Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Slash, What If?.
- Tutto ciò che José sa di Zlatan, a tre mesi dalla sua partenza per Barcellona, è che la frattura al suo polso non è ancora guarita. Che l'operazione alla quale si è sottoposto è andata male e che a quell'operazione ne sono seguite altre che hanno, se possibile, peggiorato ulteriormente la situazione. Al momento, per il mondo intero, Zlatan - che non ha ancora effettuato il suo debutto in Liga - è a riposo su qualche isola delle Canarie, protetto dai paparazzi mentre cerca di riprendersi.
Questo è ciò che José sa di Zlatan - e allora perché il suo presidente lo manda a Barcellona senza spiegargliene i motivi? Perché al suo arrivo trova una guardia del corpo che lo invita a salire in macchina e seguirlo alla clinica psichiatrica Sant Gervasi? E perché, ad attenderlo nell'atrio della stessa clinica, c'è Mino Raiola, procuratore di Zlatan?
Note: Mi sarebbe piaciuto scrivere queste note immediatamente dopo la conclusione di questa storia XD Allora avrei potuto parlarvi di tutto il tempo e l’affetto e la fatica che ci avevo messo, e di quanta forza ci fosse voluta per concluderla nonostante tutto, e sarei stata incredibilmente prolissa e, probabilmente, anche incredibilmente noiosa XD Fortuna (la vostra) vuole che invece io stia scrivendo queste note a) a mesi di distanza, b) con X Factor in TV, c) con appena tre ore per postare – che, per chi mi conosce e conosce i miei tempi di postaggio, sono un tempo minuscolo in cui, omgz, non riuscirò a fare niente. Perciò vi saluto, e spero che questa robina possa esservi piaciuta, nonostante la sua immensa lunghezza ed il conseguente emostruggimento di palle. Yay. XD
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Slash, What If?.
- Tutto ciò che José sa di Zlatan, a tre mesi dalla sua partenza per Barcellona, è che la frattura al suo polso non è ancora guarita. Che l'operazione alla quale si è sottoposto è andata male e che a quell'operazione ne sono seguite altre che hanno, se possibile, peggiorato ulteriormente la situazione. Al momento, per il mondo intero, Zlatan - che non ha ancora effettuato il suo debutto in Liga - è a riposo su qualche isola delle Canarie, protetto dai paparazzi mentre cerca di riprendersi.
Questo è ciò che José sa di Zlatan - e allora perché il suo presidente lo manda a Barcellona senza spiegargliene i motivi? Perché al suo arrivo trova una guardia del corpo che lo invita a salire in macchina e seguirlo alla clinica psichiatrica Sant Gervasi? E perché, ad attenderlo nell'atrio della stessa clinica, c'è Mino Raiola, procuratore di Zlatan?
Note: Mi sarebbe piaciuto scrivere queste note immediatamente dopo la conclusione di questa storia XD Allora avrei potuto parlarvi di tutto il tempo e l’affetto e la fatica che ci avevo messo, e di quanta forza ci fosse voluta per concluderla nonostante tutto, e sarei stata incredibilmente prolissa e, probabilmente, anche incredibilmente noiosa XD Fortuna (la vostra) vuole che invece io stia scrivendo queste note a) a mesi di distanza, b) con X Factor in TV, c) con appena tre ore per postare – che, per chi mi conosce e conosce i miei tempi di postaggio, sono un tempo minuscolo in cui, omgz, non riuscirò a fare niente. Perciò vi saluto, e spero che questa robina possa esservi piaciuta, nonostante la sua immensa lunghezza ed il conseguente emostruggimento di palle. Yay. XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Love Will Come Through
- Mister Mourinho?
José solleva gli occhi sull’uomo che lo sta chiamando e lo scruta con attenzione, cercando di ricordarne i tratti e scavare nella memoria, fra le milioni di immagini delle milioni di persone che ha conosciuto nel corso della sua vita, per capire se lo conosca o meno. Il responso arriva dopo un minuto abbondante di silenzio, durante il quale l’uomo non fa che scrutarlo a propria volta, senza alcun piglio particolare. Fosse poco avvezzo a questo tipo di persone, José inarcherebbe un sopracciglio e si chiederebbe se il tizio non sia per caso stupido, ma l’atteggiamento è quello tipico di chi è abituato ad obbedire a qualsiasi ordine, e a farlo in silenzio, perciò José non si stupisce ed impiega poco a capire che non è affatto stupido, solo professionale.
Comunque no, non lo conosce.
- Lei è? – chiede, recuperando il proprio borsone da terra.
- Eloy Ramírez. È un piacere fare la sua conoscenza. – si presenta quello, con un breve cenno del capo, - Mi hanno incaricato di condurla alla Sant Gervasi, al suo arrivo.
José si concede di inarcare il sopracciglio che s’è risparmiato prima, e sistema il borsone sulla spalla.
- Non ne ho mai sentito parlare.
- È una clinica privata, mister. – continua l’uomo, e poi adocchia il suo bagaglio. – Ha portato con sé solo quello?
- Sì. – risponde seccamente José, immaginando ciò che dirà adesso la guardia di sicurezza.
- Non sarà sufficiente per provvedere all’intera durata della sua permanenza qui. – gli fa notare l’uomo, indicandolo con un movimento svelto della mano.
José scrolla le spalle, irritato.
- Senta. – comincia, - Sono venuto qui solo perché praticamente obbligato dal mio presidente, chiaro? Non intendo restare un minuto di più rispetto a quanto sarà necessario, questa città – e nel dirlo, pronuncia ogni singola parola quasi con disgusto, cercando di imprimere al proprio spagnolo ritrovato tutta l’appuntita cattiveria di cui è capace, dopo il viaggio lungo e stancante, - questa città non ha niente che mi interessi. Ed i misteri non mi piacciono, perciò sarà il caso che lei cominci a parlare, o come sono arrivato vado via.
Il tipo risponde dapprima solo con un sorriso di scuse, stringendosi nelle spalle.
- Mi spiace, ma non sono autorizzato a fornirle dettagli di una situazione che peraltro non conosco nemmeno nella sua completezza. È una questione che necessita del massimo riserbo, capisce?
- No, non capisco e me ne sbatto le palle. – risponde José in un ringhio frustrato. Poi si passa una mano sugli occhi e cerca di recuperare la calma. – D’accordo. – dice quindi, sospirando, - Cos’è questa Sant Gervasi? Che tipo di clinica?
- Psichiatrica. – risponde Eloy, senza nemmeno un’esitazione. – Ora, se vuole seguirmi… - e gli indica la strada col braccio, precedendolo verso l’uscita dell’aeroporto. No, José non vuole seguirlo, ma lo fa lo stesso.
- Perché mai dovrei avere da fare in una clinica psichiatrica? – chiede, quasi certo che il tipo non si degnerà di rispondere. Comunque Eloy è quantomeno educato, scopre, perché per rispondere, risponde. Solo che non dice niente di nuovo.
- Mi spiace, mister. – ripete, - Non sono autorizzato a fornirle questi dettagli.
- Cos’è, un messaggio preimpostato? – lo prende in giro con una punta di cattiveria in più, e poi si dà del coglione da solo. Se qualcuno ha colpa per il suo trovarsi lì, in quella città di merda, con la possibilità di incontrare anche solo fortunosamente l’unica persona la cui sola idea lo irrita al punto che preferirebbe tirarsi il sale negli occhi a manciate, piuttosto di rivederla, non è certo quell’uomo che, in fin dei conti, sta solo facendo il proprio lavoro. – Senta… - riprende quindi, - Non è un bel periodo. E avevo davvero del lavoro da fare, a Milano, perciò non sono esattamente in un’ottima disposizione d’animo. Non può proprio dirmi niente?
La guardia del corpo lo guarda attentamente, prima di sospirare ed indicargli un’automobile scura ad attenderli proprio nel parcheggio di fronte all’uscita.
- Sì. – risponde quindi, - Che mi dispiace di non trovarla nella disposizione d’animo migliore. – conclude ermetico. José lascia perdere e s’infila in macchina.
La clinica, a guardarla da fuori, non è davvero niente di eccezionale. Il portone d’ingresso dà su una strada cittadina pulita e grande ma tutt’altro che bella, ed il palazzo è grigio e invecchiato dal tempo e dallo smog. Non è granché, come prima impressione, e José si ritrova a storcere le labbra in una smorfia di disappunto prima di pensare a quanto possa essere poco opportuna come manifestazione di giudizio. Cerca di mascherare il danno, ma Eloy ha già ridacchiato discretamente al suo fianco, più divertito che offeso, e quindi anche José si concede un sorriso nervoso, mentre si introduce all’interno dell’edificio.
Ad aspettarlo all’ingresso, come una maledizione, c’è l’ultima delle persone che avrebbe mai pensato di incontrare.
- Tu. – sputa con astio, ritrovando in un attimo l’italiano che s’era già rassegnato a mettere da parte, - Cosa cazzo è, uno scherzo?
Mino Raiola lo guarda con evidente imbarazzo, la pancia prominente che trema fastidiosamente quando si alza in piedi per andargli incontro.
- Salve, Mourinho. – dice, mettendo entrambe le mani avanti, come di fronte ad una bestia feroce.
- Salve il cazzo. – risponde immediatamente lui, furioso, - Non intendo restare qui un minuto di più.
- Aspetti, la prego. – continua il procuratore, appoggiandogli una mano sulla spalla. José trova ridicolo che si prenda una confidenza simile senza però dargli del tu a propria volta, ma è una cosa che non lo stupisce, e che anzi lo costringe a ghignare di fastidio: è proprio da lui una simile dualità, un comportamento come questo, mai perfettamente comprensibile, sempre incerto fra il sì e il no, che gioca a fare il funambolo sulla linea del forse con una grazia che un uomo simile non dovrebbe possedere. – E si calmi. Sa meglio di me che non l’avrei mai chiamata, se non si fosse trattato di un’urgenza.
- Qualsiasi urgenza sia, io non voglio averci niente a che fare! – sbotta José, allontanandosi da lui ed osservando con disgusto crescente il suo braccio ricadere lungo il fianco, molle come privo di vita. Gli dà la nausea e, mentre cerca di contrastare il bisogno quasi fisico che sente di vomitare, cerca anche di riportare alla memoria tutto quello che sa di recente riguardo a Raiola. E, giocoforza, anche riguardo a Zlatan.
Zlatan è in riabilitazione, per quanto ne sa lui. E lui non ne sa più di tutto il resto del mondo, visto che tutte le notizie – la frattura curata poco attentamente, complicazioni su complicazioni su complicazioni, una serie di interventi, tutta una storia un po’ confusa, per la verità, ma non si può mai pretendere completa chiarezza quando tutto ciò che sai te lo dicono i giornalisti sportivi, approfittando dei chilometri di distanza per confondere le acque e fare filosofia spicciola sulla fortuna o meno di un trasferimento che sembrava destinato a grandi cose e che invece s’è spento nel nulla con la velocità di una stella cadente.
È tutto quello che sa – è tutto quello che c’è da sapere, si ripete con una certa ansia, mentre Raiola lo guarda con aria a metà fra l’impaurito e l’infastidito e nei suoi occhi scorrono una dopo l’altra le mille difficoltà di trovare le parole giuste per comunicare con un uomo che di comunicare non ha la benché minima voglia.
- Forse è il caso che le presenti il primario. – lo liquida alla fine, voltandogli le spalle e camminando risolutamente lungo il corridoio principale, - Mi segua, la prego.
- Io non vado da nessuna parte! – sbraita José, ma Eloy gli è subito accanto, il sorriso rassicurante sempre presente sul volto e la stazza tutt’altro che simile a incombere su di lui in una minaccia talmente velata da sembrare più un incoraggiamento che altro.
- Si ricordi che è in una clinica, mister. – dice in un soffio, e José aggrotta le sopracciglia.
- Naturalmente. – sbotta. È talmente furioso che, clinica o no, abbatterebbe a testate tutte le pareti sbraitando in ben più di una lingua conosciuta, ma la vicinanza di Eloy si fa pressante abbastanza da convincerlo a lasciar perdere e seguire Raiola attraverso il corridoio ampio e bianchissimo, fino ad una porta socchiusa oltre la quale, probabilmente, si trova l’ufficio del primario di cui sopra.
- Ben arrivato, mister Mourinho. – lo saluta subito il medico, alzandosi in piedi e stringendogli calorosamente la mano, prima di invitarlo a prendere posto su una poltrona proprio di fronte alla sua scrivania. José si mette subito a fissare i ghirigori intarsiati nel legno. Gli ricordano un po’ quelli della sua scrivania, nel suo studio, a Villa Ratti. Gli ricordano Zuca che si mette a seguirli con la punta della matita, a rischio di rovinarli tutti, prima di riportarli sul foglio poggiato in terra, sul tappeto, con una precisione straordinaria. Gli ricordano il suo essere incapace di dire “no” ai propri figli, contrariamente a quanto tutto il resto del mondo si aspetti, e gli ricordano i “Zuca, non si fa!” concitati di Tami, che gli strappa di mano la matita e borbotta mentre lui si concede una risata divertita, alla quale subito fa eco la risata similissima di Titi. Gli ricordano casa e famiglia. Gli ricordano che non vorrebbe per niente essere dove si trova, e gli ricordano che non ha chiamato Tami, quando è sbarcato a Barcellona. – Il mio nome è Albert Blasi, dirigo questa clinica e ne sono il fondatore.
