Genere: Triste, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Language, Lemon, Slash.
- Maggio 2010. José Mourinho si trova a Madrid in vista della finale di Champions League che terrà impegnata l'Inter contro il Barcellona. E, già che è lì, fa un po' di conti col passato.
Note: Sia chiaro che quando ho cominciato a scrivere questa fan fiction sapevo esattamente perché lo stavo facendo, solo che ora che l’ho conclusa non me lo ricordo più o_o *facepalma* Comunque! In realtà, nonostante fatichi ancora a razionalizzare il motivo per cui ho sentito il bisogno di scrivere l’ennesima Jobra post-drama buttandomi su questa balenottera da 5000+ parole, devo dire che mi piace. Più che altro proprio a livello strutturale, perché è bello come la fic vada verso la sua conclusione, raccontando il punto fermo che José e Zlatan cercano di mettere alla loro relazione di non-detti, e si muova parallelamente su un livello di ricordi che invece quella stessa relazione la riporta ai suoi albori, alla prima, elettrica stretta di mano. Lungi da me fare filosofia spicciola sulle mie own storie, ma è una cosa carina, ecco XD E poi è anche il solito esorcismo propiziatorio, perché io spero davvero di esserci, lì a Madrid, e spero che ci sia anche Zlatan, ecco. Poi è chiaro chi tornerà a casa con la coppa, ma queste sono facezie u.u
Di mezzo ci sono un sacco di cose canon o presunte tali, comunque. Tutte le parti in corsivo – cioè tutti i ricordi – sono risultato di gossip vario ed eventuale recepito nel corso del campionato e del calciomercato estivo. Lo dico nel caso vi chiedeste de José abbia davvero detto quelle cose orribili ai suoi giocatori, dopo la pietosa sconfitta con l’Atalanta: ecco, pare di sì XD (E comunque Zlatan quel gol l’ha segnato sul serio u.u)
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Payback


L’aria di Madrid è calda e sa di casa e famiglia – José la inspira a pieni polmoni mentre passeggia distrattamente per le strade più nascoste della città, quelle che conosce a menadito e che sa di poter attraversare senza ritrovarsi improvvisamente circondato da gente sconosciuta che urla il suo nome ed allunga una mano per ricevere una stretta, un autografo, un saluto o chissà che altro.
Non sarebbe dovuto uscire – nulla di buono può derivare da una passeggiata solitaria nella città in cui il giorno dopo ti giocherai il nome, l’onore e l’orgoglio – ma per la verità l’aria in albergo aveva cominciato a farsi troppo incandescente per i suoi gusti. Gli piace lavorare in situazioni al limite, perché stimolano lui e stimolano i giocatori, ma c’è un limite a quanto può sopportare le situazioni al limite, se tali situazioni coinvolgono Zlatan. L’ha già provato in passato, non può essere cambiato granché in meno di dodici mesi. Se è vero che ogni uomo possiede un tallone d’Achille, ecco, il suo deve necessariamente essere lo zingaro che, partendo per Barcellona, gli ha spezzato il cuore in modi che non avrebbe mai creduto possibili senza coinvolgere Matilde o i bambini.
Quando il caldo comincia a farsi poco tollerabile, s’infila nella prima birreria disponibile, in cerca di una Corona. La ottiene e si perde nel gusto amaro, freddo e frizzante della birra che gli solletica la gola, guardando fisso di fronte a sé le mensole colme di liquori e chiedendosi quanta di quella roba gli servirebbe per ubriacarsi – e fare probabilmente una pessima figura coi suoi giocatori, il suo presidente e tutti i tifosi. Manda tutta una serie di anatemi nei confronti di un Dio che ama ma ogni tanto dimentica di temere, colpevole di averlo reso resistente all’alcol, e poi stabilisce che, comunque, resistenza o meno, anche cinque o sei Corone non riuscirebbero dove fallirebbe perfino il più potente degli alcolici, perciò paga e torna per le strade, una mano che scivola naturalmente all’interno della tasca posteriore dei jeans, accarezzando il cellulare dalle forme perfettamente regolari e perfettamente immobili.
Lo estrae con un sospiro pesante, lasciando scorrere gli occhi sul display con aria dubbiosa. Basterebbero un paio di click sul touch pad per risalire ad un numero che non usa più da mesi e non è neanche sicuro sia ancora funzionante. Insomma, Zlatan ha ancora amici, in Italia – almeno fra quelli dei suoi compagni che sono riusciti a perdonare cose che invece a lui continuano a non andare giù nonostante tutto il tempo passato – probabilmente per tenersi in contatto con loro il numero del cellulare che usava in Italia è ancora attivo. Uno fra i suoi duecento milioni di cellulari – quello per mamma e papà, quello per l’Italia, quello per i parenti sparsi chissà dove in giro per il mondo – potrebbe perfino rispondere.
José sa che, solo a rifletterci ancora un paio di minuti, capirebbe che chiamarlo sarebbe un errore madornale. Al momento non sta ancora abbastanza bene con la questione di lui al Barça, per poterlo affrontare lucidamente. Non quando l’ha visto così dannatamente sorridente fin dal primo giorno che ha passato in quella città, non quando le ultime parole che ha sentito provenire da lui a migliaia di chilometri di distanza sono state “non mi interessa cosa dice Mourinho”. Quando lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, per tenerlo con sé. Quando ogni singola frase uscita dalle sue labbra dalla sua partenza in poi non era stata altro che di lode, di affetto, di rispetto – e perfino qualcosa di più.
José non ricorda con precisione assoluta la miriade di cose che ha detto nel periodo immediatamente successivo al suo trasferimento, probabilmente anche perché, della maggior parte delle dichiarazioni con le quali si è sputtanato a livello internazionale, la sua testa ha preferito fare piazza pulita. Non che siano cose di cui si penta – può dirlo solo perché lui, in genere, non si pente mai di nulla – solo che c’è un limite alla quantità di cose che puoi dire senza poi cominciare a chiederti se non ci sia qualcosa che non va in te e nel modo in cui hai affrontato una situazione passata e ora ti appresti ad affrontarne una in divenire.
Cose come “credevo che sarebbe rimasto”, o le dichiarazioni in cui raccontava senza dirlo di come avesse fatto semplicemente di tutto per convincerlo a restare, potevano intrigare i giornalisti o divertire qualche tifoso, ma avevano su di lui l’effetto peggiore in assoluto. Quanto puoi soffrire per l’addio di un amico – peggio: di un semplice giocatore, in pratica un dipendente, al limite un collega – prima di renderti conto che probabilmente non si trattava affatto né di un amico, né di un collega, né tantomeno di un dipendente?

