Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Questa telefonata significa più di quello che sembra e m'incazzo all'idea che mi raggiunga in un momento del genere."
Note: Questo spin-off io sognavo di scriverlo da un po’ e la cosa è evidente di fronte al fatto che non ho avuto grossi problemi esistenziali a buttare giù le cinque pagine che compongono la mia parte. L’evento ha del miracoloso, credetemi. Per quanto sia uno spin-off e per quanto sia breve (sempre 10 pagine ma in questi ultimi tempi ci siamo abituate a stordirvi con ben altri numeri *ride*) racchiude in sintesi praticamente tutta la storia e io lo amo molto per questo.
Ogni giudizio di carattere morale sul comportamento del Chakuza verrà amabilmente ignorato dalla sottoscritta… no scherzo! XD Scherzo, davvero. Se avete qualcosa da dire, ditela pure. E’ bello quando avete cose da dire.
Ah! Il file di questa storia è rimasto nominato TeLoRegaloPrenditeneCura!Bu per giorni e giorni, tanto che io lo spin-off volevo chiamarlo così ma Liz non me lo ha permesso. =P
In fine, tanto per concludere: il sito ufficiale di Eine Kugel Reicht è aggiornato e la Timeline è ora comprensiva di EXP + 10%, StaadtFeind nr.1, Collide (ma non questa X’D).
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I WILL

Ci sono dei momenti in cui Bill è bellissimo. Sono momenti molto precisi e specifici, perché Bill è generalmente bello, ma in quei determinati istanti splende. Quando è felice di vedermi, per esempio. Capita si passi settimane intere senza poter fare altro che sentirsi al telefono, e quando finalmente riusciamo a metterci le mani addosso sul suo viso si apre un sorriso così enorme che lui sembra illuminarsi tutto.
Adesso è uno di quei momenti. La stanza è immersa nella penombra del primo mattino, il sole non è ancora sorto e Bill sta dormendo al mio fianco. Non è carino e delicato come ci si aspetterebbe da uno con la sua faccia. Sta steso sul materasso, le braccia e le gambe larghissime, e dorme a bocca aperta, russando un po’. È così che finisce puntualmente per rovinarsi la voce, ogni volta si ritrova con la gola gonfia come un canotto e fa fatica perfino a parlare. È che qui siamo circondati da un terreno piuttosto ampio, somiglia un po’ all’aperta campagna, ed anche il freddo è quello dell’aperta campagna. Bill non riesce a ficcarselo in testa o, più probabilmente, non gli importa.
Mi rigiro su un fianco e pianto il gomito sul cuscino, tenendomi dritto per poterlo osservare dall’alto, e mi mordo subito un labbro. Io e Bill abbiamo un tacito accordo per il quale col suo corpo posso fare tutto ciò che voglio, ma sarebbe carino se almeno, prima di toccarlo, lo avvertissi che sto per farlo. Questo non perché Bill sia infastidito dall’idea di avere le mie mani addosso mentre dorme. No, è che Bill ha un estremo bisogno di sentirsi parte di questa coppia. Col fatto che nelle occasioni pubbliche è richiesto da lui il più religioso silenzio, Bill ha necessità di fare casino, quando siamo chiusi in casa, nel nostro mondo. E quindi vuole avere diritto di parola, se decido di toccarlo.
Bill, comunque, ci mette ore a svegliarsi. Ed in queste condizioni non posso certo aspettarlo.
Gli faccio scivolare un braccio dietro la schiena e l’altro sul ventre, stringendomelo contro. Lui non reagisce immediatamente ma, appena il suo corpo tocca il mio e ne percepisce il calore, si raggomitola sul mio petto come un gatto in cerca di coccole.
Sorrido appena, infilando una mano sotto la maglietta e scorrendo la traccia della sua spina dorsale lungo la schiena magra. Bill mi sbava un po’ sulla maglietta, mugolando scontento. “Tomi…”, borbotta, tirando un mezzo calcio al vuoto, ed io sbuffo una mezza risata e scuoto il capo. Fino a qualche mese fa, una cosa del genere mi avrebbe indisposto in maniera furiosa. Mi sarei alzato e Bill non mi avrebbe più rivisto fino a sera. Fino a qualche mese fa, un “Tomi” mugolato in questo momento sarebbe stato, più che un’offesa, il tentativo inconscio di Bill di ricordarmi che l’avevo portato via dal suo mondo. Che sì, d’accordo, lui forse aveva fatto uno sforzo per intrufolarsi nel mio, ma ero stato io a portarlo via definitivamente, stabilendo che stare con me significava anche stare solo con me.
Non lo nascondo e non me ne vergogno, so bene di quali colpe mi sono macchiato nel corso della mia vita: il rapimento di Bill rientra nell’elenco, assieme a tutto il resto, ma è una delle poche cose di cui nemmeno mi pento.
