Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Erotico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- Canto del cigno.
Commento dell'autrice: Non che abbia molto da dire su questa storia. È nata stasera, cominciata poco prima dell’annuncio e terminata qualche oretta dopo, cercando di buttar fuori tutta la tristezza che era dentro, s’era accumulata e stava cominciando sinceramente a fare un po’ troppo male XD Almeno adesso sappiamo da che parte stiamo voltati (culo a José, ragazzi, sempre!). A Zlatan vanno solo baci, gratitudine e tanti auguri di fareil peggio possibile, così tornerà strisciando il miglior campionato possibile col Barça. Ma non ci credere nella Champions, svedese, quella sarà nostra u.u
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- Canto del cigno.
Commento dell'autrice: Non che abbia molto da dire su questa storia. È nata stasera, cominciata poco prima dell’annuncio e terminata qualche oretta dopo, cercando di buttar fuori tutta la tristezza che era dentro, s’era accumulata e stava cominciando sinceramente a fare un po’ troppo male XD Almeno adesso sappiamo da che parte stiamo voltati (culo a José, ragazzi, sempre!). A Zlatan vanno solo baci, gratitudine e tanti auguri di fare
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MEMENTO
Zlatan ricorda che, quando era piccolo, durante una delle prime partite col Malmö BI, nel tentativo di segnare di testa, saltò scompostamente, poi cadde a terra e si sbucciò un ginocchio. Era la prima volta che si faceva tanto male, perché gli era capitato di sbattere, ma nulla di tanto devastante, e gli era capitato di scivolare, ma non su un campetto così ghiaioso e ciottoloso e polveroso, tanto da fargli bruciare la carne esposta fino a farlo urlare e piangere di dolore. Quel pomeriggio giocava da solo, non c’era papà in tribuna, e nemmeno mamma, solo il mister che cercò di prendersi cura di lui nel migliore dei modi, ma dannazione era piccolo, stava male e voleva i suoi genitori, e loro non c’erano. Ricorda che, nel momento in cui suo padre arrivò al campetto – era già tramontato il sole, quasi del tutto – gli venne una tale voglia di corrergli incontro e piangere stretto fra le sue braccia, che neanche ci provò, a trattenersi, e nonostante il ginocchio gli facesse incredibilmente male saltare in piedi ed andare verso di lui – mentre lui spalancava le braccia per accoglierlo nel migliore dei modi – fu esattamente la prima cosa che fece, prima di tutto il resto, anche prima di spiegare come avesse fatto a conciarsi il ginocchio in quel modo.
Le ginocchia fragili sono una cosa che continua a trascinarsi dietro dall’infanzia, tant’è che l’ultima sbucciatura c’ha messo un mese a sparire del tutto – e il fatto che continuasse a strusciarla cadendo scompostamente come fa imperterrito da vent’anni non ha aiutato, per il grande sconcerto di José, che ogni tanto si ritrovava a guardare la ferita piena di mercuriocromo spalancando gli occhi e chiedendogli ad alta voce “Zlatan, cosa devo fare per rimetterti a posto? Ricucirti a mano?”, causandogli sempre un sorriso fra il tenero e il divertito.
Allo stesso modo, continua a trascinarsi dietro anche quella strana tristezza – una cosa che ha a che fare col sentirsi debole, stupido e inadeguato – che prova ogni volta che si fa male. Tanto che non si muove dal lettino sul quale il dottore l’ha abbandonato dopo avergli applicato la fasciatura al polso sinistro, e resterebbe ancora lì nei secoli dei secoli, probabilmente, se non fosse José a richiamare la sua attenzione, chiamandolo a bassa voce.
- Ibra.
Non Zlatan. È sempre stato Zlatan, fin dal primo giorno del suo arrivo, ed ha continuato ad esserlo fino a quando l’ipotesi del Barcellona non è diventata realtà. Fino a che lui stesso non l’ha fatta diventare realtà. Il suo desiderio di andarsene non è qualcosa che sappia come spiegare a José, dal momento che, in tutta sincerità, non riesce a spiegarlo nemmeno a se stesso. Ciononostante, avrebbe preferito che José non ponesse tutta quella distanza, fra loro. Toccarsi, salutarsi, parlare, baciarsi, fare l’amore, perfino chiamarsi per nome, sono cose che non si verificano più da tanto di quel tempo che, a ricordarle, sembrano finte. E dire che sono state tutte così frequenti, nell’ultimo anno, così presenti. Così loro.