«Se il Barcellona vincerà la Champions, non sarà merito tuo. Sono abituati a vincere, sono creati apposta per vincere, non possono che vincere. Nessuno ti ringrazierà per questo.»
Un istante di silenzio.
«Non mi interessa. Voglio andare.»
«Vincere qui all’Inter avrebbe tutto un altro sapore.»
Una mezza risata. Josè sospira.
«Niente da fare?» chiede stancamente.
«Niente da fare.» conferma Zlatan con una scrollata di spalle. E poi si allontana.

Di una cosa José era certo al momento dei saluti con Zlatan, esattamente come ne è certo adesso che manda a fanculo il buonsenso e lo chiama: fra loro due non era mai accaduto quello che invece sarebbe dovuto accadere per rendere il loro rapporto meno allucinante e più sincero. Non è una cosa sulla quale gli piaccia riflettere e non è una cosa che ripeterebbe ad alta voce, ma è una cosa che sta cominciando ad accettare. Piano piano.
Il telefono squilla un paio di volte, e poi Zlatan risponde. Anche se il termine non è del tutto corretto, visto che Zlatan a tutti gli effetti non spiccica una singola parola. Tutto ciò che José sente è il silenzio di una stanza vuota spezzato a intervalli regolari dai suoi respiri incerti e pesanti. Zlatan s’è appena svegliato. Lo riconosce dal modo in cui respira. Ricorda di averlo sentito respirare così in due occasioni specifiche – due occasioni stupende. La notte in cui sono usciti a festeggiare lo Scudetto, con tutta la squadra – e Zlatan s’è appisolato sul bus per poi svegliarsi una volta tornati in Pinetina – e la notte che hanno passato in aereo mentre volavano verso Los Angeles – seduti accanto, Zlatan con la faccia schiacciata contro il finestrino fino a quando non è stato lui stesso a svegliarlo pochi minuti prima dell’atterraggio.
Ricorda il suono del suo respiro con la stessa precisione con cui ricorda la voce dei suoi figli, il modo in cui lo chiamano papà, o la voce di Tami, il modo in cui ansima il suo nome quando fanno l’amore o il modo in cui ha detto “sì” quando si sono sposati. Se gli fossero servite altre prove per cercare di capire meglio cos’è che lo leghi a Zlatan con questa forza quasi disperata, non avrebbe faticato a trovarne.
- Ciao. – comincia, visto che Zlatan non sembra intenzionato a farlo, - Disturbo?
Zlatan trattiene il respiro e si schiarisce la voce, prima di rispondere.
- Dormivo. – dice, un po’ confusamente, incerto fra due lingue. Allo spagnolo ha fatto l’abitudine, ma José gli sta parlando in italiano. E José sorride nel rendersene conto: potrebbe cominciare a parlargli in portoghese e ridere di lui nell’ascoltarlo arrabbiarsi perché non riesce a cogliere ogni singola parola del suo discorso. Ma lascia perdere, e visto che non ha ancora la minima idea di cosa stia facendo, quantomeno continua a farlo in italiano. Qualsiasi cosa sia.
- Mi dispiace. – mente, - Come stai?
- Sto… - comincia Zlatan, e poi esita e s’interrompe. – José. – lo chiama per nome, improvvisamente più sicuro, - Cosa vuoi?
- Niente in particolare. – scrolla le spalle lui, e si tratta solo di una mezza bugia, d’altronde, perché in effetti non vuole niente di particolare, da Zlatan, vorrebbe averlo lì per sé tutto intero. – Fare quattro chiacchiere.
- …domani ho una partita importante. – gli ricorda Zlatan, e José ride.
- Ma non mi dire. – lo prende in giro, - Magari vengo a vederti, io invece non ho nulla da fare.
Zlatan ride a propria volta, e José può immaginarlo scuotere il capo, rassegnato.
- Quasi ti manderei un paio di biglietti, se non sapessi che li hai già. Posto d’onore, per giunta. – José si rassegna ad un sorriso ed ascolta Zlatan sospirare mesto. – Non ho più sonno.