Lo bacio su una tempia e Bill si rilassa subito. Scioglie i lineamenti tesi del sonno disturbato e solleva le braccia a stringermi al collo. Il respiro profondo e quieto che gli scuote appena il petto mi conferma che sta ancora dormendo, ed io comincio apposta a muovermi piano, per non svegliarlo. Gli disegno addosso il mio nome, tutto per esteso, lungo il fianco. È da un po’ che parliamo di questo fianco, Bill vuole assolutamente scriverci su qualcosa ed è da quando me l’ha detto che non faccio che ripetergli che ho un nome abbastanza lungo da starci per esteso, fino all’inguine. Ogni volta lui ride e mi guarda e dice “Anis, lo sai che non si può…”, ma è più deluso che razionale. Lo so che gli dispiace. Potesse, mi starebbe attaccato addosso giorno e notte, altro che tatuaggi. Solo che non può. Perciò ho preso l’abitudine di scriverglielo addosso con la punta delle dita. A lui piace.
Insinuo le dita oltre l’orlo dei pantaloni. È ancora caldo di sonno. Respiro forte contro il suo collo e lui piega un po’ il capo, appoggiandosi sulla mia spalla e sfiorandola con le labbra umide. Io sorrido sulla sua fronte e vago un po’ lungo le cosce magre e i fianchi stretti prima di risalire lungo la cucitura dei boxer e poi superare l’orlo anche di quel sottile strato di cotone, sfiorandolo appena fra le natiche. Caldissimo e morbidissimo, Bill mi accoglie dentro di sé senza la minima difficoltà, ancora provato dalla notte appena trascorsa. Lo sento trattenere per un attimo il respiro mentre le dita da una diventano due, e quando scendo a succhiare avidamente la pelle liscia e sottile del collo avverto il ritmo dei suoi respiri cambiare all’improvviso, e quando il mugolio che trema dentro la sua gola mi annuncia che sta per svegliarsi rallento appena il ritmo con cui le mie dita si muovono dentro di lui, così che svegliandosi non debba sentirsi troppo invaso.
- Anis… - borbotta contro la mia spalla riprendendo conoscenza, il bacino che si muove indipendentemente dalla sua volontà per seguire il ritmo imposto dalle mie dita, - Lo stai facendo di nuovo…
- Mh-hm. – annuisco, baciandolo piano lungo il profilo della mascella, fino alle labbra, - Ti spiace?
- Quante… - ansima, piantandomi le unghie sul braccio, - quante volte… devo dirti… di chiedere…?
Sorrido e scendo a mordergli il collo, ipnotizzato dal movimento lento dei suoi fianchi.
- Posso entrare, principessa? – chiedo ironico, mordendo piano.
- Sei… - i suoi occhi chiusi fanno fatica a restare tali, le ciglia tremano impercettibilmente nel buio della stanza, - sei già dentro…
Rido un po’, stringendomelo addosso di modo che possa sentirmi alla perfezione.
- Non parlavo delle dita, Bill. – mormoro ad un centimetro dal suo orecchio, rallentando il ritmo, - Ho voglia di sentirti.
Bill ansima forte sulla mia pelle, gli occhi serrati.
- Ma… David-
- Aspetterà.
- …Anis, tutta la notte, noi…
- Dimmi che non vuoi e ti lascio subito in pace.
Bill ansima pesantemente e mi si abbandona addosso, cercando sollievo per la propria eccitazione pulsante fra le gambe.
- …come faccio a dirti che non voglio? – mugola, cercando le mie labbra per un bacio che gli concedo immediatamente.
- Non dirlo, principessa. – e Bill infatti non lo dice. Dimentica Jost, che probabilmente starà già tartassando il suo povero cellulare di chiamate che resteranno senza risposta, e si solleva sulle braccia, scavalcandomi e sedendosi su di me, allacciandomi al collo.
- Facciamo in fretta, però? – chiede con aria rassegnata, strofinandosi contro di me.
- Dammi il mio tempo, Bill. – obietto baciandolo velocemente.
- Anche se non te lo do… - mugugna lui sulle mie labbra, - te lo prendi lo stesso.
Rido a bassa voce, sistemandomelo per bene in grembo ed entrando lentamente dentro di lui. Bill si tende tutto intorno a me e getta all’indietro il capo, gli occhi serrati e le labbra dischiuse, il respiro debole e un po’ affannoso. È il mio modo di fare con tutto, credo. Se penso che qualcosa mi spetti, me la prendo. E le cose mi spettano se anche solo le voglio. Finché non pensavo che Bill mi spettasse, Bill nel mio letto non è entrato. O meglio, lui è entrato nel mio letto perché è un ragazzino cocciuto e testardo, ma io non sono entrato dentro di lui, e questa era una sfumatura molto importante. Ma quando l’ho voluto, me lo sono preso. E succede sempre così: quando voglio tempo, quando voglio attenzioni, quando voglio la sua presenza, quando voglio lui, io me lo prendo. Ho fatto così anche con altri, prima che lui arrivasse. In modi e per motivi diversi, ma l’ho fatto.
Suppongo sia una colpa anche questa.
