Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: José/Mario.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon, Dub-Con.
- "Ognuno parla in modo diverso. C’è chi per farsi capire gesticola, ad esempio. Chi sente il bisogno di alzare la voce. O di ripetere i concetti più e più volte. D’altronde, ognuno ascolta anche in modo diverso. E io con te le ho provate tutte, prima di scoprire che questo è l’unico modo che conosci tu per ascoltare."
Note: Dopo l'allegra fiammata Jobra, torno alle mie solite coppie improponibili XD Anche se, insomma, ho poppato la cherry del Moutelli durante il P0rn Fest e quindi ormai non si scandalizza più nessuno. Anche perché, voglio dire, da quando il Jobra s'è spezzato, una relazione con Mario è la cosa più canon che possa essere attribuita a José dopo la relazione che ha con sua moglie, suppongo. Comunque \o/ Fic ambientata immediatamente prima di Palermo-Inter (CHE IO SONO ANDATA A VEDERE ALLO STADIO, MWHAHAHA) (Assistendo a un pareggio tremendo /o\), titolo rubato ad un verso di I'm Yours di Jason Mraz e... mmh... guardate bene gli avvisi prima di leggere? \o/
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- Balotelli. – lo chiamò il mister, indicandogli la porta alla fine degli allenamenti, - Dentro. – Mario lo guardò per qualche secondo, e lui gli ricambiò l’occhiata senza fare una piega. – Dentro. – ripeté, calcando bene ogni lettera e precedendolo all’interno dell’edificio.
Mario roteò gli occhi, osservandolo oltrepassare la porta, e si grattò la nuca, asciugando qualche gocciolina di sudore sfuggita all’asciugamano.
- Non dovresti farlo aspettare. – gli sussurrò Davide, molleggiandosi appena sulle punte dei piedi per raggiungere il suo orecchio, - Rischi di farlo arrabbiare di più. E se poi ti lascia di nuovo a casa?
- Non lo farà. – quasi ringhiò Mario, aggrottando le sopracciglia, - Sono stufo di non fare un cazzo. Se non mi porta a Palermo, gli pianto un casino che se lo ricorderà finché campa.
- Anche perché torno in campo anch’io. – soggiunse il più giovane con un sorriso, - Ti voglio al mio fianco.
Mario sorrise a propria volta, intenerito, ed allungò un braccio per tirarselo contro, scompigliandogli i capelli morbidi e un po’ umidi sulle punte.
- Ci sarò. – lo rassicurò. Poi lo salutò e seguì Mourinho all’interno. Non trovandolo da nessuna parte, suppose potesse starlo già aspettando nel proprio ufficio, e lì si diresse, bussando quietamente alla porta una volta che fu arrivato. – Mister? – chiamò, visto che dall’interno la risposta stentava ad arrivare, - Sono Mario.
- Entra. – rispose a quel punto José, la voce, stranamente, incredibilmente vicina.
Mario non perse troppo tempo a riflettere sul punto, come in genere non perdeva troppo tempo a riflettere su nulla, e girò la maniglia, aprendo la porta ed entrando. Di fronte a lui, la poltrona dietro la scrivania di José era girata verso la finestra, così da non poter vedere l’espressione del mister. Questo, naturalmente, a patto che fosse stato seduto.
Cosa che non era.
Mario girò velocemente su se stesso quando, dopo aver fatto qualche passo all’interno della stanza, sentì scattare la serratura della porta.
- No. – biascicò, indietreggiando alla cieca verso la scrivania, - Non adesso.
- Oh, sì invece. – disse José, atono, - Dobbiamo parlare.
- Questo non è parlare. – deglutì Mario, toccando la scrivania e quasi appoggiandosi contro il piano in legno pesante, sentendo le gambe molli.
- Ognuno parla in modo diverso. – rispose José, avvicinandosi lentamente. – C’è chi per farsi capire gesticola, ad esempio. Chi sente il bisogno di alzare la voce. O di ripetere i concetti più e più volte. D’altronde, - sospirò, slacciando la cintura così lentamente che Mario rimase immobili per minuti interi ad osservarla sfilare attraverso la cinghia e i passanti, senza un suono, - ognuno ascolta anche in modo diverso. E io con te le ho provate tutte, prima di scoprire che questo è l’unico modo che conosci tu per ascoltare.
- No. – provò a fermarlo, sollevando le mani, ma José lo strinse per i polsi e lo obbligò a voltarsi, forzandolo a piegarsi sulla scrivania. La sua resistenza era effimera come quella di un fiore in mezzo a una tormenta, stupida e chiocciante come quella delle ragazzine che continuano a ripetere “no” quando tutto quello che vorrebbero mugolare strusciandotisi addosso è “sì sì sì”. Mario si vergognò di se stesso, chiudendo gli occhi e reggendosi coi gomiti contro il ripiano mentre chinava la testa sotto la pressione delle dita di José, piccole e forti contro la nuca.
