Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Erotico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bushido/Fler, Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R/NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash, Angst.
- "La mia settimana è cominciata molto male."
Note: Cioè, rendiamoci conto: stiamo ricominciando ad avere un ritmo di postaggio quasi umano *piange commossa* Dunque, precisazione prima di lasciarvi alla lettura: nonostante il titolo e l'adorabile "vol. 2" pucciato lì accanto, questa storia non è il diretto seguito di quella postata da Tabata qualche tempo fa. Però vi è legata inscindibilmente *huhuhu*
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GREEN EYED MONSTER, vol. 2

La mia settimana è cominciata molto male. Che non è come per dire che lunedì mi sono svegliato dopo un incubo e come prima cosa, per esempio, ho infilato le pantofole e dentro c’ho trovato uno scorpione ed ho sentito umido e mi sono accorto di avere la casa allagata scoprendo poi che s’erano rotte contemporaneamente tutte le tubature dell’appartamento a causa di un ingorgo del cesso del tipo del piano di sopra che tra l’altro ha fatto marcire tanto le travi del soffitto da costringerle a crollare e riversare liquami nel centro del mio salotto. No, quello sarebbe stato un brutto inizio di settimana, ma tutto sommato imputabile alle sfighe e ai casi della vita, le classiche cose di cui in genere ti fai una ragione rimboccandoti le maniche e scrollando le spalle prima di metterti al lavoro per rimettere tutto a posto.
No, il mio inizio di settimana è stato di gran lunga peggiore, ed è coinciso con un risveglio orribile, sì, ma per motivi molto più gravi di quelli che ho indicato sopra. D’altronde, Eko Fresh che si attacca al campanello di casa tua per mezz’ora alle sette del mattino è peggio di un incubo, uno scorpione, un allagamento e un chilo di liquami di dubbia origine, tutti assieme e centrifugati in un’unica, enorme Apocalisse. Eko Fresh è Eko Fresh, se non lo conosci non puoi capire, e se lo conosci lo eviti.
Comunque sia, immaginatemi. O se non volete immaginare me immaginate qualcun altro, non importa, in ogni caso: mi alzo, grugnisco come un orso ingiustamente svegliato dal proprio legittimo letargo, vado alla porta e spero almeno sia Bill, che pressa il campanello a ripetizione perché non mi vede da ben quattro ore e vuole assolutamente recuperare il tempo perduto chiudendosi a doppia mandata con me in camera da letto fino a domenica, e invece niente, è appunto Eko che mi guarda come gli avessero appena ucciso la madre, stringendo al petto un giornale con una mano e tenendo un pacchettino un po’ unto di olio nell’altra.
- Eko. – constato, e mi chiedo se magari posso trovare una scusa per mandarlo via, solo che lui non mi dà il tempo neanche di mettere in moto i meccanismi del cervello, perché mi scosta di lato, entra in casa e si chiude la porta alle spalle. Rigirando la chiave nella serratura. – Eko?! – chiedo, vagamente inquietato dal fatto che sia arrivato qui di corsa portando del cibo e segregandosi con me all’interno di un appartamento neanche tanto grande le cui pareti hanno visto troppo per potersi turbare ancora.
- È successa una cosa terribile. – esordisce lui, tetro, e io penso che sì, eccome se è successa una cosa terribile, siamo chiusi nel mio appartamento! Non vedo cosa potrebbe esistere di più terribile di questo. – Forse è meglio che ti siedi. – continua, annuendo pensieroso.
- Sto bene in piedi. – dico, vagamente preoccupato. Già sono in posizione svantaggiosa così, figurarsi se mi siedo. Cerco anche di dirmi che è del tutto irrazionale, da parte mia, pensare che Eko sia venuto qua e si sia chiuso con me qui dentro perché voleva approfittare del mio corpo, ma i meccanismi cerebrali di cui sopra sono ancora spenti e l’omino del cervello sta ancora passando ad oliarli tutti per bene prima di attivarli, perciò continuo a pensare che, appena mi sarò seduto, Eko mi ribalterà sull’isola della cucina e si prenderà la mia verginità, e per evitare tutto ciò resto in piedi.
- Credimi. – insiste lui, spingendomi verso l’isola della cucina – lo sapevo, io! – e forzandomi a sedere su uno sgabello, - E già che ci sei, prendi il krapfen.
