Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Malinconico.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, (Raccolta di) Drabble, Slash.
- La squadra si ritrova in ritiro dopo le vacanze. Davide e Mario si ritrovano dopo non essersi più sentiti neanche una volta nell'ultimo mese. José e Zlatan smettono di ritrovarsi del tutto.
Note: Questa fic è stata scritta perché Gra è una criminale. Ha creato una tabella stupenda, chiamata Tempo e Orologi, ed era sfruttabile per il suo Double Drabble Challenge. Volevo scriverci su, ma al momento di scegliere i prompt mi sono accorta che a) mi piacevano tutti, b) l’idea che avevo era troppo enorme per essere sviluppata in due soli drabble. Pur se fossero stati tripli, pur se fossero state due flashfic, non ci sarei riuscita. Perciò, fine, ho preso tutti i prompt e ci ho scritto su trenta drabble XD E amen XD
A parte questo, quando ho finito questa storia, la reazione che ho avuto è stata di immediato rifiuto. Troppo lunga, ridondante, arrotolata su se stessa, forse perfino noiosa – e troppo angst, Gesù. E ancora Jobra, poi. *piange*
L’ho riletta dopo un paio di giorni e me ne sono innamorata follemente perché, pur continuando ad essere troppo lunga, ridondante, arrotolata su se stessa, forse perfino noiosa – e decisamente troppo angst – è completa. E rileggerla mi ha soddisfatta. Soprattutto perché per certi versi finisce bene. *aweggia da sola*
Ps. Titolo rubato ad un verso di No Line On The Horizon degli U2 ♥
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Time's Irrelevant, It's Not Linear


01. Pendola rotta.
C’è qualcosa di eccessivo ed esasperato nel modo in cui divori metri su metri fra strada, cortile, corridoi e scale, tanta è la fretta che hai di raggiungere la tua camera. Mentre muovi un passo dopo l’altro fra l’asfalto, la moquette e il marmo misto degli ambienti della Pinetina, ripensi a Palermo, a Mondello distesa fra mare e montagne come un’amante stanca, a quella villa enorme sempre piena di gente e sempre vuota di Davide e alla pendola vecchia di cento anni appesa al muro, all’ingresso, che scoccava il tempo immobile della tua permanenza in quel posto. Ricordi le sue lancette fermissime, ricordi le ragnatele ad imprigionarle, ricordi la cameriera che si scusa e ti dice “pulisco subito” e ricordi come l’hai fermata – stringendole forte un braccio e sussurrandole “la lasci com’è”. Ricordi di esserti fermato a guardarla tante volte da impararne a memoria le forme, tanto da poterle ricostruire nella mente quando ne stavi lontano. Ricordi di aver pensato spesso, fra il mare e le feste, “fra quanto torno a casa?”. E di aver visualizzato quell’orologio fermo ogni singola volta, ed esserti detto che mancava troppo tempo. E che le vacanze dovrebbero essere un periodo felice. E invece.
Entri in camera quasi sfondando la porta. Davide sta disfacendo la propria valigia, solleva gli occhi ed arrossisce. E siete tu, lui e il tempo che ricomincia a scorrere.

02. Allo scoccare della mezzanotte.
Mario è uscito subito, è stato come se tutto quello che volesse fare, entrando in camera, fosse vederti. Solo quello, per poi tornare ad essere il fantasma che è stato nel corso degli ultimi due mesi – perché vi siete detti tante cose, prima di partire (tu per l’Africa, lui per la Danimarca), “teniamoci in contatto, le mail, il cellulare, insomma, e poi magari ci si rivede prima delle vacanze”, ma non c’è stato niente del genere, perché lui non s’è fatto sentire e tu non hai trovato abbastanza coraggio per farti sentire a tua volta. E poi la mamma s’è fissata con la cosa del nonno – “Dade, lo sai che ogni anno potrebbe essere l’ultimo, vieni in vacanza con noi” – e Mario è scomparso per tutte le vacanze, e niente, neanche una parola. E questo ti ha fatto stare male, un po’, perché prima di partire parole non ce n’erano, ma non servivano. E quando sarebbero servite invece non ci sono state lo stesso, e quando te ne sei accorto ti sei sentito spezzare qualcosa dentro.
Mario torna in camera allo scoccare della mezzanotte, perché il mister è stato chiaro e per spiegare cosa intendeva per “tornare a casa in orario” ha raccontato una rivisitazione di Cenerentola con protagonista Zlaterentola, e hanno riso tutti – be’, tutti meno Zlatan – e quindi il messaggio è passato anche troppo chiaramente. Ecco perché Mario è puntuale. E siete tu, lui e il tempo che va in silenzio.

03. Perdere tempo.
Davide non sembra stare tanto bene, quando si sveglia, ma tu non hai il coraggio di indagare ed anzi ti guardi bene dal farlo, mentre lo osservi alzarsi e trascinarsi stancamente verso il bagno. La sveglia ha suonato meno di dieci minuti fa e tu comunque sei sveglio da ore, o forse non hai dormito affatto, non riesci a stabilirlo perché hai come l’impressione di essere svenuto, ogni tanto, durante la notte, altrimenti non si spiegherebbe perché le ore siano passate tanto in fretta, quasi senza farsi sentire, scandite dal respiro profondo e regolare di Davide e dai suoi movimenti lenti e pesanti durante il sonno.
Deglutisci con forza quando torna in camera, lo guardi, lui ti guarda, fa per dirti qualcosa ma poi rinuncia, ed è da quando vi siete rivisti ieri che non vi siete scambiati ancora una sola singola parola. E siete tu, lui e il tempo che state perdendo.