- Io non sono uno stupido, Mario. – mormorò lui, sollevandogli la maglietta fino a sfilargliela dalla testa e lasciarla attorcigliata attorno ai suoi polsi, in modo da rendere i suoi movimenti decisamente meno agevoli, - Mi si può fregare una volta, - continuò, abbassandogli i pantaloni e lasciandoli scivolare giù lungo le sue gambe scure, umide di sudore e semidivaricate, fino a terra, - non due. E se tu o i tuoi fratelli – soggiunse, gemendo appena mentre premeva la punta della propria erezione contro la sua apertura e lui si lasciava sfuggire uno sbuffo un po’ terrorizzato ma palesemente colmo di aspettativa, - se tu o i tuoi fratelli… - ripeté accarezzandogli la schiena, - pensate che solo perché avete assunto l’unico che sia stato in grado di fregarmi in passato, allora in qualche modo riuscirete a fregarmi ancora, - ghignò appena, spingendosi con forza dentro di lui, mentre lui inarcava la schiena, schiudendo le labbra in un lamento sorpreso, - siete completamente fuori strada.
- Mi-- - boccheggiò lui, stringendo disperatamente un labbro fra i denti, - Mister—
- Tu non te ne andrai. – chiarì José, scavandosi il proprio posto dentro di lui con la solita rude decisione, come fosse un posto che gli spettasse e lui non stesse facendo altro che ribadirlo con ogni spinta, - Non importa cosa i tuoi fratelli diranno o faranno, - disse, lasciandogli scivolare una mano fra le cosce, a sfiorare appena la sua erezione bollente dalla base alla punta, - o cosa dirà o farà quel porco di Raiola. – aggiunse, stringendo la presa attorno al suo cazzo e scivolando avanti e indietro in concomitanza con le proprie spinte, - Non importa nemmeno ciò che dirai o farai tu. Né cosa vuoi o vorrai o potrai volere, perché finché io ti voglio qui-- - gemette roco, venendo dentro di lui ed aumentando il ritmo delle proprie carezze solo per costringerlo a venire fra le sue dita pochissimi secondi dopo, - finché io ti voglio qui, non ti lascerò andare.
Gli occhi chiusi, il respiro pesante e le gambe molli, Mario rimase per metà in piedi e per metà steso sulla scrivania, nudo ed esposto e privato anche dell’ultimo briciolo di vergogna. Non era stato in grado di dire no. Non era stato in grado nemmeno di desiderare di dirgli no. E, tuttavia, non era neanche in grado di ammettere, almeno con se stesso, di volerlo.
- Non sei convocato per domani. – disse José, il tono tornato calmo, tranquillo e privo di inflessioni, rivestendosi dietro di lui. Mario si mise dritto di scatto, ignorando il dolore alla base della schiena e fissandolo con odio, digrignando i denti.
- Che cosa--?
- Non sei convocato per domani. – ripeté José, ricambiandogli l’occhiata senza problemi di sorta. – Cos’è, ti credi più importante di un Eto’o? Se ho potuto risparmiarmi di convocare lui, posso sicuramente risparmiarmi di convocare anche te.
- Hai detto di volermi qui. – ritorse Mario, quasi soffiando come un gatto dalla rabbia, - Perché mi vuoi qui se non mi lasci giocare?
- Magari ti voglio qui perché voglio mandarti a sputare sangue con Pea in Primavera, per vedere se sei capace di meritarti la prima squadra per la terza volta nella tua vita, visto che ogni tanto ti dimentichi come si fa. O magari, - aggiunse con un sorrisino strafottente, - ti voglio qui perché mi piace scoparti contro la scrivania nel mio ufficio. – Mario distolse lo sguardo, umiliato, mentre José si concedeva una risata soddisfatta. – Ad ogni modo, perché ti tengo qui è del tutto irrilevante. L’unica cosa che deve contare, per te, è che qui resterai. Sono stato chiaro?
Mario si morse la lingua tanto forte da sentire il sapore del sangue spandersi per tutta la bocca e giù per la gola.
- Sì, mister. – rispose quindi, annuendo.
- Ottimo. – commentò José, finendo di sistemare la cintura dentro i passanti dei pantaloni. – Ora, prenditi il tuo tempo per sistemarti e poi vai a salutare i tuoi compagni. Educatamente. – concluse con piglio paterno.
Quando lo lasciò solo, Mario si permise finalmente di sollevare le braccia per rimettere a posto la maglietta, e poi chinarsi per sollevare i capelli e allacciarli in vita.
Prima di uscire, solo per qualche secondo, si appoggiò sfiancato contro la scrivania e si passò una mano sugli occhi, cercando tracce di pianto. Non ne trovò, e non seppe se esserne fiero o averne paura. Poi, uscì dall’ufficio di José.Educatamente si richiuse la porta alle spalle. E, sempre educatamente, andò a salutare i propri compagni. Non altrettanto educatamente, fuggì negli spogliatoi subito dopo. Venti secondi dopo, era già a bordo della propria macchina, diretto verso casa. Sorrise fra sé. Cinque secondi in meno rispetto all’ultima volta. Il prossimo obiettivo, sarebbe stato superare lo scoglio dei dieci secondi.
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