Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio."
Note: Aaaah. Sì. Insomma. XD. In realtà il titolo di questo spin-off è quello che è solo perché all’inizio era stata strutturata in modo completamente diverso. Ruotava tutta attorno al tappeto, era molto più breve, non comprendeva neanche metà degli sviluppi che alla fine mi sono ritrovata per le mani (guidata da indubbio amore per il pairing, suppongo) ed era stata pensata solo per mostrare al mondo il signor dottore che è evidentemente un’emanazione del bene in EKR. Poi però s’è evoluta, non so esattamente per quale motivo, avevo voglia di scrivere e son venute fuori sedici pagine in tre giorni, tipo. Tant’è che è pronta da due ma non potevo certo pubblicarla immediatamente XD
L’intermezzo Bikuza ci è stato gentilmente offerto da Tab che continuava a chiedersi, in tutto questo, che fine avesse fatto il Bill. Ovviamente io non l’avevo plottato (ehm) perciò ho immaginato un possibile scambio tra i due e poi ho detto a Tab “okay, adesso scrivilo”, e lei l’ha scritto in tipo due ore, confermando l’ipotesi secondo la quale a lei il Bikuza tira tantissimo.
Per quanto mi riguarda e per concludere, spero solo questa shot vi sia piaciuta <3 E che possiate perdonare il Chaku per quel suo madornale errore. Fler ci sta provando *annuisce*
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WEIRD CARPET THOUGHTS ON A WEIRDER NIGHT

Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio. Sono quindici, venti minuti, una cosa del genere. Non è mai facile quantificare il tempo che passa quando è scandito dalle lacrime. Ricordo che quando morì mio nonno fu più o meno la stessa cosa, con mia madre. Non capii che erano passate quattro ore, da quando eravamo entrati nella camera ardente, fino a quando non uscimmo fuori e vidi che era già sera. Avevo dodici anni e la cosa mi turbò parecchio.
Insomma, potrebbero essere passate ore. Tutto ciò che so è che la mano di Fler è congelata anche se la sto stringendo da tutto questo tempo. E che i suoi singhiozzi invece sono caldissimi, anche se non dovrei sentirmeli addosso.
Lo chiamo a bassa voce, non credo neanche che mi senta. Stringo un po’ la presa attorno alle sue dita ed è lì che lui mi risponde.
- Sì. – dice, - Ora provo ad alzarmi. – ci riflette qualche secondo ed io lo guardo per tutto il tempo, ha gli occhi umidissimi, - Me la dai una mano? – chiede dopo un po’, - Non ce la faccio a mettermi seduto. Devo tirarmi subito in piedi.
Le cose che questo discorso implica sono troppe perché io possa pensarci con razionalità, perciò lascio perdere ad annuisco senza esitazione, mettendomi in ginocchio e passandomi un suo braccio sopra le spalle. L’ultima volta che siamo stati in questa posizione, lo stavo trascinando su per le scale ed era ubriaco perso. Lo stavo rimproverando ed avevo un motivo per farlo. Sembrano secoli fa. Ora dovrebbe rimproverarmi lui, ne avrebbe tutti i motivi, ma non mi dice niente.
Ci muoviamo lentamente e lui trattiene un gemito di dolore ad ogni passo. È palese che si lascerebbe volentieri ricadere sul pavimento senza protestare, se lo lasciassi. Non intendo lasciarlo e questo non riesce a lenire nemmeno in parte i miei sensi di colpa.
- Ti senti un po’ meglio? – chiedo titubante mentre raggiungiamo a stento la mia macchina, appena sotto casa.
- No. – sibila lui nel gelo della notte. – Piantala di chiedermelo.
Ed io la pianto.
Il viaggio in macchina verso l’ospedale – luogo ormai più che familiare per entrambi – e silenzioso e teso. Non riesco a fare a meno di sbirciare il suo profilo dritto e serio per tutto il tragitto. So che dovrei stare più attento alla strada che non ai mutamenti della sua espressione, ma non mi riesce. S’è seduto come un bambino capriccioso, una gamba sotto il sedere e l’altra penzolante in avanti. La gamba sotto il sedere lo tiene decisamente sollevato dalla superficie del sedile. Cerco di non pensare al perché abbia scelto proprio questa posizione qui.
Arriviamo in ospedale che è già praticamente notte fonda. Saranno le tre e mezza, probabilmente quasi le quattro del mattino. C’è giusto qualche infermiere scazzato in giro, nessuno che mi sembri di conoscere se non di sfuggita, il che è bene.
Naturalmente, all’accettazione troviamo Katrina.
Lancio un’occhiata allarmata a Fler – che zoppica ancora al mio fianco, anche se ora non sembra più avere bisogno di aiuto per camminare – e lo vedo irrigidirsi come congelato all’istante. Mi viene voglia di stringergli di nuovo la mano. Grazie a Dio mi fermo in tempo.
Katrina si mette letteralmente a saltellare non appena gli posa gli occhi addosso. Sarebbe comico, se la situazione non fosse quella che è. Fler sospira e rotea gli occhi. Ci avviciniamo lentamente al bancone e lei guarda subito me.
- Qualcosa che non va coi punti? – chiede con un sorriso affascinante, tornando subito a guardare Fler.
- No. – risponde lui al mio posto, - Qualcosa che non va col mio culo.
Cala un velo di ghiaccio su tutta la sala d’attesa, lo sento. È una sensazione veramente fisica. Katrina lo fissa, sconvolta.
- Col tuo…?
- Il Chaku, qui, mi ha scopato con un tantino di violenza in più rispetto al necessario. – sibila velenoso, ed io vorrei morire qui ed ora. Qui ed ora, giuro. – Lo dici al medico di turno che mi sa che ho qualcosa da ricucire?
Katrina abbassa lo sguardo, le guance rossissime, e sparisce subito in corsia. Io guardo Fler, allucinato.
- Fler…? – lo chiamo a bassa voce, e lui mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- L’ho detto nel modo migliore possibile, credimi. – sbotta acido. – Senza indugiare sui particolari schifosi.
