Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Violence, Language.
- "È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa."
Note: *brilla* Okay, io palesemente mi farò prendere per sempre da questa storia e non riuscirò più ad uscirne, perché me ne sono innamorata. Dunque, saranno almeno cinque o sei mesi che plotto questo breve prequel di EKR. Che poi, breve: si tratterà comunque di dodici shot che ripercorreranno il rapporto fra Anis e Patrick prima dell’inizio della Saga, dalla loro adolescenza (di cui avete potuto osservare l’inizio proprio in questa shot XD È a questo che ho riferito il tema “green”, intendendolo nel suo significato metaforico di giovane, immaturo) fino a quell’ultimo incontro di cui si accenna in I Will, e nel quale i due decidono una breve tregua prima di scontrarsi a coltellate *annuisce*
Non ho moltissimo da dire, a parte che ho adorato scrivere questa storia e che no, non è ripresa dalla biografia di Bushido, anche perché non conosco il tedesco e lui si ostina a non volersi espandere oltralpe, quindi non l’ho letta XD Questo è quello che immagino io di loro due, mi piacciono e tanto mi basta. Non siete d’accordo, me ne frego abbondantemente *annuisce di nuovo*
Ah, il titolo XD viene da un film bellissimo con Denzel Washington ed Ethan Hawke. Se non l’avete visto, dovete tutti. Io lo amo oltremodo. E con questo saluto XD
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Violence, Language.
- "È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa."
Note: *brilla* Okay, io palesemente mi farò prendere per sempre da questa storia e non riuscirò più ad uscirne, perché me ne sono innamorata. Dunque, saranno almeno cinque o sei mesi che plotto questo breve prequel di EKR. Che poi, breve: si tratterà comunque di dodici shot che ripercorreranno il rapporto fra Anis e Patrick prima dell’inizio della Saga, dalla loro adolescenza (di cui avete potuto osservare l’inizio proprio in questa shot XD È a questo che ho riferito il tema “green”, intendendolo nel suo significato metaforico di giovane, immaturo) fino a quell’ultimo incontro di cui si accenna in I Will, e nel quale i due decidono una breve tregua prima di scontrarsi a coltellate *annuisce*
Non ho moltissimo da dire, a parte che ho adorato scrivere questa storia e che no, non è ripresa dalla biografia di Bushido, anche perché non conosco il tedesco e lui si ostina a non volersi espandere oltralpe, quindi non l’ho letta XD Questo è quello che immagino io di loro due, mi piacciono e tanto mi basta. Non siete d’accordo, me ne frego abbondantemente *annuisce di nuovo*
Ah, il titolo XD viene da un film bellissimo con Denzel Washington ed Ethan Hawke. Se non l’avete visto, dovete tutti. Io lo amo oltremodo. E con questo saluto XD
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Training Day
#3 Green
Lo stronzo mi ha detto “aspetta qui”, e si è volatilizzato. Questo, tipo, mezz’ora fa. Ora, non so se tutti questi pezzi di merda hanno una vita, non so se le loro cazzo di giornate le passino tutto il tempo qui, ma io una vita decisamente ce l’ho e non ho neanche un cazzo di tempo da perdere. Ho da fare, ho degli appuntamenti, devo consegnare della roba entro le cinque e sono già le fottute quattro e venti. Porca troia, ma avere un po’ di rispetto per il lavoro degli altri no, eh?
Comunque, già che sono qui e non ho un cazzo da fare, tanto vale che mi metta seduto e passi un po’ il tempo in maniera proficua. Dunque, Ari mi ha pagato la percentuale delle consegne del mese scorso, ma mi sa che ha fatto qualche cazzata stronza delle sue, come al solito, perché non mi tornano i conti. Ari è uno a posto ma non ha ancora capito che il fatto che ho diciotto anni non mi impedirebbe di piantargli un coltello nella pancia. Meglio metterle in chiaro, certe cose. Dovrò parlargli. E comunque non esiste che io rischi le palle andando a litigare con gente armata solo perché lui ha deciso di cambiare la tariffa, ha “dimenticato” di dirlo ai clienti e quelli ora si rifiutano di pagare tutto per bene. Cioè, ok, se vuoi ci vado, a litigare, se vuoi te li lascio pure in terra con pochissima volta di continuare a fare i coglioni che cavillano sui prezzi, ma dammi un po’ di supporto, amico, cioè, dammi della gente, i soldi sufficienti, una pistola, cazzo.