Solleva lo sguardo cercando i suoi occhi, José risponde senza scostare i propri e Zlatan si sente incredibilmente a disagio.
- Mmhn. – risponde in un mugolio deluso, mettendosi in piedi.
- Frattura? – chiede José, inarcando un sopracciglio, - Credevo fingessi e stessi frignando a caso, durante la partita.
- Distorsione. – precisa Zlatan con una smorfia, - E non fingevo. Stronzo. Non fingo mai.
- Ma sei una lagna lo stesso. – sospira José, voltandogli le spalle. – Dai, ti accompagno in camera tua.
Zlatan lo segue, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. Lo solleva una volta sola, piantandolo fra le scapole di José – che si muovono lente, seguendo l’ondeggiare rilassato delle braccia lungo i fianchi – e nel momento stesso in cui lo fa torna a Malmö, il polso smette di fare male e comincia a dolere il ginocchio. È una cosa stranissima che dura un secondo e lo confonde come se invece fosse durata delle ore, tant’è che è costretto a scuotere energicamente il capo per cercare di scacciare via i pensieri che sembra si rifiutino di andarsene di loro iniziativa, sulle loro gambe. I capelli gli pizzicano il naso, starnutisce e José, di fronte a lui, ride senza voltarsi a guardarlo.
- Tienili composti. – getta lì senza pensarci, - Ti fanno sempre quest’effetto. – commenta distrattamente, e Zlatan si morde un labbro, spostando gli occhi sulla sua nuca.
E poi niente, è una cosa che non pensa, non decide e non intende ricordare quando questa giornata tremenda sarà finita: lo fa e basta. Fissa l’obiettivo, muove un passo avanti, prende una breve rincorsa e l’istante dopo si aggrappa alle spalle di José come un koala ad un albero, stringendo le braccia attorno al suo collo – anche a rischio di soffocarlo seriamente – e le gambe attorno ai suoi fianchi – anche a rischio di fargli perdere l’equilibrio fino a trascinare entrambi a terra in una caduta che non gioverebbe a nessuno.
- Cosa caz- - ansima José, colto alla sprovvista, mentre a fatica ritrova il proprio equilibrio e le sue mani scattano con naturalezza a stringerlo sotto le cosce, per impedirgli di scivolare, - Zlatan! – lo rimprovera, voltando il capo il più possibile per cercare di sferzarlo con l’occhiata di rimprovero che Zlatan immagina e si rifiuta per principio di prendere in considerazione.
Preferisce di gran lunga spalmarsi contro di lui come può, sollevando le gambe il più possibile perché non lo intralcino mentre, imperterrito, continua a camminare – perché José non si ferma mai, neanche se gli piomba addosso un pianoforte, figurarsi uno Zlatan Ibrahimović qualunque. Poggia il mento sulla sua spalla, sbuffando rumorosamente.
- Mi hai chiamato per nome. – borbotta, - Finalmente.
- Non mi ero accorto di aver smesso. – mente José, e Zlatan risponde con uno schiaffo lieve contro la sua guancia, dato più per ricordargli che non può prenderlo per il culo – non in questo modo, almeno – che per altro.
- Io sì. – risponde in un mezzo ringhio, - E comunque… - si ferma, perché non sa che dire. Sa che un “comunque” c’è, sa che c’è qualcosa che vorrebbe far sapere a quell’uomo che lo regge con cura appena sotto le ginocchia, ma non riesce. Non sa cosa dire. Non trova le parole o chissà cos’altro. Resta in silenzio.
- È una distorsione al polso. – gli ricorda José, sbuffando a propria volta.
- Lo so. – annuisce Zlatan con un mezzo sorriso, tornando a mettersi dritto ed accomodandosi meglio contro le sue spalle, dopo il primo momento di confusione che l’ha obbligato a stare il più piegato possibile per cercare di ingombrare il meno possibile – per quanto il tutto potesse sembrare assurdo.
- Non c’è motivo per cui tu non possa camminare. – precisa ancora José, come ad accertarsi che Zlatan l’abbia capito. Zlatan l’ha capito, infatti non è per quello che gli si sta attaccando come una patella allo scoglio.
- Lo so. – ripete infatti, annuendo debolmente.