- Che krapfen? – chiedo io, tirando su i pantaloni del pigiama fino ad altezze ascellari e pentendomi di non aver provveduto a comprare una cintura di castità per premunirmi rispetto ad eventualità simili.
- Quello che ti ho portato. – continua lui, perfettamente tranquillo, indicando il pacchetto unto che ha poggiato sul ripiano, - Mangia. Ne avrai bisogno.
- Senti, Eko! – mi ribello a quel punto io, saltando in piedi, - Non ho fame e non mi voglio sedere! Ora, mi spieghi qual è il tuo problema, prima che mi venga voglia di afferrarti per la collottola e buttarti fuori di casa dalla finestra?!
Eko mi guarda male e sbuffa, evidentemente indispettito dal mio comportamento, e con tutta la calma del mondo prende e mi srotola davanti agli occhi il giornale. È una rivista scandalistica di quelle che costano uno sputo ogni dieci, roba che gli edicolanti te le tirano dietro per quante gliene avanzano arrivati a domenica, e in prima pagina, proprio al centro, c’è una gigantografia di Fler e Bushido beccati da un paparazzo dentro un ristorante. Fronte contro fronte.
- …ah. – sillabo io, a corto d’aria, sedendomi istintivamente sul primo sgabello che trovo tastando con la mano dietro di me e mandando la mano non impegnata nelle ricerche ad afferrare il krapfen dentro il sacchetto. – Ah.
- “Ah” mi pare una reazione eufemistica. – commenta lui, e mentre io sono qua che stacco un morso di krapfen e spero che cioccolato e zucchero mi invadano le vene ed intontiscano il cervello, e mi chiedo quando abbia imparato il significato della parola “eufemistico”, lui si lancia in una dissertazione dissennata delle sue. – No, ma dico, ti rendi conto? Cioè, da Bushido non mi sconvolge, visti i precedenti, anche se forse dovrebbe sconvolgermi pure questo perché, voglio dire, Bill almeno sembrava femmina, potevamo dire che era confuso, - ma dire a chi, Eko? – ma il senzatetto? Voglio dire, Fler, gay? Ma te lo saresti mai aspettato?
- Io… - comincio, deglutendo a fatica. Il pezzo di krapfen è duro come marmo e non scivola giù per la gola manco morto. Rifletto brevemente sulla mia salivazione del tutto azzerata e mi rassegno a morire soffocato dal krapfen di Eko. - …non lo so.
- Ma poi! – continua lui, evidentemente scioccato da questa rivelazione, - Tu c’hai vissuto praticamente insieme per un millennio, ew! Non è che ti ha allungato mani addosso nel sonno? Tipo che ti ha ubriacato e mentre eri lì in coma etilico ti ha ribaltato sul materasso e ti si è fatto di nascosto? Hai controllato?
- No, Eko! – quasi sbotto io, fissandolo allucinato, - Non ho controllato e non— Fler non ha fatto niente del genere, andiamo, non è che siccome uno è gay… o quello che è… - inspiro ed espiro a fatica, - sente il bisogno di metterti le mani addosso e violentarti o cose simili! – spiego. E poi mi viene voglia di appendere una corda alle travi del soffitto e impiccarmi, perché… Dio mio. No, Eko, Fler non ha approfittato di me nel sonno, è più probabile che sia avvenuto l’esatto contrario, ma non è il caso che tu lo sappia.
- Bah! – conclude lui, allargando le braccia lungo i fianchi e sedendosi sullo sgabello di fronte a me, allargando la rivista sul ripiano per guardarla ancora, come volesse cogliere sfumature che non era riuscito a notare prima. – Che schifo, comunque.
- Ma che schifo cosa?! – esplodo io, irrazionalmente irritato da questa cosa, - Devo ricordarti che io sto con Bill?! Se vuoi venire a fare moralismo, vai a farlo in una casa in cui non si scopa abitualmente fra uomini!
Lui solleva gli occhi scuri e vacui e mi fissa a lungo, come non capisse dove voglio andare a parare.
- Ma che c’entra? – chiede infatti, - Bill è una cosa diversa. Lui è praticamente una donna.