Nel mentre il tizio dei servizi sociali è ancora sparito e io mi ridisegno in testa Berlino raggiungendo l’unica conclusione possibile, cioè che non riuscirò mai, neanche volando, ad essere dove devo in tempo per la consegna. Arafat mi farà un culo così, stasera, c’avrà pure ragione, io non potrò pretendere niente e non potrò nemmeno fargli il famoso discorsetto sul pagarmi di più e meglio perché è pure stata colpa mia, che sono stato un cazzone, se mi hanno beccato. Questa cosa mi dà sui nervi. Da oggi in poi, basta cazzate.
Tiro su un piede sulla sedia ed ecco che lo vedo, finalmente, lo stronzo. Non è solo, comunque, sta lì che mi indica e accanto a lui c’è questo ragazzino che dovrà avere tipo quattordici anni, che ne so, si sente la puzza di latte da qui. Dio, spero proprio che non sia lui quello di cui mi parlava mentre io fingevo di ascoltarlo prima, perché non esiste che mi incollino al culo questo moccioso. Non c’ho il tempo di fare la balia, io, soprattutto non a un ragazzino così bianco e così biondo e con occhi così azzurri. Cos’è, c’ho scritto in faccia “sono un uomo buono pronto a prendermi cura della vostra disastrata prole tedesca”? Io me ne sbatto il cazzo della disastrata prole tedesca. Al più gli vendo della coca.
Comunque, quel figlio di puttana del tizio dei servizi sociali la pianta di indicarmi, alla buon’ora, e mi saluta con un cenno della mano, dileguandosi dopo un ghigno stronzo che mi fa pensare che non vedo l’ora di tornare qua dentro solo per fargliela pagare, e il ragazzino resta lì immobile a qualche metro ancora per un po’. Poi, finalmente, visto che io non intendo muovermi, capisce che deve tirare fuori le palle e mi si avvicina. E a me viene subito da ridere perché fa il gradasso e mi porge pure la mano. Dio mio, quanti anni avrà, cazzo, a vederlo da vicino sembra ancora più piccolo. Hai dodici anni? Perché non vai ad aiutare la nonna a finire la torta della domenica?
- Ehi. – mi fa, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Io lo guardo dall’alto in basso e sfilo lo stuzzicadenti dalla bocca, inumidendomi un po’ le labbra.
- Tu che hai fatto? – chiedo. Anche perché, se crede veramente che noi si andrà in giro per Berlino ridipingendo i muri, è veramente fuori strada.
- Eh? – ribatte lui, spalancando quegli occhi che sono azzurri in maniera veramente ridicola, e poi ha delle ciglia troppo lunghe, non fosse ben piantato com’è e indiscutibilmente piatto sembrerebbe una ragazzina. Comunque non ha davvero capito un cazzo, e lo osservo mentre lascia ricadere la mano lungo il fianco con aria un po’ sperduta. “Dio mio”, mi dico. E poi mi alzo in piedi.
È pure basso. Dico io.
- Come mai sei finito qui? – traduco. E lo vedo che gonfia il petto, orgoglioso.
- Sono un tagger. – fa. È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa. Trattengo un ghigno e non mi scompongo più di tanto.
- E basta? – chiedo. E lo vedo che rabbrividisce tutto. Devo assolutamente cercare di non ridere, ma la cosa in sé è troppo divertente. Mi sa che me lo trascino dietro per la consegna.
- Cioè… - balbetta lui, spostando a disagio il peso da un piede all’altro, - Oh, questo faccio io. ‘Sticazzi.
E basta, a questo punto rido perché, voglio dire, guardatelo. Secondo me a dodici anni neanche ci arriva.
- Senti un po’, ragazzino-
- Mi chiamo Patrick! – precisa lui, stringendo le mani attorno al manico del barattolo di vernice bianca che gli hanno già consegnato, - Cerca di ricordartelo.
Io ghigno.
- D’accordo, ragazzino. – insisto, - Hai da fare, questo pomeriggio?
Lui mi rifila un’occhiata stranita e solleva a mezz’aria il barattolo. Io rido ancora e lui aggrotta le sopracciglia.
- Ma sai ridere e basta? – borbotta, ed è talmente pallido che gli posso vedere addosso l’imbarazzo, sulle guance lievemente arrossate. Sorrido: ci sono abituato, la mia risata ha un effetti simile su tutti. Be’, su tutte le ragazzine, almeno. Il fatto che lui sia un ragazzino non mi stupisce come dovrebbe forse, ma alla fine mi dico, oh, è talmente biondo e ha gli occhioni talmente grandi ed è ancora talmente piccino che penso possa permettersi di passare per ragazzina, almeno per i prossimi minuti. Quando comincerò a portarmelo in giro, vedremo.