Non protesto perché so che è vero, c’è un particolare schifoso che avrebbe potuto menzionare. E non l’ha fatto.
Dal modo in cui il dottore ci accoglie in sala visite, capisco che Katrina è stata un’infermiera diligente e gli ha riferito per esteso la versione dei fatti fornita da Fler. Ci guarda bonario e, prima ancora di chiedere a Fler come sta, stringe ad entrambi la mano e ci fa accomodare.
- Non lei. – dice con un mezzo sorriso a Fler, - Lei si distenda pure sul lettino. A pancia sotto.
- …io devo restare? – chiedo indicandomi, e sono convinto di avere sulla faccia un’espressione da perfetto idiota, al momento.
- Oh, sì, tanto non c’è niente che verrà esposto stasera che lei non abbia già visto, a quanto pare, signor Pangerl.
Vorrei rispondere che invece sì, c’è qualcosa che non ho mai visto, e cioè la dignità di Fler che si perde come niente. Mi ricordo poi che ho visto la dignità di Fler perdersi ogni sera in troppe bottiglie di birra, ma non è la stessa cosa. Ora Fler è lucido.
- Oltretutto, se lei sta qui ci sbrigheremo molto più in fretta. Potrò medicarlo e parlarvi contemporaneamente ed avremo risolto molto prima. – il tono è pratico e professionale e mi rendo conto che probabilmente non mi sta obbligando a restare per cattiveria, ma la situazione nel complesso è veramente troppo grave per rassegnarmi al pensiero. Ciononostante, mi seggo su una poltroncina. Abbasso lo sguardo, però, appena gli occhi celesti di Fler me lo chiedono.
- Si spogli. – sento dire al dottore con tono asciutto.
- Tutto? – chiede Fler curiosamente.
- Solo i pantaloni andranno bene. – ride l’altro. È chiaro che il dottore l’abbia presa come una barzelletta. Se io veramente… se io veramente avessi solo esagerato durante una scopata normale, probabilmente la prenderemmo a ridere anche io e Fler. Probabilmente.
I bottoni vengono sganciati uno dopo l’altro ed i jeans di Fler cadono a terra assieme ai boxer. Entrambi gli indumenti sono macchiati di sangue. Mi volto.
- Prego, si distenda. – invita il dottore. Sento il fruscio del lenzuolo di carta sul lettino e non passano nemmeno trenta secondi prima che l’aria della stanza diventi satura dei sospiri e dei lamenti di Fler. Cerca di trattenerli invano. Non ho voglia di guardare cosa il dottore gli stia facendo, per la verità i movimenti del dottore non li sento neanche. Però sento ogni singola sfumatura dei gemiti di Fler e sento il rumore che fa la carta del lenzuolo quando lui la stropiccia sotto il pugno, chiudendolo, e sento anche i sospiri di sollievo che lancia quando il dottore smette per qualche secondo di toccarlo. E poi ricomincia da capo a rantolare.
- Con coppie formate da ragazzi giovani come voi, - comincia il dottore dopo un po’, coprendo la voce di Fler, - è normale ogni tanto fare errori come questo. Scommetto che era la prima volta, vero? – si interrompe appena e poi continua, - La prima volta dopo un bel po’, almeno. – precisa poi, ed io non ho nemmeno il tempo di chiedermi cosa intenda nello specifico, perché devo prima realizzare coscientemente che ci sta facendo una paternale. La cosa è assurda.
- Dottore, senta, - comincio, senza sollevare lo sguardo, ma lui mi ferma con un sospiro.
- Dicevo, - riprende serafico, - siete molto giovani e suppongo sia trascurabile se per una volta vi siete lasciati un po’ prendere la mano. Ma dovete assolutamente capire che il sesso anale presenta dei problemi non indifferenti. La lubrificazione non è automatica ed il preservativo non è solo una protezione contro le malattie veneree, ma soprattutto una protezione contro l’attrito inevitabile che lo sfregamento produce.
Sollevo lo sguardo. La visuale di Fler disteso ed esposto che colgo è abbastanza per costringermi a riabbassarlo.
- Dottore, guardi che-
- Non ho finito. – borbotta lui, - Mi lasci dire. Non la sto rimproverando, solo informando.
Fler ricomincia a gemere ed io mi concentro sul suono della sua voce. Non mi sono mai fermato a riflettere su quanto i gemiti di dolore siano simili ai gemiti di piacere durante il sesso. In effetti la cosa non mi stupisce quanto dovrebbe.
- Dovrò visitare anche lei, signor Pangerl. – dice il dottore subito dopo. Dovrei stupirmi del fatto conosca il mio nome? No, mi rispondo, gliel’avrà detto Katrina.
- Io sto benissimo. – rispondo cupamente, - Si concentri su Patrick.
Fler lancia un grugnito random del quale non capisco il significato. Suppongo sia una protesta ma ne ignoro il destinatario. La tengo per me, comunque: è giusto che sia arrabbiato.
- Ecco fatto! – continua il dottore dopo qualche minuto di silenzio, - Era meno grave del previsto.
- Ha perso molto sangue! – torno a sollevare il capo io. Fler è su un fianco, ha le lacrime agli occhi, è ancora seminudo e sta cercando di ricomporsi. Mi alzo e gli sono vicino in tre passi. Il modo in cui mi chino su di lui è equivoco pure nella mia testa, non oso immaginare quanto possa esserlo in quella del dottore che ci guarda con aria paterna e sorride. – È sicuro che non abbia bisogno di niente?
- Ha bisogno di stare a riposo e di qualche coccola fuori dalle lenzuola. – risponde in tono compiacente. Io e Fler ci guardiamo mentre lui rimette a posto boxer e pantaloni, e ci scorre un brivido identico lungo la schiena. Però non saprei dire cosa significa. – Oh, be’… - riflette poi, - magari anche dentro le lenzuola, se proprio dev’essere, ma starei lontano dal punto critico, se fossi in voi, almeno per i prossimi due, tre giorni.
