Genere: Introspettivo, Triste, Erotico.
Pairing: Mario/Davide, José/Mario, José/Davide, José/Mario/Davide (yeah baby).
Personaggi: José, Mario, Davide, menzionata Hera.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Threesome, Angst, What If?, Song-fic.
- Davide ha cose che non ha mai detto a Mario, José ha cose che non ha mai detto a Davide, Mario ha cose che non ha mai detto a nessuno.
Note: A metà fra un esorcismo, un'apologia di Mario e uno sfogo personale, questa storia in teoria nasce da uno scambio di battute col Def. Tutto è partito dal fatto che lui avrebbe dovuto promptarmi roba che io poi avrei dovuto scrivere per farlo felice, solo che naturalmente mi ha promptato roba che io riesco a scrivere una volta ogni morte di papa e solo quando i pianeti si allineano in modo da formare figure di bambini che giocano a palla se li si unisce con una matita, per cui... XD Insomma, a partire dalla roba che mi aveva dato lui, e avvalendomi anche dell'aiuto di uno dei prompt del P0rn Fest (RPF Calcio (Inter FC), Davide Santon/José Mourinho/Mario Balotelli, "Ti dà fastidio se lo sfioro, Mario?") (perché io voglio i bannerini di fiumidiparole, sempre), ho scritto questa storia che naturalmente si è mossa tanto dalle premesse da non assomigliarci più neanche un po'. Insomma, io a Def chiedo scusa perché non è possibile che per il suo compleanno abbia la faccia tosta di propinargli a) roba che non gli piace, b) ANGST... XD Mi spiace, bimbo. Però ti vu bi e tutto l'amore che ci ho messo (assieme al dolore che ci ho spremuto sopra) spero possano ricordartelo ;_; *cuori*
Comunque, a parte questo ringrazio i Muse perché esistono u.u e perché Guiding Light mi ha guidata lungo tutta la stesura, oltre a darmi il titolo.
Pairing: Mario/Davide, José/Mario, José/Davide, José/Mario/Davide (yeah baby).
Personaggi: José, Mario, Davide, menzionata Hera.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Threesome, Angst, What If?, Song-fic.
- Davide ha cose che non ha mai detto a Mario, José ha cose che non ha mai detto a Davide, Mario ha cose che non ha mai detto a nessuno.
Note: A metà fra un esorcismo, un'apologia di Mario e uno sfogo personale, questa storia in teoria nasce da uno scambio di battute col Def. Tutto è partito dal fatto che lui avrebbe dovuto promptarmi roba che io poi avrei dovuto scrivere per farlo felice, solo che naturalmente mi ha promptato roba che io riesco a scrivere una volta ogni morte di papa e solo quando i pianeti si allineano in modo da formare figure di bambini che giocano a palla se li si unisce con una matita, per cui... XD Insomma, a partire dalla roba che mi aveva dato lui, e avvalendomi anche dell'aiuto di uno dei prompt del P0rn Fest (RPF Calcio (Inter FC), Davide Santon/José Mourinho/Mario Balotelli, "Ti dà fastidio se lo sfioro, Mario?") (perché io voglio i bannerini di fiumidiparole, sempre), ho scritto questa storia che naturalmente si è mossa tanto dalle premesse da non assomigliarci più neanche un po'. Insomma, io a Def chiedo scusa perché non è possibile che per il suo compleanno abbia la faccia tosta di propinargli a) roba che non gli piace, b) ANGST... XD Mi spiace, bimbo. Però ti vu bi e tutto l'amore che ci ho messo (assieme al dolore che ci ho spremuto sopra) spero possano ricordartelo ;_; *cuori*
Comunque, a parte questo ringrazio i Muse perché esistono u.u e perché Guiding Light mi ha guidata lungo tutta la stesura, oltre a darmi il titolo.
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CRUSHED, COLD AND CONFUSED
RPF Calcio (Inter FC), Davide Santon/José Mourinho/Mario Balotelli, "Ti dà fastidio se lo sfioro, Mario?"
