Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: JoséxZlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- 25 gennaio 2009, Inter-Sampdoria 1-0. Zlatan Ibrahimović questa partita è costretto a guardarla dagli spalti. Guarda la partita, guarda Adriano fare a pugni in mezzo al campo, guarda il proprio allenatore venire espulso dopo un accesso d'ira. E questo è il post-partita.
Note: Questa storia è un assurdo. Nel senso che io mai e poi mai avrei pensato, un giorno, di finire a scrivere slash sull’Inter. Tutto ciò, naturalmente, finché José Mourinho non è arrivato ad allenare. A quel punto, i ragazzi hanno cominciato a precedere le sessioni di allenamento con lunghe sessioni di abbracci di gruppo e ciò che prima era solo ipotizzato è diventato palese, cioè che la nostra è una squadra palesemente gaia nel senso più ampio possibile. Io sono molto felice di tifare per una squadra palesemente gaia. XD
Ringraziamento – triplice – a Def: per Temporal-mente (che è un’iniziativa deliziosa), perché se lui non avesse cominciato a shippare Ibra non avrei cominciato neanche io XD e per le virgole <3
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Premessa. Perché non c’è neanche messo che uno debba fangirlare per forza la propria squadra del cuore XD Comunque, in breve e per non annoiare nessuno.
Antefatto. In occasione di Atalanta-Inter, (domenica diciotto gennaio 2009), Zlatan Ibrahimović (attuale attaccante di punta della formazione interista), si fa ammonire per proteste. Già diffidato – in quanto ammonito anche nella partita precedente – è costretto a saltare la successiva giornata di campionato.
Fatto. Domenica venticinque gennaio 2009, Inter-Sampdoria si conclude 1 a 0 per la formazione interista ma José Mourinho, allenatore della squadra, viene espulso dal campo a causa di una reazione verbalmente violenta nei confronti dell’arbitro Celi in occasione dell’ammonizione (immotivata ed ingiusta u.u) del centrocampista Dejan Stankovic. In aggiunta a questo, mentre Ibra guarda la partita dagli spalti, durante una potenziale azione da gol, Adriano (Leite Ribeiro, altro attaccante dell’Inter) scazzotta malamente nello stomaco il difensore doriano Gestaldello (colpevole di averlo tenuto un po’ troppo stretto mentre gli dimostrava il proprio amore abbracciandolo in area <3), gesto che causa grande indignazione in tutto il mondo sportivo (bla bla bla, è stato sexy *_*) e che, nel dopopartita, risulterà in una squalifica di tre giornate.
Sapendo questo, sapete tutto ciò che vi serve per non perdervi (troppo), ma se tifate Inter, conoscete un tantino la squadra e sapete che uomo meravigliosamente assurdo sia José Mourinho, di sicuro vi divertirete molto di più XD

God, And After God, Me
“There's footsteps loud and strong coming down the hall.” (Goodnight Moon – Shivaree)

“If I wanted to have an easy job, I would have stayed at Porto.
 Beautiful blue chair, the Uefa Champions League trophy, God, and after God, me.”
~José Mourinho




José non è ancora venuto fuori dallo spogliatoio e Zlatan non può fare a meno di pensare di essere stato un emerito coglione a farsi ammonire contro l’Atalanta. La situazione non è buona e, tanto per cambiare, avere vinto – come al solito – non conta un cazzo: battere qualcuno giocando bene, in Italia, non è abbastanza per evitare le critiche; per evitare le critiche, l’avversario devi umiliarlo, o te ne dicono alle spalle di tutti i colori. L’Inter, oggi, non ha umiliato nessuno. I ragazzi sono stati bravi, ma un uno a zero si dimentica in fretta. Non è la superiorità sfacciata dei due a zero, non è la presunzione dei tre a zero e non è il marchio a fuoco dei quattro a zero. È solo un numero del cazzo accanto a un altro numero del cazzo, e Zlatan sa bene che, se ci fosse stato lui in campo, i numeri sarebbero stati diversi. Ha già in testa la voce di Mou che ripete “se ci fossi stato tu, al posto di Sulley, quello sarebbe stato gol. Se ci fossi stato tu, al posto di Dejan, quello sarebbe stato gol. A te non ti si sostituisce con un giocatore. Ci vuole la squadra, per sostituire te”.