José annuisce sbrigativamente, discendendo la gamba del tavolo per seguirne la forma a zampa di leone. È così perfetta che sembra arrivata ieri, eppure è abbastanza opaca da non sembrare completamente nuova né finta. È un tocco d’eleganza non indifferente, probabilmente è perfino originale.
- L’abbiamo contattata in merito ad un nostro paziente, ricoverato all’interno della nostra struttura già da un paio di mesi. – continua l’uomo, monocorde, - Immagino che dire “Zlatan Ibrahimović” – continua con un mezzo sorriso, - sarà sufficiente per riportare la sua attenzione su di me, piuttosto che sulla mia moquette.
Gli occhi di José, effettivamente, si sollevano dalla moquette, che non s’erano nemmeno resi conto di fissare con tanta attenzione, e si piantano in quelli scuri e rassicuranti dell’uomo di fronte a lui.
- Mi scusi. – scolla con una certa difficoltà, - Non la stavo ignorando. Pensavo solo ad altro, ma in genere riesco a pensare a più cose contemporaneamente senza che questo renda difficoltoso il mio comunicare col prossimo. Non deve ripetermi niente, ho capito.
- Ne sono contento. – replica serafico il primario, intrecciando le dita sul rivestimento in vetro spesso e verde della scrivania, - Anche perché una qualità simile potrebbe essere molto più che utile, visto ciò che le chiederemo di fare.
- Senta. – comincia José, il tono più implorante di quanto non sarebbe disposto a mostrare a Raiola in una situazione appena meno stressante e confusa, - Io sono appena arrivato da Milano, voi mi prelevate, mi portate qui e mi dite che Zlatan- che Ibrahimović è ricoverato in questa struttura, cosa vi aspettate-
- La famiglia del signor Zlatan Ibrahimović – lo interrompe il dottor Blasi, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, - è stata sterminata da un fanatico durante una vacanza, mentre il signor Ibrahimović cercava di riprendersi dalla frattura al polso sinistro. – sputa in un fiato, ma senza fretta, così da dare a José tutto il tempo di percepire ogni singola parola come un ceffone in pieno volto, per poi restare lì a boccheggiare senza sapere cosa dire, né come riprendere a respirare. – Il signor Ibrahimović era uscito dalla villetta che avevano preso in affitto, per recarsi ad un appuntamento in ospedale per alcuni controlli medici, ed il signor Salvatore Martino, immigrato italiano da tempo residente a Barcellona, nonché… - sospirò, in difficoltà, - tifoso dell’Internazionale Football Club, s’è introdotto all’interno della villa, armato di un coltello da macellaio.
José lo guarda come gli avesse appena annunciato la fine del mondo – e, in effetti, non riesce ad immaginare un evento più drammatico cui paragonare ciò che ha appena sentito. Raiola si muove a disagio al suo fianco, non ha neanche osato sedersi, ed Eloy è ancora immobile alle sue spalle, pronto a reagire ad ogni minimo movimento, come temesse che José potesse alzarsi in piedi e correre via con quanta più velocità gli concedono le sue gambe.
Ha ragione, fa bene. Se solo trovasse la forza di muoversi, scapperebbe.
- I dettagli truculenti – riprende Blasi, inumidendosi le labbra, - li lascio alla sua immaginazione, se proprio vuole. Quello di cui m’interessa informarla è che è stato appunto il signor Ibrahimović a trovarli per primo, com’è ovvio, e da quel momento non s’è più ripreso.
José si prende un minuto abbondante, prima di parlare ancora.
- Io credevo che fosse in riabilitazione per il polso. – dice quindi, come se una dichiarazione del genere potesse servire a rendere falso tutto il resto, - Ero convinto che-
- Ci siamo presi cura della situazione su richiesta dei genitori del signor Ibrahimović. – spiega l’uomo, - Hanno preteso che tutto si svolgesse sotto il massimo silenzio. Sono persone molto riservate. Le ultime notizie distribuite parlano del signor Ibrahimović in vacanza su una non meglio specificata isola delle Canarie. Per rimettersi da un ulteriore intervento ricostruttivo. Ed è tutto ciò che anche lei dovrà dire al mondo, nel caso il mondo dovesse chiedere. Ma Eloy – e con questo accenna sbrigativamente all’uomo ancora dietro di lui, - farà in modo che non accada niente di tanto spiacevole. Quanto al resto-
- Quanto al resto, - ringhia José, in una ridicola imitazione di rabbia, - non ho ancora idea di cosa vogliate da me e del perché mi abbiate chiamato. Io e Zlatan – e non gl’importa, stavolta, di concedersi di chiamarlo per nome, - non ci siamo salutati granché bene, quando ci siamo visti l’ultima volta.
- Oh, vada a fanculo! – sbotta a quel punto Raiola, battendo la mano sulla scrivania del primario così forte che José si preoccupa quasi per l’incolumità del legno, - Non aveva torto Zlatan, quando diceva che su di lei non si poteva davvero contare, e che era tutto sorrisi e amicizia solo finché le tornava comodo, e poi chi s’è visto s’è visto!
- Non parlare di cose che non conosci, figlio di puttana! – scatta in piedi José, fronteggiandolo con aria furiosa, - Come se potessi credere ad una qualsiasi stronzata che ti esce di bocca!
- Be’, dovresti! – aggiunge il procuratore, con un ghigno quasi soddisfatto, - Potrei ripeterti parola per parola-
- Signori! – li ferma il primario, alzandosi a propria volta in piedi ed allontanandoli l’uno dall’altro prima che debba intervenire Eloy, - Calmatevi! È una clinica, questa! E la situazione, mister Mourinho, è abbastanza grave da mettere da parte i vecchi rancori, le pare?
José grugnisce sottovoce, tornando a sedersi, i pugni tanto stretti da rendere le nocche innaturalmente bianche.
- Non so se posso… non so se voglio aiutarvi. – sputa fra i denti, ancora amareggiato dalle parole di Raiola, - Chiamatemi pure come volete, ma ho lavoro e famiglia a Milano e-
- D’accordo. – annuisce il primario, tagliando corto, - Solo che credo, signor Mourinho, che lei non possa prendere una decisione senza sapere tutto. E sapere tutto implica conoscere il motivo per il quale abbiamo chiamato proprio lei. E rivedere Zlatan, ovviamente.
Rivederlo. Sembra più una maledizione che una possibilità. Avrebbe desiderato rivederlo così tanto, uno, due, dieci, venti giorni dopo la sua partenza per Barcellona. Per provare a spiegarsi, per provare a ricucire lo strappo. E poi quella voglia è scivolata via nella marea confusa di cose che avrebbe sempre voluto e non si sono mai verificate, è diventata una sconfitta come un’altra, una delusione come un’altra. Non sa se vuole riaprirla adesso, questa pagina della sua esistenza. Non sa se vuole farlo a queste condizioni.
- Signor Raiola, - riprende Blasi, tornando a sedere a propria volta, - spieghi al signor Mourinho perché abbiamo deciso di rivolgerci proprio a lui.
Raiola non pare veramente disposto ad esaudire la richiesta del primario. Lascia vagare lo sguardo per tutta la stanza, soffermandosi su Eloy e poi su José – si sente i suoi occhi addosso e sono spiacevoli come tutto il resto della sua persona, pesanti e fastidiosi e velenosi e poco sinceri.
- Chiamava Zay. – si rassegna a dire infine, in un sospiro stremato. – Per settimane i medici si sono chiesti chi potesse essere, l’hanno chiesto anche a lui e… niente. Continuava a chiamare Zay. E quando ne hanno parlato con me… - scrolla le spalle, sedendosi affranto sulla propria poltrona, - ho risolto il mistero.
José resta immobile sulla propria poltrona per una quantità di tempo che non riesce nemmeno a quantificare. Gli scivolano davanti agli occhi immagini di ogni tipo, Zlatan che sorride, Zlatan che si piega e si inarca sotto di lui, Zlatan che affonda dentro il suo corpo, Zlatan che lo stringe a sé, Zlatan che reprime a stento una smorfia di fastidio, Zlatan che anche solo prende il caffè al mattino o si rigira inquieto fra le coperte alla notte, e fra tutte queste immagini lo stesso nome che batte e ribatte sulle pareti della sua scatola cranica, Zay, Zay, Zay, pronunciato a bassa o ad alta voce, in un sussurro o in un gemito, in una lamentela o in una risata. Zay. Zay è la sostanza stessa della sua relazione con Zlatan. Qualcosa di tanto privato e importante da restare nonostante il tempo, nonostante i dissapori, nonostante tutto.
Si inumidisce le labbra, incerto.
- Dov’è?
Blasi accoglie la sua domanda con un sorriso sereno e incoraggiante, Raiola con un mezzo gemito stupito. José non si volta nemmeno a sorridergli con aria supponente, è bravo a capire quando non è il momento di fare qualcosa. La maggior parte delle volte utilizza questa capacità per individuare proprio il momento più sbagliato in assoluto e dire comunque la cosa peggiore cui possa pensare, ma stavolta, se ne rende conto già da solo, decisamente non è il caso.
Il solito corteo – ed è straniante che abbia già cominciato a considerarlo una routine – composto dal primario, Raiola e l’inseparabile Eloy, lo guida attraverso una serie di corridoi che vanno facendosi sempre più stretti e meno frequentati, fino ad una porta dalla finestrella della quale si vede appena uno scorcio di parete grigia ed un angolo di tavolo in formica.
- È qui dentro. – annuncia Blasi, - Non si aspetti che la riconosca, mister. – lo avverte, - Per quanto potesse chiamarla per nome nel delirio, non è detto che, nella sua testa, il suo nome sia ancora collegato alla sua persona.
José annuisce distrattamente, ma non sta davvero prestando attenzione. La verità è che può sentirlo, può sentire – chissà se è un particolare odore, un particolare sapore dell’aria, un suo particolare peso? – può sentire Zlatan così vicino da costringere le sue viscere ad annodarsi come in preda a un malore. Se tende le orecchie può perfino sentire il soffio tranquillo e regolare del suo respiro, può sentire il fruscio lievissimo dei suoi vestiti mentre si muove, può sentirlo davvero – o forse è solo l’illusione di un ricordo che torna a galla mentre il suo cervello tenta di prepararlo a quel momento.
Schiude la porta e muove un passo all’interno della stanza – e non lo riconosce.
Zlatan, seduto sul proprio letto, le gambe incrociate sul materasso in una posa infantile e un po’ sciocca, sta disegnando. Ha aperto un enorme album proprio sulle ginocchia, ed il foglio che sta imbrattando è così colorato da confonderlo. È troppo carico.
Lui è magro. È troppo magro.
Ha i capelli corti, troppo. Le guance scavate. E, dipinto sulle labbra, un sorriso tanto lieve e sottile da non avere il benché minimo significato.
- …Zlatan. – lo chiama a bassa voce. La porta s’è chiusa alle sue spalle senza che lui se ne accorgesse, ma si ritrova a pensare che in effetti sia meglio così, anche se ha la certezza quasi matematica che i tre rimasti fuori stiano spiando i movimenti di entrambi, dalla finestrella.
Zlatan solleva gli occhi su di lui: nel suo sguardo sembra passare un’ombra di comprensione, ma forse è tutto finto, lo sta inventando lui perché vorrebbe che Zlatan lo riconoscesse. Quell’ombra, invece, se mai è esistita, scompare subito dopo, e Zlatan sorride un po’ più apertamente nel poggiare il pastello a cera sul materasso accanto a sé e sollevare l’album, perché lui possa guardarlo.
- A Zay piace l’acqua. – dice Zlatan, e indica il disegno – un confusionario miscuglio di tutti i colori che esistono, come se l’acqua fosse quella, o quel disegno le somigliasse in qualche modo. – Devo fare tutto il possibile perché Zay torni da me. – spiega poi, annuendo compitamente, - Così potrà esserci, quando avrò bisogno di lui.
- Sono qui. – risponde lui d’impeto, stringendo le braccia lungo i fianchi e i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, perché la sua prima intenzione sarebbe quella di scattare ad abbracciarlo ma non è sicuro di poterlo fare, perciò cerca di irrigidirsi come un blocco di cemento, per non fare niente di sconveniente. – Sono qui, Zlatan, non devi fare più niente.
Lui aggrotta subito le sopracciglia, mettendo su un broncio da bambino offeso e ritraendo l’album, stringendoselo al petto.
