Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Incest.
- Gli istanti, José lo sa bene, sono tutti importanti. Ogni singolo momento della nostra vita porta, sommato a tutti gli altri che abbiamo vissuto, a comprendere per quale motivo, ad un certo punto, ci si possa ritrovare in una determinata situazione o meno. José lo sa, perché il suo mestiere è questo: in quanto allenatore, lui prepara momenti. Prepara gli uomini a presentarsi preparati di fronte ad ogni singolo momento che possa cambiare la loro sorte o quella della sua squadra.
Il problema è che, per un momento come questo, nessuno avrebbe mai potuto preparare adeguatamente lui.
Note: Di base, questa storia (così come Hearts Gone Astray, scritta per il Reverse Bang @ bigbangitalia, con la quale non ha niente a che fare a livello di trama ma alla quale secondo me è legata da un filo conduttore emotivo parecchio evidente) nasce dal desiderio di riprendere in mano il Jobra in maniera seria e consistente, come non facevo da un sacco di tempo. L'idea è molto antica, ed anche la prima mezza paginetta circa della storia è stata scritta qualcosa come un annetto fa, ma nel riprenderla in mano mi sono resa conto come il bisogno di demolire tutto quello che avevo fatto col Jobra fino a quel momento era così forte da non poter essere ignorato. E' una storia profondamente addolorata, non voglio dire dolorosa perché questo spetterà ai lettori stabilirlo XD Ma addolorata, questo sì, e spero possa piacervi.
Grazie a Deffy per lo splendido fanmix che potete trovare qui (Frontcover - Backcover), e grazie anche per essersela sciroppata ed averla perfino gradita XD
La storia partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ed è ispirata al prompt #58 (Il potere di un addio).
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Incest.
- Gli istanti, José lo sa bene, sono tutti importanti. Ogni singolo momento della nostra vita porta, sommato a tutti gli altri che abbiamo vissuto, a comprendere per quale motivo, ad un certo punto, ci si possa ritrovare in una determinata situazione o meno. José lo sa, perché il suo mestiere è questo: in quanto allenatore, lui prepara momenti. Prepara gli uomini a presentarsi preparati di fronte ad ogni singolo momento che possa cambiare la loro sorte o quella della sua squadra.
Il problema è che, per un momento come questo, nessuno avrebbe mai potuto preparare adeguatamente lui.
Note: Di base, questa storia (così come Hearts Gone Astray, scritta per il Reverse Bang @ bigbangitalia, con la quale non ha niente a che fare a livello di trama ma alla quale secondo me è legata da un filo conduttore emotivo parecchio evidente) nasce dal desiderio di riprendere in mano il Jobra in maniera seria e consistente, come non facevo da un sacco di tempo. L'idea è molto antica, ed anche la prima mezza paginetta circa della storia è stata scritta qualcosa come un annetto fa, ma nel riprenderla in mano mi sono resa conto come il bisogno di demolire tutto quello che avevo fatto col Jobra fino a quel momento era così forte da non poter essere ignorato. E' una storia profondamente addolorata, non voglio dire dolorosa perché questo spetterà ai lettori stabilirlo XD Ma addolorata, questo sì, e spero possa piacervi.
Grazie a Deffy per lo splendido fanmix che potete trovare qui (Frontcover - Backcover), e grazie anche per essersela sciroppata ed averla perfino gradita XD
La storia partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ed è ispirata al prompt #58 (Il potere di un addio).
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BULLET WITH BUTTERFLY WINGS
Vi è mai capitato di ritrovarvi nella situazione di poter pensare o dire una frase come “potresti essere mia figlia”? È la classica battuta da padre di famiglia che, alle prese con una ragazza molto giovane, molto bella e molto disponibile, cerca di porre un ultimo muro fra lei e se stesso utilizzando la sciocca scusa del divario d’età. Come se una cosa del genere potesse fermare una ragazza dall’infilarti le mani nei pantaloni, se vuole, o come se un simile pretesto bastasse ad annullare la voglia che hai tu di sfiorarla fra le gambe, saggiare il suo calore e stupirti del suo sapore.
Naturalmente non serve, nei libri e nei film il momento stesso in cui questa battuta viene pronunciata segna l’inevitabile inizio della fine. Il padre di famiglia, in barba a tutti i buoni propositi, lascia che il muro della propria dignità venga abbattuto mattone dopo mattone, e puoi anticipare già ad un buon numero di pagine o di scene dalla fine come la situazione si evolverà e si concluderà.
