Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bushido/Fler (accennato).
Personaggi: Bushido, Fler.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Violence, Language.
- "Questo è lo scambio. Il tuo silenzio per i tuoi occhi."
Note: Devo precisarlo, ad uso e consumo di mia figlia Fedy, che non hanno combinato nient’altro che stringersi, su quel letto? =P *lolla* Scherzi a parte (no, ma non sto scherzando, non hanno combinato niente *scuote capino*), io amo questa shottina, come in realtà amo ogni singola shottina di JUNMJ – e come in realtà amo anche tutto il resto della Saga XD Scriverla, nonostante l’argomento (chissà se si capisce cos’è successo al mio Bimbo… *fischietta*), è stato piacevolissimo, e il rapporto fra questi due, oltre a ricoprirmi di frustrazione perché devo per forza cercare di mantenerli entro un certo limite, mi dà soddisfazioni incredibili. Il Flershido ruleggia <3
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bushido/Fler (accennato).
Personaggi: Bushido, Fler.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Violence, Language.
- "Questo è lo scambio. Il tuo silenzio per i tuoi occhi."
Note: Devo precisarlo
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Blackened Blue Eyes
#4 Chamomile
Entro nella kebaberia che paio una furia, me ne rendo conto, ma non ci sto con la testa, quindi me ne fotto. Me ne fotto degli sguardi di tutti questi cazzo di arabi che mi circondano, me ne fotto dell’aria sconvolta con cui mi scrutano quei – pochi – clienti che col giro non c’entrano un cazzo ed erano qui solo per mangiare il loro dannato panino e me ne fotto anche del grido irritato col quale mi apostrofa il padrone del locale – che poi dovrebbe essere un cugino di Arafat, e per quello che vale la parola cugino da queste parti potrebbe non entrarci niente con tutta la sua famiglia, peraltro. Non me ne sbatte una sega. Non trovo il ragazzino. Qualcuno mi deve delle risposte.
- Arafat. – sbraito, abbattendomi con una mano contro il tavolo al quale lo trovo seduto placidamente a giocare a carte con uno sconosciuto. Non dico altro, dallo sguardo che gli lancio dovrebbe capire cosa voglio da lui e dovrebbe anche capire che lo voglio subito, senza cazzate, ma evidentemente sto pretendendo troppo da questo stronzo – e con “troppo” non intendo la capacità di capire, ma quella di mettere da parte il proprio essere un pezzo di merda per rispondere subito, così che io possa capire dov’è e volare a recuperarlo, porca troia, visto che anche sua madre non lo sente da stamattina. E Patrick chiama sempre sua madre a metà mattinata, per dirle di non preoccuparsi.
- Sonny. – mi chiama a sua volta lui, tranquillissimo, - Come mai tutto sconvolto?
- Come mai, secondo te?! – batto di nuovo la mano, e stavolta mi faccio perfino male, - Dov’è. – e non è una domanda, non lo è neanche per un cazzo. È un fottuto ordine. Voglio la mia risposta. Adesso.
Lui torna a guardare le carte.
- Non so di cosa stai parlando.
- Non mi prendere per il culo, Arafat! – urlo, ed afferro le carte che ha in mano, schiacciandole poi contro il ripiano di legno, spiegazzandole e spargendole per tutto il tavolo, - Il ragazzino! Dove cazzo l’hai mandato da solo? Perché cazzo non me l’hai detto prima?!
Tutto intorno a noi si fa il silenzio più totale. Non si muove nessuno, guardano tutti questa scena ridicola nel mezzo del locale, ed in tutto questo a me non sbatte una sega nemmeno se sto facendo la figura del coglione. Il ragazzino ha fatto quattordici anni un mese fa e va in giro con una pistola che, per quanto bella, sa usare correttamente da meno di una settimana. Non ci può andare in giro da solo, Arafat non deve permettersi di mandarlo in giro da solo, non quando sa benissimo che per me sarebbe perfettamente okay accompagnarlo pure dall’altro lato della strafottutissima Germania del cazzo.
E quindi resto lì in piedi accanto a lui seduto e lo guardo come volessi ammazzarlo – che poi è assolutamente vero – o almeno lo faccio fino a che lui non decide che ha sopportato abbastanza, e si alza in piedi, squadrandomi dall’alto in basso con la stessa intensità omicida che c’è nei miei occhi. Il problema è che nei suoi viene fuori in maniera molto più convincente, mi sa.
