Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico.
Pairing: Davide/Hera, Antonio/Giampaolo, Riccardo/Giampaolo.
Rating: R.
AVVISI: AU, Slash.
- Come da titolo, tre episodi che raccontano tre ordinarie storie di (diverso) amore, inteso nel senso più ampio possibile, in tempo di guerra.
Note: ...la pazzia. *piange* Allora, prima di tutto ci tengo a premettere che questa fic non è ambientata in un'epoca precisa. La presenza delle trincee potrebbe indurvi a pensare che si sia nel mezzo della WWI, ma così non è. E' una guerra immaginaria, si combatte in modi assolutamente privi di attinenza con la realtà dell'epoca (di quella o di un'epoca qualsiasi, in effetti) e per ottenere obbiettivi diversi e, fondamentalmente, aprendo questa pagina non aspettatevi di trovare qualcosa di sensato, perché non lo troverete XD
Voglio scriverla da un po', ma se ci sono riuscita devo dire grazie in primis ai prompt di Crim su magic_reservoir e in secundis al prompt Guerra della prima settimana del COW-T. *anf* Basta, addio. *muore*
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L’AMORE AI TEMPI DELLA GUERRA

He sees hope.
Mario spera che non riprenda a nevicare, perché c’è già abbastanza freddo così.
La trincea è un buco profondo meno di due metri. Uno come lui, per non farsi vedere deve camminare sempre piegato in due. Gli fa male la schiena, per questo, e gli fa male il culo perché non si siede su qualcosa di anche solo vagamente comodo da mesi. Dal fondo della fossa di fango scavata a mani nude dai suoi compagni mandati in avanscoperta qualche settimana fa, si vede solo campagna bruciata a perdita d’occhio. La città per la quale stanno combattendo sembra così lontana da apparire quasi come un sogno. Milano col suo maestoso Duomo, la classica austerità del Teatro alla Scala, gli ampi spazi del Castello Sforzesco, l’imponenza schiamazzante di San Siro e l’opulenza sfacciata della Galleria. Milano che da questa guerra non è mai stata toccata, perché se stanno combattendo contro i Diavoli dell’altra sponda del Naviglio è proprio per prendersela, quella città così bella e così grigia e così fondamentale per tutti loro, e perciò lei deve restare intatta. La sua vita continua placida mentre loro si ammazzano in mezzo alla sporcizia, al fango e agli stenti. Moriranno tutti come sono morti i compagni che questa buca l’hanno scavata, Mario ne è sicuro. Verranno colti all’improvviso nella notte da una raffica di proiettili alle spalle, come loro, sorpresi durante gli scavi per colpa dello zingaro traditore che aveva scelto proprio quel momento per saltare la barricata e correre dall’altro lato.
Davide si avvicina di soppiatto, sorprendendolo a guardare con una certa malinconia quel po’ che si vede di Milano all’orizzonte attraverso l’aria polverosa del tramonto. È arrivato solo da qualche mese, Davide. Il generale Mourinho gliel’ha affidato personalmente perché hanno più o meno la stessa età, anche se ormai Mario combatte sul campo da quando aveva sedici anni. “Tu puoi capirlo,” gli ha detto l’uomo, “ma al contempo hai più esperienza. Guidalo.”
Aveva occhi stanchi e lontani, quel giorno, il loro condottiero. Parlando di Davide, aveva il tono di voce di un padre. Mario aveva provato una pena infinita per lui, per quell’uomo piccolo e ingrigito sulle spalle del quale pesavano le sorti di un intero popolo.
- Nostalgia di casa? – chiede il ragazzo, sedendoglisi accanto, - Stai giù con la testa, potrebbero vederti.
Mario obbedisce, più per farlo contento che perché si senta minacciato – prima o poi gli toccherà, e ha passato in trincea abbastanza anni da sapere che prima arriva, prima sarà libero – e sorride un po’.
- Sì, un po’. – ammette, - Non ricevo una lettera da casa da qualche settimana. I miei sono anziani, sai. Sono un po’ preoccupato.
- Sono soli? – chiede Davide, una punta di tristezza nella voce. Mario scuote il capo.
- No, mia sorella è lì con loro. Ma deve occuparsi di tante cose, e non è semplice. Spero in una licenza il mese prossimo, per tornare a darle una mano, anche se per poco.
Davide sorride, sedendosi più vicino.
- Sei carino. – commenta, - Cioè, a preoccuparti per la tua famiglia.
- Tu non ti preoccupi? – ribatte lui, inarcando un sopracciglio. Davide scuote il capo.
