Genere: Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Boy's Love, What If?.
- Alla fine di Barcellona-Manchester City, una gatta nera trova il modo di introdursi al Camp Nou. Zlatan la adotta.
Note: Sul finale di Barcellona-Manchester City, valida per la tradizionale Coppa del Re (almeno credo o_ò) all’inizio di questa stagione calcistica, ad un certo punto un gattino nero ha trovato chissà come il modo di entrare in campo e, terrorizzato, schizzare di fronte alla panchina del Barça XD Per quel momento, Zlatan aveva già abbandonato il campo, perciò me lo sono immaginato a chiamare il gattino e portarselo a casa – e giuro che questo è l’unico motivo per cui ho scritto questa storia. José ci si è infilato autonomamente – come s’infila sempre autonomamente in ogni cosa, ne abbia il permesso o meno XD E a parte questo niente, è tutto storicamente documentato – a parte appunto la presenza di José e del gatto in casa di Ibra – e spero vi sia piaciuta <3
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Negrita


Quando Zlatan apre la porta, José ha entrambe le mani occupate. In una stringe i manici di un borsone nero ed elegante, di dimensioni medie, abbastanza appena per il cambio e il necessario per due giorni, forse. In un’altra, invece, stringe i manici di un sacchetto di plastica bianca, sottile e stropicciato. Sul davanti, un po’ deformato dal peso di ciò che contiene, lo stemma rosso e arancione del supermercato italiano dal quale proviene.
Quando José entra in casa senza chiedere permesso, anche Zlatan ha entrambe le mani occupate. Una stringe con forza la maniglia della porta, come vi si volesse aggrappare per non cadere, e José la osserva tremare visibilmente, quella mano, contro l’ottone un po’ sbiadito della maniglia, perché è la sinistra, il polso è ancora fasciato e nonostante tutto deve fare ancora male. L’altra mano, comunque, è occupata da qualcosa di ben più curioso.
- Sarebbe? – chiede il portoghese, poggiando il sacchetto di plastica sul primo tavolo che incontra e puntando poi l’indice contro il gatto nero che lo guarda curiosamente dal palmo della destra di Zlatan, gli occhi verdissimi fissi su di lui, a seguire il movimento del dito, e la coda che pende pigramente verso il pavimento.
Zlatan abbassa un po’ lo sguardo sul gatto, come avesse bisogno di osservarlo per ricordarsi della sua esistenza.
- Negrita. – risponde quindi, riportando gli occhi su José, che nel mentre ha tirato fuori dal sacchetto un pacco di spaghetti, una scatoletta di tonno, un vasetto di capperi sotto sale, un barattolo di pomodoro pelato ed un sacchettino più piccolo, tutto arrotolato, dal contenuto dubbio. – È una gatta, come puoi vedere anche da solo. L’ho chiamata così.
- E da quando ce l’hai? – chiede José con naturalezza, prendendo tutto fra le braccia e muovendosi disinvoltamente verso la cucina, come conoscesse a memoria la planimetria di quell’appartamento pur non essendoci mai stato, come fosse normale essere lì in quel momento quando invece dovrebbe trovarsi a più di mille chilometri di distanza, a Milano, nel proprio letto, a piagnucolare per il più fallimentare di tutta la storia dei pareggi da che l’uomo vive sulla Terra – o forse non esattamente, ma è comunque così che preferirebbe vederlo Zlatan, piuttosto che osservarlo affaccendarsi fra i suoi stipetti, cercando tegami e cucinando cose.
- Da oggi. – risponde comunque, appoggiandosi con una spalla allo stipite della porta ed accarezzando la gatta che ronfa serena sulla sua mano, - È entrata nello stadio, nessuno ha ancora capito come. Io ero già in panchina e lei era spaventata. Quando l’ho chiamata, mi si è avvicinata. – racconta piano, lento, e per un attimo riesce a perdersi in una fantasia assurda all’interno della quale José che gli prepara la cena è assolutamente normale, pure se non lo è mai stato e non lo era nemmeno quando passare le serate insieme, quello sì, era normalissimo. – Mi si è seduta sulle ginocchia. – continua a raccontare con un sorriso distante, - Quando è finita la premiazione, l’ho portata a casa con me. E l’ho chiamata Negrita.