04. Fuori tempo.
Quando ti si avvicina e ti guarda con quell’aria un po’ così – che poi è la sua di sempre, quella che sembra voglia dirti che ad avvicinarsi, calcolarti e prendere atto della tua esistenza nel mondo, sia lui a farti un favore – tu scatti subito sulla difensiva. La verità è che ce l’hai con lui perché non ti parla – nemmeno in allenamento, Cristo, il mister era sconvolto da quanto avete fatto schifo e s’è messo a urlare ripetendo che in America perderete tutte le partite di fila – e ce l’hai con te stesso perché neanche tu riesci a parlargli. Non sai da dove cominciare e questo è stupido. Ti senti stupido tu e pensi stupido lui, e quindi sei incazzato, sì, e ora che sembra disposto a ritrovare l’uso della parola improvvisamente non vuoi starlo a sentire.
- Ciao… - ti dice, lasciandoti lì un po’ sospeso nel vuoto, a guardarlo come lo vedessi per la prima volta, - Com’è che stai?
Com’è che stai, hai voglia di battere ripetutamente la tua e la sua testa contro il muro, ecco come stai. Scrolli le spalle, Mario aspetta una risposta, la risposta non arriva.
- Mi è dispiaciuto non sentirci più… - continua quindi, - Volevo chiederti se ti andava di scendere giù con me per una settimana, ma… - e sospende la frase di nuovo, come fosse utile dire le cose solo a metà.
Scrolli le spalle di nuovo e non riesci a spiccicare una sillaba. Non capisci perché, ma non riesci nemmeno più a guardarlo. Lui ti chiama solo un’altra volta e poi va via. Quando ti viene in mente di richiamarlo, lui è già lontano. E d’altronde, quando era venuto in mente a lui d’invitarti a Palermo, eri già lontano tu. E siete tu, lui e il tempo che non riuscite a coordinare.

05. Ticchettio dell’orologio.
Hai un ricordo molto chiaro e recente degli aeroporti, e sono luoghi enormi, gremiti di persone e confusionari in maniera disturbante. Tutti parlano ridono si arrabbiano inseguono mocciosi piagnucolanti e si perdono dietro alle cernite delle valigie, che contano una due tre volte per essere certi di non dimenticarne nessuno, come fosse umanamente possibile dimenticare nel mezzo di una sala una specie di totem composto da un carrello e sei borsoni impilati l’uno sull’altro e legati dal filo elastico verde fosforescente. In questo momento, comunque, l’aeroporto ti sembra silenziosissimo, nonostante il viavai di gente da un lato all’altro della stanza, Andrea che conta i giocatori, Beppe che conta i neuroni di Andrea che vanno a farsi benedire e il mister che conta i suoi chili di pasta per assicurarsi che siano ancora e sempre duecentocinquanta.
L’unico suono che senti è il ticchettio regolare del tuo orologio. Davide non sta parlando. Davide è seduto sulla tua stessa fila di scomodi seggiolini, ma dal lato diametralmente opposto, e in mezzo a voi conti uno due tre quattro cinque vuoti a perdere. Uno due tre quattro cinque secondi che scivolano via col giro costante delle lancette. E siete tu, lui e il tempo che non riesce a muoversi.

06. Scandire il tempo.
- Uno, due, tre, quattro! – dice il mister, e continua fino a dieci mentre tutti vi riposate ed osservate Zlatan saltare una, due, tre, quattro volte fino a dieci. C’è stato un momento di tensione che non è veramente esploso, l’avete notato tutti lo stesso, però. Zlatan voleva smettere di allenarsi prima degli altri, il mister ha detto no, Zlatan ha insistito, il mister ha ripetuto no, Zlatan l’ha mandato a quel paese fra i denti, il mister ha cominciato a contare e Zlatan, con la naturalezza dell’abitudine, ha cominciato a saltare ostacoli. Uno, due, tre, quattro volte fino a dieci.
Mario guarda la scena con aria apparentemente impassibile, e tu gli senti scorrere addosso tutti i brividi d’inquietudine che non riesce ad esprimere a parole e, per un attimo, maledici lui per essere sempre così dentro di te da farsi sentire in ogni istante, e te stesso per essere così dannatamente suo da non essere capace di buttarlo fuori a calci come meriterebbe. Anche se non hai idea di cosa significhi tutto questo.
- Uno, due, tre, quattro! – ricomincia il mister. “Uno, due, tre, quattro”, ripeti tu nella tua testa, e sfiori un braccio di Mario così casualmente che lui quasi non se ne accorge. E siete tu, lui e il tempo di un’altra coppia che volge al termine.

07. Flashback.
«Non ci credo!» Davide ha i capelli lunghissimi, rispetto all’ultima volta che l’hai visto. Gli corri incontro e glieli scompigli, lui si arrabbia e ti manda a cagare, ma ride e ricambia l’abbraccio in cui l’avvolgi meno di due secondi dopo, proprio lì in mezzo al campo.
«Voi due in stanza insieme» stabilisce il mister passandovi accanto, «E se vi sento cazzeggiare fino a tardi vi piazzo nei due punti più distanti del residence, giuro sui miei figli.»
«Che padre severo devi essere» si intromette Zlatan, passandogli accanto e tirandogli una mezza spallata – cose che si permette di fare solo lui, nessun altro. Tu e Davide ridete mentre il mister si mette a lanciare a Zlatan improperi irripetibili in portoghese, e poi torni a guardarlo, il sorriso ancora aperto sulle labbra.
«Quindi ti sei fatto notare!» ti congratuli, cominciando a camminare verso il centro del campo. Davide annuisce docile.
«Spero di fare bene, il mister mi sta dando un sacco di fiducia.»
«Ti darò una mano io» lo rassicuri immediatamente, e quando lui ti sorride tu deglutisci a stento.
 