Fler abbassa gli occhi e lo sento distintamente ridacchiare. Non è come la risata amara di quando piangeva. È un bel suono. Tiro il primo respiro a pieni polmoni della serata.
- Per quanto riguarda le precauzioni… - riprende il dottore poco dopo, mentre noi ci avviamo stancamente verso la porta, - vorrei darvi quest’opuscolo che potrebbe esservi utile. – si china sulla scrivania, apre un cassetto e ne tira fuori un libriccino colorato di una ventina di pagine, che sfoglia vagamente mentre si muove verso di noi.
Adesso ho voglia di tirargli un cazzotto, così, giusto per togliermi lo sfizio, ma Fler ride ancora, un po’ più convinto di prima, e lo ferma con un cenno della mano.
- Staremo più attenti, la prossima volta. – dice ironico, - Lo sappiamo, come si scopa. È che Peter era un po’ arrabbiato, stasera, tutto qua. – spiega. Io deglutisco. Non so. Cosa si fa in queste situazioni? La si abbraccia, una persona così?
Usciamo nel freddo di Berlino che devono essere le cinque passate e già albeggia. La temperatura è così bassa che perfino Fler ha difficoltà a reggerla. Anche se forse la sua difficoltà ha radici molto più profonde dell’inverno teutonico.
Raggiungiamo la macchina e m’infilo all’interno in due secondi netti. Fler perde un po’ più di tempo, resta a fissare il sedile con aria critica, prova quasi a sedersi come una persona normale ma poi ci rinuncia e si rimette nella stessa posizione da bambino scazzato che ha usato all’andata, ed io abbasso subito lo sguardo.
- Dove… - comincio a bassa voce, ma mi sento molto in imbarazzo e non riesco a concludere.
- A casa mia. – risponde lui, indovinando i miei pensieri, - Non è molto distante da qui. Saranno un quattro, cinque chilometri. Vai dritto di là. – ed indica la strada da prendere con la mano tesa, che trema un po’.
Potrebbe essere solo per il freddo. Potrebbe.
Distolgo lo sguardo – di nuovo – e seguo le indicazioni fino al suo appartamento, che è una bettola – il palazzo cade letteralmente a pezzi – e sta in una stradina laterale in cui penso non mi muoverei mai di mia spontanea iniziativa ma solo se costretto… e comunque molto armato.
- …è qui che tengono il cantante di punta dell’Aggro Berlin? – dico, fra lo stupito e l’ironico.
Fler grugnisce qualcosa di decisamente poco carino. Io penso che avrei fatto meglio a stare zitto.
Scivola fuori dalla macchina in un movimento troppo fluido per non sembrare sollevato. Mi fa male che sia così, soprattutto contando che durante il corso dell’ultimo mese era difficilissimo schiodarlo dalla poltrona, figurarsi mandarlo via dal mio appartamento. Non so, me ne rendo conto adesso che si allontana, che potrei non vederlo più e che mi mancherebbe. Cerco di evitare di pensare che queste sensazioni potrebbero essere solo un effetto collaterale dell’assenza di Bill. Facciamo che mi mancherebbe Fler. Facciamo così.
Allungo una mano quasi senza accorgermene, lo tiro per un polso e lui ne è preso così alla sprovvista che cade indietro sul sedile. Lo vedo irrigidirsi e tendersi e rabbrividire e soffocare un lamento, ma gli riesce malissimo.
- Oddio… - mi agito, sporgendomi verso di lui per controllare sia tutto a posto, - Scusami!
- Cristo, Chakuza! – si lamenta lui, spostandosi sul sedile in modo da trovare una posizione meno dolorosa, - ‘Cazzo t’è preso?
Resto in silenzio perché non ho idea di cosa dirgli.
- Mi lasci andare? – chiede Fler dopo qualche secondo, guardandomi con un misto di ansia e curiosità. Noto solo ora che lo sto ancora tenendo stretto per il polso.
- Sì… - annuisco lasciandolo libero, - Solo… buonanotte, okay?
Fler scrolla le spalle, rimettendosi in piedi.
- Quello che ne resta, almeno. – mugugna, indicando il sole ormai quasi alto nel cielo con un cenno del capo. – Fatti una dormita, Chakuza. Ne hai bisogno. – suggerisce poi. Mi muovo solo quando lo vedo sparire su per la tromba delle scale attraverso il vetro spaccato in più punti del suo portone.
*
Me lo vedo apparire di fronte la sera dopo alle nove precise e non ci voglio credere. Lo fisso per un tempo lunghissimo, mesi, anni, intere epoche, eppure la realtà non cambia. È qui davanti a me, mani ficcate a fondo nelle tasche dei jeans ed un sopracciglio inarcato con aria spavalda, come a voler rimarcare il fatto che io non me l’aspettassi ma lui, eh!, lui è proprio qui, altroché.
- Patrick…? – chiamo a bassa voce, del tutto sconvolto, continuando a fissarlo con l’aria, lo so, di un pesce lesso.
Lui fa una smorfia.
- Non devi mica fingere che siamo fidanzati, Chakuza, - sbotta acido, calcando con forza sul mio pseudonimo ed incrociando le braccia sul petto, - siamo soli, il dottore non c’è e non intendo averne bisogno in tempi brevi. Perciò chiamami col mio nome. Fler, dico.
Annuisco lentamente, come un automa.
- Be’? – continua Fler, sbuffando sonoramente, - Non mi fai entrare?
Mi scosto dall’uscio senza dire una parola. Fler mi sta guardando come fossi un cretino epocale e non mi sento di dargli torto. Sposta gli occhi da me – ringrazio parecchi santi, quando accade – soltanto per lanciare occhiate disapprovanti in giro. Stanotte – o meglio: nella fascia oraria fra le cinque e mezza e le sette del mattino – ho devastato un po’ casa. Solo un po’, ero incazzato. Voglio dire, avevo le mie ragioni. Poi ho rimesso tutto a posto, più o meno, però già che c’ero ho tolto il tappeto. Voglio dire, chi terrebbe una cosa simile in casa dopo… insomma, dopo aver combinato ciò che quella cosa testimonia?