Quando Mario era arrivato all’Inter, lui era già di casa da un po’. Naturalmente lo conosceva, quantomeno di nome – era impossibile non aver sentito nell’ambiente delle gesta dell’italiano nero che non ci teneva manco per un cazzo a fare il simpatico, mandava a fanculo l’universo, pestava i compagni anche più grandi del Lumezzane e quando capitava gli pisciava pure addosso, giusto per far capire che selvaggio era nato e selvaggio sarebbe rimasto, in culo a chiunque volesse anche solo provare ad insegnargli l’educazione – ma oltre questo non è che potesse dire di sapere esattamente chi Mario Balotelli fosse, da dove venisse, dove stesse andando e cosa stesse cercando.
Mario era arrivato d’estate. Faceva un caldo boia e lui era felice come un demente di stare in camera da solo perché significava poter dormire nudo e sbattersene le palle di andare in giro fradicio come fosse stato per ore sotto la pioggia quando, al più, era stato per ore sotto la doccia, senza preoccuparsi che qualcuno potesse emergere all’improvviso fra le coperte dell’altro letto e dirgli di andarsi a rivestire, che non aveva la minima voglia di vederlo stare lì ad aggirarsi baldanzoso per la camera col culo di fuori.
Un tipo del settore giovanile, uno degli svariati responsabili senza nome che cambiavano ogni anno e che comunque lui non vedeva abbastanza da poter dire di conoscere, era venuto da lui il giorno prima del suo arrivo, e gli aveva detto che “quello nuovo” – il nome di Mario ancora non girava, non perché fosse un segreto, lo sapevano tutti, ma perché non si voleva fare troppa pubblicità alla cosa quando la trattativa col Lumezzane era ancora in bilico fra il sì e il no – “quello nuovo”, insomma, sarebbe arrivato fra una settimana o poco più, e che perciò sarebbe stato meglio se avesse cominciato ad organizzare le sue cose per stare nella propria metà di stanza e non disturbarlo troppo. “Che lo sai quello che si dice di lui. Non è un tipo facile.”
Davide avrebbe potuto odiarlo per principio. Del tipo, non solo arrivi e mi vieni a rompere le palle in casa mia impedendomi di andare in giro come più mi piace, ma sei pure uno stronzetto cui le mille sfighe della vita non hanno insegnato neanche l’abc della gratitudine, e io dovrei tollerarti?, ma non era mai stato capace di far lavorare il cervello abbastanza a lungo da crearsi dei preconcetti veri, perciò l’idea della comparsa di qualcuno di potenzialmente fastidioso nella sua vita era rimasta per l’appunto soltanto un’idea, fastidiosa quanto si voleva, ma impalpabile, quasi insignificante.
Il giorno che Mario s’era presentato in Pinetina batteva un sole sconcertante e loro erano tutti appena tornati dalle vacanze. Era arrivato in ritardo, correndo come un disperato, ma nel momento in cui aveva messo piede sul campo aveva subito ripreso a camminare, cercando di darsi un tono e dare a bere a tutti che non gliene fottesse niente, sostanzialmente, di trovarsi in casa di una delle “grandi” del Campionato ltaliano – probabilmente l’unica con qualche possibilità di vincere qualcosa senza rubare niente a nessuno.
Gli brillavano gli occhi, e sotto il sole estivo pure la sua pelle scura, madida di sudore, sembrava brillare.
Davide avrebbe potuto odiarlo per principio, ed invece aveva finito con l’innamorarsene all’istante.
Se chiude gli occhi, Davide può ricordare con una nitidezza impressionante il sorriso sicuro e radioso che era sbocciato sulle labbra di Mario nel momento esatto in cui Josè si era allontanato da loro. “Ti dico subito una cosa,” gli aveva detto, passandogli un braccio sopra le spalle e portandolo in giro per fingere di mostrargli campi che conosceva già a memoria, “il mister è di quelli che, quando si convincono di aver scoperto una cosa, non possono accettare che quella stessa cosa esistesse prima che loro gli posassero gli occhi addosso. Quindi, in pratica, per Mourinho tu sei nato nel giorno stesso in cui t’ha visto giocare in Primavera e gli sei piaciuto.”
“Ah,” aveva ridacchiato Davide, stringendosi imbarazzato nelle spalle e sperando che Mario non notasse quanto la sua vicinanza quasi esagerata lo stesse mandando su di giri, “Quindi non importa che conosca la Pinetina meglio di lui che è arrivato da tipo due mesi.”