«Sono le quattro del mattino.»
Zlatan ride e il cortile silenzioso dell’albergo si riempie di quel suono tranquillo e un po’ ovattato, mentre José scivola al suo fianco, sedendosi sui gradini in pietra del porticato interno, proprio accanto a lui.
«Non sono ancora abituato al cambio di fuso. Se mi sveglio, ho difficoltà ad addormentarmi.»
«E come mai ti sei svegliato?»
Zlatan sospira, guardandolo attentamente per un secondo, prima di spostare lo sguardo altrove.
«Novità.» butta lì infine, vago ma anche inquietantemente – e insopportabilmente – concreto.
José non vuole sapere con precisione a che novità si stia riferendo, perciò tace.
 
- Dove alloggiate? – chiede José in un sospiro. – Mi dispiace averti svegliato, ma non ho sonno neanche io. Ci vediamo?
Zlatan ripete a memoria il nome e l’indirizzo dell’albergo e José prende nota mentalmente, mentre lo ascolta ridere divertito.
- Ma non dire che ti dispiace, sappiamo entrambi che non è vero.
José sospira, lasciando scivolare il pollice sopra il pulsante dell’interruzione di chiamata.
- Non è proprio così. – spiega, - Mi dispiace davvero. – e poi riattacca.
Quando arriva a destinazione, Zlatan lo sta aspettando nella hall, probabilmente per evitare di costringerlo a chiedere al concierge il numero della sua camera. José non sa se si sia trattato di una decisione saggia – se c’è qualche giornalista in giro, giustificare i titoli di domani sarà difficile. In ogni caso non è quello il momento di perdersi nei se e nei ma: è lì, lo è anche Zlatan, qualcosa da tutto questo dovrà venire fuori. Sia brutta o bella.
La camera singola è ordinata come se nessuno ci avesse mai messo piede. Il copriletto è appena spiegazzato, José lo osserva con aria critica, prima di spostare lo sguardo su Zlatan.
- Non hai ancora imparato a dormire per bene?

«Ma come diavolo stai dormendo?»
«Uh?» Zlatan schiude le palpebre e si copre il viso, per ripararsi dai raggi del sole.
«Per terra, sull’erba…» José lo fissa come fosse un alieno viola, «Voglio dire, se hai sonno torna in camera tua e riposati come tutti gli altri!»
«Ma…» la sua voce è un mugolio che si perde nel frinire dei grilli che riempiono il giardino i loro versi acuti, «volevo prendere un po’ di sole. Sono tornato bianchissimo dalle vacanze.»
«Sei tornato presto dalle vacanze» precisa José con un mezzo sorriso, guardandolo dall’alto, le mani sui fianchi, «Potevi star via ancora un po’, non c’era bisogno di tornare qui a Milano. Potevi andare direttamente a Los Angeles.»
Zlatan scrolla le spalle, rivoltandosi a pancia in giù e mostrando la coda del drago che gli si disegna sulla parte più posteriore del fianco.
«Mi mancava… qui» conclude. José non dice altro.
 