È stato per questo motivo che non ho mai detto a Zlatan una cosa simile. Anche se la differenza d’età che ci separava mi avrebbe ampiamente giustificato, ho sempre evitato, con la speranza che questo potesse in qualche modo salvarmi dai suoi occhi, dal suo sorriso, dalla morbidezza dei suoi capelli, dalle linee dritte e definite dei suoi muscoli, dalle curve dei suoi glutei. Ci ho sempre sperato, un po’ ingenuamente, lo ammetto, perché Zlatan mi ha avuto dal primo momento. Ci sono cose che non puoi spiegare e io, davvero, mai e poi mai riuscirò a descrivere la sensazione che ho provato la prima volta che i miei occhi si sono posati su di lui che, fiero e apparentemente dimentico del mondo circostante, palleggiava disinvoltamente a centrocampo durante l’allenamento cominciato prima in attesa che arrivassi, mentre i suoi compagni contavano i palleggi, divertiti, tutti intorno a lui.
È stato qualcosa di simile ad un’esplosione, ma più discreto. Qualcosa di simile a una guerra, ma meno devastante. Qualcosa di simile a un fuoco d’artificio, ma meno rumoroso. Qualcosa di simile all’amore, ma meno netto. Più confuso. Più ambiguo – quasi sporco, dato anche il fatto che a tutto avrei dovuto pensare, in quel momento, tranne alla possibilità di lui e me stesi su un letto da qualche parte a fare non sapevo nemmeno io bene cosa.
Non so quanto possa essere utile redigere la cronistoria della nostra relazione – penso molto poco. E d’altronde, non devo a nessuno la risposta alla domanda “com’è stato possibile che vi siate messi insieme?”. No, la risposta che io e Zlatan dobbiamo al mondo è decisamente diversa, e non riguarda me e lui che diventiamo una cosa sola, ma me e lui che ritorniamo due cose distinte. Ed è una risposta che conosco, solo che non ho ancora trovato il coraggio di darla.
Vi è mai capitato di scoprire che era vero?
La prima cosa su cui ebbe da ridire furono gli abbracci di gruppo. Guardacaso, la prima cosa che dissi io arrivando ad Appiano fu che su quella pratica non potevo transigere, perché il contatto umano e la vicinanza fisica dei giocatori erano e sono la base fondante degli equilibri dei miei spogliatoi. Risate ovvie a parte, tutti compresero con precisione ciò che intendevo dire con quel discorso. E lo comprese anche Zlatan, motivo per cui si lagnò e litigammo.
Litigammo perché Zlatan è una persona molto furba, che sa quando distribuire smancerie, ma di suo è uno svedese, perciò meno lo tocchi più lui è felice. Il suo temperamento caldo da zingaro indomabile fa a cazzotti con l’assoluta freddezza dei suoi calcoli mentali, è questo ciò che lo rende così incredibilmente incomprensibile e affascinante, la sua personalità è un miscuglio impossibile di ghiaccio e fuoco, è come se qualcuno avesse trovato il modo di impedire all’olio di restare in superficie se versato in un bicchiere pieno d’acqua. È una cosa che quando la osservi ti sembra impossibile – la fiamma fredda, il ghiaccio che prende fuoco – perciò rimani incantato a fissarla.
Zlatan credeva di poter fare così anche con me – la sua sfortuna è stata trovare in me il suo specchio perfetto. La qual cosa, immagino, avrebbe dovuto portarmi a sospettare ben prima di quando ho cominciato effettivamente a farlo. Ma questa è un’altra storia.
In ogni caso, venne da me con la stessa espressione di ironico scazzo che immagino avesse usato con il suo precedente allenatore in tutte le occasioni in cui aveva trovato opportuno lamentarsi di qualcosa. Motivo per cui, quando capii dove stavano andando a parare i suoi discorsi vaghi sulle “distanze da rispettare” e quella che a suo parere era la mia necessità di “abituarmi ad un modo di gestire le squadre molto diverso rispetto a quello della Premier League”, lo interruppi immediatamente col ghigno supponente e divertito che si meritava.
“Se tu credi” dissi con una mezza risata, “che questa sceneggiata ti porterà ad evitare gli abbracci, sei fuori strada. Anzi, ti dirò di più!” aggiunsi annuendo, “Da domani le sedute di abbracci dureranno dieci minuti invece che cinque e saranno ripetute a chiusura dell’allenamento, oltre che all’inizio!”.
Non ricordo con precisione tutti gli epiteti che mi rovesciò addosso – non tutti in una lingua che io potessi comprendere, peraltro. So che c’era di mezzo un qualche insignificante meschino presuntuoso arrogante ed anche un vedi tu ‘sto portoghese di merda, ai quali io non potei risparmiarmi di rispondere per le rime con una serie di stronzo supponente più pieno di sé di quella merda del tuo procuratore accompagnati da uno zingaro del cazzo, ci metto niente a tenerti fuori rosa finché non ti si arrugginiscono i legamenti, quindi tappa quella cazzo di bocca o usala in modi più adeguati ai tuoi talenti che comincio a pensare esulino dall’ambito calcistico.