- Punto primo, Anis, modera il linguaggio. – mi rimprovera, schiaffeggiandomi con una certa violenza sulla nuca. Io ringhio ma non ho il tempo di rispondere. – Punto secondo, sei ancora la mezza sega che eri l’anno scorso, mi pare, quindi per quale cazzo di motivo dovrei interpellarti prima di prendere una decisione? – e mi schiaffeggia ancora, stavolta sulla guancia.
Io rispondo con un mezzo ghigno da stronzetto.
- Punto terzo? – chiedo sfacciatamente, e con questo mi guadagno il terzo schiaffo nel giro degli ultimi sessanta secondi.
- Non mi serve un punto terzo. – risponde lui, tornando a sedere, - Ed ora levati dai coglioni.
- Non mi levo dai coglioni neanche per un cazzo. – rispondo immediatamente, e lui mi solleva addosso di nuovo quegli occhi furiosi. Non so com’è che reggo questo sguardo. Probabilmente perché non me ne frega più un cazzo nemmeno di lui. Fino a qualche mese fa sì, fino a qualche mese fa sopra Arafat c’era praticamente solo mia madre, e questo perché Arafat è tutto ciò di cui ho bisogno per diventare quello che voglio diventare, ossia qualcuno. Adesso non è più così. Adesso, cazzo, con Patrick di mezzo, Arafat non è più niente. Se dovrò passare sul cadavere di questo stronzo, per sapere dov’è il ragazzino, lo farò, e lo farò senza pentirmene. – Dimmi dov’è.
Arafat mi guarda a lungo, neanche stesse cercando di capire solo guardandomi se faccio sul serio o meno. E mentre lui mi guarda io ripenso al ragazzino con in mano la pistola, il giorno del suo compleanno, e poi ripenso al ragazzino che tira un barattolo di vernice in testa ad uno sconosciuto mettendo a rischio le palle per un altro sconosciuto – con la differenza che il secondo sconosciuto ero io – e poi vado ancora più indietro e ripenso al ragazzino nell’atrio del tribunale minorile che mi guarda con aria strafottente e mi dice “sembra che dovremmo farla insieme, questa cosa”, e fra tutte queste cose penso al ragazzino che mi segue ovunque, penso al ragazzino che mi fa il palo, penso al ragazzino che mi tiene i conti della roba venduta, penso al ragazzino che usa lo zainetto della scuola per le consegne – ed a lui non si avvicinano quasi mai, quando va in giro con quello zainetto lì, perché è così chiaro che è un ragazzino scemo che i poliziotti non lo prendono nemmeno in considerazione – e mentre penso a tutte queste cose penso anche che sì, faccio un sacco sul serio, ed è bene che Arafat lo capisca e lo capisca adesso. Non si gioca con le mie cose. Non me li fai questi scherzi, a me.
Arafat tutte queste cose sembra leggermele negli occhi, alla fine, ed io questo – il fatto che l’ha capito – lo leggo nei suoi a mia volta, perciò quando apre la bocca so già che lo sta facendo per dirmi dov’è Patrick, e tutti i miei sensi si tendono – voglio sentirlo subito, quello che sta per dirmi; voglio registrarlo subito e voglio scattare il prima possibile per raggiungerlo dovunque sia. Poi alla fine magari non è successo un cazzo, ma io ho bisogno di vederlo e di sapere che sta bene adesso, quindi in questo momento l’eventualità che sia tutto a posto nemmeno mi sfiora.
Solo che la porta del locale si apre ed il rumore interrompe Arafat. Io mi volto per mandare a fanculo lo stronzo con pessimo tempismo che mi sta rovinando la giornata, e invece non mando a fanculo nessuno, perché resto inchiodato al pavimento, paralizzato e pure muto.
- Che avete tutti da guardare?
Non so cosa cazzo abbiano gli altri, Pat, ma io ho da guardare che sei pesto come se ti fossero passati addosso con un carro armato, porca puttana.
- Pat- - faccio per chiamarlo, ma lui mi lancia un’occhiata gelida, o almeno, quella che sarebbe un’occhiata gelida se lui non avesse gli occhi rossi e gonfi di pianto e un rivolo di sangue rappreso che corre giù lungo la tempia e fino alla guancia.
- Sto bene. – dice ad alta voce, così da farlo sentire a tutti, - Ve li fate un po’ di cazzi vostri?! – aggiunge poi, arrabbiato, e tutti i fottuti arabi qua intorno tornano ai loro affari, perché nel momento in cui il ragazzino ha ringhiato gli hanno visto addosso la voglia di sbranarli tutti. E qui si vive secondo la legge fondamentale che, per evitare problemi più grossi, va bene ignorare i problemi piccoli. Quando avrò una crew tutta mia, questa sarà la prima legge del ghetto che manderò a puttane.