- Andiamo. – gli dico, afferrandolo senza delicatezza per un braccio e cominciando a tirarlo verso l’uscita senza neanche preoccuparmi di passare a recuperare i rulli prima di rimettermi per strada, - Così te lo faccio vedere, cos’altro so fare.
- Ma non dovremmo- - prova a fermarmi lui, ed io mi fermo – lì in mezzo al marciapiedi dove sono – e lo guardo negli occhi, sempre stringendogli il braccio. Ha su una maglietta nera senza maniche e lo sto stringendo talmente forte che, sotto la pressione, la sua pelle si è arrossata subito. E comunque anche le sue braccia sono troppo bianche. Il contrasto con i miei colori è quasi divertente. Ma che ci hanno messo a combinare insieme? Chissà dove vive, poi, questo ragazzino. Dovrò riportarcelo, a casa, stasera.
- Ascoltami bene, Patrick. – lui sembra stupito dal fatto che mi ricordi il suo nome. Vorrei dargli una bottarella sulla fronte, tipo. Ragazzino, non è che se insisto a ignorarti vuol dire che non ti ho nemmeno ascoltato. Vuol dire che ti ho ascoltato e me ne frego. – Ti spiego come funziona. – e lui resta lì con gli occhi spalancati, le labbra dischiuse e quel barattolo ancora in mano. E mi ascolta. – Io sono un uomo molto impegnato. Ci sei?
Lui annuisce lentamente, lo sguardo un po’ perso.
- Bene. – annuisco anch’io, - Ora, lo so che dovremmo andare ridipingendo e tutto, ma seriamente, io ho di meglio da fare e sono già in ritardo, e tu dubito che provi tutto questo piacere all’idea di andare cancellando le tue opere d’arte in giro per Berlino, perciò-
- Veramente – mi interrompe lui, grattandosi una guancia, - io tipo pensavo che fosse un buon modo per ricominciare, nel senso, non è che taggo da molto ed ho fatto più che altro merdate, e il tizio con cui taggavo prima, va be’, lasciamo perdere, e comunque-
- Ragazzino! – lo fermo.
- Patrick! – mi ricorda lui.
- Sì, naturalmente. – annuisco io, - Ti avevo detto di seguirmi. Stai zitto e mi segui fino a quando non ti dico che puoi parlare?
- Ehi- - comincia lui, sul piede di guerra, ed io, annoiato, gli pianto una mano sulla bocca e roteo gli occhi.
- Cosa esattamente ti è incomprensibile del concetto “non ho tempo da perdere”, ragazzino? – lui mugugna qualcosa contro il mio palmo e io stringo più forte. – Ascoltami e basta, adesso. Io devo essere dall’altra parte di Berlino entro… - sollevo un polso e guardo l’orologio, - dieci minuti. Quindi ora prendiamo la macchina e tu la pianti di fare storie, okay?
Lo lascio andare così che possa rispondere, e lui, naturalmente, protesta.
- Ma io- - comincia, ed io lascio andare un mugolio sofferente e torno a tappargli la bocca.
- Ragazzino. Tu ti lagni troppo. – gli faccio notare. Lui aggrotta le sopracciglia, ma non si agita più. – Allora? Ce la diamo una mossa?
Quando lo lascio andare di nuovo, lui non protesta. Quando mi muovo verso lo scassone che Ari mi ha dato in affidamento per le consegne, mi segue. Continua a trascinarsi dietro il barattolo, però, neanche fosse convinto di poterlo riutilizzare più tardi. Bah, contento lui.
Sono già in ritardo di dieci minuti. Arafat mi farà il culo.
Il ragazzino non ha detto una singola parola, da quando ci siamo infilati in macchina. È rimasto lì seduto, fermo come un pezzo di legno e ugualmente socievole, tra l’altro. Dico io, non ti voglio mica pestare. Sto anche cercando di fare il gentile. Se faccio una battuta e fischio al finestrino una puttanella con la gonna troppo corta, magari fischia anche tu. O ridi, o chessò io, non stare lì immobile ad abbracciare il barattolo della vernice neanche fosse un fottuto peluche.
Comunque, quando arriviamo gli dico di non muoversi e aspettarmi lì, scendo di volata e recupero il carico – tre chili, cazzo, stasera ci si diverte, la percentuale sarà bella altina per il rischio e tutto – cercando di ignorare le urla isteriche di Arafat che mi ricorda che sono un buono a niente e che comunque le venti ore di servizio civile dovrò farle, o mi rompe il culo prima lui e poi tutti gli altri amici suoi, e quando torno in macchina il ragazzino è effettivamente ancora lì, anche se s’è messo più a suo agio, ha steso la schiena contro il sedile ed ha sollevato un piede, incastrandolo sul cruscotto per stare – suppongo – più comodo. Presto, o almeno mi auguro sia così per lui, crescerà, e così non potrà più starci, perciò lo lascio fare, e mi rimetto accanto a lui, al volante.