Fler la nota subito, quell’assenza. Me la fa notare con un ghigno cattivo.
- Elimini le prove a tuo carico? – chiede furbo, sporgendosi un po’ verso di me. Io indietreggio, terrorizzato.
- Non era… - biascico incerto, - Voglio dire, non l’ho buttato, è ancora di là nello stanzino!
Fler mi spalanca gli occhi addosso e scoppia a ridere il secondo successivo.
- Chaku… calmati. – mi incita poi, muovendo qualche passo verso il divano, - Non intendo denunciarti né niente di simile. È già stato abbastanza faticoso parlarne ieri in ospedale. – rimane un attimo fermo sospeso fra il dire e il non dire, guarda il divano, la poltrona, poi me. – Me la offri una birra?
Io cerco di riacquistare le mie capacità di ragionamento basilari. Non che mi riesca del tutto, ma almeno recupero le funzioni motorie. Voglio dire, mi fa piacere vederlo. Non credevo che sarebbe successo. Non così presto. Non come fosse tutto… normale. Perché mi sembra assurdo pensarla in questi termini? È giusto che io mi senta in colpa dopo quello che ho fatto, ma negli occhi di Fler non vedo una richiesta simile. Non mi sta dicendo “pentiti!”, mi sta dicendo… non lo so. Sinceramente non lo capisco bene, cos’è che sta cercando di dirmi. Sempre che stia cercando di dirmi qualcosa, s’intende.
Annuisco e mi muovo lentamente verso la cucina. Scorgo con la coda dell’occhio Fler accucciarsi sul divano nello stesso modo in cui s’è seduto ieri in macchina. La suola delle scarpe da tennis striscia contro la fodera ma non sarò certo io a chiedergli di tirare giù i piedi.
Quando torno con la birra – una sola bottiglia, solo per lui – mi seggo direttamente al suo fianco e gliela porgo incerto. Lui la prende e la soppesa fra le mani per lunghi istanti. La guarda da ogni lato con falsa indifferenza, in realtà ci si perde un po’, fra le bollicine. Come stesse aspettando di trovare le parole giuste, o il momento più adatto per tirarle fuori.
Alla fine, torna a guardarmi e si china appena a posare la bottiglia sul tavolo.
- Ti stai comportando in maniera condiscendente. – afferma serio e quieto, accomodandosi meglio contro il bracciolo in modo da – me ne accorgo subito – mantenersi un po’ sollevato rispetto al cuscino del divano ed anche alla gamba che lo sostiene.
Chino il capo, torcendomi le mani in grembo. Un po’ vorrei tiragli uno scappellotto e cazziarlo, eh, voglio dire, dirgli qualcosa tipo “guarda che sei tu quello che si comporta in modo strano! Arrabbiati!”, ma mi rendo conto di non essere nella posizione più adatta per fare un discorso simile, perciò cerco delle parole migliori. Qualcosa che possa servire come una scusa. Non mi sembra di essermi scusato abbastanza.
- In realtà… - confesso a mezza voce, gli occhi bassi, - non ho la minima idea di cosa sto facendo, Fler. Non so cosa dirti o cosa fare con te, mi sento… insomma, capisci, è strano. Cosa dovrei fare?
Lui scrolla le spalle e mi guarda dritto negli occhi. È un’occhiata assassina, è troppo sincera. Non… non c’è neanche un cazzo di risentimento, in fondo a tutto quel celeste. Questa cosa è sconvolgente.
- Comportati come sempre. – suggerisce pacato, e sarebbe un suggerimento molto sensato e corretto se non fosse palesemente una cazzata. Non capisco, si aspetta che dica “oh, sì, certo!” e ricominci a… non lo so, gli faccia posto sulla poltrona e gli prenda la coperta e lo metta a nanna per poi rimproverarlo domattina? Per quale motivo dovrei rimproverarlo? Non si ubriaca più da secoli e l’unica cosa che gli si potrebbe additare come colpa è il non aver capito in tempo che cazzone tremendo io sia ed aver continuato a frequentare quest’appartamento.
Ma non è colpa sua, è colpa mia. Ce l’ho tenuto io, qui.
In questa situazione ci sono solo un carnefice ed una vittima. I ruoli non sono confusi. È solo colpa mia.
- Fler… - comincio, sporgendomi verso di lui e massaggiandomi una tempia. Cerco qualcosa da dire, qualcosa che suoni diversamente da “non dire puttanate!”, anche se è quello che penso. Cerco di andarci piano. Forse è un po’ confuso, dev’essere un po’ confuso. - …tu ti rendi conto di quello che ti ho fatto?
È allucinante che a fare questo discorso sia io. Allucinante.
Fler si tira indietro ed aggrotta le sopracciglia, infastidito probabilmente dall’ovvietà indegna delle mie parole.
- Sì, mi sembra di rendermene perfettamente conto, Chakuza. – butta lì freddo e spietato, sistemandosi sul cuscino nell’evidente tentativo di farmi impazzire dal rimorso.
È palese che non usciremo mai da questo discorso. È un labirinto. Lui vuole – se ho capito bene – che io sia lo stesso di sempre. Che lo tratti come se lui fosse lo stesso di sempre. Il problema è che io non sono più quella persona e non lo è nemmeno lui. Non possiamo andare avanti – qualsiasi cosa sia questa che si muove, intendo – senza prenderne atto e… accettarlo, credo. Ma Fler non vede niente, è convinto che si possa risolvere tutto con un cerotto. Con una bottiglia di birra. Tornando a comportarsi come prima.
- Senti… - borbotto, massaggiandomi la radice del naso e sospirando, - mi dispiace davvero, Fler. Non ho la minima idea di cosa mi sia preso ieri, ti giuro che non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello di farti male a quel modo. E se pure avessi pensato che fra noi due potesse esserci qualcosa di simile, - sto palesemente blaterando. Vorrei che Fler mi fermasse ma lui non lo fa. – insomma, non avrei mai voluto che cominciasse in quella maniera. È stato tutto sbagliato e me ne scuso, ma tu non puoi-
Non faccio in tempo a finire la frase perché lui si sporge in avanti e me lo ritrovo pressato contro il secondo successivo. In realtà niente del suo corpo mi tocca, solo le labbra. Ma sono ferme sulle mie. Ferme e calde e sicure sulle mie. È già abbastanza per mandarmi in crisi.