Si muove svelto fra i corridoi di San Siro, evitando accuratamente i grappoli di giornalisti appostati ad ogni angolo in attesa di un qualsiasi pollo da spennare; Julio non è altrettanto fortunato, Zlatan lo vede chinare il capo e forzare un sorriso di fronte al giornalista di Sky che lo imprigiona contro un tabellone pubblicitario chiedendogli se almeno lui vuole parlare, visto che Mourinho non ha voluto. “Sì, parlerò io al posto suo”, lo sente ridere Zlatan, e ride un po’ a propria volta, girando l’angolo ed immettendosi nel breve corridoio che lo porterà agli spogliatoi.
Quando fa per aprire la porta, si ritrova anticipato da Adriano, che gliela spalanca in faccia e, non contento di averlo quasi fatto fuori, incede col passo marziale dell’uomo fuori dalla grazia di Dio, investendolo in pieno mentre cerca di uscire.
- Adri…? – lo chiama Ibra, cercando di trattenerlo per le spalle. Il brasiliano lo fissa, gli occhi ancora annebbiati dalla furia, e poi si placa, chiudendo la porta dietro di sé e sospirando pesantemente.
- Ti sei goduto lo spettacolo? – gli chiede, incrociando le braccia sul petto, l’ampia felpa della squadra che sbuffa attaccandosi un po’ alla sua pelle ancora umida di doccia. Zlatan sorride appena, sa esattamente a cosa si stia riferendo l’attaccante.
- Ancora un po’ e gli sfondavi la pancia, Adri. – gli fa notare, inarcando divertito le sopracciglia.
- Lo stronzo mi stava abbracciando come non ha mai fatto neanche mia madre. – ribatte lui, borbottando infastidito, - Cosa dovevo fare? Lasciare che mi tenesse fermo? Eravamo nella merda!
Zlatan annuisce, sfilando il cappellino dalla testa. Il calore umido dei sotterranei lo sta avvolgendo, e del freddo secco di Milano non resta più niente.
- Ti daranno almeno tre giornate di squalifica. – ipotizza lo svedese, spostando il peso da un piede all’altro. Adriano risponde scrollando le spalle.
- José mi ha appena finito di dire che, squalifica o non squalifica, non vuole vedermi per le prossime due settimane. – ammette, abbassando appena lo sguardo, - Il che significa che le partite le salterei comunque. Mi ha fatto una paternale che sarebbe ancora in corso, se non fossi uscito. – poi ci riflette qualche secondo, - No, non sarebbe ancora in corso perché gli avrei spaccato una panchina sulla testa, ma insomma…
Zlatan ride a bassa voce, scuotendo il capo.
- È il tuo allenatore, devi rispettarlo. – gli ricorda, e Adriano ghigna.
- Oh, ma io lo rispetto. – annuisce, - Però lui oggi s’è fatto espellere perché non è stato capace di tenere a freno la lingua. Non può rinfacciarmi di non essere capace di tenere a freno le braccia. Io almeno ho la scusante di essere cresciuto in una favela.
Zlatan ride ancora, più sonoramente.
- Lo sai com’è fatto, non è per niente giusto nei rapporti con le persone.
Adriano ghigna ancora, mollandogli una pacca fenomenale contro una spalla.
- Sì che lo so. – ride, - Ma lascio che a dirlo siano quelli che lo conoscono meglio. – e butta lì l’allusione con una mezza strizzatina d’occhio, cominciando ad allontanarsi verso l’uscita.
- Stronzo! – gli urla dietro Zlatan, fingendo un imbarazzo che comunque non gli riesce di provare. Dovrebbe, probabilmente. Con Helena ed i bambini a casa, probabilmente sì, dovrebbe sentirsi in imbarazzo. Ed anche un po’ in colpa. Ma le regole di spogliatoio sono diverse dalle regole in superficie. Perciò, di fronte a quella porta, Helena ed i bambini non contano praticamente niente: di là c’è José che non è ancora uscito ed è stato espulso, ed è tutto ciò che a Zlatan interessi, al momento.
