dormire fuori è sempre con questa cosa – piena fino all’orlo di cianfrusaglie che per la maggior parte neanche usa – che si muove. Senza, non esce neanche di casa.
Quando Bill dorme fuori, è perché ha litigato con Tom.
In genere, però, litigare con Tom non basta per presentarsi qui.
Quando Bill litiga con Tom, prepara il borsone e va da Bushido. Bushido è il suo… ragazzo? Uomo? Compagno? Non so. Non riuscirò mai a trovare un appellativo che non suoni stonato. Comunque è suo. È da lui che va a stare, quando litiga con Tom.
È quando litiga anche con Bushido, che viene da me.
*
La situazione di Bill è complicata. E non è affatto buona.
Ogni volta che ci penso non lo faccio con l’indifferenza dell’estraneo che osserva una situazione all’interno della quale non è affatto coinvolto. Io lo faccio con apprensione. Io sono davvero terrorizzato per Bill.
Ma d’altronde, sfido chiunque: la situazione di Bill preoccuperebbe anche un estraneo, anche uno che ne avesse appena sentito parlare, pure distrattamente, pure per sbaglio, pure origliando per caso una conversazione sull’autobus. Ed io – che questo ragazzino me lo sono cresciuto, un po’ – non posso fare a meno di andare in completa paranoia, ogni volta che ci penso.
Per inciso: ci penso ogni volta che Bill me ne dà l’occasione. Cioè ogni volta che piomba a casa mia. Cioè ogni volta che litiga con Bushido. Cioè ogni volta che litiga con Tom.
Cioè sempre.
La situazione di Bill è sempre stata complicata, da che lo conosco, e questo semplicemente perché la situazione di Bill è sempre stata legata indissolubilmente alla situazione di Tom. E la situazione di Tom non è complicata, la situazione di Tom è un dannato disastro.
Quando li ho conosciuti, i gemelli erano due ragazzini piccoli e stupidi. Il mio non è un giudizio impietoso, è un giudizio il più obiettivo possibile – ed è dato comunque con molta tenerezza di fondo. Troppa, temo.
Erano molto stupidi nel senso che erano convinti – fermamente convinti – il mondo stesse aspettando solo loro. Non avevano la più pallida idea dei sacrifici che si sarebbero ritrovati a compiere. Forse per questo accettarono di immergersi fin sopra la testa in un mondo che, dietro le quinte, non conserva niente dei glitter e delle paillette di cui ricopre la scena: erano disposti a tutto. E basta.
Ciò che mi ha sconvolto – ciò che mi ha dato la spinta finale, ciò che mi ha convinto a sceglierli fra tutte le enormi masse di ragazzetti alternativeggianti che già allora affollavano i palchi delle periferie – è stata l’abnegazione totale che provavano l’uno nei confronti dell’altro.
Bill e Tom sono sempre stati così. Strani.
Era una base buona dalla quale partire per fare soldi, ecco.
Io non ero un poveraccio. La mia non era una vita triste. Non andavo stancamente avanti nel tentativo di sbarcare il lunario giorno dopo giorno. Non avevo bisogno di una trovata pruriginosa che andasse a battere proprio lì dove i pensieri cattivi di tutti si fermano e si schiantano contro il muro del buonsenso.
Io stavo solo facendo il mio lavoro. Non avevo alcuna intenzione di venire a conoscenza di un segreto tanto grande. Non volevo essere partecipe di una cosa tanto spaventosa. Non volevo neanche fomentarla, lo giuro.
Non mi sento davvero in colpa, perché penso fosse inevitabile che fra Bill e Tom scoppiasse una cosa simile. Attaccati per com’erano, era solo questione di tempo. Certe cose rimangono sopite solo se la vita che uno si ritrova a vivere rimane sempre piatta ed immobile. Se sei circondato solo ed esclusivamente da persone che ti vogliono bene, se hai una madre devota che ti supporta, se hai un patrigno benevolo che ti sostiene, se hai degli amici intelligenti che scorgono oltre la superficie il bravo ragazzo che sei, non hai alcun bisogno di aggrapparti con tanta foga a tuo fratello.
La vita dei gemelli, però, non è rimasta piatta ed immobile. A tredici anni, Bill e Tom sono saliti su una trottola che non si è ancora fermata. E gira, gira. Non c’è mamma, non c’è papà, non ci sono amici. Sono solo Bill e Tom.