Non mi muovo, comunque, resto con gli occhi aperti come un gufo e fisso il volto teso di Fler che invece gli occhi li tiene chiusi, ma non serrati. Le sopracciglia sono distese, le ciglia tremano appena. Continuo a non muovermi e questo ha un effetto collaterale piuttosto evidente: dopo qualche secondo, Fler si scosta. Si tira indietro con l’incertezza di un bambino che si è reso conto di aver fatto qualcosa di molto stupido, tipo dare fuoco alla coda del gatto coi petardi.
Riapre gli occhi sulla mia faccia basita e sconvolta e mi fissa con imbarazzo palese, stringendo le mani in grembo. La domanda muta nei suoi occhi mi sconvolge, perché non so bene cosa rispondere. “Cosa si fa?”, mi sta chiedendo. Ed io cosa devo dire? Cosa devo fare?
Mi allungo verso di lui. Rimango un po’ fermo, lo guardo. Lui mi guarda e non dice una parola. Nemmeno un fiato. Neanche un lamento, neppure quando lo afferro per le spalle e me lo tiro contro. E giuro che non so perché lo sto facendo. O meglio, lo so, ma non posso pensare a Bill anche in questo momento. Non posso farlo a Fler, non di nuovo. Non posso perché ci pensavo già mentre me lo scopavo, non posso perché ci pensavo mentre lo vedevo andare via, non posso perché è evidente che la sua mancanza mi manda fuori di testa, ma è Fler che tengo fra le braccia adesso, è Fler che sto baciando ed è Fler che ansima fra le mie labbra. Bill è il motivo, cazzo. Ma io non posso pensarci.
Chiudo gli occhi e mi lascio andare e non è per niente difficile. Fler è caldissimo, mi si stringe contro in un modo tremendamente impacciato che è similissimo al mio. Non so dove mettere le mani e non lo sa nemmeno lui, perciò andiamo completamente a casaccio e mi ritrovo una sua mano pressata forte sulla nuca e l’altra a tirarmi per la maglietta, mentre una delle mie cerca un posto sotto il suo braccio per stringerlo alla vita e l’altra si fa strada da qualche parte dietro la schiena alla ricerca di qualcosa di più caldo di un maglioncino di lana da toccare. Dio, la sensazione è quasi identica a quella che ho provato con Bill. La confusione e l’ansia e la smania di arrivare in fondo… è quasi identico. Quasi, cazzo. È il quasi che mi fotte ma è sempre il quasi che mi salva, allo stesso tempo, perciò stringo forte le palpebre ed affondo con la lingua fra le labbra di Fler, che mugola qualcosa che non comprendo e smette immediatamente di tirarmi la maglietta.
Non lo prendo come un segnale di cambiamento. Ho modo di pentirmene subito dopo, quando Fler si scosta imbarazzato e resta lì, ad un centimetro da me, il respiro pesante e gli occhi socchiusi, entrambe le mani pressate forte contro il mio petto per tenermi distante, anche se, cazzo, io continuo ad avvicinarmi neanche fosse una calamita.
- Aspetta… - mormora confusamente, cercando di scostarsi ancora, - Non… - esita appena, poi sospira, - Non voglio.
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa. Non me la sento, non è il momento, stiamo facendo una cazzata. Qualsiasi cosa. Ma “non voglio” è peggio di una coltellata nello stomaco. E so esattamente di cosa sto parlando.
- Patrick…? – chiamo con ansia, cercando di sporgermi ancora nella sua direzione.
- Fler. – mi ricorda lui, allontanandosi ancora, - Non voglio. – ripete poi, scuotendo il capo. – Mi lasci andare? Per favore.
Lo ammetto, esito un po’ prima di lasciarlo. Stringo la presa sui suoi fianchi – quand’è che le mie mani sono finite là sotto? – e lui viene scosso da un tremito appena percettibile di cui riconosco immediatamente le motivazioni. Solo allora lo lascio andare. E lui ha la delicatezza di non alzarsi all’istante come so vorrebbe fare. Si prende il suo tempo, invece, e mi lascia il mio. Quello di percepire il calore del suo corpo che si allontana, quello di sentirmi raffreddare contro la mia volontà, quello di prendere atto di un problema piuttosto fastidioso all’altezza del cavallo dei jeans ed anche quello di chiedermi se non sono davvero del tutto ammattito.
Mi saluta a bassa voce. Io non rispondo. Non sono arrabbiato – Cristo, in realtà sono furioso, ma non con lui – è che non so cosa dirgli. Questa situazione non mi è familiare. In nessuno dei suoi aspetti. Non sono in grado di gestirla.
Non lo guardo, mentre esce dalla porta. E penso per l’ennesima volta che probabilmente stavolta non tornerà davvero.
*
Non so che cosa sia veramente successo con Fler l'altra sera però continuo ad avere il forte sospetto che il problema sia Bill. E anche se le due cose non fossero collegate – io che mi limono Fler e Bill, dico – è comunque vero che Bill mi manca.
È una roba strana da dire, e da qualche parte credo che non dovrei dirla affatto. Non dovrebbe mancarmi Bill. Non dovrei aver limonato Fler. Non dovrei aver fatto niente di quello che ho fatto nelle ultime settimane – questo me lo dico soprattutto ogni volta che apro lo sgabuzzino e ci trovo dentro quel tappeto. Devo levarlo di lì, prima che lo trovi mia madre per sbaglio – e quando mi rendo conto di questo mi rendo anche conto che sto vivendo a casaccio e che è l'ora di finirla, in qualche modo. Chiamo Bill. Sì, lo chiamo.