E io vorrei rispondergli che no, semmai Bill è teoricamente una donna, ma praticamente è decisamente maschio, solo che poi ricordo l’indiscutibile verità nella testa di Eko – indiscutibile non perché sia esatta, ma perché è quella che vede lui e che non è disposto a cambiare neanche per tutto l’oro del mondo, visto che è l’unico universo in cui riesce a vivere senza traumi – e questa indiscutibile verità nella sua testa dice che Bill sì, potrà pure avere l’uccello, ma è comunque una femmina. Per cui per lui è ormai perfettamente normale che vada a letto coi maschi, o che un maschio abbia voglia di andare a letto con lui. Lei. Quel che è.
La cosa che mi turba davvero è che io lo so che Eko vede Bill in questi termini. E quindi, forse, se m’incazzo per quel “che schifo”, non è per Bill.
Il discorso muore lì, anche perché Eko quello che doveva fare – rovinarmi la giornata – l’ha fatto, e io due minuti dopo resto solo a darmi del coglione e pensare che tanto, peggio di così non potrà andare. Naturalmente mi sbaglio, perché due ore dopo incontro Bill e lui è taciturno ed evidentemente scazzato, e c’è un enorme problema quando Bill è sia taciturno che scazzato, perché Bill si scazza spesso ma ci tiene sempre a far sapere al mondo perché, visto che adora farlo sentire in colpa. Quando Bill si scazza e non sa dirti perché, il motivo è che non vuole farlo.
Da quando sta con me, è capitato una volta sola. Poi è venuto fuori che era per una litigata a caso con suo fratello, ma naturalmente io mi sono sempre preoccupato perché, prima che stessimo insieme, questi momenti di scazzo cronico gli venivano solo quando qualcosa gli ricordava Bushido. E allora lui era morto, quindi, insomma, non era il caso di immischiarmi. Ancora oggi, ci sono momenti come questo, in cui Bill è arrabbiato e, per continuare ad arrabbiarsi in pace, vola fino ad un altro pianeta – un pianeta sul quale io non posso raggiungerlo, dal quale mi sento distante.
Bill è rimasto su quel pianeta per tutta la settimana fino ad ora, e questo, sommato al fatto che Bushido sta con Fler e, Dio solo sa perché, questa cosa mi manda in bestia, ha reso la mia vita impossibile nell’ultima settimana.
Stamattina, comunque, dopo che ieri sera mi ha chiamato dicendomi che non sarebbe passato da casa perché era stanco e preferiva andarsene a letto a dormire – dichiarazione che in genere mi fa capire a che punto sia arrivata la sua malinconia – mi ha richiamato, per chiedermi se potevo passare a prenderlo dagli studi dell’Ersguterjunge, visto che aveva da fare qui per qualcosa. Dopo una settimana passata a vederci poco e male, e dopo l’ultima notte trascorsa senza di lui, mollarlo all’EGJ senza un passaggio per andare ovunque volesse, per quanto potessi essere irritato dalla sua distanza e dall’EGJ in generale, non era davvero un’opzione, perciò mi sono schiaffeggiato un paio di volte davanti allo specchio, mi sono dato un contegno, mi sono vestito e sono saltato in macchina.
Gli studi dell’EGJ, da quando Bushido è tornato, non sono più gli stessi che erano prima che morisse. Io ho dei ricordi stupendi, di questo posto. Serate passate ad ubriacarsi mangiando schifezze e parlando di cazzate finendo per dormire sui divani, giornate passate ad inseguire un’idea di Bushido e un beat particolarmente figo, voce su voce, in un’improvvisazione continua. Le feste, il cazzeggio, i giorni fantastici in cui il lavoro andava alla grande, tutto funzionava alla perfezione e sembravamo tutti ingranaggi minuscoli di un più grande meccanismo che una volta avviato andava avanti da sé senza dover più spingere niente.