Ora lo guardi e hai difficoltà a dirgli che hai paura di averlo perso fra un silenzio e l’altro. E siete tu, lui e il tempo di un tempo che al tempo d’oggi non ritorna.

08. Lancette ferme.
Questo stupidissimo orologio non ha la lancetta dei secondi. Te ne accorgi solo dopo una quantità imprecisata di tempo che stai lì a guardarlo con aria afflitta. Eri partito con l’intenzione molto seria e motivata di stare lì a contare ogni singolo secondo da quando Mario è uscito al momento in cui ritornerà, ma senza lancetta dei secondi è impossibile, e d’altronde i minuti passano così lenti che la lancetta lunga sembra immobile nello stesso posto da ore. Insomma, non sai che fare, ti senti sempre più idiota e sei immerso nei casini fino al collo, perché Mario ha bisogno di parlare, perché tu hai bisogno di parlare, perché il mister è nervoso e quando è nervoso lui sono nervosi tutti e soprattutto perché stai cominciando a sentirti solo e a chiederti se non sarebbe stato meglio andarsene all’estero quando te l’hanno proposto, anni fa, piuttosto che ficcarsi in quel casino bicolore che è l’Inter e dalla quale sembra che non si riesca a venire fuori facilmente neanche se lo vuoi con tutte le tue forze – e il calvario di Zlatan, che poi è il calvario di tutti, ne è l’esempio più lampante.
Mario torna in camera ed ha gli occhi cupi e tristi. Non vuole parlare, non è serata, i segnali del suo corpo sai leggerli anche se lui non li traduce in lingua, perciò lasci perdere. E siete tu, lui e il tempo che delle vostre attese se ne frega.

09. Ora esatta.
Chissà perché, le notti americane le avevi immaginate diversamente. I locali, le donne – le donne? Sì, magari anche loro, per scacciare via l’ombra di due occhi che di femminile non hanno proprio niente – l’alcool, ballare fino alle cinque del mattino e via così, o comunque qualcosa del genere. Sì, naturalmente avevi messo in conto gli allenamenti sfiancanti, e d’altronde non è che pensassi di andar fuori ogni notte e tornare ogni volta all’alba, ma c’è differenza fra l’uscire un sacco e il non uscire affatto, e da quando sei lì in pratica non sei uscito affatto, anche perché il mister è isterico e si mette a ringhiare ogni volta che qualcuno fa tanto di disobbedire a un ordine anche solo pensato, figurarsi espresso chiaramente. E “Non fate cazzate”, per quanto possa sembrare vago, può essere un ordine incredibilmente restrittivo.
Una porta sbatte in corridoio, la voce di Zlatan inonda tutto il residence svegliando probabilmente chiunque, ma lo svedese se ne frega. “Non ne posso più di te,” urla, “vaffanculo!”, e poi i suoi passi svelti e pesanti si perdono, ovattati dalla moquette che riveste il pavimento del corridoio.
Deglutisci e fissi il soffitto.
- Che ore sono? – chiedi a mezza voce. Davide è sveglio, si volta su un fianco e ti dà le spalle.
- L’ora di dormire. – risponde. E siete tu, lui e il tempo che si prolunga silenzioso ancora per un’altra notte.

10. Ingranaggi malfunzionanti.
- Questo dannato coso – cominci, girando la vite dell’orologio da polso con rabbia crescente, - non funziona più, fanculo!
Lui ti sta guardando già da un po’, e continua a farlo anche adesso, mentre slacci la fibbia e te lo rigiri fra le mani, incerto sul da farsi.
- Ne comprerai un altro. – prova a suggerire, e tu sai che la sua voce non vorrebbe venire fuori così dannatamente supponente e fredda, ma è così che viene, come se non gliene fregasse un accidenti. E non è vero per niente che non gliene frega un accidenti, lo sa che-
- È un regalo di mio nonno. – ringhi offeso, e nei suoi occhi c’è scritto “appunto, Dade, lo so che è un regalo di tuo nonno, mi dispiace, non avrei dovuto suggerirti di disfartene”, ma non ti basta che ci sia scritto, tu vorresti che li esprimesse ad alta voce, questi pensieri, perché in un certo senso sai che ti sentiresti meglio, se solo lui allungasse un dannato braccio e ti stringesse contro di sé e ti consolasse perché il tuo dannato orologio cui tenevi dannatamente non funziona più. E invece niente.
- Magari lo portiamo-
- Vaffanculo. – tagli corto, alzandoti e allontanandoti subito dopo. E siete tu, lui e il tempo che palesemente non funziona più nemmeno lui.