Patrick si avvicina zoppicando un po’, ma io non mi sporgo ad aiutarlo perché so che se solo mi azzardassi a toccarlo, in questo momento, mi staccherebbe le mani a morsi. Perciò lo osservo mentre arranca fino al tavolo di Arafat e posa il suo zainetto per terra. Quello non fa neanche rumore, quando lo appoggia, il che vuol dire che è vuoto. E questo vuol dire che, qualsiasi cosa gli sia capitata, Patrick ha portato a termine il suo compito.
La cosa diventa evidente quando tira fuori dalla tasca il portafogli e posa i suoi bei cinquecento euro proprio lì sotto al naso di Arafat, in mezzo alle carte da gioco tutte scombinate.
Lo stronzo prende le banconote, le fa frusciare svelto fra le dita per controllare non siano false, poi le conta una ad una, ne vaglia con gli occhi ogni imperfezione, le spiega, le mette in ordine sul tavolo, poi ne prende la metà e la consegna a Patrick, che incassa senza una parola.
- È andato tutto bene? – chiede Arafat.
- Tutto bene. – risponde Patrick, - Solo una rissa del cazzo.
Arafat annuisce compiaciuto.
- Te la cavi bene. – commenta, - Facciamo che oggi ti sei guadagnato un extra. – e gli allunga altri cinquanta euro. Non credo che Arafat abbia mai fatto niente di simile con nessuno. Con me non l’ha mai fatto di sicuro, perciò resto lì un po’ inebetito mentre osservo Patrick, che invece continua a non fare una piega, prendere anche quella banconota e conservarla nel portafogli assieme alle altre. – Signori, abbiamo un piccolo signore della droga, fra noi, pare. Sicuramente cento volte meglio di certi suoi amichetti che non fanno altro che lamentarsi. – e mi sferza con un ghigno divertito.
Qualcuno nella folla che mangia kebab qua intorno commenta distrattamente che se il ragazzino continua così diventerà il re dello spaccio, in città. Qualcun altro gli fa il verso e ride “sì, Frank White”. Lo ripete qualche altro.
- Frank White. – ride anche Arafat. – Ti piace, Patrick?
Il ragazzino scrolla le spalle. Probabilmente non sa neanche chi rappresenti la figura di Frank White per questi quattro stronzi. Accetta il suo battesimo e fine, perché è bravo, sa quando tacere, sa come incassare i complimenti ed ha già capito che in certe situazioni è meglio lasciar fare gli altri.
Tutto quello che riesco a pensare io, in questo momento, è che per la prima volta mi pento di averlo portato in mezzo a tutta questa merda. Ed ancora non so nemmeno cosa gli è successo, ma se si aspetta che mi beva la cazzata della rissa è fuori strada, il ragazzino. Decisamente fuori strada.
La transazione si conclude, Arafat torna alle sue carte, il ragazzino recupera lo zaino e si muove lentamente verso l’uscita. Io lancio un’occhiataccia ad Arafat, ma lui mi ignora, perciò ringhio e borbotto un “fanculo” risentito, prima di seguire Patrick. Quando Arafat ride, alle mie spalle, so che sta ridendo di me, ma non mi volto, non mi fermo e trattengo l’impulso di saltargli alla gola e strozzarlo, perché Patrick è uscito fuori dal locale ed anche se è più lento del solito ha comunque due gambe chilometriche, quindi se non mi sbrigo lo perderò. Tra l’altro penso proprio voglia seminarmi, perché per quanto ammaccato si sta sforzando un sacco di muoversi in fretta.
- Ragazzino. – lo chiamo, quando riusciamo a lasciarci la kebaberia alle spalle. Lui non si ferma. – Patrick! – insisto, e allora lui la pianta di cercare di sfuggirmi. Ma non si volta a guardarmi. Fa nulla: vuole fare il ragazzino? È piccolo, può permetterselo. È già stato abbastanza adulto là dentro quella specie di girone infernale. Perciò giro io, tutto attorno a lui, fino a pararmi di fronte ai suoi occhi. Che non trovo, perché stanno puntati verso il basso. – Be’? Avevi le palle per guardare Arafat dritto negli occhi, lì dentro, ma non le hai adesso per guardare me che sono un tuo amico?