- Non parlare con la voce di Zay. – borbotta, - Lo riconosco, che non sei lui. Non le diceva, queste cose. C’era sempre qualcosa da fare o da dire o che avrei dovuto fare e non ho fatto o che avrei dovuto dire e non ho detto o che… - si ferma un secondo, confuso, guardando con occhi persi un punto imprecisato sul pavimento, e poi torna a fissarlo con rabbia, - Non parlare con la voce di Zay. – ripete, - Lo riconosco, che non sei lui.
- Zlatan. – lo richiama José, la gola bloccata da un misto di aria e parole e lacrime che vorrebbe piangere, sarebbe il caso piangesse e non piangerà mai, - Zlatan, non mi riconosci? Non ti ricordi? – chiede, sollevando una mano – solo una, non può essere così drammatico, sicuramente – e sfiorandogli appena una guancia, solo con due dita, un tocco talmente minuscolo e lieve da passare inosservato perfino ai suoi polpastrelli, o forse non lo sente solo perché non fa davvero in tempo a toccarlo, dato che Zlatan si ritrae velocissimo, proteggendo la guancia con la mano bene aperta e rintanandosi sospettoso nell’angolo di materasso più lontano da lui.
José lo guarda, le labbra dischiuse e gli occhi annebbiati, e non sa che dire.
- Non puoi toccarmi. – dice Zlatan, freddissimo, - Io non sono tuo. Non posso lasciare che mi tocchi, non appartengo nemmeno a me stesso. Solo Zay, – e sospira profondamente, dopo aver pronunciato il suo nome, - solo lui può. Puoi essere mio amico, se non fai finta di essere lui e non mi tocchi. – José lo osserva abbozzare un sorriso piccolissimo, quasi carino, - Mi farebbe piacere, se fossi mio amico. Hai delle belle mani.
José abbassa lo sguardo sulle proprie dita tozze e, quando torna a guardare Zlatan, lo fa con una rabbia che è consapevole di non avere il diritto di provare.
- Non parlare con la voce di Zlatan. – dice duro, - Non sei lui, lo riconosco anch’io. Non l’avrebbe mai detto- - e si interrompe appena, cercando di reprimere un singhiozzo stremato, - delle mie mani, non l’avrebbe mai detto. Non sei Zlatan.
Lui risponde con uno sguardo sgomento, e resta immobile nel suo angolo di letto per molti secondi, prima di saltare in piedi – e saltargli alla gola. José si ritrova schiacciato contro la parete opposta, una mano di Zlatan stretta con forza attorno al collo e l’altra che carica un pugno in pieno viso.
- Non dirmi chi sono, tu non lo sai! – dice colpendolo violentemente allo zigomo, mentre la porta della stanza si apre su Eloy e Mino, che si precipitano all’interno e su di loro, per cercare di separarli, - Tu non sai niente, tu dov’eri?! Tu li hai ammazzati, mi hai ammazzato, è colpa tua, portoghese, è colpa tua, stronzo di merda!
- Zlatan! – lo chiama Raiola, tirandolo indietro mentre José, dolorante, si stupisce della facilità estrema con la quale sono riusciti a levarglielo di dosso. Una furia come la sua, che non conosceva confini, ora una persona qualsiasi può arginarla facilmente, solo afferrandolo per le spalle e tirandolo via. Leggero come una foglia, debole come un soffio di brezza. Zlatan torna ad accasciarsi sul proprio letto, gli occhi vuoti, mentre Eloy cerca di sorreggerlo per le spalle e finisce spintonato brutalmente all’indietro.
- Ce la faccio! – ringhia José, allontanandosi di qualche passo e sfiorandosi la guancia con il palmo bene aperto, - Vaffanculo. – sbotta, contro tutti e contro nessuno, abbandonando celermente la stanza.
Il dottor Blasi lo sta aspettando in corridoio, un sorriso leggero e comprensivo a increspare appena le labbra, come si aspettasse ogni singolo minuto di quella scena.
- Cosa cazzo gli è successo?! – urla José, esasperato, - Quello – prosegue, indicando la porta ancora aperta alle sue spalle, attraverso la quale giunge il sussurrare continuo di Mino che cerca di calmare Zlatan con la supervisione della presenza rassicurante di Eloy, - non è lui! Non… non è lui. – conclude sciogliendosi quasi in un singhiozzo e lasciando finalmente libere di scendere due dieci non sa più quante lacrime, prima di coprirsi il volto con entrambe le mani e restare immobile in attesa di qualcosa – qualsiasi cosa.
- Mi segua, mister Mourinho. – dice Blasi, soffice, lasciandogli passare un braccio attorno alle spalle e conducendolo lungo il corridoio, dato che lui non può vederlo. – Zlatan è ancora lì. È ancora lui, è solo… come posso dire… - si prende un po’ di tempo per cercare la parola più adatta, - nascosto. Il suo corpo ricorda cosa vuol dire essere se stesso, ogni tanto, ma per la maggior parte della sua giornata Zlatan trova difficoltoso avere a che fare con i pensieri che sarebbe giusto avesse nella testa. I pensieri riguardo la sua famiglia, la sua vita… anche riguardo a lei, mister.
José solleva lo sguardo ancora umido, asciugando sbrigativamente le lacrime col dorso di una mano.
- Cosa sa, esattamente?
- Zlatan non mi ha detto molto. – scuote il capo l’uomo, - L’ipnosi non è stata di aiuto granché maggiore. Ma… ho capito che c’era qualcosa fra voi, e che non si è chiusa bene. Quanto al resto, - sospira affranto, - sfido qualunque uomo a poter fronteggiare il pensiero della morte dei propri cari, una morte così orribile, poi, senza desiderare di poter dimenticare tutto e fuggire via.
- …fuggire via. – ripete lui, voltandosi appena a guardare la stanza. La porta, in fondo al corridoio, è ancora aperta, ma dal suo interno non giunge più alcun suono. Blasi annuisce, ricominciando a guidarlo verso il proprio ufficio.
- Zlatan non è potuto scappare via nel senso fisico del termine, - gli spiega con aria professionale, - ed ecco perché è fuggito dentro se stesso. Ha preso la parte più esposta di sé, quella più sofferente, quella più debole e più ferita, e l’ha messa da parte. Ha lasciato che a venir fuori fosse un’altra parte di sé, una nuova. Ed è quella che ha conosciuto oggi.
- Un altro Zlatan.
- Non esattamente. – sospira l’uomo, un po’ in difficoltà, - Uno scudo. Una protezione. Un’altra persona. Non può rivolgersi a questa persona come se fosse Zlatan, anche se di Zlatan ha preso anche il nome. È una cosa un po’ complessa, non so se-
- Me la spieghi. – lo interrompe lui, risoluto, - E poi mi dica cosa devo fare per riaverlo.
- Mister Mourinho, non credo che-
- Non per riaverlo per me. – precisa lui, intuendo il motivo dell’imbarazzo del dottore, - Per riaverlo e basta. Al momento mi interessa solo questo.
Blasi sorride, invitandolo ad accomodarsi sulla poltrona mentre chiude la porta del proprio studio e prende posto sulla propria sedia, dietro la scrivania intarsiata sul cui profilo José cerca di non concentrarsi più.
- La mente di Zlatan, al momento, è abitata da due persone. Non siamo sicuri che non ce ne siano altre, è in cura da troppo poco tempo per stabilirlo con certezza, ma in genere gli schizofrenici non si fermano a due sole personalità, soprattutto se il loro disagio è molto profondo. Le due personalità di cui siamo a conoscenza, comunque, sono Zlatan, che non è lo Zlatan che conosceva lei, ma lo scudo, come le dicevo prima, e il Piccolo.
José gli solleva gli occhi addosso, stupito.
- Il Piccolo. – ripete con aria assente. Blasi annuisce, aprendo un cassetto della scrivania per rovistare all’interno.
- Non è mai venuto fuori in prima persona, ma ogni tanto Zlatan ne parla. Il Piccolo sta sempre zitto, è sempre triste e non vuole mai vedere nessuno. Se proviamo a metterci in contatto con lui, Zlatan si arrabbia. Molto più di quanto non abbia visto lei oggi.
José si consente di deglutire appena, mentre osserva il primario poggiare sul tavolo un lettore mp3 collegato a due auricolari.
- Li indossi, prego. – lo esorta con un mezzo sorriso. José obbedisce e istantaneamente le sue orecchie si riempiono della voce di Zlatan che, un po’ sottile e esitante, chiede allo psichiatra perché vuole tanto parlare col Piccolo. “Perché è importante sapere cosa ne pensa anche lui, ti pare? C’è anche lui, dentro di te, anche lui deve decidere,” dice Blasi. Zlatan risponde ridendo. “Al Piccolo penso io,” dice risoluto, “so di cosa ha bisogno, lei non gli serve”. “Zlatan…” cerca di rabbonirlo ancora Blasi, ed è lì che José lo sente ringhiare. Come un animale. “Stia lontano dal Piccolo,” dice minaccioso, “io non le permetterò di fargli del male. Né a lei, né a nessun altro.”
- Questo è… è un altro. – dice a mezza voce, incerto, porgendo il lettore mp3 al medico, - Non è quello con cui ho parlato prima, è quello che mi ha picchiato.
Blasi inarca un sopracciglio, incuriosito.
- Crede che siano due personalità diverse?
- Io non lo credo, io lo so! – sbotta lui, allargando le braccia, - Conosco gli occhi di Zlatan, conosco la sua voce-
- Non sono né gli occhi né la voce dello Zlatan che conosceva un tempo, mister Mourinho, questo deve capirlo bene.
- No! – insiste José, passandosi una mano sugli occhi, - …mi ascolti. So di cosa sto parlando. Sono io che… devo essere io ad aiutarlo.
Blasi sorride ancora, estremamente compiaciuto.
- E questo – rivela annuendo, - è esattamente il motivo per cui l’ho voluta qui.
Quando è solo, in albergo, recupera il cellulare e come prima cosa in assoluto chiama Matilde. Gli manca la sua voce allegra e un po’ arrochita dagli anni e dal fumo, sente di aver bisogno di un supporto che è quasi sicuro lei non possa dargli, ma sarà comunque meglio di niente.
- Zay! – trilla allegra, - Zuca ti odia molto. – gli fa sapere in una risata cristallina, e José ride a propria volta. Zay è sempre stata una cosa solo di Matilde – o almeno, lo era prima di Zlatan; era una parte profonda ed intima di sé che aveva deciso di dare solo a lei, gliel’aveva promessa all’altare e probabilmente era stata sua fin dalla prima volta che l’aveva vista, minuscola e bellissima, infilata in un vestitino nero a pois bianchi nel mezzo di quella vecchia discoteca, ormai chiusa da tempo.
Quando aveva permesso a Zlatan di chiamarlo in quel modo – ricorda ancora la situazione, l’euforia esagerata del post-partita contro il Panathinaikos, quell’abbraccio che s’erano scambiati sul campo e che s’era prolungato anche dopo in una stretta convulsa e carica di voglia, negli spogliatoi, in albergo, a letto – “Chiamami Zay”, gli aveva detto, e Zlatan l’aveva guardato spalancando gli occhi come un bambino piccolissimo di fronte ad un regalo troppo grande. “Ma-“ aveva provato a dire, e José l’aveva zittito con un sorriso, guardandolo dolcemente. “Chiamami Zay”, aveva ripetuto, e da quel giorno in poi non l’aveva più chiamato José né Mourinho, mai più, nemmeno una volta.
- Cosa mi sono perso? – chiede con un sorriso debole, lasciandosi ricadere su una poltrona e massaggiandosi le tempie mentre cerca di tornare al presente.
- La sua recita di fine anno. – racconta Matilde, compiaciuta, - È stato un bravissimo Ettore, dovevi vedere con quanta professionalità da piccolo attore stringeva la sua Andromaca. Che era più alta di lui, per inciso. – aggiunge, ridendo divertita.
- Fanno recitare l’Iliade a bambini così piccoli? – chiede José con una risata molto simile alla sua, - Dovrò far loro causa.
- Oh, piantala. – sbotta lei, senza smettere un secondo di ridere. – Tu cosa mi dici?
José sospira, cercando di mettere ordine nella propria testa. Non è semplice, ma in qualche modo dovrà riuscirci, e per molte ragioni.
- È successo qualcosa a Zlatan. – risponde quindi, - Non posso parlartene, ma è qualcosa di grave.
- Oh, mio Dio. – esala lei, preoccupata, - Sta bene?
- È… - riflette José, esitante, - è fisicamente integro. Forse un po’ troppo magro. Ma sta bene, in quel senso. Purtroppo, parlando più generalmente, non è possibile dire lo stesso.
- Zay, - sospira Matilde, confusa, - non posso capirti, se parli per enigmi.