11. Tempo che non passa mai.
Sarebbe più semplice, forse, venire fuori da tutto questo casino indecente, se solo l’aria intorno a voi fosse distesa e respirabile. Non lo è, in parte perché non si capisce ancora bene se Zlatan andrà o meno e in parte perché, che lui vada o meno, non è tanto una cosa davvero decisiva: voi non vorreste lasciarlo andare – nessuno in squadra vuole – e il mister è appena entrato nella fase di elaborazione del lutto che affonda nell’apatia e nel silenzio, e questo non mette nessuno nelle condizioni migliori per affrontare quest’addio. Vorresti dire al mister che è un po’ in anticipo sui tempi, che Zlatan è ancora qui e lui potrebbe anche fare a meno di farsi odiare in maniera così violenta per quest’atteggiamento da fidanzata tradita che sta adottando nei confronti di uno che decisamente non è il suo fidanzato e soprattutto, anche nel caso si trasferisse a Barcellona, non avrebbe comunque tradito nessuno. Ma eviti, perché hai già abbastanza casini senza aggiungerci il mister incazzato che ti urla in testa. E Davide continua a non parlare, e continua ad evitarti, e a volte tu vorresti prenderlo per le spalle, schiantarlo contro un muro e costringerlo a dire tutto – o non dire niente, non sai deciderlo, in questo momento – e invece non fai niente. Niente di niente. E siete tu, lui e il tempo che non passa mai.

12. Perdere il senso del tempo.
Mario ti è addosso senza preavviso, nel corridoio deserto alle quattro del mattino, ed è tutto molto più incasinato di quanto possa sembrare ad una prima occhiata. Hai sentito Zlatan urlare ancora, stavolta però urlava anche il mister, la porta che ha sbattuto sembrava quella di una stanza diversa dalla solita, e sei uscito a controllare, più che per spirito d’avventura, perché non riuscivi a tollerare oltre il silenzio pesantissimo che gravava su di voi, in camera vostra. Mario però deve averti seguito, e ora ti trovi pressato fra il suo corpo e la parete e non riesci a capire se sia un bene o un male – e comunque è bellissimo. Le sue dita scure e forti sono strette attorno ai tuoi polsi e t’inchiodano al muro senza lasciarti neanche una minima possibilità di scampo. Guardi i suoi occhi, i suoi lineamenti tesi, le sue labbra un po’ umide e dischiuse, in cerca del coraggio o della voglia per dirti qualcosa – o semplicemente in cerca di qualcosa da dire – e ti ci perdi. Ti ci perdi senza ritorno. E, fino a quando il mister non viene fuori dalla propria stanza e vi manda a dormire urlandovi in testa di tutto, siete tu, lui e il tempo solo vostro di un paio di labbra sfiorate quasi per sbaglio.

13. Macchina del tempo.
Se solo avessi una macchina del tempo, ti piacerebbe riportare la tua vita al momento in cui, dopo la prima amichevole disputata in Danimarca, hai preso il cellulare in mano e poi ti sei detto “va be’, lo chiamo più tardi”. È stupido e ridicolo, ma vorresti farlo lo stesso. Probabilmente, invece di seguire i ragazzi nella prima uscita serale del ritiro, avresti passato l’intera serata al telefono con Davide, a sentirlo lamentarsi di quanto si annoiasse in campagna coi suoi, i nonni e i due milioni di cugini piccoli che lo idolatrano che ha, e avresti riso, e no, non avresti legato coi ragazzi come invece hai fatto, d’accordo, ma almeno non avresti perso lui. Magari il miracolo si sarebbe ripetuto sera dopo sera e all’ultimo giorno gli avresti detto “Sai che quando torno in Italia vado a Palermo per un po’? Ho affittato una villa in un paesino di mare lì vicino, ti piacerebbe. Perché non mi raggiungi?”, e Davide avrebbe detto sì. E… probabilmente fra voi non sarebbe cambiato assolutamente niente, d’accordo, ma almeno la situazione non si sarebbe esasperata quanto invece è esasperata ora – come se ci fosse bisogno di ulteriore esasperazione in una squadra che ne ha già abbastanza da venderne agli altri a una miseria al chilo.
E invece no, non sei stato abbastanza attento né furbo né saggio, e ora la situazione è quella che è. E tu hai sulle labbra il sapore delle sue, di labbra. E siete tu, lui e il tempo che indietro non ritorna, mai.

14. Guardando al futuro.
- Sarei felice se tu riuscissi a non avercela con me- sarei felice se ci riusciste entrambi. – Zlatan scandisce bene le parole e, dal modo in cui le fa scivolare sulla lingua, mentre parla con Mario prima e si rivolge a entrambi poi, sembra quasi che voglia gustare le lettere una ad una, come fai sempre quando stai assaggiando qualcosa della quale sai che non ritroverai il sapore per molto tempo a venire. Cercando di imprimertelo sulla lingua e di riportarlo alla memoria ogni volta che puoi, per riprovare le stesse sensazioni che ti hanno investito in pieno la prima volta che l’hai assaggiato. Come fai tu col sapore di Mario.
 Lo ascolti, sì, ma non riesci davvero a star dietro al senso del suo discorso, perché Mario è come sempre al centro di quell’unico discorso che svolgi tu da solo col te stesso che c’è nella tua testa. Quello che sta cercando di capire cosa diavolo stia succedendo a te, a lui, a voi.
Zlatan andrà via fra pochi giorni – forse addirittura poche ore. Tu guardi Mario che lo fissa con aria persa, dalusa, addolorata, e ti chiedi perché faccia più male la sua espressione che non le parole di addio che ora Zlatan vi sta rivolgendo.
- Per sempre, - vi dice, - voi sarete sempre i benvenuti nella mia casa, ovunque sia. – e vi abbraccia con forza, entrambi. Tu e Mario non siete stati più così vicini da quella notte in corridoio. Non è questo che dovrebbe turbarti tanto, ma è questo che ti turba, e Zlatan è solo un profumo piacevole e conosciuto che vi avvolge e che presto smetterete di sentire. E resterete come sempre solo tu, lui e il tempo da qui in avanti.