“Ecco, hai capito subito,” aveva riso Mario, scompigliandogli un po’ i capelli. “Ora ci conviene andare,” aveva aggiunto, indicando il centro del campo con un cenno del capo, “Un’altra cosa che bisogna sapere su di lui è che odia quando le cose non vanno come le ha prestabilite. Quindi, in pratica, niente ritardi o siamo fottuti.”
Davide riapre gli occhi sul sole che batte insistente sul campo di allenamento principale, solo perché Deki uscendo dall’edificio se l’è ritrovato lì davanti immobile col muso piantato per aria e non è riuscito a fermarsi in tempo per non rovinargli addosso.
- Dade! – sbotta, aiutandolo a mantenersi in piedi, - ‘Cazzo ci fai qua fermo?
Le immagini di Mario sfumano dai suoi occhi, scivolano via annacquate come acquerelli sotto la pioggia. Davide cerca di ricomporsi addosso un sorriso, si scusa e corre svelto verso il campo, saggiando il terreno coi tacchetti per acquisire maggior stabilità possibile. Un’ultima controllatina al ginocchio che pare rispondere bene, e poi via coi giri di campo, per riscaldarsi e possibilmente smettere anche di pensare.
There's sunshine trapped in our hearts
It could rise again
But I'm lost, and crushed, and cold
and confused with no guiding light left inside
Quando José era arrivato all’Inter, aveva immediatamente inquadrato Mario come un oggetto misterioso da studiare approfonditamente. Gli era spesso capitato, nel corso della sua carriera, di avere a che fare con soggetti oggettivamente assurdi da instradare, addirittura educare, roba che ad un allenatore non dovrebbe mai essere chiesto, perché dannazione, si sta parlando di calcio a livello professionistico, mica di oratori a caso sparsi in campagna, ma col tempo si era reso conto che nulla di tutto ciò che aveva incontrato nella propria vita, per quanto indisciplinato e maldestro a livello di educazione potesse essere, poteva essere anche solo lontanamente paragonato a lui.
Mario era refrattario. A tutto. All’educazione, a una guida, agli schemi tattici, ai pilastri morali della squadra, alle mode, ai consigli, all’integrazione. A Mario non fregava un cazzo di sentirsi ammirato, compreso, considerato o lodato. Mario voleva solo essere accettato, tutto, pregi e difetti, così com’era. E non per una questione di principio, ma perché era profondamente convinto di valere abbastanza da meritarselo.
Cosa gli avesse infuso una consapevolezza del genere, José non era mai riuscito a capirlo: il loro rapporto non era stato certo di breve durata, ma era durato comunque troppo poco perché lui riuscisse a sondare alla perfezione tutte le pieghe della sua anima.
Tre cose era riuscito a capire con assoluta certezza, comunque.
Prima, Mario avrebbe sempre detto più no di quanti sì gli capitasse di lasciarsi sfuggire.
Seconda, Mario usava le persone – maschi o femmine o lui che fossero – per non pensare.
Terza, Mario era perdutamente, inesorabilmente, infantilmente, quasi assurdamente innamorato di Davide.
Rivede ancora senza la minima difficoltà i suoi occhi scuri, perfettamente tranquilli, scrutarlo quasi con curiosità mentre si lascia scivolare via i vestiti di dosso in una carezza leggerissima, certo che non sentirà mai un no provenire dalle sue labbra. Riesce a rivedersi, nel fondo scuro di quegli occhi, immobile sul letto come paralizzato, terrorizzato, sconvolto da se stesso, perché sa già che non riuscirà a tirarsi indietro.
Lo rivede avvicinarsi lentamente, non perché cauto ma perché divertito dalla sua paura, come quei felini predatori che sanno potrebbero stroncare in un morso velocissimo la vita delle loro prede ma preferiscono avvicinarsi circospetti, sentire il respiro delle loro future vittime sciogliersi in un ansito terrorizzato, e poi agguantarle e finirle quando sono già così oltre la paura da non riuscire quasi più a sentire nemmeno il dolore.