A qualcuno dovevano pure aggrapparsi, se non volevano volare via.
Hanno scelto di aggrapparsi l’uno all’altro. Era inevitabile. Non è stata colpa mia. Io ho solo favorito le condizioni, ma loro avrebbero potuto opporsi strenuamente – come Bill sta ancora cercando di fare, come Tom si ritrova a tentare di fare sempre più stancamente – e non sarebbe accaduto niente.
Siamo ad un passo dalla rovina.
E non sto parlando dei Tokio Hotel.
Sto parlando di Bill e Tom. Del ragazzino magrissimo che stringe una borsa enorme al fianco e mi chiede se può dormire a casa mia. Dell’altro ragazzino – uguale, identico, speculare – che sta tutto solo in un enorme appartamento, qualche isolato più in là, e probabilmente sta spaccando qualcosa. Perché è così che Tom reagisce al dolore, Tom distrugge.
Tom, ogni tanto, prova a distruggere anche suo fratello.
È per questo che Bill scappa. È per questo che fugge da Bushido.
Bushido.
Ogni tanto penso alla sua presenza in tutta questa storia e provo molta compassione per lui. Mi ritrovo quasi immerso in una sorta di empatia immotivata e pure un po’ pericolosa.
È che so cosa vuol dire avere a che fare coi gemelli.
È che so cosa vuol dire avere davanti Bill che piange e non vuole dire perché.
È che so cosa vuol dire avere addosso lo sguardo arroventato di Tom quando viene a riprenderselo.
Bushido fa quel che può. Anche lui non ha colpa di niente.
È questa storia, che è tutta una follia.
È ciò che ci sta dietro che non ha senso.
Immortale, sporco e sacrilego.
Io so di non avere motivi per avercela con me stesso.
Però quando ce l’hai con qualcuno in genere non stai neanche tanto a domandarti perché. Purtroppo.
*
Facciamo il punto della situazione.
Bill sta dormendo nel mio letto. Gli ho messo le sue lenzuola – un coordinato di cotone bianco finissimo del quale s’è letteralmente innamorato la prima volta che è venuto a passare la notte qui – gli ho sprimacciato il cuscino, gli ho posato accanto quell’orrore di peluche cui non rinuncerebbe neanche se fosse sposato e l’ho calmato abbastanza da fare in modo che potesse chiudere gli occhi senza che il semplice movimento lo portasse a piangere ancora.
Per le prossime cinque o sei ore, Bill starà bene. O meglio: non starà – non sentirà nulla, non avrà nulla di cui preoccuparsi, rimarrà avvolto nel sonno e nel silenzio senza pensare a niente.
Il suo cellulare è posato sul tavolino di cristallo basso proprio davanti al divano sul quale sto seduto adesso. È l’una. Bushido chiamerà al massimo fra un quarto d’ora – lo fa sempre.
Mentre aspetto, posso chiamare Tom. È quello che faccio sempre io.
- Pronto?
La sua voce è venata da una sorta di speranza un po’ infantile e demotivata. La speranza che ti trascini dietro, quella che sai di non dover continuare a nutrire ma conservi comunque.
Bill non lo chiama mai, ma Tom non fa che aspettare.
- Sono io. – rispondo in un sussurro, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa della mia camera da letto.
La speranza di Tom vola via in un sospiro. Nel sospiro stanco col quale pronuncia il mio nome.
- David. È lì?
Annuisco, anche se lui non può vedermi.
- Dorme. – preciso, - Cos’è successo?
Tom sospira ancora, ma è un sospiro diverso.
Lo so che è difficile, Tom. Lo so.
- Niente. – sbotta lamentoso, - Abbiamo litigato. Almeno adesso so che è lì e non devo preoccuparmi.
Mi lascio andare ad una risatina divertita.
- Sì, lui è al sicuro. – confermo, - Tu come stai?
Posso immaginarlo scrollare le spalle e lasciarsi andare di peso sul divano – lo fa davvero, sento lo sbuffo d’aria e lo scricchiolio della pelle sotto di lui.
- Così. – borbotta, - Domani lo riaccompagni tu?
- Domani ci vediamo direttamente agli studi. Non farmi brutti scherzi.
Ridacchia.
- No, tranquillo. – mi rassicura, - Allora adesso vado a dormire.
- Ecco, bravo. – lo rimbrotto spiccio, - I mocciosi come te a quest’ora dovrebbero essere già a letto da un pezzo.