- Non è che fossi tornato da tanto. – scrolla le spalle Zlatan, sfilando la maglietta in un gesto naturalissimo e lasciandola ricadere su una poltrona di fianco al letto, - Io e Max eravamo in giro fino a non meno di un’ora fa.
- Sempre in giro, voi due amichetti. – è il commento ironico di José, che si aggira per la stanza come volesse preparare un elenco di tutto ciò che non gli va giù, per poi riversarglielo addosso tutto in una volta, - È stato così anche quando siete andati via entrambi.
Zlatan si volta a guardarlo con una tale quantità di rabbia negli occhi che José sente quasi il bisogno di indietreggiare. Ma tiene duro.
- Non recriminare, adesso, José. – ringhia lo svedese, stringendo e stendendo le dita delle mani, nel tentativo di scaricare il nervosismo, - Non mi pare proprio il caso.
- Non è mai il caso di discutere delle tue brillanti decisioni, per te. – ghigna José, scrollando amaramente il capo, - Fai solo cose buone e giuste.
- Parli tu! – quasi ride Zlatan, anche se la sua risata ha un suono sgradevole, troppo acuto per essere naturale, - Tu, l’uomo che non sbaglia mai- o almeno così crede!
- Ah, e sentiamo! – insiste José, allargando le braccia ai lati del corpo, - Sentiamo, dov’è che avrei sbagliato? Fammi un elenco, Zlatan, perché io avrei un elenco molto lungo di errori riconducibili a te! Vogliamo fare a gara? Coraggio!
Zlatan lascia andare un’altra risata in uno sbuffo esasperato, e gli volta le spalle, dirigendosi svelto verso la porta-finestra che conduce in terrazza.
- Lasciamo perdere, stronzo. – commenta scrollando le spalle, - Non si è mai potuto discutere davvero, con te.
- No, io non lascio perdere! – lo rimbecca lui, afferrandolo sbrigativamente per un polso per impedirgli di andarsene, - Per tua informazione, sei sempre stato tu quello chiuso al dialogo, Zlatan. E a questo proposito- primo errore: non dirmi subito che volevi andare via. Secondo errore, accettare la fottuta maglia numero dieci quando chissà da quanto progettavi di andartene!
- Finiscila! – cerca di liberarsi Zlatan, strattonandolo con una certa forza. José non molla la presa.
- Terzo errore, - prosegue, - baciare la fottuta maglia blaugrana, quando avresti potuto fare quello che volevi, a quella stracazzo di presentazione! Eri- sei Zlatan Ibrahimović, cazzo, avresti potuto dire loro “questa maglia non la bacio, io non bacio nessuna maglia”, e non avrebbero potuto aprire bocca per dirti “ba”, cazzo!
- Oh, fanculo! – si libera infine Zlatan, spintonandolo lontano, - Non venirmi a parlare di amore per la maglia, proprio tu! Hai cambiato anche più squadre di me, se dobbiamo decidere chi è la troia fra noi lo scontro è per lo meno pari!
- Io almeno sono sempre stato fedele a me stesso! – torna ad afferrarlo José, per lo stesso polso, ancora caldo della sua stretta.
- E io non lo sono stato?! – ride ancora Zlatan, smettendo di provare a liberarsi, - Cazzo, se c’è una cosa che non mi si può dire, è proprio aver tradito me stesso! Non l’ho mai fatto!
- Hai tradito te stesso e tutte le tue parole di stima nei miei confronti, quando hai detto che di ciò che pensavo non ti fregava un accidenti. – conclude José tagliente, fissandolo dritto negli occhi.
Zlatan si ferma, e il suo respiro si sospende per qualche attimo, mentre lui cerca di fare mente locale.
- Avevi detto… - lascia andare una mezza risata incredula, - Avevi detto che Eto’o era un giocatore migliore di me. Dopo avermi… dopo avermi fatto credere che fossi in assoluto il migliore, tu neanche due giorni dopo la mia partenza hai detto-
- Non l’ho mai detto! – grida José, la voce resa quasi stridula dalla rabbia furiosa che lo pervade, - Cristo santo, Zlatan! Ma che cazzo hai sentito?!
- Non lo so! – strilla a propria volta Zlatan, liberandosi per la seconda volta, - Che cazzo vuoi, eravamo a… a più di mille chilometri di distanza, io-
- Tu sei uno stronzo! – lo spintona José, obbligandolo a indietreggiare finché le sue spalle nude non toccano il vetro fresco della porta-finestra, - Sei uno stronzo senza palle che non ha avuto il coraggio di chiedere a me cosa pensavo, ed ha preferito affidarsi alle puttanate riferite da chissà che figlio di troia!
- Questo non cambia un cazzo di niente! – cerca di contrastarlo Zlatan, a muso duro, - Io sarei andato via comunque e fra noi le cose-… - si interrompe un secondo, la voce che quasi gli si blocca in gola, e poi manda a fanculo ciò che resta della sua razionalità e lo dice e basta, - fra noi le cose sarebbero comunque andate a puttane, perché io non volevo più vederti, stronzo!
José resta talmente immobile che perfino la stretta delle sue dita attorno al polso di Zlatan sembra pietrificarsi, facendosi tanto forte da far male. Zlatan, comunque, non intende dargli la soddisfazione di chiedergli di lasciarlo, neanche se dovesse perderlo, il fottuto polso. Che tra l’altro è il sinistro. E non ha mai fatto tanto male come adesso – e ne ha viste, di batoste. Anche sotto gli occhi di José.
- Che cosa intendi dire con questo? – chiede il portoghese, gelido, fissandolo ostinatamente negli occhi, - Parla.
- Non servirebbe a un cazzo. – ghigna Zlatan, stringendo la sinistra a pugno per cercare di contrastare il dolore, - Tornerai a casa da sconfitto dopodomani. A cosa vuoi che serva parlare?
- Non mi interessa se serve. – risponde secco lui, stringendolo con più forza, - Parla e basta, è un mio diritto sapere per che cazzo di motivo mi hai mollato nella merda senza nemmeno prepararmi ai chili di fango che ho dovuto ingoiare quando sei andato via.
- Tu- cazzo! – comincia Zlatan, concitato, - Non ne potevo più di te! Mi hai- mi hai fatto impazzire per un anno e-
- Io non ti ho fatto niente! – lo interrompe José, sinceramente sconvolto, - Io non- Io non ti ho mai fatto niente, Zlatan!
- Sai cosa?! – insiste lui, e mentre lo fa sembra perso nei suoi pensieri, - È questo il problema, sai? Esattamente questo! Tu non hai mai fatto un cazzo, io sono impazzito perché tu non hai mai fatto un cazzo, perché tu non hai maivoluto fare un cazzo, e ora non prendermi in giro, José, non guardarmi con quegli occhi e non provarci nemmeno, a dirmi che non te n’eri accorto, perché non ti crederei! Tu non hai mai-
- Piantala! – tuona José, afferrandolo per una spalla e schiacciandolo di prepotenza contro il vetro, - Piantala, Cristo, piantala di dire stronzate, io ti amavo! – si ferma, lo guarda, Zlatan schiude le labbra, - Io ti amo.