Lui stringe il pugno attorno alla bretella dello zaino che tiene su una spalla sola, ma si ostina a non guardarmi. Perfetto, d’accordo, ho capito. Si sente in imbarazzo e si vergogna perché le ha prese. Ma Dio mio, ragazzino, può capitare.
- Ehi… - cerco di suonare conciliante, piantandomi le mani sui fianchi, - Guarda che è successo a tutti più di una volta, eh? È tutto a posto, poi passa. E comunque prendere le botte serve a insegnarti come tirarle, quindi… - commento con una risatina.
Lui continua a non sollevare lo sguardo. E io mi rompo i coglioni.
- Ragazzino, piantala di fare la testa di cazzo e guardami. – lo rimprovero, e mentre lo faccio allungo una mano e lo afferro per il mento, costringendolo a fissarmi. Lui il mio sguardo lo regge mezzo secondo contato, poi si agita tutto per liberarsi dalla mia stretta e, quando sta per riuscirci, io lo afferro con entrambe le mani ai lati della testa e lo obbligo a stare fermo.
E lui chiude gli occhi. Chiude i fottuti occhi, cazzo.
- …ma si può sapere cosa cazzo hai? – chiedo, e visto che non posso cercare la risposta dentro ai suoi occhi la cerco sulla sua pelle arrossata e sulle ferite appena disinfettate, - Sei già stato a casa? Ti ha risistemato tua madre?
Lui scuote il capo, non parla e continua a non aprire gli occhi.
- Sei andato all’ospedale, allora? – provo ad indovinare. Non lo so, che cazzo mi sta a significare questa conversazione ad uno? Sto facendo un monologo? – Perché non sei venuto subito da me?
Lui ricomincia a dimenarsi ed io continuo a tenerlo fermo.
- Patrick… - lo chiamo piano, e siccome siamo in mezzo alla strada e la cosa sta cominciando a farsi equivoca e lui è comunque ancora minorenne, oltre che maschio, oltre che un altro miliardo di altre cose che al momento non ha senso elencare, lo trascino in un vicolo lì di fianco, e poi ricomincio a parlare. – Pat. – lo chiamo ancora, più dolcemente, - Li apri gli occhi, per favore? Non ti voglio fare niente di male, Cristo santo!
Lui lascia andare un respiro tesissimo e schiude gli occhi, che sono umidi e arrossati. Continua a non parlare, naturalmente, ma adesso non mi aspetto niente di diverso.
- È tutto ok, chiaro? – comincio, - Ora ti lascio andare, ma tu non chiudi gli occhi. D’accordo?
Lui annuisce, io lo lascio andare ed in effetti continua a tenere gli occhi aperti. Il problema è che riprende a guardare altrove.
- No. – lo riprendo, riportandolo con lo sguardo su di me afferrandolo per il mento, - Non mi vuoi parlare? D’accordo, continuerò a blaterare da solo per tutta la giornata, se hai deciso così, ma almeno mi guardi. Guardi solo me. – lui aggrotta le sopracciglia e piega le labbra in una smorfia contrariata, ma io lo fermo dicendo “a-ha!” ed agitandogli un dito davanti al naso. – Questo è lo scambio. Il tuo silenzio per i tuoi occhi.
Penso distrattamente che nello scambio non è compreso niente di mio, ma tanto so che non me lo farà notare. Infatti Patrick continua a tacere. Ma fortunatamente continua anche a guardarmi.
- …okay. – annuisco. Le cose cominciano ad andare come dico io, e questo è rassicurante. – Hai mangiato? Ti porto a mangiare un panino e vediamo se quello ti scioglie la lingua.
Patrick scrolla le spalle e si muove per uscire dal vicolo. Io mi metto subito accanto a lui perché altrimenti perdo il controllo visivo coi suoi occhi e, per com’è la situazione adesso, sarebbe come essere sordo e non poter nemmeno osservare il labiale di una persona che non conosce il linguaggio dei segni. Cioè se perdo i suoi occhi non riesco più a discutere con lui. Questo non è possibile, al momento, quindi mi affretto a inseguirlo.
Non che sia difficile, comunque, riprendere terreno. Dato che zoppica, si muove davvero un sacco lento. Soprattutto per i suoi standard – io questo ragazzino sono abituato a vederlo volare per le strade, mi sembra assurdo guardarlo adesso e trovarlo così ammaccato.
- Ma com’è che zoppichi? – chiedo, e lui distoglie lo sguardo. Lo recupero per il mento, ancora. – La regola. – gli ricordo, - Fai il bravo. Com’è che zoppichi? Ti hanno preso a calci nelle gambe?