Bill non si fa sentire da una settimana. Non è passato da casa, all'Ersguterjunge, non ha chiamato. Nemmeno un messaggio. Capisco che abbia tutto il diritto di comportarsi così ma sto facendo così tanti casini in così poco tempo che vorrei per lo meno parlarci. Se mi deve mandare a fanculo per quello che è successo, voglio che lo faccia. Vederlo sparire così nel nulla non mi va giù. In realtà non mi va giù neanche che mi mandi a fanculo, perché a me quello che è successo tutto sommato, non lo so... stamattina mi sono svegliato chiedendomi che cosa implica il fatto che mi sia piaciuto. Bill. Ma anche Fler. E non so nemmeno se il problema devo farmelo perché sono due, o perchè sono due uomini.
Non mi rispondo. Telefono; che non è una soluzione, ed è pure un danno perché se questa volta risponde non so cosa dirgli.
"... pronto?"
Ecco, appunto.
Mi passo il telefono da un orecchio all'altro. Sono in casa, in piedi in mezzo al salotto e, fra tutte le cose che potrebbero passarmi per il cervello, mi viene da chiedermi dove mettermi per avere quella conversazione. Non sul divano, è l'unica conclusione che raggiungo. Quindi sto in piedi, che è meglio. "Bill, sono... Peter."
Il mio nome suona sempre strano se non è lui a dirlo. Mi sento scemo a pronunciare quelle cinque lettere, perché ormai sono abituato all'altro. A Chakuza. Il mio vero nome non mi sembra più nemmeno tanto vero.
"Chaku..." lo sento inspirare e non so se è un sospiro rassegnato o se non se lo aspettasse. Se è emozionato, io ci provo a sperarlo. Mi fa male che non mi chiami Peter, però. Mi aspettavo che lo facesse. È una situazione da Peter. No?
"Ti disturbo?"
"No," risponde. Dovrei essere contento, in realtà è così incerto quando lo dice che forse dovrei prenderlo per quello che è: un modo carino di dirmi che invece lo disturbo. Solo che non lo faccio, ovvio. Un po' perché io non li ho mai capiti i velati suggerimenti e un po' perché ora che ho sentito la sua voce mi manca ancora di più. Sembra passato un secolo dall'ultima volta che eravamo seduti vicini a ridere.
"... volevo," metto il muto sul televisore. "... volevo sapere come stai."
"Bene," non lo dice con la convinzione con cui vorrei che lo dicesse e per qualche motivo me lo immagino che guarda in basso e giocherella con qualcosa a caso, tipo il laccio di una scarpa o l'orlo della maglietta. Quando è nervoso – lo so – stropiccia sempre qualcosa. Quand'era qui a cena e parlava di Bushido, finiva sempre con il piegare il bordo della tovaglia su se stesso finché non aveva più stoffa. Allora si fermava, rendendosi conto di aver ridotto la tovaglia ad un grosso serpente e rideva. La risata di quando si rende ridicolo, una specie di sbuffo, e gli diventano tutte le guance rosse.
"Dove sei?" Chiedo, cercando di far suonare la domanda casuale. Fino a quando non è successo il casino, sapevo sempre dov'era. Non si muoveva senza avvertirmi che sarebbe arrivato tardi, o a che ora sarebbe arrivato. Se andava da qualche parte, e da che parte andava. Ora che ci penso, ha passato i mesi prima della trasmissione a casa mia, e le settimane dopo in ospedale. E quando non c'era, raccontava dov'era stato. In ogni caso è stato sempre con me, in un modo o nell'altro. E' chiaro che mi manchi. Non è chiaro perché fosse così prima che gli mettessi le mani addosso. Non è chiaro perché gliele ho messe, le mani addosso.
"Sono da Tomi," mi dice.
Da Tomi non è una buona risposta. Da Tomi significa che sta male. Significa che ha pianto più di quanto sia normale che faccia, perché l'unica persona che si può sciroppare tutte le sue lacrime e che – soprattutto – sappia come fermarle, quello è Tom. All'improvviso mi chiedo che cos'abbia raccontato a suo fratello.
"Io sono a casa," gli dico, che è una cosa stupida dal momento che lui non me l'ha chiesto. E mi rendo anche conto che potrebbe suonare male, tipo che dal momento che sono qui, potrebbe venirci anche lui. Insomma, non è che l'avevo intesa così. "Cioè, così.. per dire," aggiungo. E riesco a peggiorare la situazione in molti modi diversi contemporaneamente. Tipo che faccio la figura dell'imbecille. Tipo che è chiaro a cos'ho pensato e perché ho dovuto specificare.
"Come vanno i tuoi punti?" Mi chiede lui. E lo stomaco mi fa un verso strano, mi si annoda, ecco. Poi ride, ed è ancora più bello. "Non li avrai fatti aprire di nuovo!"
Rido anche io. "No, è tutto a posto," già che ci sono uso la vetrinetta della credenza per darci un'occhiata, alzando la maglia. "Sta guarendo, devo andarli a togliere in settimana."
"Ti rimarrà la cicatrice?"
"Assolutamente sì," rispondo fiero senza nemmeno rendermene conto. Faccio una smorfia e mi do del cretino.
Lui però ride di nuovo. "Non dovresti essere tanto entusiasta," commenta, "ma immagino che per voi gangster sia motivo di vanto."
"Le cicatrici hanno il loro fascino."
"Già," la sua risata rimane, ma è un po' più spenta di prima. Capisco che stiamo di nuovo camminando su un terreno minato. "Gli altri come stanno?"
Intende Kay One ed Eko, ovviamente. E La domanda non mi sorprende, Bill si è sempre trovato bene anche con loro. Anche se Eko finge che di lui gli interessi meno della mia aragosta di peluche.
"Stanno bene," annuisco. "Sono stati a cena qui un paio di giorni fa."
"E sei riuscito ad offrire loro qualcosa di commestibile che non si muovesse già sulle sue gambe?"
"Hey, guarda che io so cucinare!" Protesto.
"Sì, ma non hai mai cibo in casa," ride lui. "Hai il metodo ma non la materia prima."