Entra, e lo spogliatoio lo accoglie in perfetto silenzio. Il panorama è simile a quello già visto decine di volte, quando tutti i suoi compagni di squadra sono già usciti e si preparano ad affrontare le orde di giornalisti affamati per raggiungere le macchine ed andare via. È allora che, spesso, José lo tira per un polso e gli chiede di restare, perché ha ancora qualcosa da discutere con lui. Tutti sanno cosa succede e nessuno – quasi nessuno – ne parla, perché è vero che ciò che succede nello spogliatoio non esce dallo spogliatoio, è una delle prime cose che José ha messo in chiaro arrivando all’Inter: “qua dentro, queste quattro pareti, queste panche, queste docce, questi armadietti, sono affar nostro. Là fuori siamo cose pubbliche, dobbiamo giustificare tutto e dobbiamo combattere per tutto. Qui dentro no. Qui dentro tutto è nostro e solo nostro”.
José sta seduto su una panca, piegato in avanti. Fissa il pavimento, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani dalle dita distrattamente intrecciate che pendono nel vuoto. Non dà segno di accorgersi della sua presenza, ma d’altronde non si sa mai davvero cos’è che gli giri per la testa, ed il più delle volte Zlatan è convinto che in realtà José capisca veda e senta tutto, solo che non si premura di fartelo sapere fino a quando non gli risulta utile.
Si annuncia con un colpetto di tosse. José non si muove.
- Mister…? – lo chiama quindi a bassa voce, azzardandosi ad avanzare di un passo. L’uomo sospira profondamente, ma rimane piegato in avanti e non lo guarda.
- È stata una bella partita, Zlatan? – chiede invece, fissando ostinatamente le piastrelle bianchissime della parete di docce di fronte a lui.
Zlatan inspira ed espira l’odore pesante ed umido dello spogliatoio, prima di decidersi ad avanzare ancora e sedersi al fianco del proprio allenatore, imitandone la posa concentrata e un po’ abbattuta.
- …no, mister. – risponde sinceramente, puntando lo sguardo sulle stesse piastrelle bianchissime, - È stata una partita combattuta, però. È caduto un bel po’ di sangue. – ridacchia, riferendosi alla gomitata che ha mandato a terra Sulley spaccandogli un sopracciglio. – Ma i ragazzi sono stati forti. Dei gladiatori. Soprattutto Adri-
- Un leone. – annuisce il mister, compiaciuto, - Stupido tanto quanto, almeno.
Zlatan sospira.
- Mister, ogni tanto lei dà l’impressione di essersi dimenticato com’era giocare sul campo.
José ride piano, scuotendo lentamente il capo.
- Lo ricordo bene, invece. – risponde pacatamente, - Ero un pessimo giocatore. Ci vuole un pessimo giocatore per fare un ottimo allenatore, perché solo i pessimi giocatori capiscono quanto possono arrivare ad essere stupidi gli ottimi giocatori. – solleva finalmente il capo e lo omaggia di una lunga occhiata penetrante. – La boria fa male. – sentenzia quindi, annuendo compitamente.
- E questo, detto da lei, è molto divertente, mister. – gli fa notare l’attaccante, ridendo di gusto. José lo segue nella risata, più intenerito che divertito.
- Parlavo dei giocatori. – rivela poi, tranquillissimo, - Fra quelli che comandano, la modestia è un peccato, Zlatan. – e lo svedese si ritrova a pensare che dev’esserci per forza qualcosa di sbagliato, nel rapporto fra lui e il mister, perché José spesso gli ricorda suo padre. Perché ha lo stesso modo di parlare per asserti imprescindibili, di quelli che ti fanno venir voglia di prendere appunti, sia mai dietro il commento disinteressato di una sera si nasconda invece una fondamentale lezione di vita su chissà che argomento di basilare importanza.