Suppongo sia questo, anche, il motivo per cui questa sera uscirò con Chakuza e metterò in chiaro quello che a grandi linee sto cercando di fargli capire da quando l’ho mandato all’aeroporto a recuperare Bill.
Io mi sono messo nei casini da solo.
Si sta avvicinando il momento di pagare, in un modo o nell’altro.
Fra le tante cose che mi ha insegnato Tempelhof – ed è assurdo pensarci mentre Bill si muove lentamente su di me, sollevandosi ed abbassandosi in sincrono con le mie spinte – c’è anche la massima fondamentale della vita per cui non importa affatto chi ha ragione e chi torto. Il punto non è essere dei bravi ragazzi o dei cattivi ragazzi: la vita riserva solo merda per tutti. Il punto non è come ti comporti, il punto è se resti in piedi alla fine della serata. Se ancora respiri. Se non perdi sangue. E, in caso tu lo perda, se sei forte abbastanza da rimarginare la ferita prima che ti uccida. È questa l’unica cosa che conti.
Prima di Bill, non mi sarebbe importato di andare da Chakuza e spiegargli per bene che, per qualsiasi evenienza, toccherà a lui prendersi cura di Bill. Non mi sarebbe importato perché non avevo nessuno di cui m’importasse anche oltre me stesso. Io per Bill non ho paura solo finché resto in piedi. È il periodo che seguirà la mia caduta, che mi terrorizza. Non mi era mai successo, prima d’ora. L’unica altra persona per la quale ho provato un simile trasporto è stata mia madre, ma lei è troppo distante dal mio mondo e da ciò che sono ora, per essere davvero in pericolo. Al momento, a rischiare sono solo io, ma se io muoio non ho idea di cosa potrebbe succedere in giro. Non ho idea di cosa la mia assenza potrebbe scatenare.
Se Fler darà inizio alla fine del mondo facendomi fuori, voglio che Bill abbia un cavaliere dalla sua parte. E voglio che quel cavaliere sia Chakuza.
- Anis… - Bill mi chiama a bassa voce, stando bene attento a come pronuncia il mio nome, lasciando scivolare la s fra i denti e la lingua, ed io scendo ad accarezzarlo lentamente fra le gambe. Subito i suoi movimenti si fanno più ansiosi e concitati, e non passa molto prima di sentirlo tendersi e stringersi attorno a me, mentre lascia andare il capo all’indietro e viene fra le mie dita, arrendendosi alla mia stretta. Continua a muoversi anche dopo l’orgasmo, continua a farlo anche se è spossato e indolenzito. Non gli importa, sa che non vuole fermarsi finché non sarò venuto anch’io e quindi, testardo, continua ad agitarsi.
Io sorrido appena e cerco di trattenermi quanto possibile, perché adoro quando si muove in questo modo. Languido, sensuale, lento. Bill non lo è quasi mai, in genere è una pertica imbizzarrita priva della benché minima grazia, ma in questi momenti, quando è stanco e sopraffatto dalla sensazione indomabile dell’orgasmo che ancora lo scuote a tratti, riesce ad essere davvero sexy. Senza nemmeno volerlo, ed è quello il punto. Quando si atteggia, Bill può attrarre al massimo qualche sedicenne in aria di bisessualità. Sono i momenti in cui non si controlla, quelli in cui è veramente sensuale.
Venti minuti dopo – ha appena avuto il tempo di riprendere fiato, io sto ancora cercando il mio – sta già volteggiando confusamente dall’armadio allo specchio, impegnatissimo nell’attività di vestirsi nella maniera più adatta per andare alla Universal, affrontare suo fratello e fargli credere per lui sia indifferente ottenere la sua approvazione o meno. Bill, ogni tanto, tira fuori una combattività che non c’entra niente col ghetto e nemmeno con i capricci ostinati di una principessa. È una cosa propria del suo essere com’è, un misto di testardaggine infantile ed orgoglio spaventosamente adulto che costringono gli altri a chinare il capo. Con la crew c’è già riuscito. Suo fratello, però, è uguale a lui. Quindi servirà più tempo.
Mi sollevo dal materasso, lasciandomi ricadere di dosso le lenzuola, e scorgo l’occhiata imbarazzata che Bill mi lancia dallo specchio, prima di tornare a concentrarsi sul proprio riflesso e sulla sequela di bottoni che deve preoccuparsi di affibbiare assennatamente sul petto. Sorrido nell’ombra, non visto. Poche cose mi compiacciono come la consapevolezza che, ad avermi davanti ogni ora del giorno e della notte, Bill non riuscirebbe mai a staccarmi gli occhi di dosso. Non riuscirò mai a capire davvero a cosa pensasse la principessa bianca come la luna quando ha deciso di innamorarsi dell’uomo nero, ma so per certo che, quando l’ha fatto, l’ha fatto per davvero. E perciò, di fronte a me, Bill è arreso.
Lo stringo ai fianchi con le braccia ed a lui basta sentire la lieve pressione del mio sesso già quasi nuovamente pronto a prenderlo, per irrigidirsi ed arrossire.