"Avevo fatto la spesa," specifico, "E hanno mangiato come maiali, per inciso."
"Beh Eko pesa poco più di me," commenta lui. "Non può aver fatto grossi danni."
Sollevo un sopracciglio. Non bene quanto lui, però. "Bill, tu mangi molto più di quanto sarebbe logicamente possibile."
"Mi stai dicendo che mangio troppo?"
"No!" E sbraito. Mi chiedo perché sbraito sempre quando sono agitato. Mi chiedo perché Bill abbia il potere di agitarmi tanto. "Sto solo dicendo che tutto quello che mangi poi non si sa dove lo metti. Ecco."
Lo sento ridere un po'. "Stavo scherzando, tranquillo."
A quel punto penso che potrei farlo, dirglielo ecco. Ci sto rimuginando da stamattina, da quando mi sono svegliato e ho pensato che fosse ora di telefonargli. Ho voglia di vederlo, e mi sembra che anche lui... non lo so, ecco. Non sembra infastidito. "Senti," comincio. E lo sento che si irrigidisce. Trattiene il respiro. Insomma, lo sento che siamo di nuovo tra le mine ma non mi fermo perché se lo faccio poi non avrò più il coraggio. "...magari potremmo prenderci una pizza una di queste sere..."
"Peter..."
Questo non è un discorso da Peter, cazzo.
"Possiamo andare al cinema, se non vuoi venire qui," mi correggo. "O andiamo a bere qualcosa. Sicuramente lo troviamo un posto in cui non ci siano fotogra-"
"Forse è meglio se non ci vediamo, per un po'," mormora. E ha la vocina sottile e dispiaciuta. Lo so che è dispiaciuto, ma io ho voglia di spaccare qualcosa lo stesso. Non gli dico niente, perché sicuramente di bocca mi uscirebbe la cosa sbagliata.
"Solo per un po'," insiste lui. La sua voce si è addolcita, sta cercando di convincermi di una cosa a cui non crede nemmeno lui. Quel poco di cui parla si trasformerebbe in molto. Forse in sempre. E tutto perché ho messo le mani dove non dovevo, quel pensiero continua a tormentarmi.
"Non succederà niente," esclamo alla fine. Non voglio rassegnarmi all'idea di una pausa. Lo so che è infantile e che me la sta chiedendo per favore, però non voglio dargliela. Ho paura che se lo lascio andare adesso e gli dico di sì, poi non lo recupererò più. "Te lo prometto, Bill."
Lui rimane in silenzio per qualche secondo. "Non puoi prometterlo," dice alla fine. "E nemmeno io."
Non posso dargli torto su questo. Non lo so cosa succederà davvero se me lo ritrovo davanti, perché nemmeno la prima volta so cos'è successo. Era lì, avevo voglia di toccarlo e l'ho fatto. Se non lo avessi fatto, questa telefonata non sarebbe mai esistita. E lui sarebbe qui adesso, sarebbe stato qui anche l'altra sera. La mia vita non sarebbe il disastro che è se io quella sera non lo avessi toccato. Eppure ho una gran voglia di rifarlo. Quindi forse ha ragione lui. Cazzo.
"Va bene," concedo alla fine, ma lo faccio controvoglia e solo perché è chiaro che se insistessi potrei ottenere quello che voglio e dovrei mantenere la mia promessa. La promessa non la manterrei. Ora lo so. La voce di Bill da sola basta a ricordarmi le sensazioni. E no, non la manterrei.
"Solo per un po'," ripete lui, ma tanto non serve a niente. "Ti chiamo io, va bene?"
Che vuol dire Non mi cercare. E nello specifico Questa è l'ultima volta che mi senti.
Non glielo dico che va bene, perché non va bene. "Io sono sempre qui, quando vuoi."
"Lo so," sussurra. Lo sento appena. E poi: "Mi ha fatto piacere sentirti."
"Anche a me."
Quando ci salutiamo gli trema la voce, e mi maledico perché non voglio che pianga. L'ho fatto piangere anche troppo nei giorni precedenti. Non gli dico niente però, perché sono nervoso e non saprei controllarmi. "Allora, ciao," mormora.
"Ciao principessa," chiudo il telefono prima di sentire qualunque cosa.
Né lacrime, né singhiozzi.
*
Non riesco più a stupirmi della presenza di Fler. Il che è allucinante, se si pensa che è effettivamente assurdo lui sia qui. D’accordo, dovrei fermarmi a pensare più approfonditamente al fatto che è stato lui a… farsi avanti andrà bene, come verbo? Comunque, a fare quello che ha fatto ieri sera. Io ci sono solo stato.
Dio.
Lancio un’occhiata all’orologio a muro, ovviamente sono le nove. Torno a guardare Fler che solleva una recipiente in plastica, quadrato e con un tappo rosa.
- Lasagne. – annuncia seriamente, - La signora Lotte mi aspettava sul pianerottolo.
Spalanco gli occhi.
- La signora Lotte ti ha dato delle lasagne per me?
- Be’, se vuoi mangiartele da solo, d’accordo, ma io non ho ancora cenato. Sempre che t’interessi. – borbotta facendosi strada all’interno del mio appartamento sgomitandomi in piena pancia.
- Attento! – blatero infastidito, - I punti!
- Tanto li togli giovedì. – scrolla le spalle posando il contenitore sul cucinino ed allungandosi verso uno stipetto per recuperare dei piatti che naturalmente non trova perché io non ho un servizio di stoviglie. Lo raggiungo e mi chino, ripescando un paio di piatti di plastica da un cassetto e posandoli accanto a lui. – Grazie. – annuisce aprendo il contenitore ed afferrando un coltello per dividere le porzioni, - Era giovedì, giusto?
Annuisco con aria assente e la mia porzione di lasagne si spiaccica sul mio piattino di plastica. La guardo: cola olio e mozzarella fusa e besciamella e tritato da ogni parte e tutto ciò è meraviglioso. Mi sale una fame boia, così all’improvviso, mangerei qualsiasi cosa. Fler mi allunga una forchetta ed io la affondo nella pasta il secondo successivo.