- Adri era piuttosto arrabbiato. – confessa quindi, tornando ad abbassare lo sguardo perché gli occhi scuri di José si stanno facendo troppo difficili da sostenere, - Per il rimprovero, intendo.
- Se Adri è convinto che oggi sia stato sufficiente, Adri sbaglia di grosso. – borbotta l’allenatore, incrociando le braccia sul petto. A Zlatan viene da ridere: non dovrebbe essere lui a fare paragoni fra José e suo padre; José un figlio all’Inter l’ha già scelto, l’ha scelto con attenzione e l’ha scelto il primo giorno in cui è arrivato. E non è lui. – Mercoledì sera, tanto per cominciare, che lo squalifichino o no io lo voglio seduto accanto a me. Anche solo per riempirgli le orecchie di roba che, come al solito, non ascolterà.
Zlatan la lascia andare, la risata.
- Verrà fuori che s’è fatto espellere apposta per poter restare con lui invece di venire con noi sul campo al Massimino. – lo prende in giro, e José risponde sferrandogli una gomitata giocosa in mezzo alle costole. Avvolto com’è nel piumino e in svariati strati di felpe, Zlatan appena lo sente. E non può dire, in tutta onestà, che non avrebbe preferito, invece, sentirlo molto meglio.
- La prossima partita, Zlatan… - riprende José poco dopo, sospirando pesantemente e raddrizzando la schiena, - è di fondamentale importanza. Io non sarò in panchina e sarete senza Adriano in campo. Praticamente, la squadra si reggerà sulle tue spalle. Lo sai questo, no?
Zlatan deglutisce e vorrebbe rispondere tanto per cominciare che questo ruolo non l’ha chiesto lui. E che, se a dieci anni avesse saputo che entrando in campo e segnando otto dannati gol al Villinge avrebbe posto le basi per arrivare lì dove si trovava adesso, probabilmente ci avrebbe pensato su un paio di volte, prima di sfilare la tuta e darsi da fare. Vorrebbe rispondere anche che con Mancini non era così, lui continuava a parlare di squadra sempre e comunque, era la squadra che doveva lavorare unita sacrificando le genialità dei singoli.
Per José il sacrificio non è mai valso la pena. In nessun caso. Zlatan lo sa perché al modo di fare di quell’uomo ha dovuto abituarcisi in fretta. Se prima era tutto un “Tranquillo, Ibra, quello che ti senti di fare farai”, da quando è arrivato José non c’è spazio per l’irresponsabilità. “Tu sei quello che sei”, gli dice José, “E sei un asso. Un capo. Il pilastro di questa squadra. Perciò è tua responsabilità dare il massimo sempre e comunque. L’Inter è responsabilità tua quanto mia.”
E perciò Zlatan annuisce.
- Sì, lo so, mister. Saremo grandiosi a Catania, vedrà. Io lo sarò.
José sorride e Zlatan abbassa lo sguardo. Non è proprio da lui sentirsi imbarazzato, ma è ciò che gli capita sempre quando Mourinho gli sorride. In un primo momento gli verrebbe da giustificarsi dicendo che il motivo è che José non ride mai, ma è falso: José ride spesso, solo che in genere non si fa vedere se non da chi ha il permesso esplicito di considerarlo una persona come tutte le altre. Per il mondo è lo Special One, e tale deve restare, ma ci sono pochissime persone – lui è fra queste – per cui può essere anche solo José Mourinho. Con loro, sorride.
Nell’elenco ci sono anche sua moglie e i suoi figli. Ma Zlatan deve stare attento a quello che pensa, perché dalla moglie e dai figli di Mourinho fino ad Helena e ai bambini il passo è breve, e da bravo giocatore sa che pensieri come quelli non sono ammessi, nello spogliatoio. Nello spogliatoio non c’è spazio per la famiglia, lo spazio è tutto occupato dalle labbra di José che ora premono con forza contro le sue, e dalle sue mani un po’ tozze che si fanno strada sotto il giubbotto, fra i vari strati di felpe, alla ricerca della pelle calda al di sotto del tessuto.