Lui annuisce sbrigativamente, così io so per certo che no, non l’hanno preso a calci nelle gambe. Dev’essere successo qualcos’altro. Avrò tempo per scoprirlo, al momento il ragazzino sicuramente non vuole sentirsi sotto assedio, perciò questa la lascio correre.
- Certo che sei andato a incrociare proprio degli stronzi come si deve. – commento mentre mi fermo sulla sponda del canale, al baracchino di un tizio che vende hot dog dal sapore orrendo e che è vecchio almeno quant’è vecchio il quartiere.
Patrick mi lancia un’occhiata incerta, quando ordino due panini, ma io gli faccio capire – pagando e consegnandogli il suo pranzo – che non me ne frega un accidenti di quanti dubbi possa avere sulla qualità di questi panini: non deve avere dubbi, faranno schifo. Ma gli toccano, è così che funziona. Quando le cose vanno male si va sulla riva del canale e si mangiano gli hot dog disgustosi del vecchio Olaf, e si lanciano le pietre nell’acqua e si parla, poi si recupera una birra e possibilmente ci si ubriaca. Una cosa per volta, però.
Quando mi siedo sul muro in cemento armato, Patrick esita più di qualche secondo, e resta fermo a saggiare con gli occhi la consistenza dei lastroni, prima di accucciarsi in una posizione stranissima, con una gamba sotto il sedere e l’altra che penzola giù verso il corso d’acqua. Io inarco le sopracciglia.
- Ti si bloccherà la circolazione e quando ti rimetterai in piedi avrai tutta la gamba addormentata, e dovrò trascinarti a casa in preda al fastidio perché non riuscirai nemmeno a poggiare il piede per terra. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio. Lui se ne frega abbondantemente e me lo fa capire scrollando le spalle. – Va bene, va bene. – rido, - Ora puoi anche guardare altrove. – annuisco, spostando gli occhi sull’acqua che ristagna quasi del tutto immobile ai nostri piedi, - Goditi il tuo panino.
Il suo panino, Patrick non se lo gode. Ed io rido quando, dopo il primo morso, gli esce dalle labbra un versetto disgustato. È fantastico, non è proprio riuscito a trattenerlo, l’ho sentito che ci ha provato, ha cercato di contrarre i muscoli del collo per tenerlo intrappolato nel fondo della gola, ma il disgusto era troppo e quindi ha dovuto lasciarlo andare. Meraviglioso.
Torno a guardarlo che sto ancora ridendo. E lui sta già guardando me di rimando.
- Buono? – chiedo ironico.
- Fa schifo! – risponde lui, di getto.
- Bentornata, voce. – saluto con un cenno della mano, e lui arrossisce e distoglie lo sguardo. Adesso è okay, può farlo perché ha ripreso a parlare, - Ora me lo dici cosa è successo? – chiedo dolcemente, mandando giù un altro pezzo di questo panino disgustoso che però contiene palesemente delle sostanze stupefacenti che creano dipendenza, e me lo conferma pure Patrick che, nonostante abbia appena detto che il panino fa schifo, ne morde un altro pezzo anche lui.
- No. – risponde con un mezzo grugnito, ingoiando con una certa difficoltà, - Non mi va.
- D’accordo. – annuisco subito io, sollevando in segno di resa la mano non impegnata a reggere il panino, - Allora, caro, raccontami com’è andata la tua giornata lavorativa, ed io poi ti parlerò dei piatti che ho lavato e dei pannolini che ho cambiato mentre aspettavo il tuo ritorno.
- Coglione. – borbotta lui, tirandomi una spinta contro la spalla, - …è andato tutto bene. Tranne quando ha cominciato ad andare male.
Io rido un po’.
- È più o meno sempre così, ragazzino. – gli faccio notare, - Va tutto bene, finché comincia ad andare male. È quello il punto. Cos’è che è andato male?
- Le solite cose. – risponde lui vago, - Quante volte ti sarà capitato, diecimila? Gli stronzi non volevano pagare e siccome io ero uno e loro erano più di uno hanno pensato bene di convincermi a starmene buono pestandomi a sangue. Tutto qua. Però tu non ti sei mai ridotto così. – aggiunge, indicandosi il viso.
Io, tanto per cominciare, lo mando mentalmente a fanculo. Se davvero i tizi non avessero voluto pagare, chiunque fossero, una volta pestato e lasciato in fin di vita sul marciapiede sarebbero effettivamente andati via senza pagare. E invece il ragazzino ad Arafat li ha portati, i suoi fottuti cinquecento euro. Quindi è palese che qua mi si sta prendendo per il culo, ma è altrettanto palese che ad insistere non guadagnerei altro che un vaffanculo e, probabilmente, anche uno spintone nel canale, perciò mi limito ad annuire comprensivo.