- Anis… - sussurra piano, mentre io mi chino a baciargli il collo e lo solletico appena con le labbra, - Ma abbiamo appena finito, e poi è già tardi, e-
- Farò da solo quando sarai andato via. – gli respiro addosso. Bill mugola e stende il collo, ripiegando il capo contro la mia spalla.
- …è uno spreco. – biascica, spingendosi verso di me, - E non sono ancora completamente vestito…
Ghigno e gli mordicchio un lobo.
- Ma è già tardi. – concludo, chiudendo i bottoni dei jeans e poi allacciando la fibbia della cintura, - Stai attento che salti bottoni. – dico, accennando col mento alla sua immagine nello specchio. Mi fermo un po’ a guardarlo, mentre lo faccio. Respira profondamente, le sue mani seguono il profilo delle mie ed i suoi occhi sono lucidi e pieni di voglia. – Sei bellissimo.
Bill mi si rigira fra le braccia, allacciandomi al collo e strofinandosi sfacciatamente contro di me. La chiusura metallica della cinta, contro la mia pelle bollente, è quasi dolorosa.
- …posso restare a guardarti? – chiede, lasciando baci piccoli ed umidi lungo la linea delle mie clavicole, - Solo un po’…
- Devo fare da solo perché tu devi andare via, principessa. – gli faccio notare, stringendolo alla vita, - Se resti, non ho motivo di fare da me. Ti pare?
- È che… - si morde un labbro, sospirando pesantemente, - non ti ho mai visto, e invece tu…
Lo bacio lentamente, profondamente, fino a sentirlo confuso ed abbandonato in punta di lingua.
- Mi vuoi guardare, piccolo? – gli chiedo fra le labbra, e lui annuisce in silenzio, gli occhi socchiusi, le palpebre che tremano appena. Rido e lo bacio di nuovo. – Non adesso. – concludo, lasciandogli una sonora pacca sul sedere, - Jost poi mi insulta. – e mi allontano.
Bill rimane quei due, tre secondi a fissarmi dall’alto in basso – la linea dei pettorali, gli addominali, l’ombelico, le ossa sporgenti delle anche, il desiderio che svetta imponente fra le gambe – e poi si lascia andare ad un ringhio piccolo e frustrato, incrociando le braccia sul petto.
- Hai sempre avuto in testa questa cosa dell’obbedire a David, tu… - borbotta, ravviandosi i capelli dietro le spalle con un gesto stizzito.
Io rido.
- Be’, è un alleato utile, in ogni caso. Per dire, ti copre ancora con tuo fratello, quando lui accidentalmente dimentica che stiamo insieme da tre anni.
I lineamenti del volto di Bill si rilassano e la sua bocca si piega in un sorriso delizioso. Fare la conta degli anni con lui funziona sempre. In realtà funziona sempre anche con me – quando ci penso non mi sembra vero finché non realizzo che è davvero così. Certe lunghezze ti sembrano irreali, se non le misuri costantemente.
Sospira e torna ad aggrottare le sopracciglia, rimettendo su il broncio tipico delle finte offese.
- Be’, d’accordo, visto che non vuoi accettare la mia generosa offerta, resta qui da solo. – mi si avvicina di un passo e mi spinge all’indietro. Io lo lascio fare e cado sul letto. Mi tengo sollevato piantando i gomiti sul materasso e lo fisso di rimando, con aria di sfida. Lui mi fa una linguaccia. – Riprendi confidenza con la tua mano, mi sa che è troppo tempo che non ti do occasione di usarla. – io rido ed obbedisco, accarezzandomi lentamente un paio di volte. Bill arrossisce e si morde un labbro, guardandomi attentamente. – Ricordami di chiedertelo più spesso. – pigola poi, deglutendo a fatica. – Comunque ti odio! – borbotta, ed esce dalla camera sculettando infuriato, battendosi oltraggiato la porta alle spalle.
Rido e mi lascio andare disteso sul letto, rinunciando subito al proposito iniziale. Senza Bill non è lo stesso. E stasera penso che, per un po’, mi farò guardare.
Prima, però, ho una faccenda da risolvere.
Allungo una mano verso il comodino e recupero il cellulare, componendo a memoria il numero di Chakuza e restando in attesa finché lui non risponde.
- Chaky? – lo chiamo, mentre sento in sottofondo la voce di sua madre che gli chiede se per caso non sono Klaudia, e di salutarmi, in caso fossi lei. Ridacchio. – Ho un favore da chiederti. – lui annuisce, un “uh-hu” confuso che mi fa ridere ancora. – Possiamo vederci, più tardi? – lui risponde con un “ma sì, ovvio, a che ora?”. Io sospiro. – Nel pomeriggio. – poi ghigno un po’, - A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex.

*

Bushido mi chiama che sto riparando un lavandino in casa di mia madre e un po' quella telefonata me l'aspettavo. Non che sapessi quello che poi mi avrebbe detto ma è evidente che in questi giorni sta accadendo qualcosa e che lui ci avrebbe chiesto favori.