- E sai pure che tutto questo è ridicolo, vero? – chiede il mister, un’espressione contrariata a distorcere, non del tutto spiacevolmente, i tratti del viso. È così raro vedergli un’espressione simile addosso, un’espressione che non sia il solito lancinante disinteresse, che Zlatan quasi si sente orgoglioso ad essere motivo di un tale sfoggio di umanità.
- Sì. – risponde Zlatan, salutando con un cenno della mano il capitano che passa di lì e li guarda entrambi con aria allucinata, senza che José faccia una piega al riguardo. – Fammi cadere e ti uccido. – aggiunge per la cronaca. Non che creda che José sarebbe davvero capace di mollarlo lì in mezzo al corridoio ed andarsene via, ma è sempre meglio dirle, certe cose. Anche se non dovrebbe essere lui a pensare una cosa del genere, dato quanto poco sta parlando ultimamente.
- Apri la porta. – gli dice José, indicando la maniglia quando giungono sulla soglia della sua camera, - Io non posso. – ride appena, stringendo la presa sotto le sue cosce per fargli sentire con forza che il motivo per cui non può girare la dannata maniglia non è che non può mollare la presa, ma che non vuole.
Zlatan annuisce, scioglie una delle braccia che gli ha allacciato attorno al collo e la allunga in avanti, sporgendosi fino a sfiorare con la propria guancia la guancia di José, mentre gira sbrigativamente la maniglia e spinge la porta per aprirla.
José avanza all’interno della stanza, piegandosi un po’ in avanti per tirare un calcetto alla porta e spingerla a richiudersi. Zlatan, nel movimento, ha l’impressione di cadere, e si aggrappa a lui con forza, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Quando il pericolo finisce, perché José torna a poggiare entrambi i piedi a terra, Zlatan schiude le palpebre e vede solo la grana ambrata della sua pelle, annusa il suo profumo da così vicino che gli dà alla testa e sente la sua risatina divertita tanto dentro da farsi dolere il petto. Non ci pensa nemmeno, ad allontanarsi. Resta lì ancorato a lui come se quello stringere convulsamente attorno alle sue spalle potesse essere sufficiente a trattenerlo lì. Ovunque sia lì: Boston, Milano, l’Inter, non importa. Ovunque sia lì. José è lì.
- Scendi, dai. – gli dice, la voce soffice come quando si sono presentati e José gli ha teso la mano sussurrando “Ho sentito molto parlare di te, ma devo dire che dal vivo colpisci molto di più”, e lui ha risposto con una mezza risata, imbarazzandosi anche e biascicando un “Potrei dire lo stesso” stentato, ridicolo e anche sommariamente falso, dato che di lui avrebbe potuto dire molto di più già fin dal primo giorno, come quanto fosse rimasto affascinato dal modo in cui i capelli brizzolati non lo facessero sembrare per niente vecchio, da come le fossette che gli si disegnavano sulle guance quando rideva fossero piacevoli da stare a guardare, da come la sua voce profonda e sicura fosse ammaliante e da come ogni sguardo attento che riusciva a strappargli sapesse di vittoria, di sconfitta e di scoperta, tutto insieme, come quando il cuore batte fortissimo e non capisci nemmeno perché.
Di scendere, comunque, non ha per niente voglia, perciò stringe le gambe attorno ai suoi fianchi e resta incerto a sfiorargli il collo con le labbra. Potrebbe baciarlo, basterebbe così poco, sporgerle un po’ e schioccarle, nient’altro, ma non sa come potrebbe reagire José e non vuole indisporlo più di quanto già non sia – anche se gli manca, gli manca tantissimo, e il solo pensiero di dover andare via fra una settimana, domani o anche solo fra qualche ora, senza poterlo avere ancora una volta, lo distrugge.
- Zlatan. – lo chiama ancora José, - Scendi. Per favore. – e Zlatan rabbrividisce, una richiesta del genere non può ignorarla. Non se espressa in questo modo, con questa stanchezza, con questo abbandono, con questa rassegnazione.
Sospira e stende le gambe, mettendosi in piedi con una certa fatica – le ginocchia che ancora cercano la forma dei fianchi di José attorno alla quale chiudersi – ed aspettando che lui si volti, lo saluti e lasci la stanza, probabilmente con l’intenzione di non vederlo mai più.