- Ti piace lo spagnolo? – chiede l’altro, mettendo un tegamino sul fuoco e svuotando al suo interno la metà degli ingredienti che ha portato con sé.
Zlatan scuote le spalle.
- Non che lo capisca perfettamente.
- Dopo tutte le volte che l’ho usato con te. – soggiunge José con un ghigno, sciacquando i capperi prima di aggiungerli all’intruglio che già ribollisce nel tegamino.
- Tu parlavi in portoghese. – borbotta Zlatan, poggiando Negrita su una spalla per incrociare le braccia sul petto.
- Ho usato anche lo spagnolo, qua e là, chico. Solo che, – aggiunge con un altro sorrisino beffardo, - viste le situazioni in cui l’ho usato, non mi meraviglia che ti sia sfuggito.
Zlatan arrossisce imbarazzato, abbassando lo sguardo mentre Negrita fa le fusa proprio lì all’altezza del suo orecchio, stordendolo un po’.
- Sei venuto fino a qui per prepararmi la cena e fare lo stronzo? – chiede quindi, tutto d’un fiato. E poi, più seriamente, - Che ci fai qui, Zay?
José non risponde, e non sembra neanche granché turbato dall’uso di un soprannome che avevano entrambi deciso di mettere da parte nel momento esatto in cui Zlatan gli aveva detto che stava per partire. Rimesta l’intruglio, ne porta un po’ alle labbra e lo assaggia in punta di lingua con aria dubbiosa, prima di annuire soddisfatto e spegnere il fuoco sotto il tegamino, recuperando la pentola e piazzandola sotto il rubinetto per riempirla d’acqua calda.
- Com’è andata la partita? – chiede quindi, reggendo la pentola per i manici mentre, lentamente, si riempie, - Mi hanno detto che hai segnato.
- Ti hanno detto male. – quasi ringhia Zlatan, e il suo tono è così risentito che Negrita solleva il musetto dalla sua spalla e lo guarda con aria interrogativa, ma lui è troppo impegnato a scrutare José come volesse incenerirlo sul posto, per accorgersene. – Messi ha segnato. Il mio gol è avvenuto a gioco fermo. Quindi non è stato un gol.
Messi. – ripete José, accendendo il fornello sotto la pentola e coprendola subito dopo, - Non dovrebbe essere Lionel? O addirittura Leo?
Zlatan sbuffa e recupera Negrita, accarezzandola lentamente per tranquillizzarla.
- È Messi, per ora. – taglia corto. – Zay. – lo chiama ancora, - Zay, guardami.
José si volta a guardarlo, ma lo fa mentre srotola il sacchettino stropicciato tirandone fuori un rametto d’origano che chissà dove ha trovato prima di prendere l’aereo. Zlatan soffia come un gatto e Negrita soffia come lui.
- Guarda solo me. – precisa lo svedese, e José posa l’origano sul mobile della cucina, proprio accanto al lavandino, e guarda solo lui, le sopracciglia aggrottate e le mani sui fianchi. – Perché sei qui? – chiede Zlatan, e José sospira profondamente.
- Ti ho trovato magro. – risponde quindi, - Ho visto qualche foto, qua e là. Mi pare che non ti nutrano a dovere. Ho pensato “magari non gli piace la cucina spagnola”.
- E quindi sei venuto a prepararmi la cena. – conclude per lui. Negrita miagola, stuzzicata dall’odore del tonno cotto a puntino. – Mi prendi per il culo? – chiede ancora Zlatan, con un ghigno sghembo.
José scrolla le spalle, del tutto disinteressato.
- Non m’importa che tu mi creda. – dice, tornando a spargere origano sul tonno prima di versare l’intero contenuto del pacchetto di pasta all’interno della pentola, - M’importa solo che mangi quello che ti sto preparando. – poi si ferma, versa un po’ di sale e un goccio d’olio nell’acqua e comincia a mescolare perché gli spaghetti non si attacchino l’un l’altro né sul fondo della pentola. – E poi voglio che posi quel gatto. – continua, mentre Negrita gli ronfa sulla mano, - E che mi fai vedere quel polso, non sono sicuro che ti stiano curando per bene. – Zlatan fa per aprire bocca e fargli notare l’idiozia del ragionamento, dato che se c’è una cosa che interessa al Barcellona è che lui sia in splendida forma, ma José lo ferma con un rapido gesto della mano, tornando a coprire la pentola per rendere più svelta la cottura della pasta. – Lo so che è ridicolo. – precisa senza guardarlo, - Lo so che ti stanno curando bene. Ma voglio vedere quel polso. Voglio sentirlo sotto le dita. – torna a sollevare gli occhi su di lui, senza un’esitazione, senza pudore. – Voglio baciarti e scopare, è per questo che sono qui. – sorride appena, divertito, - Per la cena e per questo.