- Non ti sei ancora liberato di quel barattolo? – chiedo, rimettendo in moto il catorcio e tirandogli in grembo lo zaino pieno di roba. Lui se lo sistema addosso senza neanche chiedere cosa ci sia dentro, e scrolla le spalle.
- Senti… - chiede invece, vagamente intimorito. Ed io lo so che è intimorito, anche se lui guarda fuori dal finestrino e fa il muso duro per cercare di non farmelo capire. - …dov’è che stiamo andando?
- Consegna. – rispondo io, - L’indirizzo è meglio che tu non lo sappia, e cerca di dimenticare le strade, anche. Tanto, appena finiamo le venti ore, non mi vedrai più nemmeno da lontano e tornerai alla tua bella casetta in… dov’è che stai? In centro?
Lui mi lancia un’occhiata incerta, inarcando un sopracciglio.
- Guarda che sto a Tempelhof pure io. – risponde candido, - Che pensavi?
Io lo guardo e, ovviamente, non gli do un centesimo.
- Tu? – chiedo, - E sei ancora vivo?
Lui incrocia le braccia sul petto, sopra il barattolo ed anche sopra lo zaino che non so se ha capito essere pieno di droga.
- Guarda che me la cavo benone, io. – mi fa, tutto preso, - Sono sempre stato abituato a fare le cose per i fatti miei.
- Sempre? – rido io, svoltando a destra, - Quanti anni puoi avere, dodici? Da quanto stai per strada, due mesi? E sei già finito dentro.
- Io ho quattordici anni! – quasi urla lui, mettendo giù il piede, - Che cazzo, non starò qui a farmi prendere per il culo da uno che non so nemmeno come cazzo si chiami!
- Ehi, ehi, frena! – rido io, - Rispetto per i quattordici anni, alla tua età io già spacciavo. Dovrai darti una mossa, mi sa che sei in ritardo sul programma. – lui mi guarda senza capire un accidenti di quello che sto dicendo, ed io gli indico lo zaino con un cenno del mento. – Aprilo.
Lui inarca un sopracciglio e sfibbia la cinghietta, sbirciando all’interno. Quando risolleva il viso, ha gli occhi ancora più enormi di quanto non fossero già prima.
- Ma è-
- Cocaina purissima. – annuisco io, - La migliore qui a Berlino e probabilmente anche in tutto il resto della Germania. – illustro con un certo orgoglio, - Tre chili. Con questi, io e te stasera ci si sbronza.
- …ci sbronzeremo con la cocaina?
Rido e gli tiro uno scappellotto dietro la nuca. Lui risponde con un “ahi” appena mugolato, massaggiandosi piano il punto arrossato e dolorante.
- Coi soldi del ricavo, ragazzino. Sveglia!
- …ah. – annuisce lui, e pare che si prenda un po’ di tempo per assimilare il concetto, tipo. Cioè, non lo so, Fissa per bene lo zaino e il suo contenuto ed annuisce piano, inumidendosi appena le labbra ed aggrottando un po’ le sopracciglia. – E lo fai spesso? – chiede poi.
- È il mio lavoro. – rispondo io con naturalezza, - Non è il miglior lavoro del mondo, ma passo il tempo, mi faccio un nome e guadagno bene. Le tre cose fondamentali nella vita di un uomo.
Lui ride a bassa voce, richiudendo lo zaino.
- Mangiare, dormire, scopare?
- Mangiare è per i deboli, dormire per gli sfigati. Sullo scopare te lo concedo, ma non è una priorità, ragazzino. Le scopate sono i premi per il tuo duro lavoro, non roba che ti piove dal cielo. Se le puttane ti piovono dal cielo e tu non te le sei guadagnate, allora sono puttane di scarso valore.
Lui annuisce ancora e resta buono, tranquillo e in silenzio per tutto il resto del tragitto in macchina. Mi muovo a mio agio fra le strade di Berlino e smetto di dare importanza alla sua presenza al mio fianco. Mi ci abituo, per così dire. Il ragazzino è discreto e silenzioso, e mentre posteggio sotto casa del cliente penso che sarebbe una buona spalla, anche se è strano forte – guarda come si stringe ancora a quel barattolo, Dio mio. Ragazzino, non ci andiamo a ridipingere Berlino. Gettalo via, quell’inutile coso.