- Come ti dicevo prima, - gli spiego, - è successo a tutti di essere pestati. – e glielo dico perché so che, anche se non so come né perché, che sia stato pestato è una realtà difficilmente contestabile. – È così che ci si fa la corazza. Tu non mi hai mai visto ridotto così, ma ciò non vuol dire che io non mi ci sia effettivamente ridotto prima di conoscerti. Quindi non farti le pare da ragazzina oltraggiata, sono solo un paio di lividi, non è successo niente di irreparabile. Non ti sei nemmeno rotto niente, visto? È tutto a posto.
Lui non risponde. Guarda il canale, guarda il sole che si sta lentamente abbassando sul profilo della città, e poi finisce il suo panino. Resto lì in silenzio dieci minuti contati. Dopodiché lo recupero per le spalle, lo rimetto in piedi e comincio a trascinarmelo per tutta Berlino.
Da che sono nato non c’è mai stato niente di più consolatorio che andare in giro per la città. Quando perfino casa era troppo uno schifo per continuare a starci, io cominciavo a camminare e non mi fermavo finché non sentivo di non farcela più. È così che sono finito a lavorarci, per la strada. Perché la strada, quando ti prende, ti prende tutto. E tu non puoi più lasciarla, dopo.
A camminare e basta Patrick non si diverte granché, però, anche perché non sta bene per niente, quindi ad un certo punto mi fermo da un amico e, visto che mi ricordo delle sue velleità artistiche, recupero un po’ di bombolette spray di vari colori. Le metto in uno zainetto e lo raggiungo di fuori, dove gli avevo detto di aspettarmi, dopodiché riprendo a trascinarmelo per le strade e, quando ci fermiamo di fronte ad un muro di media altezza, bianco, sporco e inutilizzato, nel retro del cortile di un asilo, gli consegno lo zaino e sorrido soddisfatto.
Lui inarca un sopracciglio e mi fissa, dubbioso.
- Che roba è? – chiede. Io roteo gli occhi e sospiro.
- Ma ce l’hai nel DNA questa mania di chiedere prima di aprire il regalo? È lì, ce l’hai in mano, aprilo e vedilo da solo che roba è!
Non riesco a trattenere i suoi gridolini di gioia neanche se gli metto una mano sulla bocca, quando si rende conto di cos’ha per le mani. Credo non abbia mai visto tutti questi colori insieme, e quando indica il muro e mi chiede se sia per lui io rido e gli rispondo che sì, è per lui, anche se in realtà questo muro lo sto rubando a Berlino per regalarglielo. Berlino mi perdonerà, comunque. Mi deve della roba, questa città. Posso ben pretendere un muro in cambio.
Lo osservo maneggiare le bombolette con una certa destrezza, e quando vedo il disegno che prende forma – un enorme “king of kingz” che io stesso, modestamente, gli ho suggerito di realizzare, visto che continuava a saltellare zoppicando di fronte al muro senza riuscire a cavarsi un’idea che fosse una dalla testa – comincio a sospettare che questo ragazzino, se fosse nato in un altro posto e in altre condizioni, probabilmente avrebbe avuto del successo. Ci sa fare, con le mani. Cioè, ci sa fare coi colori. Anche se non è tanto normale che io mi rettifichi i pensieri da solo.
Alla fine, non so quante ore ci abbia messo, ma il disegno è lì, completo e perfetto, senza nemmeno una sbavatura, colorato e brillante. Puzza di vernice in maniera nauseante, ma ne vale la pena. Ci arrampichiamo sul muro – lui ha bisogno di una mano, ma gliela do volentieri – e restiamo seduti lì in contemplazione del vuoto mentre il sole tramonta dietro ai palazzi, in lontananza, e il cielo si fa scuro. Stasera è anche pieno di stelle, ma c’è un buio pesto tutto intorno, perché nel cortile qui non ci sono lampioni, quindi riesco a malapena a vedere ad un palmo dal mio naso.
- Frank? – lo chiamo. Lui non si volta. – Ehi, Pat, ti ci dovrai abituare, eh. Guarda che cominceranno a chiamarti tutti così, da oggi in poi.
Lui mi guarda un po’ curioso, come si fosse svegliato adesso.