Poi lui è morto, e gli studi sono diventati una grande camera ardente perenne. Anche senza la sua salma esposta in bella mostra in una bara col coperchio di vetro, era qui che ci riunivamo tutti per struggerci un po’, quando ne sentivamo il bisogno. Dopo il funerale, Saad ce l’aveva messa tutta per far riprendere i lavori, ma un po’ perché alcuni di noi – io per primo – non eravamo d’accordo, un po’ perché la Germania era ancora troppo scossa per pensare al rap, niente era mai ripartito per bene, perciò entrare qua dentro più che altro era riappropriarsi di quel pezzo di Bushido che avevamo perso tutti e che tutti potevamo ritrovare fra queste stanze, come se parte del suo spirito fosse rimasto intrappolato fra le molecole dell’aria, dell’intonaco grattato via dai muri, delle poltrone malandate.
Quando lui è tornato, poi, è stato anche peggio: la Universal ha preteso di colonizzare tutto, mandare emissari cui sono stati affidati uffici, e che hanno avanzato pretese, che hanno chiamato ditte di operai che hanno ristrutturato, ridipinto, rimodernato, riarredato, rinfrescato. Hanno preso tutto quello che c’era e l’hanno spazzato via, e adesso passare in mezzo a questi corridoi non mi dà più nessuna bella sensazione. Non c’è nessun ricordo legato alla moquette nuova o al divano impeccabile in pelle bianca. Non c’è nessun ricordo sulle porte girevoli o su quelle a vetri, automatiche e sempre lucide. Ora tutto ciò che mi resta camminando qua dentro è la rabbia per tutto quello che c’era e che nessuno di noi riuscirà mai più a ritrovare, perché è stato gettato via da troppe persone.
Comunque, nel momento in cui io sto qui che guardo il divano e mi chiedo se sedermi o meno, che tanto sta vicino all’ingresso e quindi, uscendo, Bill deve passare per forza di qui, in un modo o nell’altro, la voce di Fler mi impedisce di muovermi oltre.
- Che ci fai tu qui? – mi chiede, e non c’è cattiveria, nella sua voce, solo stupore e incredulità, come se si fosse immaginato tante volte la possibilità di trovarmi qui davanti a questo divano ed ogni singola volta si fosse detto “ma no, che cazzata, non accadrà mai”. È accaduto.
Mi volto lentamente, abbozzando un mezzo sorriso.
- Ciao. – comincio imbarazzato, - Scusa.
Lui sgrana gli occhi, fissandomi sempre più sconvolto.
- Di che ti scusi? – chiede giustamente. Di che mi scuso? Me lo chiedo anch’io. Mica è casa sua, questa, non sono entrato dalla finestra per svaligiargli l’appartamento. Perché non posso semplicemente dirgli “Bill mi ha chiesto di passarlo a prendere, lo sto aspettando”? Perché non posso avere una conversazione – o un rapporto – normale, con quest’uomo?
- Non lo so. – ammetto, ed è una risposta sia alla sua domanda che alle numerose che mi sono posto io negli ultimi trenta secondi. – Come stai?
Lui continua a fissarmi come fossi un alieno o sa Dio cos’altro.
- Bene, immagino. – risponde restando sulla difensiva, a qualche metro di distanza.
- Immagini? – chiedo io, inarcando un sopracciglio, - Stai bene o no?
- Sì! – sbotta lui, e poi si massaggia le tempie, sospirando profondamente. Quando torna a guardarmi negli occhi, è visibilmente più tranquillo. Invidio Fler per la capacità che ha di mettere ordine all’istante nella propria testa. Immagino sia una delle numerose eredità del ghetto, motivo per il quale non averla non è che mi deprima più di tanto, ma ammetto che è una capacità che sarebbe comodo possedere, di tanto in tanto. – Sì, sto bene, Chaku.
- Quella cosa che hai fatto… - sorrido un po’, accennando il movimento di lui che solleva le braccia ai lati della testa, - sembri un’altra persona, adesso. Funziona sempre?
Inspiegabilmente, lui capisce subito a cosa mi sto riferendo.
- Sì. – ride a bassa voce, - Stavi pensando che servirebbe anche a te?
- Esatto. – rido anch’io, e nel tempo che impiego a concedermi questa risata liberatoria, chiudendo anche gli occhi, lui si avvicina e mi posa due dita sulle tempie, massaggiando piano. Quando riapro gli occhi, la pressione delle sue dita e i suoi occhi assurdamente vicini sono le uniche cose vere in tutto l’universo. Perciò mi sembra il caso di dire qualcosa di altrettanto vero, e anche in fretta. – Mi sei mancato.