A dirla tutta, sono due settimane che a casa sua facciamo finta che gli attacchi di Fler non si siano fatti più aggressivi e che le sue risposte non si siano automaticamente regolate di conseguenza. In questi ultimi tempi, Atze ha sempre tentato di essere diplomatico ma quando le offese pesanti hanno cominciato a piovere sulla Principessa, ha smesso con la convivenza pacifica e non ha più risparmiato una virgola a quel cretino di Fler.
Comunque lui non parla e noi non chiediamo. Sediamo nel suo salotto e beviamo birra. La nostra attività principale, tendenzialmente, è quella di ignorare: le diss di Fler, l'incazzatura che tende il viso di Bushido e Bill, ovvio.
Bill siamo bravissimi a fingere che non sia in casa e che non si stia facendo la doccia. Quando compare in salotto vestito, truccato e perfetto come sempre, noi fingiamo che le ore precedenti non le abbia passate a scopare con Bushido. Perfino Eko butta sempre lì un "Ciao Principessa" che sembra che Bill venga da fuori piuttosto che dalla camera da letto.
Una roba così, però, la reggi solo per poco; poi la tensione ti sfonda il fegato. Quindi sono contento quando quella telefonata arriva. Quasi sospiro di sollievo.
Esco fuori da sotto il fottuto lavandino che non ne vuole sapere di farsi rimettere in sesto - dovrò chiamare un cazzo di idraulico - e do a mia madre un nuovo buon motivo per ricominciare a dirmi che secondo lei dovrei stringere di più, oppure farlo di meno, o anche chiudere l'acqua che l'ho già fatto quattro ore fa quando sono arrivato qui ma ancora continua a dirmelo. Quando apro il flick, lei smette di improvvisarsi idraulico per chiedermi "E' Klaudia? Me la saluti?"
Klaudia non è più la mia ragazza da un mese e mezzo ma mia madre finge che non sia così. Le ho detto più volte che io e lei non ci vediamo più, che si è addirittura trasferita dall'altra parte della città e che ha rivoluto indietro quel quintale di ciarpame che aveva lasciato nei miei cassetti ma mia madre niente, da quell'orecchio non ci sente.
La verità è che la prolungata presenza di Klaudia nella mia vita l'aveva portata a convincersi - mia madre, non Klaudia - che ci saremmo sposati di lì a poco e che c'era un nipotino in arrivo, in non più di sei mesi, massimo un anno. Klaudia non stava pensando di avere figli e io comunque non stavo pensando di sposare Klaudia. In ogni caso ci siamo lasciati, per motivi - tra l'altro - che non posso spiegare a mia madre, per cui...
"No, mamma, non è Klaudia," sospiro alla fine e sento Bushido che ride. "Atze?"
Spingo gentilmente mia madre fuori dalla stanza e la sento borbottare che a lei quel Bushido non piace mica tanto.
"Disturbo?"
Incastro il telefono tra il collo e la spalla e mi lavo le mani. "No, figurati. Anzi, mi salvi da una mattinata di morchia giù da un lavandino."
"Conosco un paio di ragazze che pagherebbero per vederti in canotta e sporco di morchia."
Rido mentre m i asciugo le mani. "Grazie ma sono a posto così."
"E Klaudia?"
Dio, anche lui con questa Klaudia. "Andata," rispondo e mi siedo sul water coperto.
Per terra c'è un casino di attrezzi e di cenci luridi, nonché quel catino appena sotto il sifone che è pieno di roba schifosa.
"Un vero peccato," commenta lui. "Era un amore, Klaudia."
"Non so se avresti detto lo stesso, conoscendola," sorrido. "Era un po' isterica."
"Credo di essere abituato all'isteria," risponde lui. "Klaudia almeno non aveva 19 anni, Chakuza."
Qui evito proprio di rispondere. Ho paura ad aprire bocca su Bill, con Bushido non sai mai cosa puoi dire e cosa no. Per dire, io lo so che Bill a volte va fuori controllo - tipo che l'altro giorno che l'ho accompagnato al supermercato per ordine di Atze e non ha trovato le caramelle che cercava. Per venti minuti non gli ho potuto parlare perché qualunque cosa dicessi mi mangiava la testa. E questo è solo un esempio. Io però mica posso fare notare ad Atze che il suo fidanzato è fuori come un citofono. "C'era qualcosa che volevi dirmi?" Cerco di deviare il discorso, che di Klaudia mi sono anche un po' rotto.
"Sì, ho un favore da chiederti."
"Uh-uh" annuisco vago perché forse mi è venuto in mente che il problema del lavandino potrebbe essere il tubo stesso. E se devo cambiare un tubo, piuttosto compro a mia madre un bagno nuovo.
"Possiamo vederci più tardi?"
La voce non smette di essere divertita, ma cambia tono. E' più bassa, più netta e questo mi fa capire che c'è un certo grado di serietà dietro al cazzeggio. Klaudia serviva a coprire la pesantezza di una motivazione che non mi dice. "Sì, ovvio, a che ora?"