- La mia famiglia non è di qui. È al sicuro.
Mario risponde con un’occhiata dubbiosa.
- E tu perché sei qua? – chiede, e Davide si stringe nelle spalle.
- Abbiamo bisogno di soldi. – risponde, - Io e la mia ragazza vogliamo sposarci, ma non possiamo chiedere di pagare per tutto alle nostre famiglie.
- E tu vieni in guerra a rischiare di morire e non poterti sposare mai più? – insiste Mario, allibito. Davide si lascia sfuggire una risatina un po’ imbarazzata.
- La paga è buona, però. Non so per quanti anni avrei dovuto risparmiare, se fossi rimasto a lavorare in paese. Qui, se sopravvivo sei mesi, ho già abbastanza soldi per tornare a casa e comprare un piccolo terreno tutto mio.
- Ma prima devi sopravvivere. – commenta Mario con un sorriso un po’ intenerito. Il sorriso con cui gli risponde Davide è forte e sicuro di sé.
- Intendo farlo. – lo rassicura, e poi rovista all’interno della borsa tutta rattoppata che porta a tracolla, estraendone una custodia consunta in pelle marrone. – Vuoi vedere la mia ragazza? – domanda, - È bellissima.
Mario sbuffa un mezzo sorriso ed annuisce. Davide scopre la foto di una ragazza dal volto simpatico, i lineamenti dolci, grandi occhi castani e lunghi capelli ricci a scendere sulle spalle.
- È bella davvero. – sorride, accarezzando la superficie patinata della fotografia con due sole dita, per paura di rovinarla. Davide ridacchia compiaciuto e gli lascia contemplare la foto per tutto il tempo che vuole, senza pretenderla subito indietro.
- Tu non hai una ragazza? – gli chiede. Mario lascia correre il pensiero alle numerose ragazze che ha avuto prima di entrare nell’esercito, e alle molte altre che gli hanno semplicemente fatto compagnia durante i periodi di licenza più o meno lunghi che nel corso degli anni è riuscito a strappare alla morsa di una guerra che si andava facendo mese dopo mese sempre più aspra e sanguinosa. Decine di ragazze senza nome, volti ormai confusi in una macchia indistinta.
Non risponde alla domanda di Davide, ma ne pone una a propria volta.
- Tu credi davvero che riuscirai a tornare a casa e sano e salvo? Per sposarla e vivere per sempre felici e contenti o quel che è? – chiede, indicando con un cenno del capo la ragazza che sorride immobile nella foto.
Davide sorride e annuisce. La sua fiducia è incrollabile, e Mario, riconsegnandogli la foto ed imbracciando la propria arma per allontanarsi verso il punto che gli è stato assegnato in mattinata, non fatica più a comprendere perché.

Let me go.
Giampaolo si morde un labbro, guardandosi intorno con preoccupazione. Se la sta facendo sotto dalla paura ed è la prima volta che si pente di essere uscito dalla trincea. Sa che dovrebbe rilassarsi, che è notte e soprattutto è stata suonata la tregua ormai da un paio d’ore, e che quindi non corre nessun pericolo a trovarsi lì in quel momento, ma ciò che lo preoccupa non è tanto il trovarsi dove si trova, quanto più lo stare aspettando Antonio. Tregua o non tregua, è comunque un Diavolo, e tregua o non tregua loro non dovrebbero avere rapporti.
Solo che, tregua o non tregua, li hanno sempre avuti. E saltare una notte al momento sembra inconcepibile, anche se dal tradimento dello zingaro tutto è diventato più difficile, i controlli si sono decuplicati e le pene si sono inasprite.
Seduto sul porticato della catapecchia abbandonata che da ormai un anno è teatro dei loro incontri, Giampaolo si prende la testa fra le mani e giura e spergiura che questa sarà l’ultima volta. Non può continuare a cercare di cancellare il senso di vuoto che gli provoca l’assenza di Riccardo in questo modo. Ogni volta che riceve una lettera è come sentire il cuore frantumarsi in mille pezzi. Ha smesso di rispondergli, ma Riccardo non demorde. Il senso di colpa si sta facendo insostenibile, così come il peso della certezza di essere arrivato al fronte senza avere possibilità di tornare indietro.
Vorrebbe che Riccardo si rifacesse una vita, mentre lui, sconsideratamente, pone fine alla propria. Ma in qualche modo sa che lui non si rassegnerà finché non si vedrà recapitare a casa una medaglia al valore da un paio di ufficiali decorati fino alla punta dei capelli.