- Purtroppo la faccenda è molto riservata, Tami. – si scusa lui, contrito, - Non posso parlartene. Credimi, mi piacerebbe, ma-
- D’accordo, d’accordo. – sospira ancora lei, e José può immaginarla scuotere il capo mentre la coda alta che porta dietro la testa quando fa molto caldo ondeggia lentamente a destra e a sinistra, solleticandole la nuca, - Non c’è modo di costringerti ad aprirti del tutto, quando si tratta del tuo zingaro, eh? – commenta con un tono a metà fra l’intenerito e il rassegnato. E José vorrebbe, per un attimo soltanto, risponderle che ha più ragione di quanto immagini. Ma si trattiene. – Quando torni? – chiede poi, mentre José la ascolta liberarsi da bracciali ed orecchini e riporli sul comodino con cura, ordinatamente, come fa sempre prima di andare a dormire.
- Al momento non so dirtelo, Tami. – risponde lui, - Non so quanto tempo potrebbe prendermi, risolvere questo problema. Ad essere totalmente sincero, - aggiunge, un po’ scoraggiato, - Non so nemmeno se ci riuscirò, a risolverlo.
- Queste sono sciocchezze. – sbotta immediatamente sua moglie, - È ovvio che riuscirai a risolvere il problema. – E poi aggiunge, più morbida, - Tu risolvi sempre tutti i problemi. Solo… - riprende, vagamente più allarmata, - intendo, il tuo lavoro coi ragazzi in squadra…?
- Il presidente sa perché sono qui. – risponde subito lui, - Avrà sicuramente pensato a tutto. E comunque Beppe può sostituirmi più che bene, ho dato a lui tutte le direttive, prima di partire. – e rilascia il capo contro lo schienale della poltrona, sospirando esausto.
- Stanco? – chiede Matilde, dolcissima. La sua voce, come la più lieve delle carezze, scivola lenta lungo il suo collo, e José chiude gli occhi per assaporare meglio la pressione tenera di polpastrelli che purtroppo può solo immaginare, e che vengono presto sostituiti dalla presa ferrea di due mani diverse, più grandi, più forti. Il pensiero sgradito di Zlatan intento a strozzarlo, ricordo di non più d’un paio d’ore fa, si mescola e si confonde col ricordo più vecchio delle ultime carezze di Tami, e con quello ancora più antico delle carezze di Zlatan, mesi e mesi prima. José ha di nuovo voglia di piangere, ma stavolta non cede.
- Parecchio. – risponde, cercando di sorridere, - Penso che andrò a dormire.
Tami annuisce – José non la vede, ma immaginarla è sufficiente – e lo saluta con un bacio al volo, prima di interrompere la comunicazione. Tutti i suoi muscoli e tutte le sue ossa gridano vendetta, quando si mette in piedi, si spoglia sbrigativamente e si lascia ricadere esausto sul letto, affondando il viso nel cuscino per isolarsi rispetto al mondo esterno. È troppo vecchio per cose simili, e non lo pensa solo in riferimento al viaggio in aereo, naturalmente.
Voltandosi supino e perdendosi nell’oscurità del soffitto della camera, cerca di ricordare l’ultima volta che ha visto Zlatan prima di oggi, e non è un ricordo piacevole. Fa male riportarlo alla memoria, fa male rivederlo gettato scompostamente sul letto, le coperte arrotolate sul pavimento, e ricordarsi con una precisione impressionante varcare la soglia della sua camera per sistemargli addosso almeno un lenzuolo, senza dimenticare però di chiudersi la porta alle spalle, entrando.
Nei suoi ricordi, Zlatan si sveglia e si rivolta sul materasso, passandosi una mano sugli occhi e regalandogli un sorriso assonnato da bambino non appena mette a fuoco la sua figura.
- Non volevo svegliarti. – dice, e Zlatan sorride ancora, mettendosi seduto.
- Io invece sono contento che tu l’abbia fatto. – commenta con un candore quasi disturbante, - Resti un po’?
José annuisce perché non è mai stato in grado di negargli niente, e si siede sul materasso accanto a lui. Zlatan lo contempla con un’aria ridicola per molti secondi, prima di sporgersi a baciarlo dolcemente sulle labbra.
- Sono giorni confusi. – gli dice, poggiando la fronte contro una sua tempia, mentre José gli fa passare un braccio attorno alle spalle e se lo tira contro. – Lo so che è pesante. Mi dispiace.
José annuisce, accarezzandogli rassicurante una spalla.
- Tanto resterai. – commenta, stringendo la presa attorno al suo braccio. – Resterai, vero?
Zlatan non risponde. Nella sua memoria, José lo guarda a lungo, con aria disgustata, tradita, ferita. E poi lo lascia andare, e si alza in piedi.
- Zay. – lo chiama Zlatan, la voce rotta, - Zay, ti prego.
José non resta un secondo di più, neanche per sentire tutto il resto, neanche per ascoltarlo scusarsi ancora.
Ha modo di pentirsene, e molto, a solo qualche mese di distanza, pochi minuti prima di addormentarsi.
Eloy è stato tanto gentile da passare a prenderlo in albergo. O almeno, così gli piacerebbe pensare se non sapesse perfettamente che non c’era nessuna possibilità che Raiola lo lasciasse bighellonare da solo per Barcellona, correndo il rischio di farlo notare da qualcuno e mettendolo nella posizione di dover rispondere a qualche domanda di troppo.
Quantomeno – pensa con un certo sollievo mentre Eloy gli apre la portiera e lo invita sorridendo a scendere dalla macchina – l’uomo non gli dispiace. È gentile, professionale e silenzioso. Non di quei tipi che cercano il dialogo a tutti i costi perché spaventati dal rimbombo del vuoto nelle loro teste, no. José può affermare con certezza che la testa di Eloy è tutt’altro che vuota e, in quanto piena, tutt’altro che a rischio eco. Ecco perché Eloy parla poco e solo quando serve, ed ecco perché passare del tempo con lui è gradevole, in fin dei conti.
Sicuramente molto più gradevole che stare in clinica.
Blasi lo tiene impegnato in una conversazione di circostanza solo per qualche minuto. Gli chiede come sta, se ha cambiato idea, se non si senta un po’ preoccupato dopo quanto successo ieri, se abbia avvisato la propria famiglia del prolungarsi della sua permanenza. José risponde per monosillabi e guarda sempre altrove – non riesce ad impedire al suo stesso sguardo di saettare fulmineo verso la porta mentre stringe le mani in grembo, come se quella stretta potesse essere in grado di impedirgli di compiere gesti inconsulti e fiondarsi lungo il corridoio fino in camera di Zlatan.
Blasi sorride e gli batte una pacca sulla spalla.
- Non sarei ciò che sono oggi, - dice, - se non sapessi interpretare il linguaggio del corpo. Vada pure.
José non gli dà modo di ripetersi: l’attimo dopo è in piedi, e non è passato neanche un minuto da quando è uscito dallo studio del primario, che si ritrova già di fronte alla porta di Zlatan. Bussa piano, un paio di volte. Dall’interno non giunge un suono, e José si chiede brevemente se Zlatan sia abituato a sentire bussare. Poi sospira e spinge la porta, sbirciando all’interno prima di spalancarla del tutto e fare il proprio ingresso. Zlatan sta disegnando, seduto alla scrivania. Gli dà le spalle e sta curvo sul foglio muovendo velocemente la destra, tracciando macchie di colore di un abbagliante rosso acceso sul cartoncino bianco. La sua espressione somiglia alla concentrazione dei bambini, si morde il labbro inferiore ed ha le sopracciglia aggrottate, gli occhi fissi sul foglio brillano di determinazione.
- Cosa disegni? – chiede a bassa voce, trascinando una sedia accanto alla sua. Zlatan non smette di disegnare, ma sorride.
- Fuochi d’artificio. – risponde dolcemente, - Rumorosi e colorati.
José fissa il foglio e deglutisce piano.
- Sembrano schizzi di sangue. – azzarda incerto. Zlatan sorride più apertamente.
- Sembrano, ma non lo sono. Alle volte, le cose sembrano in un certo modo, e invece non lo sono. – solleva lo sguardo ed incrocia i suoi occhi, si inumidisce le labbra e poggia il pastello a cera sul tavolo, prima di continuare. – Mino… - dice quindi, un po’ dubbioso, - Mino mi ha detto che lui si è comportato un po’ male con te, ieri.
- Lui? – chiede José, inclinando un po’ il capo, - Raiola? Non è mai stato particolarmente gentile, non è che mi sia stupito.
- No. – scuote il capo Zlatan, ridacchiando, - Non lui. Lui. Quello dentro la mia testa.
José spalanca gli occhi, avvicinandosi un po’ e mordendosi un labbro, infastidito dallo stridere dei piedi della sedia contro il pavimento – suono che invece sembra divertire parecchio Zlatan, almeno a giudicare dal suo sorrisino.
- Tu… - chiede con una certa curiosità, - sai che ce n’è un altro?
Zlatan ride a bassa voce, coprendosi le labbra con una mano, e José inarca le sopracciglia perché in nessuno dei numerosi fotogrammi di Zlatan che conserva in memoria l’ha mai visto agire in modo tanto pudico. Zlatan non era tipo da nascondere un sorriso – amava sbatterti in faccia la propria felicità così che tu potessi prenderne atto e fossi costretto ad averci a che fare. Decisamente, quello che ha di fronte in questo momento non è Zlatan. Non il suo, almeno.
- È abbastanza difficile ignorarlo, ti pare? – risponde lui, scrollando le spalle, - Non è cattivo, è solo che si preoccupa.
- Per chi? – chiede, cercando di indagare cautamente. Guarda Zlatan dritto negli occhi e sono talmente scuri che gli sembra di perdercisi. Procede a tentoni, come se qualcuno, per fargli uno scherzo idiota, avesse spento la luce.
- Per me. – risponde Zlatan, e ride ancora un po’, - Per chi altri?
- Non c’è nessun altro? – insiste José, ed il sorriso che increspa le labbra di Zlatan si perde prima in una smorfia sorpresa e poi in un broncio offeso. José lo osserva alzarsi in piedi abbandonando del tutto il disegno, e muoversi nervosamente all’interno della stanza.
- Le cose sono sempre difficili, signore, io non so dov’è cresciuto lei o dove ha vissuto, ma nel mio mondo è sempre tutto difficile. – spiega, un po’ balbettando, un po’ inciampando sulle stesse parole che pronuncia, sbagliando i verbi e lanciando vocali e consonanti a caso come stesse cominciando a dimenticare la lingua. José non ha nemmeno il tempo di realizzare pienamente che Zlatan è passato dal tu al lei senza un apparente motivo, che questa considerazione lo porta a realizzare qualcos’altro, qualcosa che non aveva ancora notato e che però avrebbe dovuto colpirlo molto prima, se non altro per quanto è strana: Zlatan continua a parlare in italiano. – Non c’è nessuno, ma forse c’è, lei che ne sa? Non lo so nemmeno io. Le cose sono sempre diverse, signore, sono sempre difficili e sono sempre diverse, a lei è mai successo? Guarda una cosa e la vede in un modo, e poi invece quella cosa è diversa. – si ferma e osserva il muro di fronte a sé, solo per un attimo, prima di tornare a fissare gli occhi nei suoi. – Ed è bello così, sa, signore? È più sicuro così, perché così anche se una cosa è orrenda tu puoi sempre sperare che esista un’angolazione dalla quale non è più così male. – si morde con forza l’interno di una guancia, prima di proseguire. – Le peggiori sono le cose che sono uguali da ogni angolazione. – biascica incerto, la voce rotta, - Sono rosse da qualsiasi lato le guardi, come il sangue. È per questo che i fuochi d’artificio mi piacciono di più. Sembrano sangue da un lato, e dall’altro fiori.
José resta immobile sulla sedia. Zlatan lo guarda come si aspettasse una risposta a ciò che ha appena detto, ma José non ha risposte per lui. Solo altre domande.
- Quando parli di cose che non cambiano anche guardandole da diverse angolazioni… - comincia, e Zlatan sembra seguirlo con un certo interesse. Quel bagliore lievissimo nei suoi occhi, però, si spegne del tutto quando José conclude la domanda: - ti riferisci ad Helena e ai bambini?
Non fa una piega, si limita a dargli le spalle e schiudere la porta.
- Non conosco nessuno con questo nome. – risponde svelto, - Voglio andare a fare una passeggiata, vieni con me?
José si alza velocemente, affiancandolo appena in tempo per ritrovarsi in corridoio sotto lo sguardo un po’ stupito ma tutto sommato sereno di Eloy.
- Puoi farlo? – chiede, e Zlatan sorride, esattamente come prima.
- Certo che posso. – annuisce, - Eloy mi accompagna. C’è un cortile bellissimo qui, è pieno di belle persone. Solo che nessuno si avvicinerà, se ci sei tu.
José cerca di sorridere a propria volta, ravviandosi i capelli su una tempia con un gesto sbrigativo.
- Faccio paura? – chiede. Zlatan ridacchia.
- Sei diverso da chiunque altro stia qui. Sei normale.
Camminano in silenzio lungo il corridoio per qualche secondo, prima che José si decida a parlare ancora.