Lui smette subito di toccarmi, naturalmente, e si allontana di un paio di passi.
- Io dovrei- - comincia, ma naturalmente io gli impedisco di finire.
- È che non ci siamo più visti né sentiti! – comincio a blaterare, gesticolando come faccio solo quando non ho idea di cosa sto dicendo e spero che i miei movimenti possano distrarre dal contenuto delle mie parole, - Ero un po’ preoccupato, sai, per come ci eravamo lasciati. – realizzo solo mentre parlo che in realtà quello che è uscito da casa sua coperto di sangue ed ematomi, alcuni dei quali sono qui ancora oggi nonostante le lunghe settimane di mancata frequentazione, ero io, quindi forse dovrebbe essere lui quello che s’è preoccupato per me. Che ne sapeva, lui, di cosa mi succedeva nel mentre? Potevo uscire da casa sua e accasciarmi al primo angolo morendo per un’emorragia interna, per dire. Certo, poi i giornali in qualche modo gliel’avrebbero fatto sapere, e quindi – visto che sulle prime pagine di tutte le riviste scandalistiche non ci sono foto del mio cadavere all’obitorio bensì foto di me che passeggio con Bill, vado a cena con Bill, vado al parco con Bill e faccio un altro mucchio di cose con Bill – lui probabilmente non ha avuto motivo per preoccuparsi né nient’altro, però boh, è abbastanza assurdo che io adesso gli stia dicendo che ero preoccupato per lui. E peraltro ho continuato a parlare anche adesso che nel mentre mi stavo parlando nella testa, quindi non ho idea di cos’ho detto negli ultimi dieci minuti. Ma dev’essere qualcosa di assurdo, se mi sta guardando con quella faccia lì, come se stessi imprecando in latino mentre la testa mi ruota sul collo di trecentosessanta gradi e fiotti di vomito verde escono a fontana da ogni orifizio del mio corpo.
- Chaku… - mi chiama lui, un sorriso divertito appena accennato sulle labbra, - Chaku! – e io mi interrompo a metà di una parola che non ho pensato e non saprò mai di aver detto. – Mi sei mancato anche tu. – sorride più serenamente, appoggiandosi di spalle alla parete, - Sono contento che le ferite vadano meglio. Almeno non sei più inguardabile. – ridacchia.
E io non lo so cosa mi prende. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa mentre Eko blaterava di lui e Bushido lunedì mattina in casa mia, ingozzandomi di krapfen e sperando bastassero per non sconvolgermi troppo. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa tutte le volte in cui ero consapevole di doverlo lasciare andare, o doverlo quantomeno aiutare a staccarsi, o di dover rispettare la sua scelta di non volermi più rivedere. Probabilmente la stessa cosa che mi prende sempre, insomma, quando c’è di mezzo lui. Una cosa che non so e non posso fermare, una cosa a riguardo della quale mi fa paura ammettere che non voglio cercare di fermare.
Neanche me ne accorgo, quando mi avvicino, perché è un movimento talmente collaudato che ce l’ho tipo inciso nelle ossa. La forma del suo petto contro il mio, le sue spalle sotto le mie mani, le sue labbra pressate sulle mie. Il suo sapore che è sempre lo stesso.
Io non me ne accorgo, lui sì. Mi pianta addosso le mani e mi spinge indietro con forza, schiacciandosi contro la parete come se servisse a difendersi, e mi dà l’impressione che, se potesse, sfonderebbe il muro e indietreggerebbe ancora. Non può, ed è l’unico motivo per cui sto continuando a guardarlo negli occhi. Posso quasi vedermici riflesso dentro. La mia espressione confusa, come se io per primo non avessi capito cosa stavo facendo.
Lo capivo, Fler. Stavo sbagliando lo stesso, ma lo capivo.
*
Ho bisogno di appoggiarmi da qualche parte, e scelgo la parete perché sembra abbastanza rigida, dopotutto, anche se a volte ho come l’impressione che i muri all’EGJ siano fatti di cartone, tanto sono sottili, che se uno parla un po’ più ad alta voce dall’altro lato senti tutto.
Guardo Chakuza e vorrei potergli leggere nella sua testa con la disinvoltura con la quale in genere lo faccio quando non sono così confuso e turbato e minacciato – da cosa, neanche lo so – ma non ci riesco. Respiro profondamente, mi rendo conto che non mi basta, respiro ancora.