- Resta qui, okay? – faccio, uscendo dalla macchina e poi piegandomi per affacciarmi all’interno e guardarlo negli occhi, recuperando lo zaino direttamente dal suo grembo, - Questione di due minuti. Poi ci andiamo a divertire. – lui non annuisce né muove un qualsiasi altro muscolo, in realtà nemmeno sorride; si limita a continuare a fissarmi come se mi stesse studiando. Non hai niente da studiare, ragazzino, non mi capisci mica se non mi lascio capire io. – E non fare quella faccia. – lo prendo in giro, - Dai che oggi anche tu hai lavorato. Vediamo se possiamo farti piovere da cielo una puttana meritata. – e rido, e fingo di ignorare il rossore indecente che gli ha colorato le guance e l’ha obbligato e distogliere lo sguardo e borbottare un assenso a caso, mentre sistemo lo zaino in spalla e mi muovo verso il citofono.
Mentre avanzo, specchiandomi nella porta a vetri del palazzo, sulla quale mi ritrovo a cercare il riflesso azzurro e un po’ confuso degli occhioni del ragazzino, annuso l’aria e cerco di sentire le vibrazioni del posto. Il quartiere è bello. Il cliente è nuovo. Potrebbe essere un figlio di papà che non sa come spendere i soldi del compleanno, o potrebbe anche essere una vecchia checca che la coca la userà sui figli di papà di cui sopra, per rintontirli prima di poter mettere le mani su qualche bel culetto pallido e vergine. Scrollo le spalle – l’aria è tranquilla – controllo il nome sul citofono e schiaccio il pulsante.
- Sì? – è un ragazzino.
- La pizza. – rispondo tranquillamente.
- Primo piano. – mi dice quello, e apre il portone. Io mi volto appena a far cenno al ragazzino di non muoversi. Lui nemmeno risponde – sembra quasi che voglia dirmi “certo che non mi muovo, non so nemmeno dove sono, ‘cazzo precisi a fare?”, e devo dire che mi piace, quest’atteggiamento. È uno cui servono poche parole per afferrare i concetti. E bravo il ragazzino.
Comunque, salgo al primo piano e mi compiaccio, perché Ari i clienti li sceglie un po’ alla cazzo di cane – nel senso che è uno che non fa distinzione fra stronzi e gente onesta, è per questo che, in un modo o nell’altro, mi ritrovo sempre in mezzo ai casini – però stavolta pare essergli andata bene. Il palazzo è bello, un sacco pulito, e c’ha i pavimenti in marmo misto, con tutti gli zerbini con sopra scritto “welcome” fuori dalle porte, e sono belle cose da vedere, quando vivi in una topaia per tutto il resto del tempo. Cioè, io non sono invidioso di questa gente, tanto lo so che prima o poi sguazzerò nell’oro, perciò mi fa piacere venire a lavorare in un posto tranquillo, tanto per cambiare.
Il tizio che mi aspetta sulla porta avrà diciassette anni, più o meno, e sta lì tutto impettito con le sopracciglia corrucciate e i lineamenti tesi. Rido.
- Tranquillo, amico, io do a te quello che vuoi, tu dai a me quello che voglio e non succederà niente di spiacevole. – lo prendo in giro. Lui mi lancia un’occhiata infuriata ed infila le mani nella tasca posteriore dei jeans, tirandone fuori il portafogli.
- Fai meno lo spiritoso, arabo. – mi risponde, e io stringo un po’ i pugni attorno allo zainetto ma non scatto e non gli do il cazzotto che merita, perché Arafat lo dice sempre: “la buttano sul colore della tua pelle per farti sentire fuori posto, ragazzo, ma tu sei nato a Bonn!”, e quando lo dice lui, ridendo in quel modo, non posso fare a meno di riderci su anch’io. Arafat è uno stronzo ma è uno stronzo cazzuto, se capite cosa intendo. Cioè, è uno stronzo che vale la pena di seguire.
Comunque, niente, non gli salto al collo e recupero i pacchetti con la droga dentro, lui mi passa i soldi, io li conto e ovviamente tutto quello che ho appena detto di Arafat fino ad ora va a farsi fottere perché i soldi sono meno di quanto dovrebbero essere e coincidono più o meno col prezzo che avrebbe avuto la stessa quantità di droga prima del rincaro. Ora, magari a ‘sto stronzetto Arafat l’ha pure detto, che il prezzo era aumentato, e ora questo sta cercando di fregarmi, ma quello che dico io è che è sbagliato il metodo, non è organico. Se lo dici ad alcuni sì e ad altri no, come faccio io a capire se è vero che non ne sanno niente o stanno solo cercando di prendermi per il culo? E che cazzo. Non c’ho neanche il serramanico appresso, puttana miseria.