- Sembri molto consapevole della tua condizione. – commenta, e Zlatan sospira, scuotendo il capo con aria rassegnata.
- Che considerazione sciocca. – sbuffa, - Un pazzo non è un pazzo se è consapevole della sua pazzia?
- Non ho detto questo, ma-
- Un innamorato ama lo stesso se sa di esserlo o invece non ne ha idea? – chiede Zlatan di getto, interrompendolo senza nemmeno guardarlo, come se a stento si accorgesse della sua presenza, - Ogni tanto me lo chiedo. Io sono stato innamorato di Zay, devo parlartene un giorno, Zay era fantastico, - ed ogni sua parola è una coltellata dritta nel centro del suo petto, - comunque ogni tanto me lo chiedo. Zay era innamorato di me, credo, ma non ha esitato ad abbandonarmi anche se io avevo bisogno di lui. Eppure io lo so che lui mi amava. Non ti pare strano? – lo guarda attentamente, José non risponde ed il cortile si apre intorno a loro in un tripudio di verde e colori sparsi, fiori ovunque, piccole aiuole curate, cespugli ricchi di foglie, qualche paziente che si rilassa sulle panchine distribuite asimmetricamente sul piazzale e il sole e il cielo che giocano coi loro stessi riflessi sulla superficie dell’acqua che giace immobile in una piccola vasca centrale. – Tu le abbandoni, le persone che ami, signore? – chiede ancora Zlatan, muovendosi disinvoltamente ma con una certa emozione verso la fontana, - Le abbandoni le persone che ami?
José lo segue e si siede sul bordo della vasca. Zlatan non si ferma, scavalca il muretto sollevando una gamba ed è all’interno della vasca un attimo prima che l’erogatore si azioni, bagnandolo tutto dalla testa ai piedi. Ride come un bambino. Eloy non sembra turbato – osserva la scena da sotto le fronde di un albero poco distante e lo lascia fare, perciò José non si scompone e si limita a sorridere a propria volta mentre lo osserva sedersi nel mezzo della fontana, abbracciando l’erogatore a forma di pesce e sollevando il viso perché l’acqua in caduta libera possa colpirlo più direttamente.
- No. – risponde, - No, non le abbandono le persone che amo, Zlatan. – risponde finalmente, e Zlatan torna a guardarlo, sorridendo più apertamente.
- Lo sapevo. – commenta allegro, - Come ti chiami? – chiede quindi. José deglutisce.
- Mou. – risponde, tendendogli la destra. Zlatan la stringe e la scuote con entusiasmo.
- Come le caramelle. – ride, - Mi piace. Possiamo vederci ancora? Prometto che lui starà buono. Lo farò stare buono.
José annuisce ancora. Stringe a lungo la mano di Zlatan, prima di lasciarla andare. Lui non si lamenta.
- Mister, - gli sorride Eloy aprendo lo sportello e tenendolo fermo mentre attende che José esca dalla macchina con un sospiro stanco, - cerchi di dormire bene, stanotte. Mi sembra che questa cosa la stia provando un po’ troppo.
- Hai esperienza nel campo, Eloy? – chiede José con un sospiro, massaggiandosi le tempie. La strada di fronte al suo albergo è deserta. José si prende tempo. Non ha voglia di tornare subito in camera.
La guardia di sicurezza scrolla le spalle.
- Ne ho visti tanti come lei. – risponde, - La malattia mangia mente e corpo, e non solo di chi ne è affetto.
- È vero. – annuisce lui senza guardarlo.
- Solo che – aggiunge Eloy, frettolosamente, - per aiutare un ammalato serve molta lucidità mentale. – si ferma e José gli solleva addosso un’occhiata vagamente infastidita. L’uomo sorride timidamente, cercando di stemperare la tensione. – Io non ho mai perso una persona cara in circostanze tanto tristi. I miei nonni sono tutti morti di vecchiaia, avanti negli anni, circondati dai loro nipoti. I miei genitori sono ancora vivi. Mia moglie ed io ci amiamo da quando andavamo al liceo, i nostri figli sono ancora piccoli e sono in piena salute. Sono un uomo molto fortunato e non posso neanche immaginare cosa possa voler dire… - esita un attimo, prima di proseguire, - perdere una persona tanto cara e poi ritrovarla solo per scoprire che non la si è solo persa, perché quella persona è morta.
- Zlatan non è morto. – scatta José, stringendo i pugni lungo i fianchi.
- Una parte di lui lo è. – insiste Eloy, - E non la recupererà, Mister, sa? Qualcuno deve dirglielo. So che non dovrei essere io, ma-
- Non dovresti essere tu, esattamente. – ringhia lui, allontanandosi di un passo, come scottato dalla sua vicinanza. Ed a separarli c’è almeno un metro.
Eloy sospira pesantemente, grattandosi la fronte in un gesto nervoso.
- Mi dispiace averla turbata, Mister Mourinho. – ammette, - Cercavo solo di farle capire che perderci il sonno non aiuterà né lei né Zlatan.
- Ma davvero? – ride amaramente José in risposta, - E cos’è che dovrebbe aiutarci?
Eloy schiude la portiera ed esita un attimo, prima di tornare a sedersi al proprio posto all’interno della macchina.
- La pazienza. – risponde, - La sincerità. L’amore, se non si è perso del tutto. O se non è morto anche lui. – è tutto quello che dice, prima di rimettere in modo.
José non riesce a rientrare in albergo per i dieci minuti successivi. Si chiede cosa ci faccia a Barcellona, si chiede perché non abbia già lasciato perdere e non sia già tornato a Milano, dove la sua famiglia e il suo lavoro lo aspettano.
Gli basta ripensare a Zlatan – e non sa più nemmeno a quale dei tanti – per convincersi a darsi una mossa ed andare a dormire.
Non sa cosa lo renda così nervoso – vive a Barcellona ormai da quasi due settimane, Tami gli ha mandato ieri qualche altro vestito perché il tempo sta rapidamente cambiando e comincia a far freschetto, la sera, e comunque sta ricordando piano piano ogni particolare di quella città abbandonata anni prima. Non si sente più a disagio per le strade, sa quali imboccare per non essere visto e da una settimana circa rientra a Milano per qualche ora una volta ogni due giorni, per controllare la squadra e cercare comunque di fare il suo mestiere, per quanto difficile possa essere in queste condizioni.
Il presidente ci ha tenuto ad incontrarlo in privato, l’ultima volta.
- Come sta? – gli ha chiesto senza guardarlo, di fronte a una tazza di caffè fumante, - Progredisce?
José ha sospirato pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.
- Non saprei dirtelo. – ha ammesso, - Non è con lui che parlo, per la maggior parte del tempo.
- Ti stanno impedendo di gestirlo personalmente? – s’è informato discretamente lui, inarcando un sopracciglio, - Se il problema è Raiola, dimmelo pure senza esitazioni. Come l’ho gestito quando era un problema per la mia squadra, posso gestirlo ora che è un problema per Ibra.
- No. – ha sorriso José, scuotendo lentamente il capo, - No, non si sta mettendo in mezzo. Non è granché felice che debba occuparmene io, ma non sta opponendo resistenza. No, il problema… - e ha sospirato ancora, piegando la schiena ed appoggiandosi con entrambi i gomiti al tavolo, come fosse troppo stanco per reggersi dritto da solo, - è Zlatan. Non è con lui che parlo perché lui non vuole parlare con me.
Ci ha messo un po’ a spiegare a Moratti come effettivamente stessero le cose, e tutto quello che ha fatto alla fine il suo presidente è stato lasciarsi andare ad un sospiro stremato identico ai suoi e rilassarsi contro lo schienale della sedia, congiungendo le mani sotto al mento in una posa riflessiva e preoccupata che ha riempito José di una certa tenerezza, portandolo a realizzare all’improvviso e in un unico momento per quale motivo quest’uomo non fosse in grado di separarsi dai giocatori con astio, così come era evidente anche da parte dei giocatori l’impossibilità di provare rabbia o risentimento nei suoi confronti.
- Se non ti dispiace, - ha detto quindi, sorridendo appena, - vorrei comunque che fossi tu ad occuparti di tutto fino alla fine. Non importa quanto tempo ci vorrà, il tuo lavoro non è solo allenare questa squadra, è anche prenderti cura dei nostri atleti.
- Zlatan non lo è più da almeno tre mesi. – gli ha ricordato José con una mezza risata ironica. Massimo ha risposto con un sorriso perfino più sereno.
- Smetterà di esserlo quando deciderò io. – ha precisato, e poi ha sospirato. – Laporta ha provato a rimandarlo indietro. – ha confessato con un certo imbarazzo, svolgendo e riavvolgendo nervosamente un tovagliolino di carta. – Ha già sciolto il contratto da tempo, a tutti gli effetti Zlatan non ha una squadra, al momento.
- Non è in condizione di giocare. – ha azzardato José, lievemente confuso e ancora incerto sul punto verso il quale il discorso sembrava volesse andare a parare, - E probabilmente non lo sarà mai più.
Massimo ha sorriso ancora, annuendo compitamente.
- Non è una cosa che mi preoccupi. – ha concluso, alzandosi in piedi, - E comunque, una volta Rinaldi mi disse “questo non è il momento di parlare, bisogna solo riflettere a mente fredda per ritrovare prima l’uomo e poi il calciatore”. Sono sempre stato d’accordo con questo modo di vedere i problemi coi giocatori.
José ha sospirato, alzandosi in piedi a propria volta.
- Non che con Adri alla fine si sia riusciti a risolvere qualcosa. – ha sbottato, cercando di non lasciare affiorare troppo in superficie il risentimento che ancora prova per non essere stato in grado di recuperare, unitamente al resto dello staff, un giocatore che a suo modo di vedere aveva ancora tanto da dare all’Inter.
- Ehi, - ha riso Moratti, pagando disinvoltamente il conto senza neanche chiedere, - Adri sta facendo benissimo al Flamengo. Secondo me il recupero è stato eccellente, pare che Dunga lo convocherà perfino in nazionale. Sai qual è il tuo problema, José? – ha chiesto poi, dirigendosi verso l’uscita dopo un cenno di cordiale saluto nei confronti del cameriere ancora turbato dalla consistenza della mancia, - Quando si parla di esseri umani, c’è sempre un momento in cui è giusto stringere la presa, ed uno in cui è necessario allentarla. Con Adri dovevamo allentare, era inevitabile. Ed anche con Ibra, quando l’abbiamo mandato a Barcellona.
- Ed ora? – ha chiesto José, seguendolo all’esterno del locale e perdendosi un po’ nel cielo stranamente azzurro di Milano proprio sopra al Duomo.
- Ora – ha sorriso un’ultima volta Massimo, prima di salutarlo, - stringiamo e tiriamo indietro. Ovviamente.
La conversazione s’è chiusa lì, e José s’è affrettato a dirigersi all’aeroporto, prima di perdere l’aereo che doveva riportarlo a Barcellona. È arrivato troppo tardi per passare a salutare Zlatan, ma la prima cosa che ha fatto svegliandosi il mattino successivo è stata chiamare Eloy per farsi venire a prendere e farsi accompagnare in clinica. E se è nervoso, adesso, è solo perché ora sa cosa esattamente il suo presidente si aspetta da lui, ed è qualcosa che non è sicuro di poter garantire, dal momento che non solo non sa se riuscirà a recuperare il calciatore e non solo non sa se riuscirà a recuperare l’uomo, ma ogni tanto accarezza con sincero desiderio la possibilità di recuperare l’uomo, almeno quello, e poi fuggire lontanissimo, perfino in un altro universo, verso un posto in cui non sarebbe più possibile perderlo.
- Mister Mourinho! – lo saluta con un sorriso smagliante Blasi, accogliendolo a braccia aperte, - Spero che il suo viaggio sia andato bene.
- Ho affrontato viaggi migliori. – scrolla le spalle, salutandolo a propria volta con un mezzo sorriso. – Novità?
Il primario sorride in maniera perfino inquietante, ma la sua incapacità di trattenere l’entusiasmo è così contagiosa che José non può fare a meno di seguirlo un po’, sorridendo con maggiore convinzione.
- Ieri, per la prima volta, Zlatan ha chiesto esplicitamente di lei.
A José si ferma il respiro in gola.
- Di me?
- Esattamente. – conferma il primario, nella voce una nota di orgoglio difficilmente ignorabile, - Non Zay. Mou. Sa, gli altri giorni, durante le sue visite a Milano, ogni tanto chiedeva se non ci fossero visite per lui, ma niente di più, come volesse comunque tenersi alla larga da un rapporto troppo intimo. Ieri, invece, ha chiesto proprio di lei. La sua espressione quando gli ho detto che non avrebbe potuto incontrarla… avrei voluto che la vedesse. – conclude con una mezza risata.
- Io invece sono contento di non averlo fatto. – sospira José, socchiudendo appena gli occhi. – Posso vederlo adesso?