- Non- - comincio, incerto, - Non intendevo questo.
Lui mi guarda e non risponde. Ha le labbra dischiuse, gli occhi persi, e io non so che dirgli di più. Non so neanche se avergli detto quello che gli ho appena detto sia stato corretto, perché non è vero. Non lo è del tutto, almeno. Mi piacerebbe che lo fosse, ma non può esserlo se mi basta così poco per non capire più niente.
- Scu- - comincia lui, ma io mi agito subito, mi stacco dal muro e comincio a muovere le braccia per fermarlo.
- Non scusarti. – lo blocco, scuotendo il capo, - Mi sono fatto fraintendere io. Insomma, mi manchi, sì, ma non in quel senso. E poi sto con-
- Lo so con chi stai. – mi interrompe lui. Ho perso il conto delle volte in cui ci siamo parlati addosso, interrompendoci a vicenda, solo oggi. È un gioco che abbiamo condotto dalla prima volta che ci siamo visti, la verità è che io e Chakuza siamo due teste troppo dure perché dai nostri scontri possa davvero uscire qualcosa di buono. Motivo in più per cui è necessario chiuderla adesso. Sarebbe stato meglio chiuderla prima, ma se adesso è tutto ciò che resta, è adesso che dobbiamo chiuderla.
- Sto con Anis. – dico comunque. E lo dico scandendo bene ogni lettera, parlando chiaro e ad alta voce. Così che lui possa sentirlo, sentirlo davvero, e non possa ignorarlo.
Chakuza non mi guarda. Annuisce sbrigativamente, poi borbotta qualcosa sull’aspettare in macchina, che è meglio, e poi si dilegua in un batter d’occhio. Mentre lo osservo attraversare la porta per uscire dagli studi, colgo l’occhiata di sfuggita che mi lancia attraverso lo specchio accanto all’appendipanni, e nei suoi occhi – ora che sono lievemente più calmo – leggo chiaramente che sta già per dimenticare quello che gli ho appena detto, perché non c’è niente che Chakuza possa impedirsi di scordare, se gli fa comodo.
Sospiro pesantemente, riprendendo il corridoio e ricominciando a muovermi verso l’ufficio di Anis come stavo facendo prima di incontrare Chakuza di fronte al divano. Mentre busso alla porta, più per abitudine che perché Anis abbia mai richiesto da me un simile riguardo, penso che è altamente presuntuoso, e anche altamente stupido, da parte nostra, pensare di poter chiudere qualcosa che non abbiamo ancora nemmeno aperto. È il problema della nostra esistenza tentare di chiudere cose non aperte e tentare di convivere con cose mai chiuse come se lo fossero. E io ne so qualcosa.
Quando entro nell’ufficio, Anis si sta palesemente annoiando, e a me viene da ridere. Me lo ricordo ai tempi dell’Aggro, lui era uno capace di darsi alla macchia per giorni e comparire agli studi in tempo per la registrazione, fare la sua cosa e poi sparire ancora fino a chissà quando. Ora è diverso, ora c’è la Universal di mezzo, e la Universal ha tabelle con orari prefissati, appuntamenti programmati giorni prima, giornate di lavoro scandite nel minimo dettaglio. Il classico lavoro da impiegato statale dal quale Anis è sempre fuggito da che è nato, insomma, eppure ora è costretto a sottoporsi a cose simili, cose delle quali nemmeno comprende l’utilità, perché giustamente lui cosa ci sta a fare dietro a una scrivania se non ha canzoni da scrivere, demo da ascoltare o rapporti di vendita da visionare compiaciuto?
- Come va? – chiedo divertito, chiudendomi la porta alle spalle ed avvicinandomi. Lui smette di fingere di scorrere con gli occhi incartamenti inutili e si stende tutto sullo schienale della sedia, che è di quelli a molla e quindi segue la sua spinta, piegandosi all’indietro e permettendogli di stiracchiarsi come può con un grugnito di soddisfazione un po’ frustrata.
- Secondo te? – ribatte lui, tornando dritto e grattandosi distrattamente la fronte, - Voglio tornarmene a casa e non posso.