- Senti, amico… - comincio, grattandomi distrattamente la fronte e ricontando i soldi, per evitare casini, - Non facciamone un dramma, ma qui c’è meno di quanto dovrebbe esserci. Quindi, o mi dai il resto, o mi riprendo un po’ di roba. E allora mi fai entrare in casa, perché non posso certo mettermi a pesare cocaina qui in corridoio. E comunque mi servirà una bilancia e-
- ‘Cazzo dici? – mi interrompe quello, sempre più incazzato, - Il tizio mi ha detto questa cifra. Questo ti do.
- No, guarda, – scuoto il capo io, cercando di essere ragionevole, - non posso proprio darti ragione. Ti avranno detto male, fatto sta che io devo tornare con i soldi giusti, okay? Quindi, adesso, senza creare problemi… - e lì capisco che i problemi li ho solo io, perché alle spalle del tipo spuntano altri due tipi che potranno avere più o meno la sua età o forse anche un po’ più grandi ma che comunque non rientrano nella cerchia di gente con la quale mi metterei a litigare, essendo due armadi. Sospiro pesantemente. – Amico, che razza di atteggiamento. – borbotto annoiato, - Ti ho forse alzato addosso un dito? Non mi pare il caso di metterla così sul piano fisico, siamo uomini di mondo.
- Tu adesso ti levi dai coglioni. – mi dice lui, ed io rido, facendo scricchiolare le ossa delle mani. A me non me lo dici, di andare fuori dai coglioni.
- Non posso proprio. – gli faccio notare. E poi mi chiedo se non sto per caso cercando di suicidarmi, perché i due tizi dietro non sembrano granché intenzionati a parlare, ed anzi, uno infila una mano in una tasca e quello che succede dopo lo vedo scorrere davanti agli occhi come al rallentatore. Sarebbe un’esperienza divertente, non fosse anche completamente assurda: il tizio tira fuori la mano, io scorgo la lama che luccica appena nella luce al neon che avvolge il corridoio, e poi un enorme barattolo di vernice bianca mi passa a due centimetri dalla testa, va a schiantarsi contro la fronte del tipo e il coltellino vola a due metri da noi. E poi è il silenzio per una quantità di secondi enorme.
Mi volto, il ragazzino è lì che fissa me – ha appena spaccato la testa di un cristiano con un barattolo di vernice e fissa me – con quegli occhioni spalancati e il fiato un po’ corto.
- Ragazzino?! – chiedo, vagamente isterico. Dico io, la stavo gestendo più che bene. I ragazzini ti complicano sempre l’esistenza.
- Ci stavi mettendo troppo! – si giustifica lui, rigidissimo.
È tutto quello che riusciamo a dirci, perché l’altro armadio – quello che non ha la testa spaccata in due e non sta rantolando per terra cercando di tamponare l’enorme ferita che ha sulla fronte per non morire dissanguato – si risveglia dal momento di confusione ed esala un “figlio di puttana” che non so bene se sia riferito a me o al ragazzino, ma in ogni caso al momento non è importante. Faccio l’unica cosa saggia da fare in queste situazioni: strappo i pacchetti di roba dalle mani dello stronzetto, li rimetto a posto nello zaino, lo infilo in spalla, afferro il ragazzino per un braccio e mi metto a correre.
Lui biascica un “cosa…?” incerto, mentre cerca di adeguare il passo al mio, ed io lo zittisco stringendo la presa sul braccio.
- Dopo. – taglio corto, - Ora vola. – e lui si limita ad annuire ed obbedire. Meno di mezz’ora dopo siamo già da Arafat, il quale mi accoglie gelido e pure un po’ incazzato.
- Hai uno zainetto troppo pesante e il portafogli, immagino, troppo leggero, Sonny. – mi fa notare. Io mollo il ragazzino lì sulla soglia e lo raggiungo al tavolo della kebaberia che gli fa praticamente da ufficio, scosto il piatto di kebab e gli lascio lo zaino davanti agli occhi. Poi ficco le mani in tasca e tiro fuori anche i soldi.
- Mi hai mandato da una testa di cazzo con due coglioni a fare da supporto, Ari. – mi lamento, posando anche le banconote accanto allo zaino.
Lui le guarda con sufficienza e nemmeno le tocca.
- Un cazzo e due coglioni, direi che quanto ad anatomia ci siamo. – annuisce, - Che è successo, Anis?