José si volta ma non lo saluta, invece. Resta a guardarlo, le sopracciglia inarcate verso il basso, le labbra strette in una smorfia addolorata e gli occhi scuri tanto densi che Zlatan non riesce a leggervi niente dentro. Tutto ciò che sa è che la sua espressione gli confonde le cose nella testa, nello stomaco e nel bassoventre, e la cosa non lo stupisce, perché José è capace di fargli questo e altro senza il minimo sforzo, alle volte anche restando perfettamente immobile.
- Io non- - comincia, giusto per dire qualcosa, anche se non ha idea di cosa. José lo interrompe scuotendo il capo e infilando le mani in tasca, anche lui giusto per fare qualcosa. Fa male comportarsi in questo modo quando sempre,sempre, tutto fra loro s’è svolto nel modo più naturale possibile. Zlatan si inumidisce le labbra e attende. José solleva gli occhi nei suoi e lo guarda a lungo.
- Non posso credere che tu lo stia facendo davvero. – dice, nella voce molti più sentimenti di quanti Zlatan sia abituato a sentirne provenire da lui, - Io ci ho creduto, sai? In te, in noi, in questa… cosa. Per quanto assurdo potesse essere. E tu non-
- Ti prego. – lo ferma Zlatan, stringendo i pugni lungo i fianchi, - Non dirlo. Non è vero, lo sai che non è vero. Lo sai che ci ho creduto anch’io.
José si inumidisce le labbra e poi si rassegna ad annuire, avvicinandosi di un passo.
- Quando capirai perché lo stai facendo, - gli chiede in un sussurro, a pochi centimetri dalle sue labbra, - voglio che tu me lo spieghi. Dovunque sarai, qualsiasi ora sarà e per quanto stupido possa sembrarti il motivo, tu mi chiamerai e me lo dirai. Me lo devi.
Zlatan annuisce e non trova il coraggio di annullare quella briciola di spazio che ancora li separa, così come non ha trovato il coraggio di chiedersi davvero per quale motivo volesse tanto andare via, così come non ha trovato il coraggio di dirlo a José quando ha cominciato a desiderarlo, così come, all’inizio, non aveva trovato il coraggio di dirgli quanto lo volesse stringere toccare accarezzare baciare, ed ha dovuto aspettare che fosse José a indovinarlo da solo e farsi avanti. Lascia che sia lui a muoversi anche stavolta, e José fortunatamente lo fa.
Poggia le labbra sulle sue e Zlatan esala un sospiro sollevato, mentre tira su le braccia ad allacciarlo nuovamente al collo, passando distrattamente le dita fra i suoi capelli, che sono cresciuti tantissimo, non sono mai stati tanto lunghi da quando si conoscono, e Zlatan non ha mai davvero avuto l’occasione di accarezzarli così nell’ultimo periodo, perciò lo fa con soddisfazione, il più a lungo possibile, perdendocisi anche un po’. José piega il capo e approfondisce il bacio, traendolo a sé per la vita – la maglietta che si gonfia in sbuffi sopra e sotto il suo braccio, mentre la lingua di Zlatan segue la sua come tutto di Zlatan ha sempre fatto con lui.
José si fa avanti, costringendolo a indietreggiare verso il letto. Zlatan si piega piano, lentamente, quando tocca le lenzuola perfettamente composte con i polpacci lasciati nudi dai pantaloncini. Gli fa uno strano effetto stare lì in quel momento, mentre José lo bacia e poggia un ginocchio sul materasso, proprio accanto al suo fianco, per aiutarlo a sistemarsi sotto di sé. Si separano appena, guardandosi negli occhi, il respiro un po’ affaticato perché non ci stai a respirare quando perfino l’aria nella tua bocca cambia sapore grazie alla lingua di qualcun altro. Quella sensazione speciale la tieni dentro finché puoi, e perciò i respiri sono banditi.
- Una volta sola. – dice José, sulle sue labbra, - L’ultima. – Zlatan stringe la presa attorno al suo collo e lo guarda implorante, perché gli ultimatum non gli piacciono altrettanto quando non è lui a darli ma solo a riceverli, ma José è irremovibile. – Credimi. – gli sorride, e Zlatan distoglie lo sguardo. – Ehi. – lo richiama lui, - Sono qui, io. – continua a sorridergli, poggiandogli due dita sotto il mento per spingerlo a tornare a guardarlo. – Una volta sola. Di più farebbero male a entrambi, sai?