15. Vivere nel passato.
Non ti curi di come ti trovi Davide quando entra in camera. Sei seduto sul letto, hai la testa fra le mani e stai piangendo come un bambino idiota. Non è la prima volta che ti succede – anzi, è almeno la seconda, di nuovo a causa di Zlatan, e speri che almeno a questo giro la notizia non faccia il giro del mondo. Anche perché c’è differenza fra il piangere per frustrazione, in seguito ad un rimprovero aspro ma giusto, e il piangere di tristezza e nostalgia in vista di un addio che non ti senti pronto a dare.
- Mario! – ti chiama Davide, allarmato, e per tutta risposta tu singhiozzi più forte e nascondi la testa fra le ginocchia, facendoti minuscolo come non credevi fosse più possibile da quando hai cominciato a metter su un po’ di muscoli. – Mario… - ripete lui, e il secondo dopo ti sta già abbracciando, e tu hai nello stesso momento un assaggio di ciò che eravate prima e un assaggio di quello che potreste essere adesso se tu non fossi stato così stupido da danneggiare con le tue stesse mani la cosa più bella che avevi. Perché eravate questo, tu e Davide, sempre appiccicati, sempre uniti, sempre vicini. E potreste ancora esserlo, se tu avessi usato il dannato telefono come mille volte ti eri ripromesso di fare.
E non capisci se ciò che vuoi sia tornare indietro o riavere adesso ciò che avevi allora, ma due mesi non li cancelli con un solo abbraccio, due mesi di silenzio non li riempi con un pianto soffocato sulla spalla di un altro, nemmeno se quella spalla è la spalla di Davide.
Nel silenzio della stanza, fra i tuoi singhiozzi, siete tu, lui e il tempo immobile di ieri, che però vive ancora solo dentro di te.

16. Indietro nel tempo.
Mario non si sta allenando – se è per questo nemmeno Zlatan. Tu stai cercando di fare il possibile – salti corri scatti, Julio dall’altra metà del campo ride e ti chiede “ma non ti stanchi mai?”, e tu ti mordi la lingua con forza per non rispondere che invece sei stanco, sfiancato, esausto, distrutto, ma che se ti fermi adesso hai l’impressione che non riuscirai più a muoverti. E siccome indietro non si torna, siccome non puoi riportare indietro il tempo, siccome non puoi farlo per te, siccome non puoi farlo per Mario, siccome sei obbligato a vivere adesso, che è un momento schifoso e fa male se solo ci pensi, allora ti muovi di continuo, come fossi posseduto, e non ti fermi un attimo. E la stanchezza è irrilevante.
Fai un altro giro di campo, Mario resta immobile seduto su una panchina, José resta immobile vicino all’entrata degli spogliatoi e Zlatan si allontana da lui per cominciare ad allenarsi. Mario lo adocchia e poi torna ad abbassare lo sguardo. Nella tua testa, restate tu, lui e i vostri tempi che non s’incontrano più.

17. Orologio da polso.
Lo noti all’improvviso, assolutamente per caso. Davide sta rifacendo il letto anche se non dovrebbe, perché tanto poi ci pensano le cameriere e questa è una cosa alla quale lui non riesce ad abituarsi, tant’è che ogni mattina rifà il letto anche in Pinetina. Comunque è là che maneggia le lenzuola, le tira, le stende, elimina le pieghe, le rassetta, prende un po’ a pugni il cuscino per gonfiarlo, e tu lo noti. La traccia dell’abbronzatura mancata sul suo polso – la traccia dell’orologio che s’è rotto, quello di suo nonno, quello che Davide ha conservato e non usa più. Ti allunghi a stringere quel polso sottile fra le dita, Davide si volta e ti guarda dall’alto. Sei seduto, lui è in piedi ma il tuo tirartelo contro lo costringe a piegarsi un po’. Eppure non lo stringi fra le braccia, anche se vorresti. Tutto ciò che fai è tenere quel polso fra le dita e guardarlo, seguire il cambio netto di colore da un centimetro di pelle all’altro e poi posarvi sopra le labbra.
Il brivido che scuote Davide quando lo sfiori, è lo stesso identico che scuote te. Siete ancora voi, tu, lui e il tempo che per un istante torna a farsi unico.

18. Sveglia inopportuna.
Ti prende quasi un mezzo infarto quando la sveglia di Mario suona. Ti rigiri con forza fra le lenzuola sperando che, svegliandosi, lui non si accorga del fatto che tu invece eri sveglio e lo guardavi da ore, cercando di trovare un senso a voi ed a quello che provi quando gli posi gli occhi addosso. Non è semplice, perché non sei sicuro che sia quello che pensi potrebbe essere. E ti senti stupido a non riuscire a parlare chiaramente nemmeno con te stesso, ma ci sono parole che sembrano troppo grandi anche se non hai il coraggio di pronunciarle ad alta voce.
Mario sospira profondamente e si alza in piedi. Tu cerchi di farti minuscolo e immobile, chiudi le palpebre con tanta forza che cominciano a farti male.
- Davide. – ti chiama lui. Ed è serissimo.
Siete tu, lui ed il tempo di muovere il culo e parlare.