"Nel pomeriggio," ghigna. "A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex."
Fissiamo in una birreria non lontana da casa mia. Quando riattacco, con il lavandino che gocciola in sottofondo, so che questa telefonata significa più di quello che sembra e, per quanto assurdo sia, mi incazzo all'idea che mi abbia raggiunto mentre riparavo il lavandino. Questa non è una telefonata normale, doveva arrivarmi nel momento meno normale del mondo. Invece sono a casa di mia madre, a fare una cosa per lei come faccio sempre ogni volta che riesce ad acchiapparmi e so che da lì a quattro ore Bushido mi dirà qualcosa che non mi piacerà per niente. Ma proprio no.

*

La birreria è un buco incastrato tra due palazzi giganteschi, in una via praticamente invisibile appena dietro casa mia. Quando mi sono trasferito, ci venivo quasi ogni sera perché era comoda e perché ci si mangiava bene e il mio frigo era sempre vuoto. La situazione della mia dispensa non è cambiata molto negli ultimi due anni, in effetti. Il mio problema non è che non mi vada di cucinare, anzi, io adoro cucinare. E' che non ho la testa per fare la spesa, tenere a mente le scadenze o comprare le cose giuste nella quantità giusta. Anche quando andavo all'istituto professionale - ho studiato da cuoco. Sì, io. - il mio problema non era mai preparare qualcosa ma avere tutti gli ingredienti, o gli utensili. Ero molto distratto. Il tipico caso di E' bravo ma non si impegna. Ad ogni modo, anche ad aver voglia di cucinare, non avevo mai niente in casa con cui farlo, per cui scendevo, mi facevo due passi a piedi e andavo a farmi sfamare dalla proprietaria del locale, che era una donna gigantesca e mi faceva quasi più paura di suo marito. Poi, più o meno sei mesi fa, i due hanno venduto e la birreria ha cambiato gestione, diventando di proprietà di una famiglia di tunisini, che le zuppe non te le fanno, ma ti preparano il kebab. Tra le altre cose, ho poi scoperto che questi sono parenti di Bushido. In effetti non so se siano parenti veri o parenti di altro tipo, con Bushido non si sa mai: ha le mani in pasta ovunque e la tendenza a chiamare parenti tutta una serie di persone diverse, per motivi che no so e neanche voglio sapere.
Quando spingo la porta, di fatto, lo trovo già dentro seduto ad uno dei tavoli riservati che parla con uno dei proprietari che indossa una canotta bianca tragica e ha al collo una patacca da far rabbrividire il buon gusto. Mi rendo conto che ho appena fatto dei giudizi di stile sul tunisino proprietario di una bettola della semi-periferia berlinese. Questa è evidentemente l'influenza malefica della Principessa e dei suoi giudizi cinici sulle donne in carne coi pantaloni a vita bassa. Devo decisamente chiedere a Bushido di trovare a Bill un'altra guardia del corpo che non sia io.
I due parlano fitto e Bushido ride in quella maniera un po' sguaiata che ha quando siamo fra di noi. E' da segnali come questo - il tipo di risata, le sue braccia che si appoggiano sullo schienale della sedia dove sta seduto al contrario - che capisci che è tranquillo e, di conseguenza, che in quel posto ti ci puoi rilassare. E' un posto amico.
Il tipo si chiama Fouad, se non ricordo male, ed ha una sorella bellissima, che si chiama Halida e non è quasi mai presente nel locale. E' timidissima, e l'abbiamo vista spuntare solo un paio di volte da dietro la porta delle cucine. Intanto che mi perdo nella mia testa e negli occhi di quella donna, che li ho visti una volta sola e potrei ricordarmeli finché campo, Bushido si accorge di me. "Chaky, da questa parte," mi chiama a gran voce, agitando la mano.
Mi siedo al tavolo e Bushido ordina per entrambi due birre rosse senza chiedere il mio parere. Fouad sparisce all'istante e solo allora noto che il locale è praticamente quasi vuoto.
"Allora? Che succede?" Chiedo quando il tunisino ritorna con le birre per poi eclissarsi di nuovo.
Bushido beve un sorso dal suo bicchiere e ci guarda dentro con un'aria pensosa che non mi piace. Quando uno si perde in mezzo litro di birra e sembra vederci dentro il futuro del mondo, significa che sta cercando le parole da dirti e che quelle parole sono le più pesanti che ti sia mai capitato di sentire.
"Immagino che tu sappia come stanno le cose tra me e Fler in questo periodo," dice alla fine.
E' un esordio che non mi aspettavo. Voglio dire, sapevo che avremmo parlato di Fler, ma non con questo tono. Me lo aspettavo arrabbiato, non così, come se Fler fosse il preambolo trascurabile di una questione ancora più seria. Al momento non ci sono questioni più serie di Patrick Losensky che spara minchiate sulla Principessa, su Bushido e sull'Ersguterjunge.
Mi sbaglio.