Non protesta, neanche mi risponde. Quando parla di nuovo, non si sta rivolgendo a me.
- David, quando si sveglia digli che… - si ferma, cerca le parole. Dev’essere tremendo. Forse, dentro di sé, fa la prova. “Digli che lo amo”. Giusto per vedere come suona sulla punta della lingua. - …va be’. Magari poi glielo dico io.
È questa la cosa che temo, Tom. È questo ciò che teme anche Bill.
Che tu possa dirglielo veramente.
*
Non ho quasi neanche il tempo di chiudere la conversazione con Tom, che il cellulare di Bill squilla. Generalmente, non faccio che allungarmi verso il tavolino, recuperarlo e rispondere a Bushido che s’informa sulla salute del proprio ragazzo, uomo, compagno o quel che è. Davvero, per me è imbarazzante starci a pensare. Sarà che siamo praticamente coetanei, sarà che fra noi non s’è mai davvero creato un rapporto – neanche di conoscenza, Bill è talmente geloso della loro relazione che è quasi più difficile incontrarsi adesso rispetto a quando lui era solo un collega, e neanche mio – sarà che be’, pur non sapendo niente so tutto ciò che c’è dietro – a lui, a Bill, a Tom, ecco, proprio tutto – ma insomma. Non lo so. Comunque preferisco evitare di parlare con lui, quando posso.
Il problema è che capisco la sua preoccupazione, ecco. Quando Bill litiga con qualcuno lo fa come se, da quel momento in poi, ritenesse implicito un addio. Bill litiga, cioè, e va via di casa sbattendo la porta e senza salutare, esattamente come fai quando la vista della persona che ti sta davanti ti è così insopportabile che il solo pensiero di rimanere a subirla un secondo di più ti nausea e ti ferisce a morte. Quando Bill imbocca la porta si ha sempre un po’ paura che non torni.
Giustamente, Bushido a lui ci tiene. E se ne sente responsabile, se non altro perché è stato chiaro fin dall’inizio Bill si stesse mettendo completamente nelle sue mani, senza riserve. Perciò chiama.
Io lo capisco fin troppo bene per negargli una rassicurazione. Perciò vinco l’imbarazzo ed il disagio, rispondo al dannato cellulare e gli dico puntualmente di stare tranquillo, che Bill dorme, lo informerò della sua chiamata e lo farò rintracciare l’indomani mattina appena sveglio.
È sempre così.
Stavolta no.
Mi allungo verso il tavolino ma sento uno scalpiccio di piedi nudi sul parquet dietro di me, perciò mi fermo e mi volto a guardare. Bill – maglietta e boxer, i capelli sciolti e scomposti lungo le spalle e gli occhi ancora rossi di pianto – corre fino al cellulare, lo afferra e lo porta all’orecchio in un gesto tanto veloce da sembrare unico.
- Anis? – risponde ansioso, stringendo l’apparecchio fra le mani con una violenza inaudita, - No, sono da David. Sì, lo so. Lo so, scusa. No, non dicevo sul serio. Ti giuro che… non dicevo sul serio.
È la prima volta che li sento parlare. Cioè, in realtà sto sentendo solo Bill, ma è una prima volta anche questa. In genere, quando parlano al telefono, Bill si nasconde. Che sia per sfuggire alle ire di Tom – che ogni volta che riesce anche solo a subodorare un qualche contatto fra lui e Bushido comincia a comportarsi come un pazzo assetato di sangue – o per proteggere in qualche modo un’intimità che, negli ultimi mesi – anche a causa della Universal ed anche a causa mia – è stata talmente pubblicizzata da non conservare d’intimo neppure il nome, non lo so. Comunque sia, si nasconde.
Evidentemente, stavolta aveva troppa fretta per pensarci.
…o, più semplicemente, non c’è Tom nei paraggi.
Sospiro, abbandonandomi contro lo schienale del divano, mentre Bill continua a sciorinare scuse in un singhiozzo continuo.
Il problema non è l’intimità resa pubblica, no. Il problema è Tom. Come sempre.
*
Bill chiude la conversazione con un sospiro stremato, e si lascia andare seduto accanto a me. Si piega in avanti come accartocciandosi su se stesso, e quando capisce che, continuando ad avvolgersi in questo modo, cadrà dal divano, tira su le gambe e si accuccia nell’angolo più lontano del sofà, stringendo le ginocchia al petto come un bambino piccolo.