- Eh? – chiede, ed io roteo gli occhi.
- Arafat ha deciso che sei Frank White. Quindi dovrai abituartici. È una cosa importante. – lui continua a guardarmi con quella faccia lì, come non capisse un accidenti di ciò che sta accadendo intorno a lui, perciò io rido e chiedo: - Lo sai chi è Frank White?
- No. – risponde lui, scuotendo piano il capo. Io rido.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No. – risponde ancora lui, tranquillissimo. Ed io rido ancora, perché dai, ragazzino, ma come sei cresciuto?
- C’è questo qui, - spiego, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli. – lo prendo in giro, e lui sbuffa e mi tira una spinta contro la spalla.
- E come finisce questo? – chiede, ancora offeso, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rido di nuovo io, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – e sospiro. Cosa devo dirti, ragazzino? Sei stato pestato, lo so, ma qualcuno dovrà pur dirtele, queste cose. – Perché, - aggiungo, - come pensi che finiremo noialtri?
Lo vedo irrigidirsi e deglutire, mentre i miei occhi si abituano al buio della notte e trovano i suoi con una facilità disarmante.
- Comunque, sta’ tranquillo. – lo rassicuro, e nel farlo gli tiro una pacca sulla spalla tale che lui quasi casca di sotto, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re. – e tu vieni con me, ragazzino. Anche se questo non lo aggiungo, ad alta voce. Però col cazzo che ti lascio andare.
Quando lo riporto a casa è già notte fonda. Sua madre dorme, ma è tanto abituata ad averci entrambi a casa a quest’orario che ci ha lasciato latte e biscotti con un bigliettino sul tavolo della cucina. Nel biglietto – che peraltro è indirizzato a me, cosa per la quale comincio a ridere per interrompermi solo dopo mezz’ora – c’è scritto “sono sicura che sei riuscito a ritrovarlo, Anis. Vuoi gentilmente dirgli che domani mattina lo ricoprirò di botte?”. Patrick aggrotta le sopracciglia, quando legge il messaggio. Io tiro fuori una penna dalla tasca posteriore dei jeans e, sotto alla nota della signora Losensky, ne aggiungo una mia. “È stato un bravo ragazzo e non ha chiamato solo perché costretto dalle circostanze. Niente botte. Grazie per il latte”.
Patrick manda giù il suo latte e biscotti perché – a suo dire – deve cancellare l’orrendo sapore di quell’hot dog disgustoso. Io mangio per imitazione. Non è che abbia veramente fame, e per la verità comincio ad avere sonno. Sono stato teso tutto il giorno, poi sono stato euforico perché ho palesemente recuperato il ragazzino dal baratro in cui stava cadendo, ed adesso che mi si stanno sciogliendo i muscoli perché lo vedo qui tranquillo che trangugia biscotti affogandoli nel latte, la tensione scivola via e comincio a sentirmi stanco.
Quando finisce il suo latte lo accompagno in camera sua, perché a salire le scale ha evidenti difficoltà. Mentre mi faccio passare il suo braccio sopra alle spalle e lo tengo fermo, reggendolo saldamente per il polso con una mano e per la vita con il braccio, penso distrattamente che ormai è alto quanto me e che meno di un anno fa questa posizione non era nemmeno pensabile. Mi viene da ridere ma non lo faccio.
Patrick sfila via la maglietta e calcia lontano i pantaloni, con me là davanti, senza problemi. Io, non so cosa mi prende, distolgo lo sguardo. Comunque sono stanco, ragazzino, e tu mi stai torturando. Si infila sotto le coperte e poi mi guarda, e quando io faccio per salutarlo ed imboccare la finestra per scendere e sparire nella notte lui inclina un po’ il capo e mi chiede “ma non resti?”. Non ho idea del perché lo dica con questo tono qui, come fosse scontato che io dovessi restare e quindi fosse buono e giusto da parte sua guardarmi come se, andandomene, io stessi facendo una cosa assolutamente priva di senso logico.
- …se vuoi resto. – annuisco, richiudendo la finestra. – Ce l’hai un sacco a pelo?
- Uh? – chiede lui stendendosi sul materasso, già più addormentato che sveglio, - Puoi metterti qui accanto, il letto è grande. Ci entriamo in due.
- Ragazzino, io non ci dormo con un maschio. – dico nervosamente, e penso che se non ha un sacco a pelo mi costringo pure a dormire sul pavimento, pur di non mettermi nel letto con lui. Non va per niente bene quello che sta succedendo nella mia testa per ora, comunque. Devo recuperare il controllo. Un uomo senza controllo non è niente.