Zlatan schiude le labbra, ma non sa cosa dire. Negrita miagola, scalpita un po’. Zlatan si piega e la poggia a terra – lei non perde tempo, un secondo dopo sta strusciandosi contro le gambe di José, furba, sperando che lui le rifili un po’ di tonno più tardi.
- È un errore. – cerca di spiegargli, ma è incerto e confuso e non ci crede davvero. José lo capisce subito, e sorride più apertamente.
- Se m’importasse, non sarei qui. – risponde schietto. Zlatan si morde un labbro.
- Queste cose non sono mai prive di conseguenze. – protesta gesticolando piano, perché sì, per curarlo bene lo stanno curando bene davvero, ma la frattura sta faticando a guarire, anche se nessuno capisce il perché e Zlatan spesso si dice che forse è così perché il suo corpo non vuole davvero rimettersi a posto, dato che quel dolore è l’unica cosa che gli resta dell’Inter, della sua vecchia vita, di José.
- Ti sembro uno che ha paura delle conseguenze? – chiede José, indicandosi distrattamente prima di assaggiare uno spaghetto per saggiarne il grado di cottura, e spegnere il fuoco. – Scolapasta?
Zlatan si avvicina, Negrita cerca di arrampicarsi lungo i pantaloni di José e lui la scaccia con una mezza risata. Zlatan prende lo scolapasta e lo sistema nel lavandino, José si avvicina con la pentola bollente e lui si fa da parte. Negrita sta provando a scalare il cucinino, Zlatan la prende per la collottola e la solleva all’altezza del proprio viso, per scrutarla severamente.
- Non si fa. – cerca di spiegarle, agitandole un dito davanti al muso. Lei solleva una zampa e la poggia sul suo dito, cercando di attirarlo più vicino alla propria bocca per mordicchiarlo, un po’ per gioco e un po’ per dispetto. Quando Zlatan solleva lo sguardo su José – e lo fa solo perché José sta ridacchiando divertito – la pasta è già condita e nei piatti.
- Ostinata, questa gatta che hai trovato. – gli fa notare José, mentre sposta i piatti sull’isola della cucina e prende posto sul primo sgabello che si ritrova a portata di mano, - Adatta a te. Spero che Helena non faccia storie per tenerla in casa, quando gliela porterai.
- Al limite, - scrolla le spalle Zlatan, posando Negrita per terra e sedendosi sullo sgabello proprio di fronte a José, ficcando la forchetta nel proprio piatto di pasta mentre lo stomaco brontola e gli fa presente che dovrà ringraziare José per ben più di un motivo, dopo stanotte, - la tengo qui nell’appartamento. Non mi va di abbandonarla, dopo averla portata con me.
José fa una smorfia, non sembra granché soddisfatto.
- I gatti sono animali indipendenti. – spiega, e quando solleva gli occhi su Zlatan lui ha la netta impressione che José non stia più parlando di animali domestici, - Ma hanno bisogno della presenza del proprio padrone proprio come tutti gli altri. – Zlatan deglutisce. José manda giù una forchettata di pasta e mugola deliziato. – Assaggiala, - lo invita sorridendo, - è ottima.
Zlatan obbedisce annuendo. La pasta è ottima davvero.
- Quanto resti? – chiede fra una forchettata e l’altra. José scrolla le spalle.
- Gli allenamenti non riprendono prima di martedì. – butta lì, come fosse una cosa di marginale importanza, - Abbastanza per non farti sentire un cucciolo abbandonato. – conclude infine, con un sorriso più dolce. Zlatan risponde con un sorriso identico, e poi ricomincia a mangiare.
Negrita miagola insoddisfatta. José ride, e le allunga di nascosto un tocchetto di tonno.
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