- Voleva passare a prendermi. – mi informa atono, - Gli ho detto di restare a casa. Tanto ci vediamo domani. Non mi va proprio di vederlo adesso.
Sorrido lievemente.
- Ma se gli hai appena detto che non volevi lasciarlo e ti sei scusato per aver litigato qualcosa come tremila volte?
Bill si stringe nelle spalle, evitando il mio sguardo.
- Non mi va lo stesso di vederlo. – borbotta, - Scusa, lo so che dovrei dormire. Non ci riesco.
Annuisco.
- Ha chiamato tuo fratello. – lo informo con falso disinteresse, - Era preoccupato.
Bill aggrotta le sopracciglia, contrariato, e stringe con più forza le braccia intrecciate sotto le ginocchia.
- Mio fratello continua a sbagliare i tempi. – asserisce cupo, - Dovrebbe smetterla. Se sapermi in giro lo preoccupa tanto, perché non la pianta di costringermi ad andarmene?
Bill non sa – o non si rende conto. O non vuole capire – che l’intenzione di Tom è del tutto diversa. Bill non sa che Tom rinuncerebbe a qualsiasi cosa, per convincerlo a rimanere con lui per sempre. Bill non lo sa. Bill non se ne rende conto. Bill non vuole rendersene conto.
- Voleva che ti riferissi qualcosa. – dico, quasi lasciando sospesa la frase, solo per osservare la sua reazione. Bill solleva il viso e mi guarda: gli occhi spalancati e luminosi, le labbra socchiuse, sul volto un misto di ansia, felicità e paura che renderebbe chiaro perfino al più stupido che cosa sta aspettando di sentire. – Non mi ha detto cosa, però. – Bill abbassa lo sguardo. Si morde un labbro. Sospira pesantemente. – Ma ha aggiunto che te l’avrebbe detto lui stesso. – concludo.
Anche Bill conclude, sì. Di respirare.
Gli poso una mano sulla spalla.
- Ehi. – cerco di richiamarlo, preoccupato, - Stai bene?
Lui annuisce ma non risponde.
È un terrore giustificato, il suo. È anche il mio terrore. È il terrore di tutti tranne che di Tom, che si sta gettando contro questo disastro a testa bassa, neanche fosse l’unica soluzione possibile.
Bill – io. Bushido, forse, perfino lui – sa che è solo questione di tempo. Che prima o poi Tom dirà o farà qualcosa di talmente inequivocabile che, a quel punto, non potremo fare più niente per nasconderlo. Non ci saranno luoghi in cui scappare né bugie da orchestrare ad arte. Saremo solo noi di fronte al disastro. Con la speranza di sopravvivere. Con la certezza di soffrirne.
Bill ha paura. Bill ha ragione.
Tom, però, è innamorato. E chi potrebbe dire che ha torto?
*
Quand’ero più giovane, io volevo fare lo psicologo. Credevo di avere un vero e proprio talento per capire le persone. Credevo fosse un dono. Ne andavo perfino orgoglioso, perché mi aveva aiutato tanto in svariate occasioni della mia vita – non ultima il divorzio dei miei genitori, per non parlare di quello che ne seguì.
Credevo fosse un dono e lo credevo per davvero.
Naturalmente mi sbagliavo. Capire gli altri è evidentemente una punizione per un qualche tragico errore in una vita precedente. Quando capisci gli altri – cosa si muove nelle loro teste, i dolori che agitano le loro anime, le ansie che bloccano il battito dei loro cuori – ti precludi per principio qualsiasi possibilità di odiare qualcuno. Di riconoscergli una qualche crudeltà gratuita priva di movente. Di percepirne le assurdità.
Giustifichi tutto. Comprendi tutto. Assolvi tutto.
Io, purtroppo, non mi sono fermato a comprendere le ragioni di Bill, no. Per quanto sia sbagliato e controproducente – nonché vagamente irrazionale – comprendo anche le ragioni di Tom. Tom che, forse, è quello che ha più ragione di tutti – ma tutto il mondo contro. Anche se solo in prospettiva.
Tom è sempre stato così, per dire la verità. È per questo che insisto col fatto che dovevamo aspettarcelo. Tom non è cresciuto negli intenti, è cresciuto solo in intensità. Cioè quello che prova oggi è identico a ciò che provava ieri. Il problema è che è dannatamente più intenso. Mille volte più intenso. Perché fra ieri ed oggi ci sono state mille notti di silenzio. Mille notti in cui ha potuto semplicemente rimanere a pensare.