- Sempre perso nel tuo mondo cupo e triste. – commenta Antonio con una mezza risata, sostando a qualche metro di distanza da lui. Giampaolo solleva immediatamente lo sguardo e, quando lo riconosce, si affretta a scattare in piedi e precederlo oltre la porta scardinata e cigolante. Antonio lo segue subito dopo, e quando Giampaolo se lo ritrova di fronte, all’interno della casa, sta ancora sorridendo.
- Questa storia non può continuare. – dice subito, mettendo le mani avanti. Antonio rotea gli occhi, annoiato ancora prima di cominciare.
- No, ti prego, un’altra volta no. – protesta con un sorrisetto divertito. Giampaolo abbassa lo sguardo, imbarazzato.
- Sta diventando troppo pericoloso. – dice, provando a farlo ragionare, - Le trincee si sono avvicinate troppo. Ormai rischiamo di ammazzarci ogni volta che spariamo. Non… - si passa una mano sugli occhi, esausto, - non capisci che questa storia è assurda? Potrei sparare alla cieca e trovarti fra i cadaveri che ho abbattuto subito dopo. Ne ho abbastanza di storie d’amore finite male.
Antonio aggrotta le sopracciglia, contrariato.
- Ehi, ehi. – lo ferma, afferrandolo per le spalle ed obbligandolo a guardarlo negli occhi, - Frena. Questa non è una storia d’amore. – Giampaolo gli lancia un’occhiata tetra, ed Antonio insiste. – Sai bene che io sono innamorato della mia ragazza, e lo sarò fino a quando non creperò, per mano tua o di chiunque altro. Credevo che per te fosse lo stesso, con tuo marito.
Giampaolo si morde l’interno di una guancia e si allontana da lui con uno scatto isterico, voltandogli le spalle ed avvicinandosi all’unica finestra presente su quelle pareti spoglie. Il vetro è spaccato e da fuori entrano spifferi gelidi che gli danno i brividi. La notte è scura e silenziosa. Non si vede nemmeno una stella, in cielo. I bagliori innaturali delle bombe che scoppiano qualche chilometro più a ovest, fra le montagne, illuminano i nuvoloni neri carichi di pioggia che incombono su tutti loro. Domani sarà altro fango, altra lotta, altro sangue. Altra morte.
- Ho deciso di dimenticare quello che avevo prima. – confessa in un sussurro, - Perché so che non potrò farvi ritorno.
Antonio gli si avvicina, stringendolo alla vita in un abbraccio intenerito mentre gli lascia scivolare le labbra sulla nuca. Giampaolo si abbandona contro di lui, chiudendo gli occhi.
- È proprio perché sai che non potrai più averlo – gli sussurra Antonio, - che devi sempre tenere a mente che un tempo l’hai avuto.
Sulle guance di Giampaolo scivolano due lacrime che lui non riesce a fermare, forse perché nemmeno ci prova.
- Allora forse è meglio se mi lasci andare. – dice, e un po’ spera che Antonio ritratti e gli dica che va bene, va bene se dimentica Riccardo, se finge di non aver mai amato nessuno oltre lui, se dimentica di avere avuto una vita perché a cosa serve ricordare di averne avuta una quando inesorabilmente la si perde?, ma Antonio, sordo alla sua muta richiesta, non fa niente di tutto ciò. Lo bacia lievemente su una guancia, concedendogli un ultimo abbraccio consolatorio prima di liberarlo dalla propria stretta.
Giampaolo continua a guardare la notte sentendosi improvvisamente avvolto dal gelo. Sa che non lo rivedrà mai più.

The confrontation.
Glielo portano incatenato, come ha chiesto. È pesto e i suoi abiti sono ridotti a brandelli. Immagina che i suoi ragazzi non l’abbiano certo accolto con baci e abbracci, appena l’hanno visto cercare di fuggire lontano dalla guerra confondendosi fra i cadaveri dei morti in battaglia.
- Lasciateci soli. – ordina. Zlatan, in ginocchio di fronte a lui, sogghigna.
- Potrebbe essere pericoloso, generale. – lo avverte Marco, voltandosi a sputare per terra a due centimetri dal prigioniero, - Questo bastardo schifoso—
- So esattamente cosa posso aspettarmi da lui, adesso. – sorride rassicurante. Marco sibila, non è convinto. Occorre l’intervento di Dejan per convincerlo ad obbedire all’ordine, per quanto anche lui, nel momento di abbandonare la stanza, non riesca a risparmiarsi di voltarsi e lanciare un’occhiata preoccupata al proprio generale, chiedendogli di essere prudente.