- È successo che mi sono rotto le palle di avere a che fare con i tuoi clienti del cazzo, Arafat! – urlo, battendo un pugno sulla superficie di legno, - Se mi ascoltassi-
- Se tu non puzzassi ancora di latte, - mi interrompe lui, - ti ascolterei. Visto che sei un poppante, ti ignoro, com’è giusto.
- Piantala. – ringhio io, - Il ragazzino lì ha dovuto spaccare la testa ad uno dei due coglioni con un fottuto barattolo di vernice, o mi avrebbero pestato a sangue! – che poi è vero. In una situazione normale non l’avrei mai detto, ma mi girano le palle a livelli disumani quando Ari mi tratta da ragazzino, perciò urlo e sbraito e gesticolo indicando il ragazzino in fondo alla stanza e vedo che tutti improvvisamente perdono interesse nella mia persona e si voltano a guardare lui.
Mi volto anch’io, e vedo che lui si fa minuscolo in un angolo. Bianco e biondo e coi boccoli e tutto il resto e Dio mio, siamo in una kebaberia piena di tunisini.
- Chi è? – chiede Arafat, inarcando un sopracciglio. Io scrollo le spalle e cerco di fare il disinvolto.
- È il tipo con cui devo lavorare per i servizi sociali. – spiego, - Patrick.
- Patrick. – Arafat ripete il suo nome lasciandolo scivolare lentamente fuori dalle labbra, come per immagazzinare meglio l’informazione. Poi sorride e si alza in piedi, andandogli incontro, - Ciao, Patrick. – dice, porgendogli una mano. Il ragazzino la guarda e poi la stringe con aria intimorita, ma siccome ha le sopracciglia aggrottate nel tentativo di risultare minaccioso il risultato finale è molto ridicolo. E infatti ridacchiano quasi tutti. – Cos’è che hai fatto con questo barattolo di vernice?
Il ragazzino si stringe nelle spalle e guarda altrove.
- L’ho usato nel modo migliore. – risponde. Arafat ride di gusto, gli altri a seguito, e io inarco le sopracciglia, divertito. Il ragazzino ha del talento.
Arafat si volta a guardarmi e gli tira una pacca sulla spalla tale che il ragazzino, poveretto, è costretto a fare un passo in avanti per non ruzzolare a terra.
- Tienitelo caro, Sonny. – mi consiglia, tornando al tavolo e decidendosi finalmente a contare i soldi, - Sarà pallidino, ma di sicuro non gli mancano le palle.
Io sorrido e lancio un’occhiata al ragazzino che, ora che tutti lo lasciano in pace perché Ari ha smesso di cagarlo, si sta massaggiando la spalla dolorante, borbottando fra sé.
- Sì, me ne sono accorto. – annuisco, - Quanto a quello che è successo oggi-
- Quanto a quello che è successo oggi, - mi interrompe lui, sbattendomi in mano trecento euro, - mi fai il favore di stare zitto e andarti a divertire. Manderò i miei ragazzi a chiarire la situazione con tutti i clienti, contento?
Io sbuffo e borbotto un “sì, chissenefrega” al quale Arafat risponde con un ghigno stronzo talmente insopportabile che penso che è meglio se me ne vado, così evito di farmi saltare in testa di spaccargli la faccia. Anche perché avrei la peggio.
Mi piazzo davanti al ragazzino e gli sventolo una banconota da cento sotto il naso.
- Questa è tua. – dico, e lui si allunga subito a prenderla e se la rigira fra le mani guardandola attentamente come non ne avesse mai vista una, cosa peraltro probabile ancora più che possibile, e io sorrido ancora. – Andiamo a farci un giro, ragazzino. – lo invito poi, battendogli una pacca sulla spalla, - Offro io.
Mentre ci infiliamo di nuovo in macchina, lui mi lancia delle occhiatine strane che sono quelle tipiche che lanci quando vuoi chiedere qualcosa e non sai se puoi.
- Sì? – chiedo ridendo e mettendo in modo la macchina, mentre lui si sistema col piede sul cruscotto – molto più comodo di prima, visto che non ha più l’ingombro del barattolo.
Il ragazzino non si fa pregare, per sputare il rospo.
- Ma tu come cazzo ti chiami? – chiede, sinceramente incuriosito, e io rido ancora. – Fra Sonny e A… A… quello che era, non c’ho capito niente.
- Anis. – sghignazzo, - Con la esse sibilata. Ricordatelo.
Lui annuisce, ripete “Anis” con la esse sibilata ed io so che se lo ricorderà.