Pensare fa male.
Tom ha una fama che non gli rende giustizia. A lui piace passare per un puttaniere, davvero, gli piace un sacco. Forse gli piace proprio perché, se lascia che il mondo pensi il suo unico interesse sia portarsi a letto le groupie, allora il mondo non sospetterà mai nemmeno per sbaglio che il suo interesse reale sia un altro. A volte la mente usa meccanismi simili – sciocchi, subdoli, sostanzialmente inutili – per illuderti di stare facendo tutto il possibile per proteggerti.
In realtà sei nudo sotto un fuoco incrociato di domande sempre più pressanti.
Tom, alle domande su suo fratello, risponde né più né meno che come un innamorato. E lui lo sa.
Bill ha cominciato ad accorgersene, finalmente.
Noialtri… all’inizio l’abbiamo presa perfino con un certo orgoglio. “Guarda come l’abbiamo istruito bene. Guarda con che scioltezza risponde. Guarda che bel lavoro sta facendo. Guarda come s’ingrazia le fangirl”. C’era davvero di che essere orgogliosi.
Però, chiaramente, quando abbiamo visto che continuava a ripetere le stesse identiche cose pure in privato, abbiamo cominciato a nutrire seri dubbi sull’artificiosità di quanto aveva detto – nonché diversi altri dubbi su quanto avesse appreso dai nostri insegnamenti, ovviamente.
A lungo andare, l’ha capito pure Bill. Bill che, per contro, continua a non capire un accidenti di se stesso. O forse io sbaglio, vedo cose che non esistono e traggo conclusioni affrettate dal poco che conosco.
Ma, sinceramente, ne dubito.
Se mi sbagliassi, ovviamente, Bill non scapperebbe costantemente di casa per evitare proprio quella rivelazione lì. Quella che cambierebbe le vite di tutti.
Se mi sbagliassi – se non fosse esattamente come penso – Bill non avrebbe scelto Bushido nel disperato tentativo di porre Tom di fronte ad una sfida insostenibile – “non vorrai davvero cominciare ad odiare me, che sono tuo fratello, e lui, che è uno degli artisti che rispetti di più in assoluto?” – nella speranza di tenerlo a bada ancora per un po’ – fallendo miseramente, ma non poteva sospettarlo.
Se mi sbagliassi, nessuno dei drammi che ho già prefigurato così chiaramente nella mia testa avrà mai luogo, e Bill sarà autorizzato a darmi del cretino senza aspettarsi rappresaglie punitive, quando glielo racconterò.
Il punto, però, è un po’ diverso.
Il punto è che, se io mi sbagliassi, non si spiegherebbe un accidenti di ciò che sta succedendo.
Tom, a volte, picchia suo fratello. Io capisco perché lo fa. Bill dice di no, ma mente. Tom fa così, prende e gli tira un pugno. È la furia repressa, la gelosia, il senso di mancanza che avanza rispetto al senso di un’appartenenza che si sfalda giorno dopo giorno. Vedo arrivare Bill a notte fonda con certi lividi che fanno paura. E, se io mi sbagliassi, questa rabbia non avrebbe senso. Queste fughe notturne da un lato all’altro dalla città, queste fughe che si concludono qui, nel mio letto, a piangere sul cotone bianco finissimo, non avrebbero senso. Bushido non avrebbe senso – non avrebbe il minimo senso, davvero.
Ho provato a chiederlo a Bill. Ho provato a capire se se ne rendesse conto.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con tuo fratello?”, e lui ha risposto “mi fa male”.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con Bushido?”, e lui mi ha risposto che quando stanno insieme si sente al sicuro.
Lui forse non lo capisce. Lui forse si rifiuta di capirlo.
Io non ho rifiutato mai niente. Io capisco tutto sempre troppo bene. Troppo, troppo bene. Tanto bene che a volte rinuncerei volentieri al privilegio.
Il punto è che a scappare all’infinito non perdi niente. Bill tiene fra le mani Bushido – che s’è ritrovato letteralmente addosso un’anima da salvare. Scommetto che dev’essere dura, durissima – e tiene sulla corda suo fratello. Tom sta impazzendo e Bushido sta perdendo la testa.
Bill non ha nessuna colpa, di tutto questo.