Quando quel giorno, dopo le mie parole, mi afferrò per entrambe le spalle e mi spinse con forza verso la parete dietro di me, si avvicinò fino a sovrastarmi e mi si schiacciò addosso con un’ansia tale che ebbi appena il tempo di chiedermi quale fosse in effetti il suo problema col toccare i corpi altrui, che subito la risposta si formulò chiarissima nella mia mente: Zlatan aveva un problema molto serio con le misure, unica cosa che non era stato in grado di conciliare nel corso delle complicate operazioni che l’avevano portato a mitigare l’una con l’altra le due differenti parti della sua personalità. Era riuscito ad equilibrarsi quasi perfettamente, ma le misure erano rimaste sballate, perciò la sua spinta era un’irrazionale desiderio di toccare tutto il più possibile, per affrontarlo adeguatamente, mentre il suo riflesso condizionato era allontanarsi con disgusto una volta che un certo limite fosse stato travalicato – e quindi lui si fosse sentito particolarmente infastidito da un tocco eccessivamente prolungato.
Sembra assurdo ma non lo è: con una persona simile puoi discutere soltanto a letto. Scopare soddisfaceva entrambi i suoi bisogni – poteva avvicinarsi quanto voleva, con tutta la violenza che voleva e con tutta l’irruenza che lo contraddistingueva, e allo stesso tempo subito dopo poteva allontanarsi sbrigativamente, colonizzando il lato opposto del letto senza concedersi smancerie post-sesso e infastidendosi pure se per caso sentiva invaso il proprio spazio vitale.
Fu a letto che finimmo a discutere io e Zlatan, quella volta come in una miriade di volte successive. E mi piacerebbe poter dire che in fondo si trattava solo di sesso, che non c’era un certo trasporto dietro, perché allora sarebbe più facile. Purtroppo, la situazione era molto più complicata di così: io e Zlatan avevamo davvero un incredibile bisogno di parlarci; solo che non riuscivamo a farlo senza darci addosso, anche troppo violentemente, motivo per cui, prima di discutere, avevamo bisogno di sfiancarci.
Il sesso ci connetteva alla perfezione. Era il tassello mancante per rendere la nostra relazione vincente.
Io e Zlatan non abbiamo mai perso contro niente e nessuno, finché abbiamo continuato a scopare.
Eravamo insieme, io e Zlatan, quel pomeriggio. Insieme e soli, in casa sua, come aveva preso a capitare sempre più spesso da quando, senza dircelo, avevamo capito di essere diventati dipendenti l’uno dall’altro. Helena aveva l’abitudine di portare spesso i bambini in Svezia, nel weekend, per passare un po’ di tempo coi nonni materni. Quelli paterni, d’altronde, li vedevano già abbastanza spesso, dal momento che i genitori di Zlatan, pur separatamente, a quanto mi aveva detto lui, abitavano anche loro a Milano, seguendolo più o meno ovunque lui andasse. Era una cosa che lo rendeva allegro, diceva, il fatto di poter sempre contare sui propri genitori in qualunque città avesse deciso di vivere. Non si riconosceva in nessuna patria, aveva una forte consapevolezza ed un enorme rispetto del sangue zingaro che gli scorreva nelle vene, ma mamma e papà, loro sì, erano il suo porto sicuro, la sua ancora, casa sua anche dove casa non c’era.
Era un pensiero che, in qualche modo, mi riempiva di tenerezza. Se avessi saputo che sarebbe stato il motivo per cui non avrei più potuto continuare ad ignorare la verità, probabilmente non sarebbe stato così.
Stavamo mangiando una pizza davanti alla televisione – ci divertivamo a fare cose così stupide, illudendoci di poter avere più di quello che potevamo concederci di nascosto dal resto del mondo – quando Jurka è entrata in casa e, ridendo, ha detto “scusa, tesoro, non sapevo che avessi compagnia”.
Non sono sicuro di poter spiegare cosa sia successo in quel momento. So che Zlatan non l’ha notato, ma d’altronde non avrebbe mai potuto, non aveva le informazioni di base necessarie ad accorgersene. Per me, è stato come attraversare la strada, voltarmi all’improvviso per nessun motivo in particolare e ritrovarmi faccia a faccia con un camion diretto verso di me alla massima velocità, senza nessuna possibilità di evitare l’impatto.
Conoscevo quella donna.
Fino a quel momento, il nome di Jurka Gravić non era stato altro che questo, per me. Un nome. Lo conoscevo, perché faceva parte dell’entourage composto da miliardi di nomi senza volti che giravano intorno a Zlatan, che costituivano la sua corazza, la sua protezione, il suo punto di partenza, la sua famiglia, ma non c’era niente, niente più di questo che la legasse a me.
Guardarla negli occhi è stato però tutto quello che mi è servito per capire che, a prescindere da ciò che legava lei a me, lei era tutto quello che legava me e Zlatan.