Nei suoi ricordi, Mario allarga le gambe scure e tornite e punta le ginocchia sul materasso, avvicinandosi fino a stargli addosso senza sederglisi in grembo. Lo guarda il silenzio, poi guida le sue mani lungo le linee nette e scolpite eppure dolcissime del suo petto, quelle curve talmente definite da sembrare disegnate col compasso, e lo annega nel gemito liquidissimo che gli sfugge dalle labbra quando le sue dita dischiuse scivolano distrattamente sui suoi capezzoli già turgidi di desiderio.
José ricorda distintamente di aver perso definitivamente la testa quando le sue labbra piene si sono chiuse sulle proprie, ma le voci dei giocatori che ridono per chissà che motivo lo distolgono dai propri pensieri, e lui si ritrova costretto a ringraziare i pantaloni larghi della tuta di quest’anno se l’oggetto dell’ilarità dei suoi calciatori non sono lui e l’erezione fastidiosa che gli è cresciuta fra le gambe, ma qualcos’altro.
Per un attimo, incrocia lo sguardo incerto di Davide, e l’attimo successivo lo rifugge, vergognoso.
And comfort and warmth can't be found
I still reach for you
But I'm lost, and crushed, and cold
and confused With no guiding light left inside
Hera era entrata nella sua vita per pura e semplice reazione. Non poteva dire di ricordare esattamente il momento in cui aveva capito che Mario andava a letto con José, ma poteva dire quanto devastante e concreta era stata la certezza, il dolore sordo che gli aveva invaso il petto impedendogli di respirare per dei secondi interi, la voglia di piangere che gli aveva annebbiato occhi e pensieri, confondendolo, il desiderio di fuggire il più lontano possibile e dimenticare, dimenticare, dimenticare.
Mario andava a letto con un mucchio di ragazze, ed a lui l’andirivieni di donne fra le sue braccia non aveva mai dato fastidio, un po’ perché Mario stesso non dava loro il minimo peso, un po’ perché i loro passaggi fra le sue lenzuola erano talmente fugaci che rimanevano presenze effimere, quasi impalpabili, come fantasmi. Il problema era che tutto, nella vita di Mario, sembrava seguire la stessa logica del passaggio. Nulla è davvero importante, ma anche le cose poco importanti, in fondo, esistono, e ingombrano. Alla fine, il motivo per cui i fantasmi fanno paura, il motivo per cui non puoi sconfiggerli, è che non li puoi toccare. Non puoi prendere un coltello e tagliarli in due, non puoi prendere una pistola e sparargli contro, non puoi soffocarli con un cuscino, non puoi picchiarli fino a spaccar loro tutte le ossa. Loro restano lì, invisibili ma presenti, sottili ma enormi, li percepisci ovunque e non puoi farci niente.
Così erano le donne, così era anche Mourinho, con la differenza che le donne cambiavano a velocità ridicole, i loro lineamenti si confondevano, non riusciva ad essere geloso di una di loro perché faceva appena in tempo di imparare il nome della nuova ragazza del momento che Mario subito la cambiava con un’altra, ma con Mourinho questo meccanismo non poteva funzionare, perché lui era uno solo, unico, irripetibile, e quando Mario non poteva guardare fissa la sua donna del momento – cioè per il novanta percento della sua giornata – erano i suoi occhi quelli che cercava di continuo, i suoi lineamenti quelli ridisegnando i quali si perdeva distraendosi durante gli allenamenti, le sue labbra quelle da cui pendeva ogni volta che le schiudeva cominciando a parlare.
Accorgersi di tutti quei piccoli gesti e non avere nessun’arma con cui combatterli stava diventando una tortura. Per questo, quando Hera si era avvicinata, non l’aveva scansata a priori come aveva cominciato sistematicamente a fare da dopo Sofia in poi – cioè da quando aveva capito che mettere le mani addosso a qualcosa che era stato di Mario per cercare di ritrovarci lui dentro non poteva che portarlo ad ulteriore quanto inutile sofferenza.
Hera era bella ma non bellissima, simpatica ma non eccessivamente rumorosa, intelligente ma non troppo brillante, talentuosa ma non unica nel suo genere. Andava bene per lui, insomma: riusciva ad oscurargli la vista di Mario per qualche minuto, ma non abbastanza da costringerlo a sentirsi mancare l’aria perché non ce l’aveva più intorno. E finché il compromesso aveva funzionato, la storia fra lui e lei era andata avanti senza problemi.