Zlatan non ha la forza di dire sì, ma non ha nemmeno la forza di mettersi lì a combattere per avere di più: è tutto l’anno che combatte per avere di più, sta ancora combattendo per avere di più, e tutto ciò che gli sembra di riuscire ad ottenere è dolore, in quantità che non è sicuro di essere in grado di sostenere. Perciò, se José gli dice che, a pretendere ancora pure stavolta, farebbe perfino più male, allora lui non combatterà. Di José si fida. È okay così.
Perciò lascia fare. Si abbandona fra le sue braccia e José lo tratta come fosse prezioso, per una volta. Di solito non è così, fra loro. Di solito ci sono spalle che battono contro le pareti, di solito ci sono strette fortissime che lasciano il segno attorno ai polsi e denti che cozzano e poi si chiudono attorno alla pelle calda e umida e salata, di solito c’è questo, o almeno questo c’era, ma stavolta no. Stavolta José è lento ed è accorto e si muove piano e lo assaggia tutto, come volesse imprimersi il suo sapore sulla lingua.
- Sei fantastico. – gli sussurra sulla pelle, scendendo lungo il suo ventre e soffermandosi a respirare sul suo ombelico, - Sei stata la cosa più spettacolare in assoluto, lo sarai sempre. – e Zlatan serra le palpebre, e siccome ha paura di spalancarle all’improvviso si nasconde dietro un braccio, mordendosi il labbro inferiore. Non vuole vedere né sentire altro che non sia José, e la sua schiena si inarca mentre le labbra dell’uomo si chiudono attorno alla sua erezione, ormai così tesa da far male.
Gli sfiora il viso con due dita, José apre gli occhi e lo guarda dal basso, prima di allontanarsi da lui e tornare alla sua altezza, spingendosi lento fra le sue gambe, che subito si allargano per accoglierlo. Lo bacia e sente sulla sua lingua il proprio sapore misto al suo, chiude gli occhi e si perde del tutto mentre José si fa strada dentro di lui, prima con le dita e poi con tutto se stesso, spingendo pianissimo e soffocando i suoi gemiti fra le labbra, muovendosi con attenzione, cingendolo ai fianchi per impedirgli di muoversi troppo velocemente. Detta il ritmo di qualcosa che Zlatan non si sente in grado di governare, e Zlatan lo lascia fare, perché se dovesse affidargli il ritmo dei battiti del suo cuore, ecco, in questo momento potrebbe fare perfino questo. Il ritmo della sua vita intera, potrebbe regalarlo a José senza pensarci un secondo. Come ultimo saluto, come il ti amo che non gli ha mai detto e che, d’altronde, non ha mai sentito nemmeno lui. Anche perché in realtà nessuno dei due ne ha mai sentito il bisogno.
Quando José viene dentro di lui, spingendosi con forza e stringendo la mano attorno alla sua erezione in carezze sempre più decise, José getta indietro il capo ed espone il collo ad una scia di baci e morsi che sono l’unica cosa che ricordi loro stessi un mese fa. In un letto diverso, in condizioni diverse, perfino in un diverso continente, ma loro. È il regalo di José, Zlatan lo accetta schiudendo le labbra e lasciandovi scivolare in mezzo un gemito estasiato mentre viene a propria volta fra le sue dita, stringendolo a sé con forza. Si respirano addosso per minuti interi, senza trovare il coraggio di allontanarsi l’uno dall’altro anche se il letto è abbastanza piccolo da consentire loro di stare appiccicati pur restando semplicemente accanto. Non vogliono stare accanto, vogliono stare sopra e sotto e dentro l’uno all’altro, qualsiasi condizione meno assoluta di questa è inaccettabile, almeno per il momento, e perciò restano immobili a respirarsi a vicenda, così profondamente da sentire quasi i polmoni esplodere per lo sforzo.
- Quanto hai detto di dover tenere la fasciatura? – chiede José, ancora senza fiato, spostando il viso nell’incavo del suo collo, in cerca di una posizione più comoda.
- …non mi ricordo. – confessa sinceramente Zlatan, fissando il soffitto con aria beata. In realtà sta bene. Ora sta davvero bene.
- E – continua José, con maggiore difficoltà, - quando hai detto che vai via?
Qualcosa nello stomaco di Zlatan fa un balzo e poi torna al suo posto tutta scombinata. Zlatan non ha voglia di rimetterla in ordine e si mordicchia un labbro, mentre sente gli occhi pizzicare fastidiosamente e si affretta a chiuderli per arginare il danno.
- Non ricordo nemmeno questo. – mente ancora. José, però, stavolta non chiede altro.