Il mio è un mestiere di dettagli. Un mestiere di momenti. Sapete in cosa consiste il mestiere dell’allenatore? Quando vi dicono che prepariamo le partite, non è esatto. La preparazione della partita non è l’obiettivo, è la conseguenza. Volete sapere a cosa serve un allenatore? Un allenatore serve a preparare un momento. Un singolo momento. Quel momento che viene per ogni giocatore nel corso dei novanta e più minuti di una partita, quel momento in cui si pretende da lui che, posto in condizioni di stress e necessità, dia comunque il meglio di sé. Noi prepariamo quel singolo momento, prepariamo il momento in cui un attaccante, solo davanti al portiere, nella foga dell’azione e delle voci e delle luci puntate e del cuore che batte a mille per la fatica e la paura, riesce comunque a trovare all’interno della propria mente abbastanza serenità da calciare comunque la palla con l’angolazione giusta per impedire che il portiere possa catturarla fra le mani. Prepariamo quel momento in cui un difensore, nel vedersi correre incontro un attaccante e il suo compagno di reparto, riuscirà comunque a riflettere abbastanza lucidamente da indovinare la mossa più giusta per fermarli entrambi. Prepariamo quel momento in cui un portiere, a tu per tu col portatore di palla pronto a tirare, riuscirà comunque ad osservare la situazione con freddezza sufficiente ad intuire la traiettoria, a lanciarsi con la velocità giusta, a stringere la presa attorno al pallone con abbastanza decisione da impedirgli di rotolare in rete alle sue spalle.
Prepariamo quello, noi. Non la partita. Gli uomini. I loro personali istanti, i loro momenti, i dettagli.
Sono i dettagli a decidere le esistenze. I singoli momenti. La loro somma, certo, ma questo non fa che renderli tutti importanti, presi singolarmente. Una somma non è che l’unione di differenti singoli, e quando ogni singolo contribuisce al totale va da sé che anche un minimo errore può condurre verso un risultato sbagliato.
Il mio dettaglio risale ad uno degli inverni più gelidi che ricordi, al gennaio plumbeo e ghiacciato che mi accolse a Malmö nel 1981. A mio padre, al suo sorriso bonario mentre mi osserva stare un’ora in fila al telefono dell’albergo la sera successiva all’amichevole con una squadretta locale – secondo lui era fondamentale, fondamentale che si facessero esperienze europee, anche al livello a cui era il Rio Ave quando ci giocavo io – nel tentativo disperato di sentire la voce di Tami almeno per qualche minuto, alla sua voce, quel timbro caldo e paziente, quando mi disse “goditela un po’ la vita, Zay. Goditela finché sei giovane”. Al freddo pungente di quella sera, di un giorno perso nel calendario perché a diciotto anni – diciotto anni, Dio – l’importanza dei dettagli e degli istanti non la conosci ancora, al vento gelido che spazzava le vie semivuote, al bar illuminato che sembrava l’unico luogo ancora vivo e sveglio a quell’ora in tutta la città, alla birra, all’altra birra, a quella ragazza, ai suoi capelli rossi, agli occhi profondi e scuri, alla linea precisa delle sue labbra sottili, a quanto abbia desiderato baciarla, a quanto male mi abbia fatto sentire il pensiero di Tami a chilometri di distanza in Portogallo, a come per un istante, un singolo istante, fra le cosce di quella sconosciuta senza nome mi sia sentito così stupidamente felice da potermi mettere perfino a ridere.
Alla sua voce. “Sei ubriaco perso.” Alla sua voce. “Scusa, tesoro, non sapevo che avessi compagnia.”
Avevo diciott’anni. Ero poco più di un bambino. Com’è potuto succedere, mi chiedo? Come si fa a rovinarsi la vita così senza neanche accorgersene? Come si vive con questa consapevolezza asfissiante, senza scampo, come convivi con l’idea che qualsiasi azione tu possa compiere avrà una conseguenza su te stesso, su chiunque altro, anche a distanza di così tanti anni?
Certe volte è come sparare in aria e poi dimenticarsi che il proiettile, in qualche modo, deve pur tornare a terra. Certe volte ti stai sparando dritto in fronte, e nemmeno te ne accorgi.
Per alcuni è una debolezza. D’altronde, è un sistema di auto conforto basato tutto sulla speranza. La speranza, alcuni pensano, rende gli uomini deboli. Li rende più naturalmente predisposti alla delusione, e quindi all’abbattimento. Io non credo, io credo che la speranza sia una grande forza. Dà agli uomini un obbiettivo verso il quale tendersi, una ragione per alzarsi al mattino, rendersi presentabili ed uscire fuori, nel mondo, a pretendere la propria fetta di fortuna. L’idea che il domani nasconda sempre qualcosa di meglio dell’oggi è consolante, incoraggiante, anche chi dice di essere realista non riesce mai completamente a rinunciare alle lusinghe dell’ignoto, perché l’ignoto per sua natura esiste solo per trascinarti di un passo in avanti nel futuro attratto dai misteri che porta con sé.