- Perché? – rido, appoggiandomi alla scrivania, - Aspetti che suoni la campanella?
- Devo incontrare un tipo… - borbotta lui, lanciandomi un’occhiata indispettita, - Un manager, cazzo ne so. Fra mezz’ora. Cristo, ma chi me l’ha fatto fare? Potevo stare sdraiato in una spiaggia a bere latte di cocco mentre le turiste mi guardavano come una specialità locale, adesso. E invece, guardami.
- E invece sei tornato nell’ostile Germania, il cui trono era stato usurpato dal tuo vigliacco fratellastro pelato, e hai combattuto per riconquistare regno e principessa.
- Per poi perderli entrambi. – sorride lievemente. Nei suoi occhi c’è una traccia di tristezza che è solo un’ombra. La scaccia via battendo le palpebre, e poi torna a guardarmi. – Cos’hai? – mi chiede, scrutandomi incuriosito.
Io distolgo lo sguardo, perché non voglio che veda. Alle volte, però, mi sembra quasi che non ne abbia bisogno. Mi sembra che i miei turbamenti li percepisca nell’aria, come quando dal niente ha capito che ero tornato a casa dopo aver scopato con Nicole. È una libertà di lettura che gli ho lasciato io e della quale pagherò per sempre le conseguenze.
- Niente. – biascico, - È tutto ok.
Lui non mi risponde, si vede lontano un miglio che non mi crede manco per niente. Resta un po’ seduto sulla propria poltrona, rigirandosi i pollici e guardandomi. Lo so perché, anche se sto fissando la parete come se stesse affiorando Gesù Cristo in persona da sotto l’intonaco, mi sento addosso i suoi occhi, e mi fanno sentire a disagio.
Poi lo sento alzarsi e fare il giro della scrivania, raggiungendomi, e solo allora torno a guardarlo e lo vedo che mi sorride. Faccio per dirgli qualcosa, ma lui si sporge in avanti e mi bacia leggerissimo sulle labbra. Sta ancora sorridendo.
Non devo dirgli niente. Chiudo gli occhi e sporgo appena le labbra. Lui ride, mi ride proprio addosso, e poi mi si stringe contro, facendosi spazio fra le mie gambe mentre io mi sollevo e mi seggo sulla scrivania, lasciandogli tutto il posto che gli serve. Piego il capo e lui approfondisce il bacio, attirandomi a sé con una mano sulla nuca. E non gli importa che la porta non sia chiusa a chiave, perché se per caso qualcuno la aprisse e ci vedesse, lui non avrebbe alcun problema a dirgli di andarsi a fare un giro mentre lui finisce di scoparmi. E questo può succedere perché lui mi porta a cena fuori, perché usciamo insieme, perché se gli chiedono se stiamo insieme, pure come una battuta, lui risponde di sì con tutta la serietà del mondo. Non perché stia legandosi a me per sempre come fossimo sposati, semplicemente perché sa che non c’è motivo di mentire a riguardo.
Non c’è niente di nascosto, di quello che siamo. È la prima volta che mi sento così in tutta la mia vita. Anis è stato l’unico a farmi sentire in questo modo. E io gli sono grato mentre lo aiuto a scostarmi i vestiti di dosso e piegarmi sul tavolo, prendendolo dentro con un gemito che gli spengo sulla spalla, prima di tempestarla di baci e morsi.
Quando vengo fra le sue dita, mi lascio sfuggire un gemito più forte degli altri, e lui sorride soddisfatto sul mio collo.
- Visto? – mi dice. Il suo respiro è pesante e sorrido anch’io. – Qualsiasi cosa fosse, ora è passata.
Lo abbraccio stretto, solo per qualche secondo. Non l’ho mai fatto con lui, non così, ma oggi mi sento piccolo, e l’ufficio all’improvviso mi sembra la cameretta in cui dormivo da ragazzino, nella casa con mamma, a Tempelhof. Adesso mia madre non ci vive più, là. La prima cosa che ho fatto, quando ho cominciato a vedere soldi veri, è stata comprarle una bella villetta in un bel quartiere pieno di verde dove passano i ragazzi a portare il giornale e il latte al mattino.
- È passata. – confermo, anche se forse non è del tutto vero. – Grazie.
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