Adesso, ogni volta che, finiti gli allenamenti e rimasto solo con José, Davide si avvicina a lui, sfiorando la sua pelle con la punta del naso e le labbra dischiuse, tutto ciò che vuole è seguire la traccia impalpabile dei propri ricordi e fonderla con quella più concreta rimasta intrappolata sulla pelle di José, e riavere Mario, in qualche modo, seppure per una sola mezz’ora.
Ogni volta che José lo stringe fra le braccia, lo adagia sul letto ed entra piano dentro di lui, Davide chiude gli occhi e pensa a braccia più scure, gambe più forti, un ventre più piatto, una schiena dalla curva più dolce. E non riesce mai a guardarlo.
You're my guiding light
And there's no guiding light left inside
There's no guiding light in our lives
Una delle volte in cui Mario s’era fermato da lui a dormire per la notte, nascosto in uno delle millemila camere per gli ospiti che rendevano Villa Ratti più simile a un albergo che a una casa normale, José gli aveva chiesto perché lo stesse facendo. Era una cosa che non s’era mai azzardato a chiedere prima – le risposte di Mario, quelle brevi che dava ma soprattutto quelle più lunghe e complesse che taceva, gli facevano paura – ma quella volta s’era lasciato andare alla curiosità, se non altro perché il loro incontro, se così si poteva chiamare Mario che gli salta addosso fradicio di pioggia sulla soglia della porta e poi lo trascina in camera lasciandosi scopare ripetutamente fino quasi a perdere i sensi, era stato, stranamente, più dolce del solito.
Da qualche parte a metà fra la seconda e la terza volta distribuite nell’arco di tre ore totali – cose che ad uno della sua età avrebbero dovuto essere vietate per motivi di salute – Mario aveva reclinato indietro il capo ed aveva sorriso, perso, poggiando entrambe le mani sulle sue che lo stringevano ai fianchi e forzando le sue dita con sufficiente ostinazione da costringerle ad incastrarsi perfettamente con le sue. José s’era fermato per qualche secondo ad osservare il contrasto delle loro dita intrecciate, prima di venire dentro di lui con un’ultima spinta e stendersi al suo fianco mentre Mario si allargava il più possibile per prendere possesso di tutta la propria metà di letto e strabordare abbondantemente anche nella sua, lanciandogli disordinatamente addosso braccia e gambe come fosse stato un cuscino.
“Perché vuoi restare?” gli aveva chiesto, e Mario aveva sorriso distante.
“A casa c’è Hera,” aveva risposto senza guardarlo, “Vederla con Dade non è un’opzione, per me.”
José aveva sollevato la testa dal cuscino e, del tutto irrazionalmente, come se lui e Mario non avessero appena finito di scopare, gli aveva chiesto “Lei ti piace davvero?”, una cosa che già a ripensarci due secondi dopo l’aveva addirittura stordito con la sua lampante stupidità. Mario s’era voltato a guardarlo, gli occhi persi in un misto di confusione e incredulità, e poi aveva sorriso.
“Mi piace lui,” aveva risposto, il tono dolce e un po’ cupo, “Mi piace da morire lui.”
Lo aiuta a tirarsi su, stringendoselo contro ed accarezzandogli la pancia e poi i fianchi, fino a prendere fra le dita la sua erezione ed accarezzare anche lei, seguendo il ritmo delle proprie spinte. Davide piange in silenzio, e José chiude gli occhi perché non vuole vederlo.
Minuti dopo, stesi l’uno accanto all’altro sul letto della stanza di José in ritiro, fissano il soffitto con sguardo vacuo e José non riesce a frenare la lingua abbastanza in fretta da impedirle di srotolare una domanda dal sapore inopportuno e nostalgico.
- Lui ti piace davvero? – chiede, e stavolta non è la domanda sbagliata.
Davide si volta a guardarlo francamente terrorizzato, e José può leggere nei suoi occhi spalancati e sconvolti tutta la tipica paura che si prova nel sentirsi nudo davanti a qualcuno indipendentemente dal fatto di avere o meno vestiti addosso. Sa che, quando Davide tira su il lenzuolo coprendosi fino al petto, non è per pudore, ma per provare a schermarsi in qualche modo da uno sguardo che sta scavando dentro di lui più profondamente di quanto non gli è mai sembrato di avergli permesso.