Per giorni, io ho trovato comodo vivere in quell’incertezza. Nel pensiero che, andiamo, era incredibile, estremamente improbabile che quell’unica notte avesse provocato una conseguenza simile. Una notte soltanto. Una sola volta. Quante possibilità esistevano, statisticamente, che il risultato potesse essere proprio quello? Oltretutto, pensavo, sicuramente non ero io l’unico col quale Jurka si fosse intrattenuta, in quel periodo. Non potevo saperlo con certezza, ma c’era sempre la possibilità che il padre di Zlatan, l’uomo con cui era cresciuto, fosse davvero anche il suo padre biologico. Sarebbe stato del tutto normale, Jurka stava con lui, in quel periodo.
È durata solo qualche giorno, comunque. Avevo visto qualcosa, negli occhi di Jurka, quel giorno a casa di Zlatan, qualcosa che mi aveva preoccupato ben più di quanto potessi ammettere. Un fantasma che mi inseguiva ogni volta che posavo gli occhi su di lui, ogni volta che sfioravo le sue labbra con le mie, ogni volta che ci stringevamo l’uno all’altro ed io cercavo di non notare quanto risultassero spaventosamente evidenti particolari che, fino a poco tempo prima, non avevano rappresentato per me niente di particolarmente sconvolgente. La forma delle mani, la curva della schiena, il disegno delle spalle, i contorni delle labbra. Assomigliavano davvero ai miei? Non saprei dirlo. A me sembrava di sì, mi sembrava che mi assomigliasse in maniera impressionante, mi sembrava che mi assomigliasse ogni giorno di più, che di minuto in minuto le somiglianze crescessero, si ingigantissero. E gli occhi tristi di Jurka, il modo in cui non aveva osato reggere il mio sguardo per tutto il tempo in cui era rimasta in casa di Zlatan, fino a cedere ed andare via perfino prima di me, che pure fin da subito, vedendola, avevo sentito fortissimo il desiderio di scappare. Chissà, forse perché avevo paura delle conferme che i suoi occhi avrebbero potuto darmi se solo avessi continuato a guardarli più attentamente.
Il test del DNA l’ho chiesto al termine di una settimana di ansie talmente convulse da impedirmi di dormire. Dopo sette giorni trascorsi nell’incapacità di tornare a casa e guardare Tami negli occhi, o di restare in Pinetina col rischio di dover affrontare Zlatan nonostante già da un paio di giorni avessi smesso di cercarlo, nonostante lui continuasse ostinatamente a cercare me, ho capito che c’era un limite oltre il quale l’ostinazione non poteva più spingersi, ed io quel limite l’avevo già spinto ad allargarsi, e poi l’avevo travalicato, calpestandolo sotto le suole delle scarpe, senza neanche accorgermene, come al solito.
Più di così, però, non potevo fare. Più di tanto non potevo muovermi.
Ho retto, finché non sono arrivati i risultati. Combi, l’unico al quale potessi rivolgermi con la certezza che non avrebbe parlato con nessuno di quanto scoperto, ci tenne a incontrarmi nel suo studio. Non il suo ufficio ad Appiano, all’interno del centro sportivo, ma il suo studio privato. Mi accolse ad un orario improbabile del mattino, ricordo che uscii dalla stanza d’albergo in cui avevo trovato rifugio per quella notte di crampi ansiosi, e che il cielo era una massa grigia uniforme, e che l’aria umida sembrava volesse stringermi un nodo attorno alla gola. Ricordo che arrivai lì e lo studio era vuoto, nessuna segretaria, nessun assistente, solo lui. Ricordo i suoi occhi, l’espressione del suo viso, la serietà estrema del suo tono di voce. “È confidenziale, mister,” disse, “voglio che lo sappia. Sarà lei a decidere quando e se dirlo a Zlatan.”
Quando e se dirlo a Zlatan.
Ricordo di essere uscito da quell’ufficio con la testa completamente vuota. Mi sentivo contemporaneamente ingolfato dai pensieri ed incapace di pensare. Ricordo il nodo che mi stringeva lo stomaco, la nausea fortissima mentre, a bordo della mia auto, raggiungevo nuovamente l’albergo, e tornavo in camera.
Ricordo di essermi chiuso la porta alle spalle, e di avere poi fatto la stessa cosa con quella del bagno un attimo prima di chinarmi sulla tazza del cesso e vomitare. Non ricordo quanto a lungo. Sembrava non dovesse finire mai.
Ricordo il sapore acido sulla lingua, il bruciore delle lacrime negli occhi, ed un senso di smarrimento talmente profondo da lasciarmi sbigottito.