- Si preoccupano tutti per te. – commenta Zlatan, ironico e sprezzante. Nonostante sia legato mani e piedi e in condizioni pietose, con un occhio nero, le labbra gonfie e sangue ormai rappreso a fare da culla per quello nuovo che esce copioso da un taglio sul sopracciglio, il suo sguardo è fiero, e non c’è timore nella sua voce.
- È naturale. – ribatte José, prendendo una sedia e sedendosi davanti a lui, in modo da poterlo guardare negli occhi da un’altezza più paritaria, - Dopo quello che hai fatto.
Zlatan sorride storto, fissandolo negli occhi senza provare neanche la minima vergogna per il proprio tradimento.
- Hai sempre saputo che ero un mercenario. – risponde, - Ma mi hai voluto lo stesso.
- Perché pensavo che i soldi bastassero a farti cambiare schieramento, ma non potevo immaginare che bastassero anche a convincerti a vendere i tuoi vecchi compagni! – strilla José, alzandosi in piedi così repentinamente da rovesciare la sedia sul pavimento.
- Io non avevo compagni. – lo corregge Zlatan, improvvisamente più serio, come se José avesse toccato un punto sul quale lui non è disposto a transigere. – Io ero assoldato dal tuo esercito.
- E col tuo tradimento hai mandato a porte persone con le quali avevi riso e scherzato e al fianco delle quali avevi combattuto fino al giorno prima. – gli fa notare José, e poi sembra sgonfiarsi quando legge negli occhi di Zlatan una calma che lo sconvolge. – E non ti senti minimamente in colpa per le loro morti. – considera atono.
Zlatan sbuffa, liberandosi con un repentino gesto del capo di una ciocca di capelli sporca di sangue e terra che gli è scivolata sugli occhi.
- Siamo in guerra. – dice, - La gente muore ogni giorno, con o senza il mio intervento.
José scuote il capo, espirando con rassegnazione.
- Speravo di poter parlare con te, ma vedo che è impossibile. – si china sulle ginocchia, incrociando il suo sguardo da pochi centimetri di distanza. – Un tempo non eri così, Zlatan. – dice a bassa voce, - Cosa ti è successo?
Zlatan freme. I muscoli delle sue spalle e delle sue braccia si tendono e José sa che, se non fosse ammanettato, gli salterebbe alla gola per ucciderlo.
- Secondo te cosa mi è successo, Zay? – ringhia, tanto arrabbiato da usare un soprannome che entrambi credevano di aver sepolto anni e anni fa, ben prima di ritrovarsi a combattere fianco a fianco e, poi, l’uno contro l’altro. – Cosa credi che mi sia successo? Quello che succede a tutti dopo anni di questa vita di merda. – la sua voce si fa più bassa, riducendosi ad un sussurro stentato. – Volevo provare a farla finita con questa guerra di merda. Ho pensato di vendermi l’informazione e poi fuggire con la borsa piena di quattrini.
José si rimette in piedi, guardandolo con disgusto.
- Uno con la tua esperienza avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe mai riuscito a fuggire. Qua intorno non c’è niente. Solo devastazione per chilometri e chilometri. Pensavi davvero di riuscire a farla franca?
Zlatan distoglie lo sguardo, chiude gli occhi e sorride.
- Zlatan. – lo chiama lui, quando capisce che non ha alcuna intenzione di rispondergli. Sospira, coprendosi il volto con le mani per qualche secondo. Quando torna a guardarlo, i suoi occhi sono pieni di lacrime. – Non ho scelta. – dice, - Sei già stato giudicato. E condannato.
Zlatan si ostina a non rispondere. Sorride con una serenità che gli stringe il cuore. È passato troppo tempo dall’ultima volta che l’ha visto sorridere così, troppo perfino per provare a ricordare a quando quel tempo risalga.
- Marco, Dejan! – chiama ad alta voce. I soldati entrano e lui guarda un punto a caso sul pavimento per non essere costretto a fissare Zlatan mentre pronuncia il proprio ordine. – Fucilatelo.
I soldati si avvicinano a Zlatan e lo tirano in piedi di peso. Un attimo prima di essere trascinato via, Zlatan sussurra una parola nella propria lingua. Nell’udirla, José spalanca gli occhi, incapace di credere alle proprie orecchie. Osserva i suoi uomini portare Zlatan nel piazzale retrostante l’accampamento. Lo bendano e poi si allontanano, imbracciando i fucili per eseguire la condanna.
Salutandolo, Zlatan gli ha detto grazie.
José non riesce a liberarsi del pensiero che forse questo era ciò che aveva sempre voluto fin dall’inizio.
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