19. Con il passare del tempo.
“E invece no”, è la prima cosa che pensi quando, nel momento stesso in cui apri bocca per dire tutto a Davide – tutto, poi. Non sai nemmeno tu cosa. Tutto e basta, probabilmente – Deki spalanca la porta e vi apostrofa entrambi con uno sbrigativo “ragazzini, di sotto. Il mister vuole parlarci”, e si prende una pausa, prima di aggiungere “di Ibra”.
Deki è sparito un secondo dopo, tu e Davide invece siete ancora lì, immobili come foste fatti di pietra. Ti volti a guardarlo e Davide ti ricambia l’occhiata col tuo stesso identico sconcerto. Ti osserva mentre ti inumidisci le labbra e deglutisci a fatica.
- Possiamo parlarne dopo? – scolli con evidente difficoltà, e il “sì” stentato di Davide non viene certo fuori meno meccanico o più rilassato.
Meno di due minuti dopo vi state già scapicollando giù per le scale verso la mensa. Tu, lui e il poco tempo che resta prima della fine di un sogno.

20. Orologio dal vetro rotto.
Pochissime parole, un discorso sobrio, la mensa è assolutamente silenziosa, eccezion fatta per la voce del mister che, col solito tono lento e strascicato, quasi monocorde, spiega brevemente i fatti e le loro conseguenze. Ibra va in cerca di nuove esperienze, Ibra è convinto che il Barça sia la soluzione migliore per lui, Ibra vuol bene a tutti e a Milano sta bene – con loro sta bene – non è per i dissapori che se ne va, dissapori non ce ne sono – “Mister, ma litigavate spesso” vorresti dire, solo che sai che i dissapori ci sono stati perché Ibra voleva andare, non per altro, ne sono stati una conseguenza, non la causa – insomma, Ibra parte, salutatelo tutti, dopo pranzo va via.
C’è una lunga processione di abbracci, subito dopo. Ibra si scusa, Ibra sorride un sacco ma i suoi non sono sorrisi fastidiosi, si vede che è un po’ triste, però si vede anche che è molto più che felice di andare, perciò tu proprio non ci riesci a restare a guardare, e sali in camera. Apri il cassetto del comodino e tiri fuori l’orologio del nonno, non sai perché lo fai, forse vuoi solo vedere se per caso ha ripreso a funzionare, così, da solo, senza aiuto – hai bisogno di sapere che è possibile, che a volte le cose si aggiustano senza doverle per forza rimetterle in sesto, per una specie di miracolo. Ne hai davvero bisogno, ma ovviamente non c’è nessun miracolo di cui gioire, l’orologio è ancora rotto e le lancette ancora immobili.
Qualcuno apre la porta e tu ti spaventi – credevi fossero tutti giù e forse stavi un po’ per concederti un pianto – l’orologio ti cade di mano, provi a prenderlo ma l’unica cosa che ti riesce di fare è dargli un colpo più forte che lo manda a schiantarsi col quadrante contro lo spigolo del comodino. È in frantumi due secondi dopo, e tu lì accanto che piangi come un bambino deficiente mentre Mario ti si china addosso e ti stringe e ti culla e ti sussurra cose che non capisci, ma non importa, non davvero. Siete tu, lui e il tempo che intendi ritrovare, costi quel che costi.

21. Se fossi un orologiaio.
- Se fossi un orologiaio, te lo sistemerei io. – non lo sai perché stai qui a sussurrargli tutte queste cose, tu eri salito per dirgli che Zlatan non se la sentiva di partire senza salutarlo un’ultima volta, e invece l’hai trovato lì con quei lacrimoni nascenti negli occhi e l’orologio in mano e ti si è stretto il cuore in una morsa devastante. – Te lo rimetterei subito in moto, ma non sono capace. – continui a sussurrare cullandolo avanti e indietro, - Non so se da me ti aspetti delle soluzioni, Dade, io non ne ho. – e lo baci lievissimo su una guancia, assaggiando in punta di lingua il sale delle sue lacrime, - Mi dispiace farti stare così, mi dispiace essere un coglione e mi dispiace avere rovinato tutto. Eravamo una bella squadra, io e te, prima, mi dispiace che ora sia tutto diverso, mi di- - e non riesci a concludere la frase, perché Davide solleva il viso e cerca le tue labbra, e dopo un’incertezza minuscola, dettata dalla vista appannata dal pianto, le trova anche. Le sfiora con le proprie in uno strofinio appena accennato, e poi le schiude. E siete tu, lui e il nuovo sapore del tempo sulla lingua.

22. Ingannare il tempo.
Sai di essere in condizioni pietose – senti la pelle delle guance tirare attorno alla traccia delle lacrime ormai secche sul tuo viso – e sai che quando tutto questo dramma sarà passato, quando anche gli altri staranno meglio e non saranno costretti a distogliere lo sguardo per evitare di stare troppo male di fronte alla schiena di Zlatan che si allontana verso l’uscita, in molti ti prenderanno in giro per questa sceneggiata da ragazzina, per il modo in cui ti aggrappi al collo di uno svedese che vorresti riuscire a chiamare traditore e che invece non riesci a vedere come niente di diverso da un amico che va via. Semplicemente.
Mario sta in disparte, lui Zlatan l’ha già salutato, e inganna il tempo giocando distrattamente coi lacci della tuta che pendono sul davanti, sciolti e un po’ rovinati in punta, perché lui ce l’ha per vizio questo giochicchiare continuo con tutto ciò che lo circonda, finisce sempre per sgualcire tutto – e tu lo sai bene, perché a forza di giocare Mario ha sgualcito anche te.
- Stammi bene, bambino. – ti  sussurra Zlatan, lasciandoti andare, un po’ commosso, - E prenditi cura di quel teppista, ne ha bisogno. – conclude, accennando a Mario con un breve movimento del capo. Tu sorridi ed annuisci, poi guardi Mario. E siete tu, lui e il tempo che forse non è vero che una volta perso è perso per sempre.