In ogni caso, Davide non è Mario, e perciò José non si stupisce di vederlo rigirarsi su un fianco per voltargli le spalle, senza rispondere né dire nient’altro. Lo immagina provare a chiudere gli occhi per dormire, e sa già che non ci riuscirà.
Non passano che pochi secondi, e poi si alza, cercando i propri vestiti in giro per ricomporsi e lasciarlo solo. Ha già invaso abbastanza spazi, per oggi, e non è il caso di continuare ad invaderne altri.
Milano non gli è mai piaciuta granché, manco quando per lavoro era obbligato a viverci, tant’è che ad ogni occasione favorevole scappava a Concesio. È sempre stata utile come distrazione, perché è rumorosa e luminosa, soprattutto di notte, ma la sua attrattiva finiva lì, ed a lui non manca. Essere solo in prestito al Barça, peraltro, aumenta tutta la sua insicurezza. Non fa che chiedersi da ore per quale motivo José l’abbia preteso in Italia il prima possibile, e prega con tutte le sue forze che non si tratti di un estremo tentativo di convincerlo a tornare in Italia, perché più passano i minuti a Milano più lui si sente mancare l’aria.
In Pinetina, fortunatamente, non c’è nessuno. Solo qualche inserviente e qualcuno dello staff tecnico che si aggira pigramente per i corridoi, le maniche delle divise arrotolate fino alle spalle. Saluta timidamente un po’ tutti, non perché sia refrattario ai sorrisi in genere, quanto più perché si sente incredibilmente fuori posto.
È già arrabbiato quando arriva di fronte all’ufficio di José, ma si arrabbia anche di più quando gli dicono che il mister non è là, s’è ritirato in camera sua subito dopo l’allenamento e non ne è ancora uscito se non per brevi momenti. “Sta preparando la trasferta ad Abu Dhabi”, gli fa sapere Andrea salutandolo con un sorriso genuinamente felice quando lo incontra per caso girovagando per il centro, “Sarà contento di vederti.”
Sarà contento sì, pensa Mario, m’ha chiamato lui, ma non lo dice perché le parole di Andrea gli rivelano chiaramente che nessuno sa della telefonata di José che lo invitava a tornare quanto prima. Alla rabbia si aggiunge la paura e l’incertezza – non sa cosa José voglia da lui, ma se non ha potuto parlarne con nessun altro, non può essere niente di buono.
È sul piede di guerra quando arriva di fronte alla camera di José. Si trattiene qualche secondo a pensare – dovrebbe bussare? – poi decide di no e schiude la porta senza aspettare un secondo di più.
Paura, rabbia, risentimento, confusione – scivola tutto via fuori dal suo corpo lasciandolo quasi sgonfio nel momento in cui vede Davide nudo e steso sul letto con José al suo fianco, impegnato ad accarezzarlo lentamente, le sue dita che si prendono cura della sua erezione con devozione e le sopracciglia corrugate in un’espressione tesa e preoccupata smentita solo in parte dagli occhi distanti e carichi di una dolcezza indefinita di cui Mario non saprebbe spiegare la ragione.
- Sapevo che non avresti bussato. – commenta José, sospirando platealmente. Davide è sconcertato dalla sua apparizione, salta in ginocchio sul materasso appena si rende conto di quello che sta succedendo, e la sua prima mossa è cercare a tentoni un lenzuolo sul materasso per tirarselo contro e coprirsi il più possibile. Il suo petto si alza e si abbassa velocemente al ritmo del suo respiro stravolto un po’ dalle carezze di José e un po’ dalla sorpresa. Mario non riesce a parlare, ed infatti è ancora José a farlo, più per riempire il vuoto che per dire davvero qualcosa. – È andato bene il viaggio?
Mario lo guarda – ancora sdraiato sul letto, perfettamente a proprio agio – e deglutisce.
- Sapevo che non sarei dovuto venire. – biascica confuso, - Dovevo restare a Barcellona.