Non ha neanche fatto niente per fermarlo, però.
E questo è un dannato problema. Per tutti.
- Bill. Adesso dovresti proprio andare a letto.
Bill si morde un labbro e stringe ancora di più le ginocchia al petto.
- Posso restare a dormire qui…?
- Stai già restando a dormire qui.
Scuote il capo.
- No, dico… qui. Sul divano. Dico con te.
Sospiro.
A quanti altri sarebbe capace di aggrapparsi pur di sfuggire all’amore della persona che ama?
- Vai a dormire. Nel letto ci sono le lenzuola che ti piacciono tanto.
*
I Kaulitz sono sempre stati strani.
I Kaulitz sono sempre stati anche un po’ stronzi, devo dire.
Quando sei come Bill e Tom – quando, cioè, hai un te stesso che ti completa in tutto e per tutto – è facile rinchiuderti in una sorta di bolla in cui, oltre all’altra metà di te, non esiste nient’altro. Perciò tutto il resto perde importanza. Tutto il resto non conta. Tutto il resto – pure se è un manager chiaramente in apprensione che cerca da una mattina di capire che diavolo di fine abbiano fatto il suo cantante ed il suo chitarrista – è zero.
Stamattina, Tom mi ha fatto lo scherzetto. Sinceramente me lo aspettavo: la serata di ieri minacciava di essere stata ben più scombinata rispetto a quanto riuscissi ad immaginare – e Bill era davvero troppo troppo triste per non denunciare qualcosa di veramente grave. Sapevo che Tom non si sarebbe sprecato a muovere il culo e venire a lavorare, così come sapevo con certezza che nemmeno Bill l’avrebbe fatto, a meno di tirarlo giù dal letto con la forza e spedirlo in bagno a calci.
Chiaramente, Bill ha passato l’intera mattinata a mordicchiarsi le labbra e telefonare a Bushido. Con la furia del pazzo, davvero. Neanche le labbra fossero Tom stesso e Bushido l’unico che sapesse dove trovarlo.
Tom non ha risposto al cellulare. Non ha risposto a casa. Non ha risposto e basta.
Alle undici e mezzo, Bill ha recuperato la borsa ed ha detto che andava a controllare, senza neanche salutare. È andato da solo. Per la verità avrebbe dovuto chiedere il permesso – o chiedermi di seguirlo – ma non l’ha fatto – nessuna delle due cose – e m’è sembrato assurdo insistere di fronte alla palese realtà per la quale voleva e doveva andare da solo.
Non s’è più fatto sentire, da allora.
Verso l’una ho detto a Georg e Gustav di prendersi il resto della giornata libera. Dubbiosi, loro hanno obbedito, se non altro perché sapevano non ci fosse altro da fare.
Adesso, alle due meno un quarto, io guardo Dave, Dave guarda me e poi sospiriamo in sincrono. Lo facciamo come se fossimo abituati ad assurdità di questo tipo, ma in realtà è una maschera che ci siamo costruiti addosso nell’eventualità che scene simili si fossero davvero realizzate. Cosa che non era mai successa, fino ad ora.
Prendo le chiavi dell’Audi e mi fiondo verso l’ascensore, macino metri di moquette, divoro la strada, arrivo di fronte casa dei gemelli, annullo le distanze spaziali ed in due secondi sono davanti alla porta dell’appartamento. Suono, nessuno risponde. Tiro fuori il mazzo cumulativo dalla tasca del giubbotto. Cerco il doppio delle chiavi. Ce l’ho? Ce l’ho. Apro.
Bill è seduto sul divano.
Inequivocabilmente solo. Inequivocabilmente immobile. Inequivocabilmente disperato.
Mi avvicino, guardandomi intorno con aria smarrita.
- Bill… dov’è Tom?
Fa spallucce.
- Bill?
- Non c’era. Non lo so. Se n’è andato.
Annuisco.
Potrebbe essere una cosa momentanea. Potrebbe essere uscito a comprare le sigarette – solo? Senza Saki, David? Quanto lo ritieni stupido? – potrebbe tornare da un momento all’altro. Magari mi sono davvero sbagliato, ho montato un casino sul nulla ed in realtà non è successo niente. Magari torna.
- Ha lasciato un biglietto?
Tremo, nel chiederlo. Tremo perché in realtà i gemelli sono sempre stati pure un po’ melodrammatici, nelle loro manifestazioni, e quindi non mi stupirebbe – non mi stupirebbe affatto – una bella lettera d’addio con tanto di confessione finale.