Blasi annuisce svelto, e non lo conduce nemmeno personalmente alla stanza di Zlatan. “Conosce la strada”, butta lì, palesemente al settimo cielo, lasciandolo solo col fedele e silenzioso Eloy alle spalle. José sa che dovrebbe sentirsi fiducioso anche lui – Blasi conosce il proprio mestiere e conosce i propri pazienti, sicuramente se ha mostrato una tale contentezza è perché sa di poterlo fare senza pericolo di disillusione – ma tutto ciò che riesce a fare è mordersi le labbra con forza spaventosa, fin quasi a farsi male davvero, quando entra in camera e trova Zlatan rannicchiato sul letto, le ginocchia al petto e il mento affondato sugli avambracci, lo sguardo perso nel vuoto di fronte a sé e le labbra serrate e tese.
- Zlatan? – lo chiama piano, mentre Eloy chiude la porta alle loro spalle, - Come stai?
- Avevo fatto un disegno per te. – risponde immediatamente Zlatan, senza spostarsi di un millimetro dalla posizione in cui l’ha trovato entrando. – Era un disegno bellissimo.
José deglutisce, avvicinandosi ed accomodandosi sul materasso accanto a lui.
- Grazie. – dice, abbozzando un sorriso, - Me lo fai vedere?
- Non ce l’ho più. – scatta subito lui, in un ringhio sommesso, - L’ho stracciato in mille pezzi e me lo sono mangiato.
José spalanca gli occhi.
- L’hai…-
- L’ho buttato via. – sospira Zlatan, - Se l’avessi mangiato tutto e mi ci fossi soffocato, però, forse ti avrebbero chiamato e tu saresti tornato. È che ci ho pensato solo dopo averlo buttato via, che potevo farlo.
- Zlatan… - lo chiama ancora, stendendo una mano sul materasso per avvicinarsi circospetto, sollevandola e cercando la sua spalla solo all’ultimo momento, - non fare così.
- Non sto facendo in nessun modo! – si lamenta lui, chiudendo gli occhi e ritraendosi di scatto, quasi violentemente, - Io non faccio mai in nessun modo, io sto chiuso qua dentro per tutto il tempo! Sei tu che fai cose, sei tu che te ne vai, mi avevi detto che non te ne saresti andato!
- Non sono andato da nessuna parte! – cerca di spiegarsi José, avvicinandosi ancora. Vorrebbe i suoi occhi, ma Zlatan li tiene chiusi e non glieli concede. José lo scrolla un po’, ma non ottiene niente, per cui, semplicemente, continua a parlare. – Avevo solo qualche questione da risolvere in un altro posto, Zlatan, ma non ho mai pensato di non tornare più. Io non ti abbandonerò.
- Anche Zay andava sempre via. – prosegue Zlatan, come se di quanto José ha detto fino ad ora non avesse sentito nemmeno una parola, - Non ti ho più parlato di lui, ti ho parlato di tante cose ma non di lui. – riflette, come realizzandolo all’improvviso. – Anche Zay se ne andava sempre. Tu sei uguale.
E José vorrebbe rispondere che sì, è vero, sono uguali, perché sono la stessa persona. Ma si ferma un attimo prima di dirlo ad alta voce, perché si rende conto che dirlo significherebbe ammettere che è vera anche la seconda parte del discorso di Zlatan: l’ha sempre abbandonato. Continua a farlo.
- Senti. – sospira quindi, - Guardami, per favore.
Zlatan solleva gli occhi nei suoi e José, scrutandoli nel profondo, trova una tristezza talmente grande da non poter essere sopportata da una sola persona. Non è sicuro nemmeno che sarebbe in grado di sopportarne la metà, se Zlatan gli concedesse di prenderne un po’. Ma non avviene e non avverrà, José ne è consapevole, Zlatan è geloso della sua tristezza come lo è stato di lui, come lo è stato di sua moglie, come lo è stato dei suoi figli, come lo è stato della sua maglia e del suo posto in squadra, come lo è stato di ogni cosa che considerasse propria. È per questo che s’è diviso in tre ed ha relegato tutta quella tristezza alla parte più profonda e indifesa di sé, per nasconderla dove nessuno sarebbe mai riuscito a toccarla, per sottrarla agli sguardi ed alle mani altrui, per conservarla eternamente.
- Non dirlo adesso. – sussurra Zlatan, così vicino alle sue labbra che José deve trattenersi con tutte le proprie forze per non annullare quei pochi centimetri che li separano e sfiorarlo, - Non l’hai mai detto, non dirlo adesso. – e nei suoi occhi c’è una consapevolezza del tutto diversa rispetto a quella che è possibile vedere in genere. Nei suoi occhi c’è Zlatan, quello vero, José lo riconosce e per poco non scoppia in lacrime. Ma obbedisce, e non lo dice.
- …me ne sono andato solo per un giorno. – dice invece, sorridendo un po’, - E puoi stare sicuro che le altre volte in cui me ne andrò saranno di pari lunghezza o anche più brevi, mai più lunghe. Non ti abbandonerò. Il tuo Zay ha sbagliato un mucchio di cose, sai?, ma io sono diverso. Io sono Mou.
E la consapevolezza negli occhi di Zlatan si scioglie e si perde scivolando via tutta insieme, lasciando posto a quel brillio infantile e a quel sorriso allegro che contraddistinguono l’ultimo Zlatan che ha conosciuto, quello che disegna fuochi d’artificio coi pastelli a cera perché guardandoli da un’altra prospettiva possano sembrare fiori.
- Forse parlare ancora di Zay non serve. – ridacchia un po’ Zlatan, allungando una mano per recuperare l’album da disegno, - Non è vero che ho buttato via il foglio. – continua con un sorriso furbo, - L’ho conservato. Vuoi vederlo?
José annuisce e lascia scorrere gli occhi sul disegno di Zlatan. C’è lui – lo riconosce dal naso, ed è divertente, perché Zlatan ci ha sempre scherzato su ed è bello vedere che non ha perso la voglia di farlo anche ora che è così diverso – che tende la mano verso un uomo di spalle, che si allontana. Dall’altro lato della pagina, uno Zlatan più felice stringe la mano di un uomo identico, solo che stavolta l’uomo non va via.
- Sono la stessa persona. – ride un po’ José, le dita che scivolano sul foglio, solleticate dai segni in rilievo lasciati dai pastelli a cera.
- Non lo sono. – dice Zlatan. La sua voce è diversa. José solleva gli occhi nei suoi e trova diversi anche quelli.
- Sei-
- Portoghese. – lo interrompe Zlatan, lui, o chiunque sia la persona che gli sta parlando adesso. E – José se ne accorge all’improvviso, non l’ha notato, l’altra volta – gli parla in spagnolo. – Lo stai facendo di nuovo.
- Non sto facendo niente. – ribatte José, aggrottando le sopracciglia, - Sei tu che lo stai facendo di nuovo, ti stai occupando di cose che non ti riguardano.
- Il Piccolo mi riguarda. – risponde l’altro, alzandosi in piedi e chiudendo l’album, per poi riporlo con cura sulla scrivania. – Ti diverti, vero? – continua con un sorriso cattivo, - Ti piace essere sempre al centro dell’attenzione, ti piace che Zlatan non riesca a dimenticarti. Se ci riuscisse tu poi ti sentiresti inutile, ho ragione? Ti sentiresti vuoto. Vivi solo perché gli altri parlano di te, perché si ricordano di te. Tu non sei niente, tu sei aria, sei aria cattiva. Sei come una malattia, nessuno ti vede, nessuno ti sente, finché non fai male.
- Io non voglio fare del male a Zlatan. – insiste José, ostinato, - Sei tu che lo stai distruggendo.
- Io lo sto proteggendo. – precisa lui, il ghigno che si allarga e si fa perfino più spaventoso, - Sei tu che l’hai distrutto una volta e stai per distruggerlo ancora. Devi lasciarlo andare. Non ti vuole più.
José socchiude gli occhi e ripensa alle parole del suo presidente.
- C’è un tempo per lasciare andare, ce n’è un altro per stringere e tirare indietro. Questo è il tempo di stringere e tirare indietro. – e poi sorride, e il suo sorriso non differisce poi in molto rispetto a quello della persona che gli sta di fronte. – Lo porterò via da qui. Tu non potrai più toccarlo.
Zlatan – o quello che ne resta – lo guarda a lungo, inespressivo. Poi sorride ancora.
- Tempo di stringere. – sibila.
Eloy irrompe nella stanza appena in tempo per evitare che le sue mani grandi si chiudano come tenaglie attorno al collo di José.
Si lascia cullare dalla voce di Tami così a lungo che perde il senso del suo discorso, e dopo un po’ le sue parole smettono di essere entità singole e ben suddivise con un significato proprio, per fondersi in un unico brusio che gli ricorda quelle colonne sonore discrete e piacevoli che i registi alle volte mettono in sottofondo durante le scene cardine, quelle in cui la melodia non deve avere un ruolo da protagonista ma da semplice accompagnatrice, quelle di cui non riconosci appieno la bellezza finché non le isoli rispetto alla scena che riempiono, e magari le riascolti due, tre, quattro, cinque volte, e ne scopri le particolarità, i saliscendi di tono, la preponderanza di alcune note rispetto ad altre. Impari a conoscerle, e la prossima volta che le risentirai insinuarsi dentro la tua mente di fronte a quella specifica scena di quello specifico film, sarai in grado di apprezzarle molto più profondamente, perché saranno tue. La voce di Tami è questo, per lui, l’accompagnamento costante senza il quale le scene che compongono la sua vita sarebbero vuote. Quello che ha imparato a conoscere piano, lentamente, quello di cui ricorda alla perfezione ogni nota. Di Zlatan non può dire tanto – e probabilmente è anche per questo che gli sembra di- tenere a lui? volergli bene? amarlo? che espressione si usa, in queste situazioni? – più di quanto il suo fisico non sia in grado di tollerare.
- Ti capita mai… - mormora, praticamente in dormiveglia, mentre Tami ride un po’ dall’altro lato della cornetta, - di trovarti di fronte ad una causa persa e di non avere la benché minima speranza di riuscire?
- Mi è capitato, una volta. – risponde lei, la sua voce tintinna come un campanello. – Ho conosciuto un uomo ostinato.
José sorride, gli occhi chiusi.
- E che hai fatto?
- Sono stata più ostinata di lui. – risponde lei, - Mi manchi, Zay. – aggiunge poi in un sospiro stremato. – Buonanotte.
José sta già dormendo. Il telefono continua a diffondere nell’aria il suono secco e penetrante del segnale di linea libera, e continuerà a farlo per tutta la notte.
Eloy non sembra apprezzare il suo trovarsi già lì il giorno dopo, come non fosse successo niente.
- Mister, questa cosa la sta prendendo nel modo sbagliato. – gli fa notare con un sospiro, e José ringhia.
- È un vizio degli spagnoli, quello di ficcare il naso nelle faccende che non li riguardano per niente? – borbotta, proseguendo spedito lungo il corridoio della clinica che ormai conosce a memoria, senza nemmeno passare da Blasi per un saluto.
- È che mi dispiacerebbe per lei e per Zlatan, se finisse tutto male. – motiva la guardia di sicurezza con una scrollata di spalle.
- Sì, grazie per il sostegno. – risponde acido José, - Ce la caveremo.
- No. – lo ferma Eloy, e quando capisce che José non sembra intenzionato a starlo a sentire, allunga una mano e la pianta contro lo stipite della porta della camera di Zlatan, deciso, tanto veloce che per poco José non se lo ritrova a due centimetri dal naso. Si volta a guardarlo come l’avesse appena insultato, ma Eloy regge l’occhiata senza fare una piega, fissandolo gelido di rimando. – Io parlo poco, Mister Mourinho, per questo dovrebbe ascoltarmi, quando lo faccio.
José si lascia andare ad un ghigno irritato, piantando una mano sul fianco.
- Pensavo fossi una persona molto più umile, sai? Mi sbagliavo. – commenta.
- Già. – annuisce Eloy con un sorriso quasi timido, - Alle volte l’apparenza inganna. Il fatto che io sia bravo a fare il mio lavoro non mi impedisce di essere in grado di mandare a fanculo la professionalità e dire le cose come stanno, per una volta.
- E questo ti sembra un comportamento onesto? – ritorce con una mezza risata. Eloy scrolla nuovamente le spalle.
- Non ne ho idea e non m’interessa. Soprattutto, non accetterò una paternale sul punto proprio da lei, Mister Mourinho. E non le chiederò nemmeno se ha intenzione di ascoltarmi, perché la forzerò a farlo, se necessario. Chiaro? – José incrocia le braccia sul petto e fa per concedere un “d’accordo” che riporterebbe il loro confronto su un livello quantomeno paritario, ma Eloy non mentiva quando parlava di forzarlo, e di sicuro non ha bisogno di una sua concessione per riprendere a parlare. – Lei non ha capito un accidenti della situazione in cui si trova. – comincia la guardia, - E non ha idea dei disastri che potrebbe causare a Zlatan se continua a fare così di testa sua. Lavoro qui da anni, so di cosa sto parlando.