José getta lentamente le gambe fuori dal materasso, mettendosi in piedi e girando tutto attorno al letto, fino a ritrovarsi alle spalle di Davide. Non dice una parola quando gli strappa letteralmente il lenzuolo di dosso e, per coprire il suo urletto sorpreso e vergognoso, lo bacia profondamente, stringendogli le braccia lungo i fianchi per impedirgli di divincolarsi. Quando lo lascia andare, Davide è senza fiato. E Mario anche.
- Ti dà fastidio se lo sfioro, Mario? – chiede a bassa voce, lasciando scivolare il dorso della mano lungo la curva appena accennata del suo fianco. Davide lo guarda, poi guarda Mario, i loro occhi si incatenano e nel fondo si agita la stessa paura di essere di fronte ad una strada obbligata e accidentata, una di quelle che in genere si fa di tutto per evitare nella vita e che poi, per un motivo o per l’altro, finiscono per presentarsi sempre sul cammino di ognuno. – Se lo tocco, se lo bacio… - aggiunge, poggiando le labbra sulla curva della sua spalla ed assaggiandola piano in punta di lingua, - Ti dà fastidio?
Lo stomaco di Mario fa le capriole, ma non saprebbe dire se ciò che sta provando sia fastidio. Punge, però, punge tanto e insistentemente, quindi forse al di là di tutto fa un po’ male.
Annuisce senza nemmeno pensarci, e José sorride appena – un sorriso minuscolo da padre costretto a fare cose che non avrebbe mai pensato di poter fare, solo per i suoi piccoli – invitandolo ad avvicinarsi con un cenno della mano. Mario si muove meccanicamente, guidato dall’istinto prima e dall’odore di Davide poi. Si arrampica sul letto e si muove in ginocchio fino ad arrivargli vicinissimo. Il suo respiro s’infrange erratico e caldo contro le sue labbra, confondendolo, tanto che solo molto dopo Mario si accorge che José lo sta ancora masturbando, e che è quello, oltre all’agitazione, che motiva il suo ansito incerto e quasi soffocato.
Solleva le braccia perché se José lo sta toccando allora non c’è proprio niente di male a volerlo toccare anche lui. Gli sfiora le spalle, le linee del petto e dei fianchi, e quando José fa per allontanarsi e lasciarli è lui che guarda, quasi implorandolo di restare e continuare a dirigerli, perché con lui sembra tutto più semplice.
In effetti, a pensarci bene, è sempre stato così. Era più facile, quando stava ancora all’Inter, sentirsi protetto nei confronti del mondo quando c’era José a schermarlo da tutto il resto, durante le interviste o in conferenza stampa. E diventava tutto drammaticamente più pesante quando invece José non c’era, o la sua voce, per quanto urlasse, era troppo debole per superare in potenza la voce tonante di San Siro e i suoi fischi costanti e senza via di scampo. A ben pensarci, ogni singolo momento in cui ha perso la testa, ha fatto qualche cazzata o ha distribuito in giro perle che non hanno fatto altro che rendergli la vita più complessa di quanto già non fosse, è stato perché José non era nei paraggi a salvarlo da se stesso.
Si china sulle labbra di Davide e lo bacia piano, assaggiandolo fino in fondo e conservando il suo sapore sulla lingua. Ogni tanto, la mano di José – che ancora lo accarezza – incontra con una nocca la sua erezione ancora imprigionata sotto pantaloni e biancheria, e lui si sente scosso da un brivido che gli toglie ogni forza. È per questo che utilizza tutte quelle che gli sono rimaste per spogliarsi in fretta, il più velocemente possibile, e schiacciarsi contro Davide fino a sentire ogni centimetro della sua pelle aderire contro il proprio. È la prima cosa che suoni perfettamente giusta degli ultimi cinque anni della sua vita, suona giusta come l’unico momento perfetto in cui ha messo piede per la prima volta a San Siro e tutto lo stadio, tutto il dannato stadio s’è sgolato per supportarlo.