Bill, però, scuote il capo.
- No. – risponde con una voce talmente lontana e spaventosa da non sembrare neanche la sua.
Mi siedo al suo fianco e gli poggio una mano sulla spalla. Non so se per consolarlo o per avere una prova della sua presenza fisica accanto a me. Non è importante. Bill serra le labbra e sopprime un singhiozzo, ma non dice una parola di più.
Siccome capisco sempre tutto troppo bene – accidenti a me – capisco anche questa volta. Bill si sta pentendo non so quanto – non lo sa neanche lui, temo – di tutte le fughe ed i litigi degli ultimi mesi. Si sta pentendo di essere sfuggito alla confessione di Tom, così come di averne ignorati uno dopo l’altro tutti i segnali. Si sta pentendo di non aver reagito alle botte e si sta pentendo di essersi nascosto fra le braccia di un uomo che, poverino, non ha la minima idea della cosa dalla quale Bill lo accusa di proteggerlo – o almeno credo. Si sta pentendo di essere venuto a dormire da me. Invece di tornare qui. Da Tom. Che voleva solo sentirgli dire “Va bene, Tomi. Dimmelo. Lo accetterò comunque. Ti accetterò comunque”.
Tom, dal canto proprio, è stato gentilissimo. Bill non voleva sentire la sua confessione? Ebbene, non l’ha sentita. Né ad alta voce né affidata alle premure di un foglio troppo scarno per contenere davvero tutto ciò che la motivava.
Io lo so cosa si sta dicendo Bill in questo momento. Si sta ripetendo in una cantilena parole che ha scritto da sé. Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello. Era anche quella una confessione, anche se con intenti tutti diversi. Quando l’hai scritta, te lo aspettavi? Lo sapevi già? Lo sospettavi, almeno?
Bill, ancora al mio fianco, si accartoccia su se stesso come fa sempre quando il peso della situazione che sta vivendo sembra del tutto insostenibile ed ingiusto. Stavolta – rispetto alle mille volte in cui l’ha fatto per capriccio – non ha nemmeno torto. Mi chino su di lui e cerco di abbracciarlo. Non è facile, perché lui non vuole essere abbracciato.
- C’è qualcosa che posso fare? – chiedo, quando il senso di colpa torna a pungere fortissimo sotto le ciglia.
Bill scuote il capo. Poi si ferma e dischiude le labbra.
- Voglio vedere Anis. – bisbiglia confusamente, - Però non voglio chiedergli di venire. Lo chiami tu per me?
Per un attimo, non so che fare. Vorrei sinceramente rispondere “non mi pare la soluzione migliore, Bill”. Poi, però, cambio idea. Bill è scappato fino ad adesso, anche se non era giusto lo facesse. Adesso che, però, anche Tom s’è deciso per la fuga, a Bill non si può proprio più togliere il diritto di niente.
Se vuole scappare in eterno, che lo faccia.
Se vuole provare a rialzarsi dalle proprie macerie, io lo aiuterò.
Se vuole dare a tutti noi una possibilità per cercare di risolvere questa situazione, io sono d’accordo.
Lentamente, allungo un braccio verso il tavolo. Recupero il cellulare. Cerco in rubrica il numero di Bushido.
- Pronto? – risponde lui, un po’ incerto.
- …salve. – deglutisco io, dopo un attimo di confusione. Non so mai come parlare, quando si tratta di lui. – C’è un problema… - lo informo vagamente, - Potresti venire qui a casa di Bill?
Lui non focalizza immediatamente. Di sicuro ha trovato strano che io mi riferissi a questo appartamento come “casa di Bill”. Lo capisco, l’ho trovato strano anche io. L’ha trovato strano anche Bill, che ora si raggomitola contro il mio fianco e comincia a piangere nel modo silenzioso e disperato dei dolori assoluti, stringendo un lembo della mia maglietta come avesse paura di scivolare giù dal divano.
Bushido lo sente.
- Arrivo fra dieci minuti. – mi informa spiccio, prima di chiudere la conversazione.
Poso il cellulare e mi volto verso Bill – adesso sì, adesso vuole essere abbracciato; tende le braccia, singhiozza pesantemente… adesso vuole un abbraccio.
Lo accontento. Lo so che non sono quello che vuole. Né quello che gli serve.
Al momento, però, non è importante.
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