"Sì, direi di sì," rispondo, senza fargli notare che questa è una cosa che hanno capito anche i muri. Io dico che anche la signora Lotte, la mia vicina di casa, ormai lo ha capito che Fler e Bushido si odiano e che Fler lo prende in giro perché ha un fidanzato. "Credo che Fler abbia passato ogni limite."
Lui fa un mezzo sorriso intenerito, senza alzare lo sguardo. E' uno di quelli che fa incazzare Saad, che non li sopporta perché, generalmente, sono rivolti a due persone soltanto. Uno è Bill - e lasciamo perdere che cosa Saad pensi di quel ragazzino -, e l'altro è Fler al quale, nonostante tutto, Bushido si ostina a rivolgere una sorta di rispetto nostalgico che gli impedisce di riempire le nostre canzoni di merda vera. Urliamo a Fler da mesi ma Bushido non ci ha mai permesso di dirgli veramente chissà cosa. Saad per questo potrebbe uccidere, proprio non riesce a capire come faccia Bushido a permettergli tante delle cose che gli permette. E dire che è piuttosto semplice da capire: lui e Fler sono cresciuti insieme e si sono divisi per una cazzata tanto grossa che era quasi impossibile non rimanere con l'amaro in bocca. Voglio dire, sì d'accordo i soldi e gli ideali, ma erano cose di cui forse si poteva discutere, cose che non erano sufficienti a troncare i ponti, ad offendere madri e fidanzati. Quei due si rispettano perché erano amici e quando rispetti un'amicizia che non c'è più, in realtà quella c'è ancora o non la rispetteresti. E Saad, cazzo, mica lo vede. Va avanti per la sua strada e non c'è verso di farglielo capire.
"Ho visto Fler tre giorni fa," la voce di Bushido cambia tono e si fa più calda. Questa volta alza lo sguardo e mi osserva mentre io spalanco la mascella su una birra che ho appena assaggiato. "Abbiamo stabilito una tregua di qualche ora per poter parlare."
Annuisco lentamente. Certo, ha senso. Credo.
"E abbiamo deciso che chiuderemo la questione una volta per tutte."
Nella mia testa quelle parole suonano un po' come l'enorme gong di una chiesa buddista e rintronano sulle pareti del mio cervello, stordendomi neanche troppo leggermente.
Bevo. "E per chiudere, intendi...?"
"Intendo finirla," dice subito lui. "E' andata avanti troppo a lungo."
Io per un momento rimango immobile e mi chiedo se quello che ho capito ha un senso oppure no. Bushido non può veramente avere in mente di far fuori Fler. Quello canta e basta, cazzo. Noi cantiamo e basta. Mica puoi pensare sul serio di uccidere un cristiano come se fossimo in un film di Tarantino. Lui deve leggere la confusione sul mio viso, anche perché ce l'ho stampata in faccia - lo so perché mi conosco e quando trovo che qualcosa sia assurdo senza possibilità d'appello, la mia faccia riporta esattamente il mio pensiero. Ho i lineamenti di gomma, mi muovo tutto. Sono un pessimo giocatore di poker.
"Immaginavo che avresti reagito così," mi dice con uno sbuffo divertito.
"Non ho reagito in nessun modo."
Lui annuisce un po', come uno che vuole dirti di sì quando pensa tutto il contrario e poi beve di nuovo. "Tu quando non vuoi parlare, le cose le dici lo stesso," commenta. "Il viso, le mani, il modo in cui ti muovi. Se qualcosa non ti va o ti confonde, in qualche modo traspare. Non menti mai, per questo sei qui stasera."
"Non capisco," ammetto.
Lui prende un sospiro lungo, che fa ancora più paura del tempo che si è preso per cercare le parole che hanno dato il via a questa serata. E' un sospiro per darsi coraggio. E io mi chiedo a cosa gli serva questo coraggio. Cosa può far paura a Bushido che coinvolga me, Fler e questa birreria?
"Tra quattro giorni, io e Fler ci incontreremo e chiariremo la cosa fra di noi."
"Ma Atze, non-"
Mi ferma sollevando una mano, l'indice e il medio diritti e il resto delle dita leggermente piegato, come a chiedermi tempo più che a darmi ordini. E io mi fermo perché come al solito mi sono buttato senza aspettare.
"Quello che avrà luogo da qui a tre giorni è già stato deciso e non deve interessarti, se non per un motivo soltanto," quelle dita sollevate diventano una "Ed è lo stesso motivo per cui ti ho chiamato."
Questa volta sto zitto.
"Come ti ho detto al telefono, ho bisogno di un favore."
"Qualunque cosa, Atze."
"No." Mi ghiaccia con quel rifiuto e l'occhiata che mi lancia è sufficiente perché io mi senta in dovere di guardarlo. "Non accettare prima di sapere di cosa si tratta. Se dirai d sì, lo farai consapevole dell'impegno che ti sei preso."