José lo aiuta a sistemarsi Davide addosso, indirizza perfino la sua erezione quando deve cominciare a farsi strada dentro di lui. Distrae Davide e le sue difficoltà ad abituarsi a qualcosa che fino a quel momento non ha mai toccato, dispensando baci lievissimi sulla sua pelle accaldata e sudata, e liberando lui dall’incombenza di doversi occupare di tutte quelle minuscole attenzioni in prima persona. Non potrebbe farcela, questo Mario lo sa, non potrebbe farcela semplicemente perché il solo sentirsi mentre si spinge prima lentamente e poi sempre più velocemente dentro di lui gli toglie ogni capacità di pensiero razionale. Mario chiude gli occhi e spinge, e lo stringe fra le braccia come non volesse più lasciarlo andare, e le sue orecchie si riempiono dei suoi gemiti che crescono di volume e di intensità col passare dei minuti, dei secondi, degli attimi, fino a quando lo sente sciogliersi e riversarsi sul suo stomaco, ma fra dita che non sono sue e che si sono occupate della sua eccitazione per tutto il tempo mentre tutto ciò che lui era in grado di pensare era ti voglio, sei mio, ti voglio da sempre, ti amo.
Riapre gli occhi sull’espressione di Davide, esausta e stravolta dal piacere. Ne studia le linee con occhi stanchi e ancora annebbiati dalla sensazione devastante dell’orgasmo che l’ha scosso interamente non più di pochi secondi fa, e poi segue il suo profilo con le labbra, ascoltandolo ritrovare un ritmo meno faticoso per il proprio respiro.
José li guarda a lungo e sospira come si fosse liberato da un peso più grande di lui. Li saluta senza parole, con un ultimo sguardo carezzevole, prima di lasciarli entrambi sfatti su un letto perfino più sfatto di loro, nel buio protettivo di una stanza che non dovrebbe essere rassicurante per nessuno dei due, e che invece, per qualche ragione, lo è.
- Forse l’errore è stato quello di trattare tutto questo come una storia d’amore quando in realtà non lo era. – riflette Mario voltandosi sulla pancia e guardando Davide, che gli ricambia l’occhiata non senza qualche incertezza.
- Tu sei sempre stato troppo complicato, per me. – risponde lui, ravviandosi i capelli umidi di sudore lungo una tempia, - Di cosa stai parlando?
- Di tutto. – sospira Mario, sistemandosi il cuscino sotto il capo, - Io mi sento tradito per motivi che non comprendo, da anni, Dade. Da te, dalla squadra, dal mister… i motivi sul momento li trovo senza fatica, perché sono arrabbiato, ma poi me li dimentico. Io so di essere scappato da Milano perché ero furioso, perché mi sembrava che tu mi avessi abbandonato, che mi avesse abbandonato José, che mi avesse abbandonato l’Inter. Però, se provo a ripensarci adesso, non riesco ad immaginarmi nemmeno un perché.
- E questo – quasi mugola Davide, voltandosi sul fianco verso di lui, - cosa c’entra con le storie d’amore, Mà?
- C’entra che uno non ripone fiducia a caso, Dade. – risponde Mario, e improvvisamente ritrovarsi a chiamarsi con gli stessi soprannomi che usavano prima che tutto questo enorme casino scoppiasse, gli sembra la cosa più giusta di sempre. – Riponi fiducia solo in chi ami. E io non ho mai detto d’essere innamorato di nessuno. Quindi, in pratica, non avevo nessun diritto di sentirmi tradito, ma mi ci sentivo lo stesso.
Davide solleva una mano, gli accarezza la guancia e poi la tempia, passando le dita fra i capelli corti e crespi che hanno appena cominciato a ricrescere ai lati della sua testa.
- Non l’hai mai detto, ma forse non ce n’era bisogno. – gli fa notare in un sussurro un po’ stanco. Mario lo osserva abbassare il braccio e poi accoccolarsi contro di lui, recuperando la coperta finita a calci in fondo al materasso ed utilizzandola per coprire entrambi. Davide lo guarda un’ultima volta, Mario annuisce e gli sorride, e solo allora Davide si concede un minuscolo sorriso dei suoi, poi torna a chiudere gli occhi e si addormenta. Mario non riesce a seguire il suo esempio – ha ancora troppe cose a cui pensare, troppe cose da risolvere, e come sempre nella sua testa c’è troppo casino per poter pensare davvero di risolvere alcunché – ma in qualche modo ha l’impressione che decidere cosa fare di tutto il resto della sua esistenza, per una volta, potrebbe cominciare a diventare più facile di quanto non lo sia stato in passato.