«Lo pensi davvero, quello che hai detto?»
Il caffè si fredda nel bicchierino che Zlatan si rigira fra le mani. Vorrebbe portarlo alle labbra e buttarlo giù tutto d’un sorso, ma ha chili di parole che gli occludono la gola e non saprebbe come lasciarvi passare in mezzo nemmeno un filo, figurarsi un liquido.
«Cosa?» ride José, sorseggiando tranquillamente il proprio caffè, «Dico sempre un mucchio di cose.»
«Che…» si inumidisce le labbra lui, incerto, «Quella cosa dell’essere insostituibile. Cioè, pensi davvero che per sostituire me serva un’intera squadra?»
José lo guarda e scrolla le spalle, come fosse la cosa più naturale del mondo.
«Naturalmente sì» risponde, tornando a sorseggiare il caffè ormai tiepido, «Senza di te mi sentirei perso» aggiunge, e poi sembra rendersi conto di ciò che ha appena detto e si schiarisce la voce, agitato. «Intendo» corregge con lieve imbarazzo, «la squadra, non… non avrei idea di come gestirla. Sei il punto cardine di questa formazione, e…» e José continua a parlare, ma Zlatan sorride intenerito, fissa il caffè ormai gelido sul fondo del proprio bicchiere e non lo ascolta più.
 
Se non fossero certi – più che certi – i trentacinque gradi che appesantiscono l’aria calda e umida di Madrid, José potrebbe perfino credere di sentire freddo. Negli occhi di Zlatan c’è qualcosa di enorme che si sta allargando sempre di più secondo dopo secondo, e José non è proprio sicuro del fatto che, quando quella cosa sarà diventata abbastanza grande da uscire ed attaccarlo, lui sarà in grado di contenerla o contrastarla in qualche modo.
- Tu non… - boccheggia Zlatan, a corto di fiato, - Tu stai mentendo.
- Io non mento mai. – risponde, con una freddezza che inquieta per primo se stesso.
- Tacere la verità è mentire. – ribatte Zlatan, e José ringhia nell’avvicinarsi impercettibilmente a lui.
- Non sto tacendo niente, stavolta, mi pare. – risponde, così vicino alle sue labbra da poterle accarezzare col respiro. – Anzi, ho detto anche troppo.
Zlatan lo guarda ancora, confuso.
- Da quando? – chiede poi, deglutendo faticosamente.
José sbuffa, allontanandosi un po’.
- A cosa dovrebbe servirti saperlo? – chiede esasperato, scuotendo lentamente il capo.
- A capire… - risponde Zlatan, esitando fra una parola e l’altra, - …a capire per quanto tempo avrei potuto… a capire se sarei potuto rimanere se solo tu… a…
- Zlatan. – lo ferma José tornandogli vicino e poggiando la fronte contro la sua, - Non parlare.
E, per la prima volta nella sua vita, Zlatan obbedisce.

«Piove.»
José ride, la pioggia si trasforma in nevischio.
«Nevica.» si corregge Zlatan.
«Sei meglio delle previsioni del tempo» lo prende in giro José, e Zlatan sbuffa, mettendo su un broncio molto offeso e tirandosi il cappuccio sulla testa. Non può rischiare un raffreddore. José, invece, evidentemente sì, perché non si muove e resta lì in mezzo al campo che si fa tutto bianco, a guardare la neve. Poi Zlatan lo vede tirare fuori la lingua ed aspettare pazientemente che un cristallo di ghiaccio vi si depositi, per poi assaggiarlo con la curiosità di un bambino che vede la neve per la prima volta. Ride, perché gli sembra assurdo.
«Mi trovi ridicolo?» gli chiede José, lanciandogli un’occhiata divertita.
«No» scuote il capo Zlatan, prendendo a propria volta un fiocco con la lingua, «Solo buffo. Perché lo fai? Non hanno chissà che sapore.»
José scrolla le spalle.
«Non è detto che tutte le cose che si fanno si facciano per piacere» spiega, «Ci sono cose che si fanno e basta. Tienilo a mente per il futuro.»
 