È così che prende a chiamarmi, mentre continua a fare domande. Chi era quello grosso che quasi gli scardinava una spalla, chi erano gli altri, ‘cazzo c’era in quel piatto, e così via. Una specie di macchinetta, non lo ferma più nessuno e in realtà non ho veramente voglia di fermarlo. È incuriosito da tutto e non fatica a capire niente, mi viene dietro che è una meraviglia e come discussione non è niente male, nel senso, ne vengo fuori come una specie di mentore, mica cazzi.
Comunque parla per tutto il tempo veramente, perciò a un certo punto ci infilo entrambi in un locale, ci svacco entrambi su un divano pieno di cuscini e ci faccio – sempre ad entrambi – portare birra a litri. Non ho idea se il ragazzino si sia mai ubriacato prima di adesso, ma direi che se l’ha già fatto è meglio per lui e se invece non l’ha ancora fatto è meglio che si dia una mossa, che è già in ritardo col programma.
Quando ne usciamo non ho idea di quante ore siano passate, ma mi viene da ridere un po’ perché sono brillo e un po’ perché il ragazzino è stravolto. Ha smesso da un pezzo di dire cose sensate, ma ha continuato comunque a mormorare roba incomprensibile, e ora sta biascicando qualcosa a proposito di suo padre che è uno stronzo, e ciondola per strada, le braccia pesanti lungo i fianchi e la banconota che esce un po’ dalla tasca posteriore dei jeans. Sospiro e la ficco bene dentro, che se continua così la perde, e poi cerco di tenerlo dritto passandomi un suo braccio sopra le spalle.
- Non funziona… - mormora barcollando, - Non posso camminare sulle punte, cazzo, Anis! – si lamenta, e in effetti mi sa che sono un po’ troppo alto per portarmelo in giro così.
Comunque sia la cosa smette di avere un’importanza quando lo osservo piegarsi letteralmente in due in un angolo, appoggiandosi con una mano ben piantata contro il muro di un palazzo, per vomitare. Sospiro. Ragazzini.
- Coraggio… - lo rassicuro, passandogli lentamente una mano lungo la schiena, - Meglio fuori che dentro.
- St-Stronzo… - biascica lui fra un conato e l’altro, lamentandosi un po’.
Io rido e continuo ad accarezzarlo piano, finché non smette. Lo aiuto a tirarsi su, gli passo un fazzolettino di carta, lo osservo ripulirsi e poi mi metto di nuovo a ridere quando lui, ormai tornato in sé, mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- Avanti. – dico, tirandogli una spintarella giocosa contro la spalla, - Era il tuo battesimo del fuoco. – lui continua a guardarmi con aria disapprovante, gli occhi che brillano per le lacrime causate dai conati, ed io me lo tiro contro, scompigliandogli i capelli, - Dai, che ti riporto a casa. È stata una giornata stancante, mh?
- Per niente. – borbotta lui, - Comunque non siamo passati al tribunale per firmare il rientro, e-
Lo interrompo ridendo ancora.
- Ragazzino, tu vivi in un mondo tutto tuo. – lo prendo in giro, - Meglio se taci un po’, adesso.
E lui in silenzio ci resta, tant’è che pure le indicazioni per arrivare a casa sua me le dà solo a gesti. Ma non lo fa perché gli ho detto di stare zitto, lo fa perché è stanco e, dal modo in cui tiene un avambraccio premuto contro la fronte e dal modo in cui le labbra gli si piegano in una smorfia addolorata ogni volta che la macchina prende un fosso per strada, suppongo non stia poi tanto bene.
Quando mi dice di fermarmi, io spengo il motore e mi stendo un po’ contro il sedile, osservandolo scendere lentamente dalla macchina e fare il giro. Prima di attraversare la strada, si ferma e mi lancia un’occhiata incerta.
- Cosa? – chiedo curioso.
Lui scrolla le spalle.
- Niente. – biascica, - Allora ci si vede. – e mi volta le spalle.
Io sorrido.
- Sì… domani alle dieci al porto, sul canale.
Lui si immobilizza e si volta a guardarmi, confuso. Io sorrido ancora.
- Non vorrai mica farmi tornare fino a qui. – spiego, sporgendo un gomito fuori dal finestrino, - Ci sono un sacco di cose da fare, domani.
Lui ci mette un po’, a capire. Poi realizza. E non sorride, non si scompone, non fa una piega. Annuisce ed incassa. Il ragazzino ha davvero bisogno di sentirsi dire pochissimo.
Annuisco anch’io, compiaciuto, rimettendo in moto la macchina e muovendomi nella notte, direzione casa. Ho come l’impressione che, se voglio dividere i guadagni e continuare comunque a mettere da parte i soldi, dovrò lavorare un casino di più, da oggi in poi.