23. Lotta contro il tempo.
Te ne ricordi a metà delle scale.
- Cazzo! – sbotti, e sali al piano di sopra di volata, Davide che ti viene dietro cercando di mantenere il tuo passo e ti chiede di fermarti, perché che cazzo potrai avere di così importante da fare ora e subito che non possa aspettare che lui si sia un attimo ripreso e possa correrti alle spalle senza per forza dovere inciampare ovunque perché ha ancora gli occhi pieni di lacrime e non riesce a vedere tutto perfettamente?!
Comunque tu non lo ascolti, o se lo ascolti prendi appena nota dell’esistenza delle sue rimostranze, entri in camera e ne esci con un pacchetto, perché hai comprato a Zlatan un regalo – una cosa idiota, un cappellino in caso dovesse sentire freddo, è una cosa così stupida che ti senti deficiente tu stesso, adesso che lo tieni in mano – e ci tenevi a darglielo prima che partisse, naturalmente.
Quando esci dalla stanza col pacco stretto al petto, quasi investi Davide che, nel voltarsi per ricominciare a correrti dietro, ti manda anche a fanculo di cuore, e hai perfino il tempo di sorridere perché per un attimo ti sembra tutto esattamente com’era due mesi fa, ma è un sorriso che si spegne subito in una smorfia scioccata quando arrivi alla hall e ti fermi un attimo prima di essere scoperto e interrompere quello che sembra l’ultimo saluto del mister e di Zlatan.
Stanno l’uno di fronte all’altro e tu li guardi fissi col respiro di Davide che ti accarezza il collo.
- Mi mancherai. – dice il mister, la voce soffice, uno strascico di tristezza lungo come il velo di una sposa.
- …anche tu. – risponde Zlatan. Ed allunga una mano a stringergli un fianco. E mentre il mister fa lo stesso tu li osservi baciarsi e ti volti immediatamente, il regalo ancora premuto contro il petto e Davide che ti guarda con gli occhi ancora umidi spalancati. Tu, lui e il tempo di altre due persone che torna solo tempo e si perde nel passato.

24. I segni del tempo.
- La tua pelle s’è fatta più chiara. – Mario te lo sussurra appena vi chiudete la porta alle spalle. Ha ancora quello strano pacchetto fra le mani, cerca un posto dove lasciarlo e poi lo lancia di peso sul letto, scrollando le spalle come a stabilire che se ne occuperà più tardi. Tu, comunque, non hai capito cosa intende.
- Mh? – chiedi quindi, cercando i suoi occhi. Lui la tua occhiata la ricambia subitissimo, non ti obbliga ad aspettare neanche un secondo.
- Quando siamo tornati dalle vacanze, eri abbronzatissimo. Quello – spiega, indicando il tuo polso in un gesto distratto, - si vedeva un sacco. Adesso non si nota quasi più.
Sollevi il polso all’altezza del petto, noti la striscia di pelle più chiara dove un tempo portavi l’orologio del nonno e ti inumidisci le labbra.
- È passato già così tanto. – sospiri un po’ affranto, perché a fare il conto dei giorni perduti ti senti quasi girare la testa.
Mario ti è vicino il secondo dopo. Mario ti sta baciando che non è nemmeno  passato un minuto. E siete tu, lui e il tempo dei vostri gesti che detta un nuovo ritmo al vostro respiro.

25. Cassa di un orologio.
Mentre lo baci con la lentezza esasperante di tutte le prime volte più spaventose della tua vita – la prima volta che hai fatto il bagno al mare e avevi paura di annegare, la prima volta che hai visto i tuoi veri genitori e hai avuto paura di non poter resistere alle lacrime, e così via – capisci una cosa molto semplice, di te e di Davide, e probabilmente anche di tutto il resto del mondo: la vita e la scansione del tempo coincidono. Ogni vita è la cassa di un orologio, e se stai zitto, se non ti muovi, l’unica cosa che senti è il costante ticchettio delle lancette che annunciano il trascorrere del tempo nella tua immobilità. La dinamica annulla il trascorrere del tempo non perché quello smetta effettivamente di passare, ma perché tu smetti effettivamente di sentirlo.
Davide mugola fra le tue labbra, tu ti allontani e lo lasci libero di respirare. Lo guardi – gli occhi chiusi, le gote arrossate, anche se non capisci più se dalle lacrime di prima o dall’imbarazzo di adesso – e sorridi. Siete tu, lui e l’idea assurda del dover trovare il tempo di respirare fra un bacio e l’altro.