José sa di proibito e di segreti e di passato e di nostalgia. Zlatan non credeva che tutte queste cose potessero avere un sapore, ma è quello che ritrova sulle sue labbra e sulla sua lingua, quando le sfiora con le proprie e si azzarda ad assaggiarle. Le mani di José scivolano lente lungo il suo torace nudo, verso l’altro, posandosi sulle sue spalle e restando lì ferme come avessero paura di muoversi ancora. Zlatan mugola con forza, allontanandosi da quel bacio con molte più difficoltà di quanto non avrebbe creduto – di quanto non abbia effettivamente immaginato in nemmeno una delle milioni di volte in cui ha pensato alla possibilità di José così vicino e così suo.
- Toccami… - gli respira sulle labbra, e si sente un bambino, - Toccami, toccami, toccami…
Una delle mani di José risale il suo collo e lo stringe dolcemente alla nuca, tirandoselo contro. È un po’ buffo non avere idea di cosa fare, è la prima volta che le mani di un uomo lo toccano in questo modo, così come d’altronde è la prima volta che José sente forme simili sotto i polpastrelli. La forza con cui i muscoli di Zlatan, guizzanti e tesi sotto la pelle, si oppongono alla pressione delle sue mani, è una cosa che non è possibile paragonare a nessun corpo di donna – a nessun’altra cosa al mondo abbia mai toccato.
Quando le mani di Zlatan si sollevano e si posano sui bottoni della sua camicia, entrambi si allontanano apposta per guardare il movimento lento delle dita che, fra un’incertezza e l’altra, lo spogliano. La mano di José è ancora ferma sul suo collo e si muove in una carezza appena percettibile cui nessuno dei due bada: è lì ed è bello che ci sia, ma la camicia che si apre sul petto di José è al momento l’unica cosa che li interessa. Interessa Zlatan perché lo sta spogliando, e interessa José perché si sta lasciando spogliare, ed entrambi sono gesti tutt’altro che privi di conseguenze.
Quando la camicia finisce per terra, Zlatan si spinge un po’ in avanti. Non che sappia esattamente cosa voglia dire un gesto simile, spera solo che José sia con lui, in quel momento, che riesca a leggergli nella mente più di quanto non riesca a fare lui con se stesso al momento – perché ha voglia e non sa di cosa, perché vuole qualcosa che non sa come ottenere, perché è triste, perché José era suo, perché non capisce più se lo sia ancora, perché sente di appartenergli da sempre – e José c’è. José c’è e ci sono i suoi occhi che tornano a fissarsi nei suoi, rassicuranti, e ci sono le sue mani che lo stringono lievissime ai polsi, mentre indietreggia accompagnandolo verso il letto, e ci sono le sue labbra che lo sfiorano sulla bocca, sul mento, lungo il collo. José c’è, Zlatan lo sente, Zlatan lo lascia fare.
José c’è ed è ovunque – Zlatan sente la carezza infinita delle sue labbra che seguono il profilo del suo corpo, scendendo senza il minimo pudore lungo il suo petto, lungo il suo ventre, perfino fra le sue gambe, e non riesce a capire se tutta quella disinvoltura sia testimone di relazioni passate, e passate chissà da quanto, magari anche da pochissimo, oppure se sia semplicemente la naturale spensieratezza che ti accompagna quando ti perdi in qualcosa che non credevi avresti mai ottenuto.
- José… - lo chiama debolmente, sollevando il capo dal cuscino e cercando i suoi occhi. Lui gli ricambia l’occhiata un po’ persa, separandosi dal suo corpo col respiro pesante.
- Non ho idea di cosa sto facendo. – risponde, e poi ricomincia a toccarlo come stesse cercando il punto giusto senza aver ben chiara nemmeno la zona approssimativa nella quale dovrebbe trovarsi. Il che, su Zlatan, ha un effetto devastante, perché si traduce all’atto pratico nelle mani di José che ricominciano a vagare ovunque senza meta, dandogli i brividi lungo la spina dorsale e spingendolo ad inarcarsi sotto i suoi tocchi spingendosi verso l’alto in un movimento di cui non capisce l’utilità finché José non la trova per lui, afferrandolo saldamente per i fianchi e sistemandosi fra le sue gambe dischiuse, spingendosi lentamente fra le sue natiche, stuzzicandolo appena.
Zlatan freme di paura e di fastidio, e freme anche perché quella carezza leggerissima lo solletica e lo stimola in modi che non avrebbe mai creduto possibili – e non riesce più a capire se il piacere che sta provando sia qualcosa di puramente fisico o sia dettato anche e soprattutto dal fatto che è José a toccarlo così, è José a farsi sentire in questo modo, e per una volta non lo sta immaginando né sognando.
- Me ne sono andato perché non potevo più starti accanto sapendo che tu non provavi per me quello che provavo io per te. – confessa sulle sue labbra quando José si china a baciarlo nel tentativo di distrarlo, mentre si fa strada dentro di lui con un dito umido e caldo.
- Hai mollato la tua squadra, - elenca piano José, muovendosi dentro di lui con la stessa identica calma che impone alle sue parole mentre gliele lascia scivolare addosso, - la tua vita, i tuoi amici, le tue abitudini, la-
- Tu – lo interrompe Zlatan, posando entrambe le mani ai lati del suo viso e attirandolo più vicino, per baciarlo ancora, - mi stavi devastando l’esistenza. – mugola, quando José interrompe il movimento del suo dito per aggiungerne un altro, cauto, - Tu mi… non puoi nemmeno immaginare cosa fosse diventato per me giocare per te. – e ansima quando il movimento di quelle stesse dita si fa appena più svelto, - Io non ce la facevo più.
- Tu non hai lasciato l’Inter. – commenta distrattamente José, estraendo le dita e guardandolo dritto negli occhi. – Tu hai lasciato me.
Zlatan si morde un labbro, reprimendo a stento il mugolio che gli affiora alle labbra quando a spingersi contro di lui non sono più solo dita.
- Non so se si possa dire così. – risponde, poggiando le mani sulle sue spalle nel tentativo di aiutarlo quando José solleva il suo bacino di qualche centimetro, preparandosi a entrare dentro di lui, - Me ne sono andato perché… perché non potevo lasciarti, credo.
- Zlatan… - mormora José, confuso, la fronte contro la sua spalla, - che vuol dire questo?
- Vuol dire che lasciarsi è una prerogativa degli amanti, noi non lo eravamo, e quindi anche se avessi voluto lasciare te non avrei mai potuto farlo. – sputa fuori tutto d’un fiato Zlatan, perché si sente come se stesse dicendo troppo, più nudo di quanto in effetti già non sia, e non riesce a sentirsi a proprio agio, anche se José si spinge per qualche centimetro dentro di lui e pure se fa male, pure se è strano, pure se è assurdo, pure se sarà ancora più doloroso domattina rispetto ad adesso, in questo preciso istante sembra la cosa più perfetta del mondo. – Lasciare l’Inter era l’unica cosa che potessi… - esita affaticato, stringendo la presa sulle  sue spalle, - l’unica cosa che potessi fare, perché il legame con l’Inter era l’unico che avevo.
José lo guarda. Lo guarda a lungo.