Quando e se dirlo a Zlatan.
Non sapevo neanche quando e se avrei avuto il coraggio di confermarlo a me stesso.
Non è servito. I nostri sguardi si sono incrociati stamattina, quando è arrivato ad Appiano. Io stavo parlando con Branca, niente di serio, eravamo lì ad augurarci un buon lavoro, quando Zlatan è entrato all’interno dell’edificio, attraversando la porta principale, ed io l’ho visto muoversi come al rallentatore, come se i miei sensi stessero cercando di prolungare l’agonia. Ed io l’ho guardato e lui ha guardato me, ed io ho capito di non avere speranza.
La conoscenza è un’arma a doppio taglio, e in quel momento io la stavo usando senza volere per trapassare me stesso e Zlatan in un colpo solo. Non poteva continuare.
Cerco l’indirizzo di Jurka e lo trovo. So che non lavora, e so che vive da sola. Devo andare da lei immediatamente.
Fingo un malore e chiedo a Beppe di continuare l’allenamento in mia vece, se possibile di non spargere troppo la voce della mia assenza, specie di fronte ai giornalisti. Voglio essere lasciato in pace.
Raggiungo il parcheggio e recupero la macchina, e per tutto il tempo della strada verso l’appartamento di Jurka non faccio che pensare che non ho mai sentito Zlatan parlare dei suoi genitori come se li avesse mai visti insieme. Mi ha sempre detto di avere un rapporto abbastanza stretto, con sua madre, sì, ma di essere comunque cresciuto lontano da lei, col padre e la sua compagna. Di non averli mai visti sposati.
Il cuore mi batte così forte da pompare il sangue alla testa troppo velocemente. Sono costretto a fermarmi a più riprese, sia per un capogiro, sia perché voglio tornare indietro, sia perché sono convinto che non ce la farò. Perché non ce la posso in alcun modo fare, non so come gestirla, una cosa simile. Non so con che faccia andare da Jurka a chiederle ciò che devo chiederle, non so con che faccia poi riuscirò, dopo averlo fatto, a tornare indietro e parlare con Zlatan. Perché in ogni caso dovrò farlo. E io non mi sento forte abbastanza. Non sono forte abbastanza.
È un miracolo che arrivi vivo a destinazione. Un miracolo, ma non sono convinto che sia un miracolo positivo. Fermo la macchina in una stradina laterale, sperando che il posto sia discreto abbastanza. Scivolo fino al portone d’ingresso del palazzo, citofono, lei mi risponde, quando capisce che sono io le sento trattenere il fiato per un’enormità di tempo, e non so più se è lei che ha davvero smesso di respirare per secondi interi, o se sono io che dilato gli istanti perché, per la prima volta, il futuro mi fa paura.
- Sali. – dice Jurka, ed io salgo. Sta al primo piano. Mi aspetta sulla soglia, sguardo basso, aria afflitta, l’aria di una che vorrebbe trovarsi altrove, che nonostante sia rassegnata ad affrontare quello che la aspetta sta ancora sperando, da qualche parte dentro di sé, che il suo carnefice cambi idea, e la lasci in pace.
Stringo i pugni e mi avvicino. Lei si scosta per lasciarmi passare, chiude la porta guardando a sinistra e a destra sul pianerottolo per assicurarsi che nessuno mi abbia visto, e poi torna a guardarmi, e ha già gli occhi pieni di lacrime.
- So che— - comincia, ma io non posso lasciarle il tempo di finire.
- È mio? – domando. Le volto ancora le spalle. – È mio figlio?
Jurka trattiene il fiato un’altra volta, come sopraffatta. Se chiudo gli occhi, posso ancora ricordarla mentre fa la stessa cosa, stesa sotto di me, mentre viene stringendomi al petto. È un incubo. Dev’essere un incubo. È tutto sbagliato. E io non posso farcela.
- È tuo. – risponde lei. È solo un fiato, un’imitazione di voce, un rantolo sofferente che si insinua dentro di me e mi squassa le viscere, come un pugno bene assestato. Esalo un singhiozzo sconfortato mentre mi premo le mani contro il viso, e lei continua a parlare e la sua voce è rotta dal pianto. – Io e Šefik ci eravamo appena lasciati, sapevo che non ti avrei più rivisto, che avevi una vita, una fidanzata a casa, eri troppo giovane, so di avere sbagliato, ma avevo l’occasione di dare a mio figlio un padre vero, e—
- Jurka. – la interrompo, scuotendo il capo e voltandomi verso di lei. Il dolore è passato. Anche la confusione. Come quando stai male e, dopo un accesso violento, il dolore sfuma lasciandoti in quella particolare condizione di calma in cui sai già che devi solo aspettarti la prossima scarica, e che sarà forse perfino più violenta di quella che l’ha preceduta, ma in quel momento, in quel preciso istante, stai bene. Di un bene perfetto che non può essere alterato. – Non devi giustificarti con me. – la rassicuro a bassa voce, forzando un sorriso e poggiandole una mano sulla spalla. Lei ha gli occhi pieni di lacrime e mi guarda smarrita, mordendosi con forza un labbro. – Capisco le tue ragioni. – insisto annuendo. Anche lei annuisce, come se seguirmi nei gesti potesse donarle un briciolo della tranquillità che sto dimostrando io. – Devo chiederti una cosa, però. – continuo. Sento la tensione concentrarsi su ogni fibra del suo corpo, la sento nella spalla sulla quale la mia mano è ancora poggiata, la vedo sui lineamenti del suo volto che si induriscono improvvisamente quando resto in silenzio a lungo, fino ad averla vista annuire per chiedermi di andare avanti.