26. Spezzare le lancette.
Se servisse a concedervi un per sempre prolungato all’infinito in questo preciso momento, spezzeresti a mani nude tutte le lancette di tutti gli orologi di tutto il mondo intero. Ci sono cose di cui si comprende il valore col tempo, ci sono cose di cui si comprende il valore solo quando le perdi, ce ne sono altre di cui comprendi il valore solo quando finalmente le ottieni, e per te e Mario queste possibilità si sono verificate tutte assieme. Hai capito che era importante man mano che andavi conoscendolo, hai capito quanto era importante quando l’hai perduto ed hai capito come era importante quando finalmente l’hai ritrovato. Sulle labbra, sulle guance, sul collo e in qualsiasi altro posto.
Mario scende a baciarti l’osso sporgente e appuntito del fianco, tu lo guardi con imbarazzo ma non vuoi fermarlo. Tu, lui e il tempo di crescere.

27. Senza tempo.
Non sai quanto tempo passi dal momento in cui smetti di baciare ogni singolo centimetro del suo corpo e ti sistemi fra le sue gambe, esitando appena. Davide solleva le braccia e pianta le mani sulle tue spalle, stringe così forte che non potresti ignorare il suo terrore neanche volendo. Cerchi di rassicurarlo accarezzandogli lento i fianchi, la vita, le cosce, ti prendi il tuo tempo, te lo prendi tutto, non c’è fretta. Non lo vuoi solo perché lo vuoi, lo vuoi perché volerlo ha un significato ben preciso che va oltre il semplice desiderio fisico. Ci hai messo un po’ a capirlo, e sorridi nel realizzarlo mentre ti avvicini ancora e lui ti fa posto, mordendosi il labbro inferiore in previsione di un dolore che ancora non prova ma di certo presto proverà. Tu, lui e la calma placida del tempo che vi aspetta.

28. Orologio da taschino.
“Le cose care al cuore,” dice sempre il nonno, ed è assurdo che tu ci stia pensando in questo momento, ma tant’è, “vanno tenute strette al cuore. Ecco perché il mio orologio non lo porto mai al polso, ma sempre qui dentro”, e indica il taschino del gilet. “Ma nonno, quello è un orologio da polso, non da taschino”, rispondi sempre tu, e lui, ogni singola volta, scrolla le spalle e risponde che non importa, che il punto non è cosa qualcosa sia ma cosa quel qualcosa rappresenti per te. Lo capisci solo adesso, quello che intendeva il nonno. E stringi Mario forte al petto mentre lui entra pianissimo dentro di te, lento come una tortura, e senti il bisogno di ringraziare qualcuno, ma non c’è nessuno a parte lui, perciò quel ringraziamento glielo lasci scivolare fra le labbra quando vi baciate per quella che sembra la centesima volta. Lui non ti chiede perché lo stai ringraziando, e la verità è che tu stai ringraziando tutto il mondo per averti permesso di riaverlo indietro, quindi è più giusto che Mario non risponda. È più giusto che Mario non dica niente. È più giusto che torni semplicemente a baciarti e basta. È più giusto che siate semplicemente tu, lui e il tempo che conta, e comincia a contare proprio quando smetti di contarlo.

29. Tempo scaduto.
- Tempo! – urla il mister da bordocampo, e tu finalmente ti fermi, ansimando e piegandoti in avanti, le mani poggiate sulle ginocchia nel tentativo di riprendere fiato.
- Schiavista. – borbotta Matrix passandoti accanto e sfilando la maglietta con urgenza, l’umidità che vi si appiccica addosso e si fa insopportabile.
- Caldo? – chiede Davide fermandosi accanto a te e spintonandoti appena con un fianco. Ridi, rimettendoti in piedi e tirandotelo contro mentre tutto intorno a voi si solleva il solito coro di “oh, no, non di nuovo” e il mister si mette a berciare che questa è una squadra di calcio, non il distaccamento milanese dell’Arci Gay in trasferta a Pechino, “perciò ricomponetevi, ragazzini, che non ce l’avete il posto in squadra solo perché siete carini e teneri, d’accordo?!” e scompare negli spogliatoi tirando bloc notes ovunque, fra le risate di mezza squadra.
- Quanta cattiveria. – vi rimprovera Deki, ma ride anche lui, - Lo sapete che è ancora nervoso per Ibra. – e sì, voi lo sapete, lo sapete anche meglio di quanto non lo sappiano tutti gli altri. E vi dispiace, per certi versi. E per altri sapete che è così e basta e non c’è niente da fare. Siete voi, tu, lui e il vostro tempo appena cominciato.

30. C’è stato un tempo in cui.
C’è stato un tempo in cui non hai chiesto niente. Ce n’è stato un altro in cui hai chiesto e non hai avuto. E poi è seguito il tempo in cui hai smesso di chiedere, perché – visto che comunque non arrivava nulla – perfino parlare ti sembrava uno spreco. Poi è arrivato il tempo in cui Mario ti ha dato tutto e tu non hai avuto neanche bisogno di dirgli come. Senza parole, senza perché, senza fretta e senza paura, siete arrivati al compromesso perfetto – e ora lo sai, che l’amore è fatto di questo. Non c’entrano i bronci, non c’entrano le pretese, per certi versi è un gioco di domanda e offerta: ci sono cose che puoi dare e cose che non puoi dare. Quando il numero delle cose che non puoi dare supera quello delle cose che sei disposto a concedere, forse è il caso di andare via. Probabilmente è questo, quello che è successo fra Zlatan e il mister.
Ma tu non lo sai e al momento non è nemmeno importante: a te e Mario non è successo e ci sono momenti in cui l’amore per forza di cose deve essere egoista. Al mister passerà. Tu speri che a te non passi mai. Per Mario è lo stesso. Tu, lui, il tempo passato, il tempo presente, il tempo futuro e il tempo stesso.
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