«Cosa cazzo vi prende?!» sbraita, fuori di sé dalla rabbia, «Cosa siete, dei sacchi di merda?! Avete vinto uno Scudetto a tavolino, il successivo per un colpo di fortuna e l’ultimo perché non avevate rivali! E ora siete qui e fate i campioni facendovelo sbattere nel culo da una squadretta del cazzo?!»
Il silenzio regna sovrano nello spogliatoio. I ragazzi vorrebbero rispondere – alcuni di loro, se potessero, prenderebbero armi e bagagli e tornerebbero in Pinetina col primo taxi, probabilmente – ma restano pietrificati sulle loro panchine, congelati sul posto dalle occhiate severe con le quali José li sferza, aggirandosi per lo spogliatoio come una bestia affamata.
«Mi sono rotto i coglioni di voi!» continua l’uomo, spalancando la porta e indicando le scale che portano verso il campo, «Andate fuori di qui e fate gli uomini, se ne siete capaci! Altrimenti fottetevi!»
I giocatori abbandonano lo spogliatoio uno dopo l’altro, chi in perfetto silenzio – come Javi, più urtato dalla sconfitta in sé che non dalle parole del mister – chi borbottando scontento – come Adri, che le offese non le regge neanche se sono più che giustificate. Zlatan si attarda nei pressi del proprio armadietto  e guarda a lungo la schiena di José, mentre l’allenatore osserva la squadra tornare in campo.
Si alza e lo raggiunge solo quando lo osserva sospirare platealmente, sgonfiandosi in maniera perfino infantile.
«Segnerò.»
José si volta a guardarlo con stupore, come non si fosse accorto della sua presenza. Si gratta nervosamente una guancia, scrollando le spalle.
«Per quello che vale» butta lì, esasperato. Zlatan si inumidisce un labbro e riflette brevemente.
«A te importa che io segni almeno un gol?» chiede quindi, tornando a guardarlo negli occhi.
José esita qualche secondo.
«Sì.»
Zlatan annuisce.
«E allora io segnerò.»
José lo guarda ancora e poi lascia andare una mezza risata divertita.
«Sei un idiota.»
 