Quando parlo, sento anche entrambi i nostri cuori che si spezzano. Perché tutto ha una conseguenza, e quello che le ho chiesto può averne una sola, per entrambi.
Quanto amore sprecato, penso mentre lo osservo prendere posto sulla poltrona di fronte alla mia scrivania. Quanto amore sprecato. Quanto dolore inutile.
- Finalmente. – comincia lui a muso duro, il tono acido che si riserva di utilizzare con chiunque lo deluda, per un motivo o per un altro, - Ci hai messo solo tre mesi. Sono commosso.
Distolgo lo sguardo, perché potrei anche dirgli che non ho idea di cosa stia parlando, ma servirebbe solo a prendere tempo, ed io non voglio. Questo incontro è già durato fin troppo – troppo più di quanto non posso permettere al mio fisico di sopportare senza sentire il bisogno di ripensare a tutte le volte che siamo andati a letto insieme, a quanto mi è piaciuto, e a quanto adesso il solo pensiero mi rivolti lo stomaco fino a darmi la nausea.
Non so perché succeda. So che non è colpa mia, né colpa sua. Non lo sapevamo. Non sono davvero stato suo padre. Non ho idea di cosa costringa il mio fisico a reagire così violentemente al pensiero del nostro rapporto, non sono neanche sicuro che sia un problema morale o etico. È solo troppo sbagliato, troppo ingiusto. Fa male come quando ti prendono a calci fino a farti venire da vomitare. È la stessa cosa.
Lo so di cosa sta parlando Zlatan. Lo so che sta parlando di come, da un giorno all’altro, io abbia smesso di parlargli, di guardarlo, o anche solo di considerarlo una parte pur minima della mia vita. Lo so che parla dell’assoluta mancanza di rispetto con la quale l’ho tagliato fuori da una cosa all’interno della quale, fino a tre mesi fa, era invischiato fino al collo – me stesso. Lo so che, di base, parla di quanto gli sono mancato. Lo so, perché io provo lo stesso tipo di sentimento, solo che nel suo caso è accompagnato solo da tanta rabbia, perché non capisce la mia decisione, mentre nel mio caso la nostalgia è sempre, costantemente, accompagnata dal disgusto.
- Dobbiamo parlare. – dico a bassa voce, occhi fissi sul piano lucido e scuro della scrivania.
- Sì, mi sembra l’eufemismo del secolo. – sbuffa lui, e poi lo osservo – lo percepisco – rilassarsi contro lo schienale della propria poltrona, mentre accavalla le gambe. – Andiamo, Zay. – dice, e la sua voce è dolce, dolce quanto non è mai stata, o forse sembra tale solo a me, perché so che presto smetterò di vederlo in queste situazioni, in cui si rilassa abbastanza da consentirsi di mollare la presa su se stesso. – Che cazzo è successo? Così, da un giorno all’altro… dimmi almeno che cazzo ho combinato, troviamo una soluzione, così non può—
- Non è colpa tua. – dico, forzandomi a parlare perché ho la lingua annodata, e la gola intasata, e il cuore che batte così forte da rimbombarmi dolorosamente nelle orecchie, - Sono… sono io.
L’esposizione è formalmente corretta. Almeno questo.
Zlatan mi guarda a lungo, il peso del suo silenzio è sconvolgente. Ha gli occhi sgranati e, per molti secondi, sembra non riuscire neanche a mettere ordine fra i propri pensieri.
- Stai scherzando. – dice quindi, e non è neanche una domanda, - Stai scherzando, José, cazzo. Guardami! Cosa ti sembro, assomiglio ad una liceale? Tu cosa ti senti, cosa credi di essere? – si alza in piedi, passandosi entrambe le mani sul viso e poi fra i capelli mentre gira attorno alla poltrona, facendo un paio di passi per scaricare il nervosismo e poi tornando a voltarsi verso di me, stringendo il bordo superiore dello schienale fra le mani con tanta forza da affondare le dita nell’imbottitura. – Non puoi dire sul serio.