Zlatan si lascia andare, mettendo a tacere i pensieri e lasciandosi trascinare in piedi finché non si trova schiacciato sulla parete del bagno. Le mattonelle in ceramica sono un po’ fredde ed ancora umide di condensa, l’aria è sempre pesante – è quasi impossibile respirare senza ansimare – ma è difficile, adesso, capire se sia una questione di ambiente chiuso e saturo di umidità o se per caso il problema non sia un altro – se per caso non siano le dita di José che s’introducono oltre l’orlo dei jeans, sbottonandoli e lasciandoli scivolare lungo le gambe, o se per caso non sia il suo fiato dritto sulla nuca, o la pressione della sua erezione contro un gluteo, a cercarsi spazio fino ad entrare dentro di lui. Probabilmente sono quelli i motivi per i quali respirare è così dannatamente difficile, ma Zlatan non ci pensa, a Zlatan non interessa, a Zlatan in realtà non interessa quasi niente di niente quando José si spinge con forza contro il suo corpo, e gli interessa ancora meno quando José fa scattare una mano ad accarezzarlo dall’alto verso il basso per tutta la lunghezza della propria erezione svettante e pulsante di desiderio.
Vede solo bianco quando viene contro le piastrelle, trattenendo il respiro e gli ansiti perché sono nello spogliatoio, d’accordo, ma ci sono cose ancora più intime e private di quelle quattro mura. Ci sono loro due. Loro due sono una cosa molto intima e privata, dopotutto.
- Mister… - confessa con una mezza risata, separandosi da lui e rassettando i vestiti mentre aspetta di recuperare il fiato, - sarà una settimana pesante. Ti sei scelto un mestiere molto difficile.
- Se avessi voluto un mestiere facile, - ride apertamente José, rimettendo a posto i pantaloni, - sarei rimasto al Porto. Una bella poltrona blu, il trofeo della Champions League, Dio, e dopo Dio, io.
Zlatan sghignazza e José lo segue e restano lì, il primo di schiena appoggiato al muro, il secondo dritto in piedi davanti a lui, e questi sono i momenti di quiete che Zlatan spesso vorrebbe utilizzare per chiedere a José qualcosa di molto stupido – qualcosa di cui sicuramente si pentirebbe, qualcosa che in realtà non dovrebbe nemmeno voler chiedere, perché la loro è una relazione di spogliatoio, giusto?, perché lui è solo il suo mister, giusto?, perché lui ama Helena ed ama i bambini e non conta se, quando ce l’ha dentro, esiste solo José. Quando escono da quella porta, il resto del mondo li insegue. E Zlatan deve per forza guardarlo.
Si riscuotono solo quando sentono dei passi pesanti e rumorosi muoversi lungo il corridoio e riecheggiare fra le pareti fino a raggiungerli. È il segnale codificato col quale Adriano li avverte del suo arrivo – qualcosa di molto simile a un “sì, fatevi almeno trovare vestiti” che nessuno ha mai detto ad alta voce ma che è sempre stato anche fin troppo chiaro.
Quando il Brasiliano spalanca la porta – con l’aria incazzosa che ha sempre addosso quando lo costringono a fare qualcosa che non vuole – li trova già lì belli e pronti, coi giubbotti chiusi ed i borsoni sulle spalle.
- Be’? – chiede, - Si va?
José annuisce senza esitazioni e li precede in corridoio. Quando Zlatan fa per passare oltre Adriano e seguirlo, quello per poco non lo manda a terra con uno sgambetto.
- Ma tu non cresci mai? – lo rimbrotta, recuperando l’equilibrio.
Adriano ghigna, palesemente soddisfatto.
- Tu sei cresciuto, nell’ultima mezz’ora?
Zlatan sospira e riprende la via del corridoio, tirandosi dietro il compagno di squadra neanche fosse un pupazzo di peluche.
“Nemmeno di un secondo”, si ritrova a pensare amaramente. Ma resta un pensiero.
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