- Sei sempre stato un idiota. – è la risposta di José, l’ultima che gli dà prima di chiudere nuovamente le labbra sulle sue e cercare la sua lingua mentre lo penetra lentamente.
Zlatan lascia andare uno sbuffo di fiato fra le sue labbra, ed è dolore e piacere insieme, quando José si spinge a fondo dentro di lui e, allo stesso tempo, prende ad accarezzarlo per tutta la lunghezza della sua erezione, cercando di mantenere un ritmo simile a quello delle sue spinte, sperando che possa servire a lenire da una parte ed amplificare dall’altra. E serve, serve davvero, Zlatan se ne accorge quando chiude gli occhi e si lascia andare fra le sue mani con fiducia, gettando indietro il capo, il petto scosso dai sospiri e dalle scariche di piacere che gli annebbiano le idee. José solleva appena le labbra e gli sfiora un orecchio, resta lì a lungo, come volesse dirgli qualcosa, e invece non dice niente, non fa che respirargli contro la pelle. Zlatan non ne capisce il motivo, almeno fino a che non afferra che il motivo è quello: José non ha nient’altro da dire. José vuole farsi sentire e basta.

«E lui» dice Andrea, indicandogli l’altissimo svedese che, guardandolo, sorride come un idiota, «è Zlatan. Avrai sicuramente sentito parlare di lui.»
«Chi non ha mai sentito parlare di lui?» ride José, «Ibra» lo chiama quindi, prendendosi subito abbastanza confidenza da farlo usando un soprannome che, fino ad ora, è stato solo dei compagni di squadra, di Mancini, dello staff e di qualche tifoso innamorato. Così fa fatica a sentire questo José Mourinho come uno sconosciuto, e in effetti non passano che pochi secondi che s’è già abituato al modo buffo in cui sorride sollevando solo un angolo della bocca, mentre sulla guancia gli si disegna una fossetta dalla quale è impossibile staccare lo sguardo. «La tua fama ti precede» commenta, porgendogli la mano.
Zlatan la stringe ed è costretto a lasciarla immediatamente, infastidito da una scarica elettrica improvvisa. José ride, sventolando un po’ la mano davanti al viso.
«Però» commenta, «niente male come primo saluto.»
 
José lo chiama per nome ad alta voce, quando viene dentro di lui, e Zlatan non riesce a fare lo stesso quando viene fra le sue dita solo perché è José stesso a impedirglielo, baciandolo con tanta foga da mozzargli il respiro e annullargli i pensieri e spegnere l’universo intero. Che non esiste più.
Si separano a fatica, senza volerlo davvero. José si regge sul materasso coi gomiti, gli avambracci stesi all’altezza delle spalle di Zlatan, le gambe dello svedese ancora allacciate dietro i fianchi ed i petti che si sfiorano ad ogni respiro, solleticandosi appena.
Si ribalta sul materasso, stendendosi al suo fianco, solo quando il caldo si fa troppo appiccicoso per poterlo fisicamente sopportare ancora. Zlatan gli fa spazio, spostandosi lateralmente, e José gli fa girare un braccio dietro le spalle, aiutandolo a sistemarsi contro di lui.
- Almeno – commenta con una mezza risatina, - abbiamo risolto una questione.
La risatina di José gli fa eco, ma ha un tono profondamente diverso rispetto alla sua. Più disilluso.
- Abbiamo fatto l’amore, Zlatan. – gli spiega senza guardarlo, - Questo raramente risolve qualsivoglia questione.

Zlatan non capisce immediatamente cosa la frase di José voglia dire, e si addormenta fra le sue braccia perché è più comodo, più semplice e più bello così. Non capisce nemmeno quando il giorno dopo si sveglia e non lo trova più al suo fianco, prende la sua assenza come un dato di fatto e d’altronde, mentre si lava e si veste e si prepara per l’allenamento pomeridiano in vista della partita, si chiede anche con una certa ironia cosa potesse aspettarsi di diverso, non soltanto da José, ma dalla situazione in generale.
Continua a non riuscire a darsi una risposta per tutta la giornata. Almeno fino a quando alla sera non entra in campo e José è seduto in panchina. E non lo guarda. E nessuno, dalla panchina, in effetti lo guarda, e il pubblico tace – perfino i tifosi più accaniti – e i suoi compagni non sanno come aiutarlo a fronteggiare l’orda di sguardi rabbiosi che lo fissano dall’altro lato della linea di centrocampo.
E Zlatan si sente solo.
E capisce che la questione non è risolta per niente. E probabilmente non si risolverà mai.

Non c’è vento, non si muove una foglia. I ragazzi si allenano già, a qualche metro di distanza da loro, e José e Zlatan restano immobili sul limitare del campo. Hanno entrambi le mani sui fianchi, Zlatan finge di fare stretching, José finge di guardarsi intorno.
Il silenzio si spezza all’improvviso.
«Mi mancherai.»
Torna silenzio. Si spezza ancora.
«Anche tu.»
E poi più niente.
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