- Mi dispiace. – scollo io, incapace di guardarlo negli occhi.
- Vaffanculo! – risponde lui, scuotendo la poltrona con forza ed allontanandola da sé con veemenza sufficiente a mandarla a sbattere contro la scrivania, - Vaffanculo! Stai scherzando! Io non ci posso credere— è per questo che mi hai fatto venire qui, José? Per— per scaricarmi come fossi un fottuto moccioso al quale puoi rifilare una qualsiasi stronzata perché pendeva dalle tue labbra fino a ieri e continuerà a farlo anche domani? Ma per chi cazzo mi hai preso, portoghese di merda?! Come cazzo ti permetti?!
- Mi dispiace. – insisto io, stringendo i pugni sul ripiano della scrivania. Ogni parola di Zlatan mi scava una voragine sottopelle. È come osservare una città che viene bombardata, chiamare per nome ognuno degli edifici che finiscono in macerie, contarli uno per uno e non sapere come fare a rimetterli in sesto. Sto guardando le rovine della mia vita con la consapevolezza di aver contribuito in prima persona a ridurla in queste condizioni. – Mi dispiace. – ripeto scuotendo il capo, e non so più nemmeno con chi mi sto scusando – con lui, con me stesso – o per che cosa.
- Me ne sbatto il cazzo delle tue scuse! – grida lui, incredulo, e poi la sua voce cambia nuovamente tono. – Zay, - dice con evidente preoccupazione, girando attorno alla scrivania ed inginocchiandosi davanti alla mia poltrona, nel tentativo disperato di intercettare i miei occhi e tenerli incollati ai suoi. Io rifuggo il suo sguardo senza pietà, ma lui non si lascia scoraggiare. – Zay, per favore. – dice, e così in ginocchio io non riesco nemmeno a concepirlo, - Per favore, non allontanarmi. Non così. Parliamone, ti prego. Così è… così no. – la voce gli si spezza appena, mentre scuote velocemente il capo, - Così no. Parlami.
Sento le sue dita farsi strada fra le mie, intrecciarsi ad esse con delicatezza, e guardo lo spettacolo che sono così strette le une alle altre, quasi annodate.
Poi ritraggo violentemente la mano, allontanandomi da lui al punto da dovermi alzare in piedi, ed avvicinandomi alla finestra per guardare di fuori, dandogli le spalle. Appiano è caldissima, fa il bagno nel sole di agosto mentre ogni cosa brilla del riflesso dei suoi raggi.
L’estate è una stagione di merda per dire addio.
- Non c’è niente di cui parlare. – dico piano, ma con decisione. – È finita.
La vita degli uomini è fatta di istanti. Ogni istante è segnato dalle scelte che in quell’istante possono essere compiute. Io potevo dirgli tutto, ogni cosa, spingere sulle sue spalle un po’ del peso col quale sarò costretto a convivere per tutto il resto della mia esistenza, ma ho scelto di fare diversamente.
Nessun figlio dovrebbe essere costretto a dividere il peso dei peccati di suo padre.
- Zay. – quasi balbetta Zlatan, la voce ridotta ad un sussurro, mentre io ripercorro mentalmente la mia ultima discussione con Jurka, la sua promessa di tacere questo segreto con chiunque, il suo consenso a partire per un po’, per non essere costretta a vedere Zlatan distrutto da qualcosa di cui non comprende il perché, per sfuggire alla tentazione così tipicamente materna di alleggerire il suo carico di disperazione dicendogli ogni cosa. Ho fatto la scelta migliore. L’unica possibile. Andrà tutto bene. – Zay, il Barcellona mi ha fatto un’offerta. Dammi un motivo per restare, o non resterò.
Restando in silenzio, dopo aver ignorato questa sua ultima preghiera, lo ascolto nascondere un singhiozzo ed abbandonare la stanza dopo aver colpito violentemente la scrivania col palmo della mano aperta, e penso che almeno è finita. Adesso posso solo rimettere insieme i pezzi.
So di aver fatto la scelta giusta quando realizzo in un mezzo sorriso che, almeno, questi pezzi saranno solo i miei.
Io me la sono sciroppata, l’ho gradita ma non l’ho mai commentata, se non altro perché è difficilissimo commentare una storia perfetta. Perfetta perché trae spunto con forza dalla “realtà”, ma non solo, la altera quel tanto che basta per avere una vicenda che si fa seguire con naturalezza, prevedendone l’immediato seguito man mano che si continua a leggere ma senza essere scontata. Un’anticipazione del dolore, diciamo. Una melodia triste, in alcuni momenti quasi inquietante, a tratti straziante, ma assolutamente, magnificamente struggente.
Questa recensione partecipa a <strong>Recensioni d’Estate</strong> @ <a href=“http://maridichallenge.livejournal.com/”>maridichallenge</a>.
defe
21/06/2012 01:02