- Ed esattamente, - lo interrompe José con aria cupa, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, - in cosa starei sbagliando così grossolanamente?
Eloy abbassa lievemente lo sguardo, e José non riesce a capire se sia in difficoltà nel trovare qualcosa da dire o solo nel trovare il modo adatto in cui dirlo.
- È una questione di tempi, Mister Mourinho, lei non li sta rispettando.
- I tempi variano da persona a persona, Eloy, ed io conosco i tempi di Zlatan.
- Lei non conosce Zlatan! – scatta la guardia di sicurezza, risollevando repentinamente lo sguardo, - Io probabilmente non ho idea di chi o cosa fosse Zlatan prima di impazzire, ma ho vissuto a stretto contatto con lui per gli ultimi tre mesi, e lei non ha ancora capito che questa persona è una persona diversa rispetto a quella che conosceva un tempo! Non può comportarsi con lui nello stesso modo in cui si comportava prima! Non può usare gli stessi tempi! – si ferma, inspira ed espira, cercando di calmarsi. – Questo Zlatan ha dei tempi diversi, e lei deve rispettarli, Mister Mourinho, o da questa storia non verrà fuori mai niente di buono. La prego, mi ascolti.
José morde con forza l’interno di una guancia, reggendo l’occhiata adesso quasi triste di Eloy senza cambiare posizione né mostrare segni di cedimento.
- Hai finito? – chiede quindi. Le spalle di Eloy si incurvano all’improvviso, come se qualcosa l’avesse inaspettatamente privato di tutta la sua forza.
- Sì, ho finito, Mister. Ho finito. – biascica, il tono di chi sa di aver finito non perché ha portato a termine la propria missione, ma perché l’ha inesorabilmente fallita.
José aspetta che si sia allontanato lungo il corridoio, prima di aprire la porta ed entrare.
Zlatan si sta mangiando le unghie, quando si volta di scatto, dopo averlo sentito entrare. José lo guarda con sincero stupore, a lungo, perché le mani di Zlatan sono sempre state fra le più curate avesse mai visto addosso a un uomo, le unghie sempre pari, mai rovinate, sempre pulite e lucide. Non aveva mani delicate – la pelle, soprattutto sui polpastrelli, era ruvida e opponeva un attrito piacevolissimo alle carezze lente delle sue mani – ma non per questo le aveva mai trovate appena di un punto meno che perfette. Per un attimo, schiude le labbra e fa per commentare “e questo vizio da dove spunta?”. Poi, controvoglia, ricorda le parole di Eloy e realizza che questo Zlatan potrebbe benissimo rispondergli che mangia le unghie da quando è nato, perciò lascia perdere e lo saluta con un cenno del capo, nervoso.
- Sei tornato.
La voce di Zlatan risuona all’interno della stanza piccola e silenziosa, venata da un tale sincero stupore da sembrare quasi infantile. José annuisce, avvicinandosi circospetto.
- So che non è colpa tua, quello che è successo. – si affretta ad anticiparlo. Zlatan guarda altrove, si morde un labbro, lascia ricadere le braccia lungo i fianchi. È in piedi contro la parete, talmente schiacciato addosso al muro da sembrare una bestiolina in trappola. La maglietta bianca sembra appesa alle ossa appuntite delle sue spalle. È ancora troppo magro. – Vieni qui, dai.
- Io so che è stata colpa mia. – risponde Zlatan, scuotendo svelto il capo e schiacciandosi con maggiore forza contro il muro, serrando le braccia dietro la schiena come nel tentativo di tenerle imprigionate, per impedir loro di nuocere in alcun modo, - Avevo promesso che l’avrei tenuto buono. E invece, fra tutti, proprio a te…
- Ascoltami. – lo interrompe José, e avanza di un passo. Per tutta risposta, Zlatan indietreggia, anche se il suo non è un vero indietreggiare, dato che non ne ha lo spazio. José lo osserva, così sottile, la pelle chiarissima sembra quasi trasparente nella penombra della stanza, e i suoi occhi – un tempo piccoli e sottili – paiono enormi sul viso scavato. – Non fare così, per favore. Siamo amici, vero?
- Io ti ho fatto del male. – puntualizza Zlatan, - Sarei capace di farlo ancora.
José lo osserva staccarsi dal muro di scatto e cominciare a vagare per la stanza in cerchi dapprima piccoli e nervosi, poi sempre più ampi e confusi.
- Zlatan-
- Non volevo che tornassi. – biascica lui, le mani fra i capelli che si scompigliano tutti e cadono subito a coprirgli la fronte, - Avevo detto a Eloy di non portarti più qui. Il dottore dice che sto cominciando a stare meglio, a me sembra di impazzire sempre di più. – si ferma all’improvviso, lo guarda come lo vedesse per la prima volta. – Io sono innamorato. – dice a bassa voce, - Io sono pazzo. Tu non dovevi tornare.
José sospira, cercando di andargli incontro. Zlatan non dice una parola, ma ogni passo di José in avanti si traduce in due suoi passi verso la parete alle sue spalle, e dopo qualche secondo José capisce che non caverà niente di buono da quello strano balletto, e decide di fermarsi. Zlatan non fa lo stesso: continua a muoversi fino a toccare nuovamente il muro con tutta la schiena, sembra che in questa posizione – le braccia sempre nascoste, strette come fossero annodate – si senta più tranquillo.
- Non ce l’ho con te. – cerca di rasserenarlo.
- Io sì. – risponde subito lui, deglutendo a fatica, - Io ce l’ho con me. Devo aver fatto qualcosa di simile anche a Zay- sì, ecco, è sicuramente per questo che lui mi ha abbandonato. Io impazzisco e faccio cose, devo aver fatto male anche a Zay.
- Non hai mai fatto niente a Zay. – gli spiega José, piano, sorridendo un po’, - È Zay che ha sbagliato tutto e non ha capito niente. Ma tu devi fidarti di me, Zlatan.
- Io mi fido di te! – singhiozza lui, e si morde un labbro perché non vuole piangere, - È di me che non mi fido! Tu devi andare via, ti prego, vai via… - mormora confusamente, abbassando lo sguardo. I capelli scivolano di nuovo di fronte al suo viso, nascondendo la sua espressione. José non riesce a immaginare quale possa essere, è davvero la prima volta che si sente così perso di fronte a una persona che è sicuro di conoscere tanto bene.
Deglutisce, inumidendosi le labbra.
- Posso avvicinarmi? – chiede timoroso.
- No. – risponde Zlatan, deciso. – Sì… no. No.
- Hai detto sì. – gli fa notare José, avvicinandosi di un passo.
- Ho detto più volte no. – precisa Zlatan, stringendosi nelle spalle, - Fermati, per favore.
- No. – scuote il capo lui, e si ferma solo quando è tanto vicino da poter recuperare gli occhi di Zlatan coi propri, per costringerlo a ricambiare il suo sguardo senza nemmeno sfiorarlo. Ha gli occhi talmente lucidi e gonfi di pianto che José avrebbe voglia di stringerselo contro tanto forte da fargli male, per potergli permettere di liberarsi. – Farei qualsiasi cosa, per te. – dice in un soffio, sollevando un braccio ed accarezzandogli lievissimo una guancia, - Manderei a fanculo tutto- ho una moglie e due figli, ho un lavoro, ho una vita stupenda. Dimmi cosa devo fare. – Zlatan si morde un labbro con una forza tale che José ha paura possa spaccarselo. Per questo sposta le dita sul contorno della sua bocca, sfiorandolo leggermente in modo da costringerlo ad allentare la presa. – Tu dimmi solo cosa devo fare, e io lo faccio. Sono stanco, Zlatan. Non so più che decisione prendere, perciò decidi tu.
Le spalle di Zlatan si sciolgono, le sue mani scivolano lungo i suoi fianchi e José le sente risalire lungo il proprio petto con una lentezza spaventosa. Si stanno scambiando uno sguardo vuoto e stanco che non vuol dire niente, le uniche cose che stanno parlando, adesso, sono le mani di Zlatan. Se saliranno fino al suo collo e lo stringeranno con forza, sarà tutto finito. Ma le mani si fermano da qualche parte all’altezza del colletto della sua camicia, lo stringono in uno spasmo terrorizzato, si chiudono attorno al cotone e tirano un po’. Strattonato in avanti, José schiaccia tutto il proprio corpo contro quello di Zlatan, e sente il suo viso nascondersi svelto nell’incavo del proprio collo – appena in tempo per raccoglierne le lacrime.
- Portami via. – mormora Zlatan sulla sua pelle, le labbra umide e la voce impastata, - Portami via da qui.
José non deve nemmeno rispondere.
La mano di Zlatan, stretta dentro la sua come quella di un bambino perso e un po’ impaurito, è identica a quella che era prima che andasse via da Milano. Scivolando silenziosamente lungo il corridoio della clinica – nessuno fa caso a loro, nessuno li nota, ormai è normale vederli andare a zonzo per quelle stanze, come fossero a casa propria, anche senza la costante presenza di Eloy – José lo stringe con forza a sé e Zlatan si lascia coccolare e blandire come non avesse nemmeno cinque anni. Resta in silenzio, e tocca a José riempirgli le orecchie di rassicurazioni prive di senso, gli parla un po’ in spagnolo, un po’ in portoghese, un po’ in italiano. Potesse, gli parlerebbe anche in svedese, ma è abbastanza sicuro che Zlatan non coglierebbe neanche una parola, così come in realtà non ne sta cogliendo una nemmeno adesso, preferendo concentrarsi sul flusso costante e continuo delle sue parole che lo cullano come una ninna nanna, conducendolo fino all’auto come la melodia del pifferaio di Hamelin. Curiosamente, fuori piove, e mentre José pensa ai topi della fiaba, morti affogati fra i flutti del fiume Weser, stringe i denti e cerca di non pensare che un po’ sembra un pifferaio anche lui, pure se l’ultima cosa che vuole è portare Zlatan verso la morte.
Quando mette in moto, schiaccia il piede sull’acceleratore e lascia che sia il suo istinto a condurlo. Ormai conosce bene Barcellona, ma non può dire altrettanto dei dintorni. Spera soltanto che la strada che ha imboccato lo porti il più lontano possibile dalla città.
Zlatan sonnecchia, al suo fianco. I suoi occhi scuri sono seminascosti dalle palpebre quasi chiuse e pesanti, le labbra strette in una smorfia vagamente nervosa, gli arti rilassati lungo i fianchi del sedile. Osserva le gocce di pioggia scivolare leste lungo la superficie liscia del finestrino, ne segue le tracce, sorride appena quando due gocce s’incontrano e le sue sopracciglia si inarcano infantilmente quando il gocciolone risultante si separa in due o più parti.
- Non resta mai intero niente… - mormora deluso, - Non c’è niente che duri per sempre.
- Noi possiamo. – nega deciso José, guardando fisso la strada che si allunga infinita davanti a sé. Zlatan sorride ironico.
- Secondo tentativo. E se falliamo, non c’è due senza tre. – bisbiglia.
- Cosa? – chiede José, ma Zlatan scuote il capo.
- Niente. – risponde, - Grazie per avermi portato via, Mou. Zay. José.
José si volta a guadarlo, spalancando gli occhi con aria stupita.
- Come- - accenna, ma Zlatan ride a bassa voce e gli impedisce di concludere.
- Non so cosa sto dicendo. – dice, - Sono confuso. E poi c’è la pioggia. Quando pioveva, io e Zay ci vedevamo spesso. Non so perché, mi diceva che la pioggia gli ricordava me, e che quindi quando pioveva aveva voglia di baciarmi.
José sorride. Sta cominciando a capire come funzioni la testa di Zlatan – ogni tanto riemergono parti di un se stesso più antico, ogni tanto tutte le parti esistenti si confondono mescolandosi in qualcosa di unico. Non è semplice come gliel’aveva descritto il dottor Blasi, ma d’altronde da Zlatan non avrebbe mai potuto aspettarsi nulla di diverso.
- Sfuggente e spietata. – racconta, - È per questo che gliela ricordavi. La pioggia cade ovunque, non risparmia niente, ma se solo provi a catturarla scivola via. Perché è acqua.
- Puoi sempre raccoglierla in una bacinella. – gli fa notare Zlatan, tornando a guardare di fuori, - Zay non mi ha mai raccolto.
- È stato uno dei suoi numerosi errori. – risponde lui in un ringhio sommesso, - Non devi più pensarci, da oggi in poi sarà tutto diverso.