L'aria è tipo elettrica, non ho idea di come ci sia riuscito. Fatto sta che sono in ansia e ora più che mai vorrei essere sotto il lavandino in casa di mia madre piuttosto che qui di fronte a quest'uomo che è visibilmente sul punto di rivelarmi qualcosa che non voglio sentire.
"Quando io e Fler ci scontreremo, non so come andrà a finire," esclama poi, dopo interminabili minuti di silenzio. "Fler ci sa fare con le armi, gliel'ho insegnato io."
Non so se dovrei preoccuparmi del fatto che sorride, anche se è sempre uno di quei sorrisi amarissimi che gli sollevano un solo angolo della bocca. "Quindi potrei creparci se quella sera decidesse di incazzarsi sul serio." Poi mi guarda. "E credimi, è sulla buona strada."
Il mio cervello non potrebbe girare più a vuoto di così perché adesso ho due interrogativi. In primo luogo mi sto chiedendo ancora una volta in che razza di universo parallelo sono finito per ritrovarmi nella condizione di ascoltare questa discussione. In secondo luogo, adesso devo anche cercare di capire quale sia il mio ruolo in tutto questo.
Rimango in silenzio e attendo il resto che mi arriva dritto in faccia, senza nessun preavviso. Con Bushido è facile capire quali siano le cose importanti: sono quelle che ti dice senza giri di parole. "Se io muoio, voglio che sia tu a prenderti cura di Bill."
Vorrei che avesse detto qualcos'altro. Il mio primo pensiero coerente dopo quelle parole è che vorrei non averle sentite, non male da parte della persona a cui le hai appena dette. Lui ha la prontezza di spirito di continuare a parlare e riempire il baratro che si è aperto tra me e lui e che è pieno di tutto ciò che quella richiesta implica. La morte di Bushido, la sofferenza di Bill e io che devo tenerlo insieme quando è chiaro che cadrebbe a pezzi.
"Dopo la mia morte," e lo ripete di nuovo, con quella calma assurda, "ci sarebbe un gran casino, credo. O almeno io lo spero che se crepo ci sia casino."
Fa un sorriso e ne strappa uno anche a me. La tensione un po' si scioglie, che è quello che ci vuole perché le cose serie vanno affrontate con un certo grado di rilassamento o non si ha abbastanza cervello per reagire nel modo giusto.
"Bill in questo casino ce l'ho trascinato io," dice poi, "ma non voglio che ci resti se io non sono con lui."
Annuisco perchè questo lo so già. Ho visto come lo tratta e con che cura lo guarda. Bushido non lo perde mai di vista, Bill, lo tiene sempre sott'occhio anche se non sembra. Anche quando non è lì fisicamente. E nessuno osa dirgli o fargli niente - Fler è un caso a parte - proprio perchè quel ragazzino il marchio di Bushido è come se lo portasse addosso. E' roba sua, lo sanno tutti. Però credo che lo distruggerebbero se sapessero che Bushido non può vederli né sentirli. E se conosco un po' Bill, non vorrà andarsene di qui se Bushido non ci sarà più. Anzi, si aggrapperà ancora di più a tutto quello che gli ricorda il suo uomo e non ci sarà verso di schiodarlo. E Dio solo sa come gli ridurrebbero la vita una merda se si arrogasse il diritto di far parte del giro anche senza avere più il letto di Bushido da scaldare.
Per quanto io possa ancora fare fatica ad accettare l'idea di un duello e di un morto, non mi è difficile capire che Bill avrebbe bisogno di protezione. Questo non c'entra niente con il ghetto e con le bande, c'entra con le persone. Se sei circondato da gente che ti odia, vorresti sempre qualcuno che sia dalla tua parte. Questo lo capisco anche io. E Bill ne avrebbe bisogno, se Bushido morisse. Ce l'avrà qualcuno che lo protegge, perché la possibilità di rifiutare non l'ho nemmeno presa in considerazione e me ne rendo conto all'improvviso, come una rivelazione divina.
Negli ultimi tempi io e quel ragazzino abbiamo passato un sacco di tempo insieme perché Bushido mi manda a prenderlo e riportarlo, e Bill mi parla un sacco - mi sfianca a furia di chiacchere, non sta mai zitto. E io un po' mi sono affezionato a quella pertica che urla e strepita davanti ai negozi di scarpe. Non voglio che stia male e non voglio neanche che qualcuno si azzardi a pensare di poterglielo fare solo perché Bushido non è più lì.
Ci sarò io con lui. "Conta su di me, Atze," gli dico.
"L'ho già fatto," e sorride.

Quattro giorni dopo, Bushido è morto e io stringo tra le braccia un Bill scosso dai singhiozzi che non si riprenderà se non quasi quattro mesi dopo, quando ogni cosa è ormai precipitata e io ho imboccato un casino dietro l'altro senza fermarmi in tempo.
Di quella sera in birreria mi resta ogni dettaglio, come se ce lo avessi marchiato addosso nella testa, perché di fronte a quei bicchieri di birra io a Bushido ho fatto una promessa importante e nel bene o nel male, quella promessa l'ho mantenuta.
Lui lo sa.
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