- C’è un vecchio materasso qui sotto… - scrolla le spalle lui, chinandosi a tirarlo fuori da sotto al letto e lasciandolo strisciare sul pavimento fino a piazzarlo proprio lì accanto, - È un po’ impolverato, ma-
- Fa niente. – borbotto, lasciandomici andare sopra e cominciando immediatamente a tossire per la polvere che si solleva tutta intorno a me. Lui mi guarda come fossi completamente cretino. – Be’? – chiedo io, - Non avevi sonno?
- …tu mi sa che non stai tanto bene. – mi prende pure in giro. E io lo mando a fanculo fra i denti, ma lui non mi sente perché si sta muovendo come un indemoniato per trovarsi una posizione comoda fra le coperte.
Io mi passo una mano sulla fronte. E chi dorme, stanotte?
La risposta è “nessuno”. Ma non mi arriva nel modo che pensavo. Perché è okay finché sono io che non dormo perché mi passano per la testa cose che decisamente non dovrebbero neanche apparire fugacemente per poi scomparire in una nuvola di fumo. Non è altrettanto okay se, nel silenzio assoluto della stanza – perché Patrick ha smesso di muoversi ed io non ho mai cominciato a farlo – comincio a sentire il respiro del ragazzino farsi sempre più profondo, breve e concitato. È una cosa tremendamente graduale, comincia nel momento in cui lui smette di muoversi e va aumentando. È talmente graduale che posso sentire ogni sfumatura. Mi terrorizza.
Mi metto seduto di scatto e lancio un’occhiata al letto. Patrick è immobile, steso supino, le mani piantate sul materasso che tirano il lenzuolo e il petto scosso freneticamente da respiri talmente corti e affannosi che sembra non riesca nemmeno a tirarne fuori la quantità di ossigeno minima per non soffocare.
- Ragazzino. – lo chiamo a mezza voce, mettendomi in ginocchio e guardandolo dall’alto, - Ragazzino, che hai?
- A- - prova a chiamarmi lui, ma non riesce, non subito, almeno, - Anis. – riesce a buttare fuori in un rantolo soffocato. Io non so che fare. Non ho mai visto niente del genere, cazzo. Che gli è preso?
Mi piego su di lui, gli sfioro un braccio e poi una mano e lui scatta come una fottuta molla. Da che è steso sul letto me lo ritrovo tutto rannicchiato in un angolo, seduto contro il muro, tanto piccolo che sembra un gomitolo di nervi.
- Ragazzino, che cosa c’è? – chiedo, e mi sposto di nuovo verso di lui, che si fa ancora più minuscolo, - Patrick. Non fare così, Cristo.
- Non ci… - ansima lui, ma non riesce a concludere la frase. Quindi, forse, quello che sta cercando di dirmi è proprio che non ci riesce, a livello generale. – Anis. – mi chiama ancora, e io decido che basta così. Non me ne frega un cazzo se i maschi non dormono coi maschi e se io in particolare dovrei evitare assolutamente di dormire con quest’altro maschio in particolare, e non me ne frega un cazzo anche se ha intenzione di scattare come se l’avessi punto ogni volta che provo a toccarlo: mi isso sulle braccia, mi seggo sul letto accanto a lui, lo afferro per le spalle e me lo tiro contro.
Lui, ovviamente, parte a dimenarsi come un’anguilla. Ma io continuo a tenerlo stretto.
- È tutto okay, Pat. – gli sussurro piano all’orecchio, - Lasciami fare. – e lo accarezzo lungo le braccia, la schiena, la nuca, il collo, - È tutto a posto. Non è successo niente. Che cazzo ti hanno combinato oggi, ragazzino…?
Lui trema tutto e scuote veloce il capo, serrando le labbra ed anche gli occhi.
- Ehi, ehi… - lo tiro su per il mento, - È ok. Non devi dirmelo. Non parlare. – sorrido, - Però voglio i tuoi occhi. Quelli me li dai.
Lui si morde un labbro e per un secondo resta completamente immobile, le mani sul mio petto, le dita strette convulsamente attorno alla mia maglia, e non dice una parola. Non parla più, il ragazzino. Però annuisce. Gli occhi me li dà. E allora è okay.
Non so in quanto tempo passa questa notte – non ne ho idea, le ore sembrano secoli eppure non mi pesano per niente addosso – però so come passa. Con gli occhi di Patrick nei miei e i miei nei suoi. Le sue mani sul mio petto. E le mie mani ovunque.