- Niente è mai davvero diverso. – le parole scivolano impalpabili fra le labbra di Zlatan, che non guarda più nulla: ha gli occhi chiusi e parla in un mormorio distante, - A meno che non ci sia di mezzo il sangue. Quello sì che cambia tutto. Ci hai mai fatto caso? Quando nasce un bambino, lo fa in mezzo al sangue. Quando le ragazze si sviluppano, lo fanno sanguinando. Tutti i più grandi cambiamenti della vita di una persona sono battezzati col sangue- e poi ci sono i cambiamenti che dovrebbero portarti a sanguinare e invece non lo fanno. Tipo quando ti spezzano il cuore in due, e tu sei l’unico che se ne accorge.
- Zlatan-
- Ma tu non devi scusarti. – la sua voce è sempre più distante, le sue labbra si muovono appena, sta già praticamente dormendo, - Non è colpa tua, tu non c’entri. E non è nemmeno colpa di Zay, sono io che non ho mai capito niente. Devo avergli fatto tanto male, devo averlo deluso tantissimo. Lui non abbandonava mai nessuno senza un motivo, sai? Quindi devo avergli dato un motivo veramente valido, per costringerlo a lasciarmi da solo. – si interrompe, aggrottando le sopracciglia, - Ho mal di testa e ho sonno. Questa era l’ora, mi sa. Il dottor Blasi si arrabbierà. Avrei dovuto chiedergli una scorta di flaconi, prima di andare via, lui dice sempre che le medicine sono importanti.
José pianta il piede sul pedale del freno e si volta a guardarlo. Zlatan, assicurato al sedile con la cintura di sicurezza, si muove appena in avanti. Il suo corpo è talmente molle da sembrare privo di vita.
- Zlatan. – lo chiama a bassa voce, slacciando la propria cintura e sporgendosi verso di lui, - Prendevi delle medicine? – e poi si morde un labbro, imprecando sottovoce, - Che testa di cazzo. Che testa di cazzo, Cristo, quando mai s’è vista una persona in queste condizioni che non prenda delle medicine?! – inspira ed espira profondamente. Zlatan schiude appena gli occhi per guardarlo. – Zlatan, come ti senti?
- Stanco. – risponde lui con un sorriso minuscolo, - Però sto bene. Anche se è tutto confuso. Mi ricordi una persona, sai?
- Sì. – risponde subito lui, accarezzandogli il viso gelido, - Sì, lo so. Anche se odio ricordartelo. Non puoi dimenticarlo e basta?
- Tu dimentichi chi hai amato in passato? – chiede Zlatan con un filo di voce, appoggiandosi contro la sua mano, - Io non sono capace.
- Nemmeno io. Cristo- - gli viene da piangere, ma sa di non poterselo permettere, - Ti prego, rimani con me.
- Sono con te. – annuisce Zlatan, - Io non vado da nessuna parte. Però tu non vuoi me, io l’ho capito, sai?
- A me vai benissimo come sei. Cazzo, mi vai benissimo come sei, ti prego, non dire stronzate.
- Tu non sei Zay. – sorride Zlatan, - Io non sono Zlatan. Siamo tutti sbagliati, non potrebbe mai funzionare. Ma non riesco a dirti che dovresti tornartene a casa tua, perché sono egoista come Zlatan. Lui è qui e sta urlando qualcosa, ma io non te lo posso lasciare vedere. Perché tu non sei Zay.
- Ti prego… - continua José, la voce rotta, - Devi farmelo vedere. Io devo parlare con lui. Ho bisogno… devo dirgli qualcosa, devi lasciarmi parlare con lui.
- Non posso lasciarti parlare con lui. – ridacchia un po’ Zlatan, scuotendo il capo, - Zlatan vuole il suo Zay. È quello che lui cercava di dirti, gli spezzi il cuore. Zay, in questo momento, non si comporterebbe come ti stai comportando tu. È una persona diversa. È quella, la persona che Zlatan vuole. Tu non puoi dargli quella persona, quindi io non posso darti Zlatan. Lui non è mio e non è tuo, è solo di Zay.
José abbassa lo sguardo. Si sente sconfitto come non è mai stato in vita sua. Ha perso una quantità incredibile di cose – molte per negligenza, alcune per sfortuna, altre ancora per ostinazione – ma nulla gli sembra grave, a ricordarla adesso, come quello che sta perdendo in questo momento. Zlatan gli sta scivolando via dalle mani, e lui non riesce a trovare un modo di trattenerlo.
- Adesso… - comincia, nascondendo le lacrime sotto l’onda di capelli che gli cade sulla fronte ora che guarda in basso, - Adesso piantala di fare la primadonna. – ringhia. Le lacrime cadono, non ne scendono altre. José lo guarda fisso, adesso, e Zlatan ricambia l’occhiata con stupore. – C’è troppo poco spazio, qui, per contenere il tuo ego. Quindi ridimensionalo.
Il secondo di silenzio che segue le sue parole si allunga in un attimo infinito dilatato nel buio che circonda l’automobile. José non saprebbe più nemmeno dire dove si trova, né sa se, nelle condizioni in cui sono, lui e Zlatan potranno arrivare vivi a domattina, mentre il cielo di Spagna rovescia loro addosso tutta la sua furia.
- …Zay. – lo chiama Zlatan, e per la prima volta da quando è lì la sua voce suona familiare alle sue orecchie. – Zay.
- Avanti. – insiste lui, aggrottando le sopracciglia, - Sono qui, adesso. Dimmi quello che mi devi dire, o avrò fatto un viaggio inutile. E non mi piacciono i viaggi inutili, zingaro, lo sai bene.
- Zay… - boccheggia Zlatan. I suoi occhi saettano confusi sul suo viso, sono vivi e brillanti, umidi, lucidi, José li riconosce. Li riconosce, cazzo, li riconosce. – Zay…
- Cos’è, adesso sai solo ripetere il mio nome? Bella storia. La prossima volta, mandami una lettera.
Zlatan apre la bocca a vuoto ancora un paio di volte, e poi le sue dita si stringono attorno al braccio di José, fin quasi a fargli male.
- Hanno ammazzato Helena e i bambini. – confessa, - Me li hanno ammazzati lì, senza un cazzo di motivo valido, solo perché me n’ero andato da Milano. Mi hanno ammazzato i bambini. I miei figli. Hanno ammazzato Helena.
- E stai facendo la lagna per questo da mesi. – continua José, duro, con una smorfia annoiata, - Davvero, cresci un po’, Cristo santo. Non stiamo tutti qui a fare da spugna per le tue lacrime.
- E tu non ti facevi più sentire. Ti ho cercato, non hai mai risposto. Volevo parlarti.
- Io non volevo parlare con te, mi sembra ovvio. Che cazzo volevi, che mollassi tutta la mia vita per venire a salvarti dal precipizio? Sii serio, sei un giocatore come tutti gli altri, e niente di più. – e si morde un labbro, e Zlatan piange, sta piangendo così tanto, José non ce la fa più.
- Helena era incinta. – confessa ancora in un filo di voce, - Aspettava un altro bambino. Era… un altro bambino, e hanno ammazzato anche lui.
E la voglia di urlare gli squarcia i polmoni e lo stomaco, José non si è mai sentito così, come lo stessero aprendo in due per rivoltarlo al contrario. Brucia tutto, anche se fa freddo, ma stringe i denti e si stringe anche la presa della mano di Zlatan attorno al suo braccio.
- Bene, ora hai finito di lagnarti? – chiede con aria supponente, - Perché la squadra ha bisogno di te in forma, Zlatan, ed io ho bisogno di te in forma. – lo rimprovera come lo stesse rimproverando per le lamentele dopo una partita andata male, e non riesce a capire se questa sia la strada giusta per riportarlo in sé o solo quella più breve per condannarlo a morte. – Quindi datti una mossa e piantala. Ho esaurito la mia pazienza.
La voce di Zlatan si spezza in un singhiozzo che gli rivolta le viscere.
- Abbracciami. – dice piangendo, – Scusa. Abbracciami.
José scoppia a piangere a propria volta e si china su di lui, stringendolo tanto forte da fargli mancare il respiro, da farsi mancare il respiro, da togliere il respiro a tutto il resto del mondo. Sono ancora lì, senz’aria, quando li trovano, due minuti dopo.
- Ma i fiori… non saranno eccessivi? – chiede Davide, allargando con un dito il colletto della camicia mentre stringe l’enorme mazzo di rose al petto con l’altro braccio, nel tentativo di non lasciarlo rovinare in terra.
- Be’, se fossero per il mister, lo sarebbero. – ridacchia Mario, tirandogli una spintarella giocosa contro un fianco, - Ma visto che sono per la signora… - e non fa in tempo a finire, visto che la signora appare sulla soglia della porta con un sorriso allegro e li saluta entrambi con entusiasmo.
- Che carini siete stati a passare di qui! – cinguetta Matilde, - E che bei fiori!
- Per lei! – risponde prontamente Davide, tendendole il mazzo e liberandosene anche con un certo sollievo.
- Disturbiamo? – chiede Mario con un sorriso sereno, mentre Matilde si sistema i fiori contro il petto.
- Ma no, assolutamente! – risponde, scostandosi dalla soglia per lasciarli passare, - Prego, prego. José è in giardino. – dice, accennando alla portafinestra che riempie un’intera parete della sala che s’intravede già dall’ingresso, - Andate, conoscete la strada.
La strada la conoscono sì, sono mesi che fanno la spola dalla Pinetina a Villa Ratti, o da casa a Villa Ratti, sperando sempre in buone nuove che arrivano a pezzetti, caute, sotto forma di ipotesi che non si concretizzano mai.
- Se non c’è neanche stavolta, - avverte Davide, la voce che trema, - urlo. Lo giuro.
- Ssh. – lo calma Mario, stringendogli distrattamente una mano. E poi oltrepassano la portafinestra e il giardino si stende attorno a loro, tanto bello da sembrare finto, e José è seduto su una sdraio, e Zlatan è in costume da bagno e dondola i piedi nell’acqua tiepida della piscina, lì seduto a bordo vasca, e qualcosa nei loro petti si scioglie, scivola giù fino allo stomaco e poi risale in gola, tant’è che quando Davide parla lo fa dopo un mezzo uggiolio che non è altro che l’espressione sonora del suo cuore che si alleggerisce.
- …è uscito dalla stanza. – mormora, - È- è uscito davvero.
Mario non riesce a dire nulla; vorrebbe, ma l’intenzione stessa si perde e svanisce quando Zlatan solleva gli occhi su di loro e li accarezza lievissimo con uno sguardo che sa d’impazienza e paura insieme. José osserva la scena tenendosi quasi in disparte, come sempre quando c’è qualche merito da prendersi e tutto va bene. Lascia spazio, e Zlatan tira fuori le gambe dall’acqua, mettendosi in piedi e restando lì fermo, le braccia lungo i fianchi. Almeno fino a quando non si decide a spalancarle.
- Insomma, - borbotta, - non sono mica fatto di cristallo.
L’attimo dopo, lo stanno già investendo di abbracci e parole in un intreccio confuso all’interno del quale non si capisce niente. Matilde, dalla sala, ride e avverte che aggiungerà due posti a tavola, visto che è quasi ora di pranzo, e José annuisce bonario. Quando Mario gli si avvicina, lasciando a Davide un po’ di tempo per coccolare e farsi coccolare come vuole, sorride anche a lui.
- Sembra in forma. – commenta con un sorrisino furbo.
- Io non fallisco mai. – risponde José, supponente, accarezzandogli la testa rasata in un gesto paterno, - Che cavolo ti sei scritto in testa, stavolta, benedetto ragazzo? – chiede con aria esasperata, sollevandosi lievemente sulle punte per sbirciare.
- Victory. – risponde orgoglioso Mario, - Guarda che bello. – ridacchia, piegando un po’ il capo per permettergli di osservare più attentamente.
- Bello. – concorda José, ridendo a propria volta, - Propiziatorio.
- Celebrativo. – precisa lui con una linguaccia infantile, - Non ho mai dubitato.
- Quand’è che torna in squadra? – ride Davide, senza staccarsi un secondo dal fianco di Zlatan, che scuote il capo, vagamente esasperato.
- Perché non chiederlo direttamente a me, dico io? – si lagna, - Torno il mese prossimo, bambino. – prosegue, ignorando José che si lamenta perché non ha il diritto di rubare soprannomi che lui avrebbe fatto meglio a brevettare quand’era in tempo, - Stiamo diminuendo il dosaggio delle pillole, poco a poco. Ma sto alla grande, José tra le altre cose mi fa anche allenare un sacco.
- Oh, sì, immagino. – commenta Mario, inarcando un sopracciglio.
- Ho una palestra al secondo piano. – sbotta José, tirandogli uno scappellotto neanche troppo affettuoso contro la nuca, - E bada a come parli in casa mia, teppista. Non ci metto niente a tenerti in panchina per tutto il resto della tua esistenza.
Ma poi Matilde appare sulla soglia della portafinestra ed informa tutti che gli antipasti sono già in tavola, e quindi il tempo per protestare si esaurisce in un secondo, che c’è da litigare per chi riuscirà ad accaparrarsi l’ultimo pomodoro ripieno – e questo è decisamente più importante.