- Come mai così silenzioso? – mi chiede lui, osservando con aria critica lo sgabello. Ma pure seriamente, nel senso che lo squadra da ogni lato come se dovesse riprodurlo.
- Niente di particolare… - rispondo io, un po’ distratto perché mi perdo un attimo a cercare di capire cos’abbia di tanto sbagliato il mio sgabello perché Fler lo fissi in questa maniera intensa, - Fler, ma che c’è?! – chiedo alla fine, quando l’ansia si fa intollerabile.
Lui torna a guardarmi ed inarca un sopracciglio.
- Me lo dai un cuscino? – chiede quindi, indicando la superficie in legno sulla quale si suppone debba sedersi.
Potrebbe prendermi a ceffoni, di tanto in tanto. Sono sicuro che mi servirebbe.
- Subito! – mi agito, scattando in piedi e correndo letteralmente verso la camera da letto, dalla quale esco col cuscino che fa pendant con la sua coperta coi cavallucci marini. Lo agito tipo bandiera, come a rassicurarlo, sì, ce l’ho il tuo cuscino, Fler, ora puoi sederti.
Lui ride e me lo toglie di mano, arrampicandosi sullo sgabello – adesso morbido – con qualche problema di troppo, nonostante tutto.
- …come va? – mi forzo a chiedere mentre torturo le lasagne, chiedendomi se sia educato mangiare mentre si chiede una cosa simile.
Fler scrolla le spalle e manda giù una porzione di lasagne che probabilmente sarebbe stato meglio mangiare in due morsi differenti. Ma non posso fargli la paternale su questo.
- Oggi non è uscito sangue. – rivela alla fine. Non mi guarda ed io mi sento crollare qualcosa addosso e mi viene voglia di urlare.
- …ah. – annuisco imbarazzato.
- Credo sia una cosa buona. – continua lui, mandando giù un altro morso di lasagne, meno convinto del primo. Poi si volta a guardarmi e deve vedere lo sgomento nei miei occhi, perché riprende subito a parlare. – Non dovevo dirlo, mh?
- No, io-
- È che non ne parlo con nessuno. – aggiunge poco dopo, e su di noi cala il silenzio.
Annaspo.
- Sì! – cerco di dire con sicurezza, - Voglio dire, certo! Guarda che con me puoi parlarne! – annuisco deciso, - Sono contento che si stia… risistemando tutta la… situazione, mi fa piacere, ecco. Magari vieni in ospedale con me giovedì e… non so, ti fai controllare anche tu?
Fler scuote il capo.
- Io sto bene. – aggiunge, e manda giù altre lasagne. – Sul serio. Guarisco da solo.
- Fler-
- Mi hanno dato… delle cose. – è incerto, si mordicchia un labbro e i suoi occhi saettano confusi da una parte all’altra della stanza, - Intendo, lo so come devo curarmi. Non ti preoccupare.
Annuisco e lui finisce le lasagne mentre le mie sono ancora tutte qui. E dire che avevo fame sul serio.
Scende giù dallo sgabello e butta via il piattino, per poi dirigersi tranquillo verso il lavandino e cominciare a lavare la forchetta. Quando ha concluso mette le mani pure sul contenitore ormai vuoto ed unto, e mi sale un qualcosa dentro che mi fa scattare in piedi e muovermi verso di lui.
- Aspetta, aspetta… - sussurro, sfilandogli il contenitore di mano e chiudendo il rubinetto, - Non metterti a lavare i piatti, dai… - suggerisco con un sorriso.
Fler scrolla ancora le spalle e continua ad evitare i miei occhi.
- Era giusto per fare qualcosa. – dice, e nel suo tono c’è una certa ansia che non saprei identificare.
- Be’, lascia perdere. – dico, tirandolo un po’ verso il divano, - Faremo altro.
Fler si agita ancora, sento chiaramente che mi sta sfuggendo dalle mani e non ci sto.
- Okay, forse è meglio che me ne torni a casa. – borbotta, ma no, non voglio che se ne vada a casa. Dobbiamo risolverla, questa cosa, dobbiamo risolverla adesso o non ne usciremo davvero più.
Mi fermo e lo fronteggio, lo guardo dritto negli occhi e non intendo lasciarlo andare via prima di aver… concluso qualcosa. Qualsiasi cosa.
- Senti, non c’è bisogno di fare così. – dico con sicurezza, - Non voglio… farti male. – e stringo la presa sulle sue spalle. Solo che dopo scendo un po’. All’altezza dei gomiti. È troppo tardi quando mi accorgo di starlo stringendo per i polsi, lo sto già facendo. Non posso scendere più in giù di così, alle mani non posso arrivare, perciò mi accontento.
Fler deglutisce.
- Lo… lo so. – ma è incerto.
- No, non lo sai.
- No, no, credimi, - borbotta, cercando di liberarsi i polsi, - lo so che non era tua intenzione e che non ci pensi nemmeno a farmi niente, l’ho capito, stai tranquillo, sono solo-
Il calore umido della sua lingua lo incontro subito perché stava parlando senza guardarmi. Quindi non mi ha visto avvicinarmi. Non se n’è accorto. Ed è stato facile scivolare dentro di lui, perché era esattamente quello che volevo ed è facile zittire qualcuno che blatera così. Stringo e me lo tiro un po’ contro, Fler lancia un mugolio incerto ma quando schiudo gli occhi per controllare se sia con me vedo che lo è. Lo è eccome. Le palpebre sono distese e chiuse e le sue labbra si muovono morbide seguendo le mie.
Cristo, perché me lo lasci fare, Fler?
Lascio i polsi e lo stringo alla vita, è sottile per essere quella di un uomo, e lo attiro contro di me. Ci scontriamo l’uno contro l’altro e dal mio bacino parte una scarica elettrica che si diffonde nello stomaco e poi lungo le braccia, che scattano e lo stringono con più forza. Fler solleva le mani e le posa sulle mie spalle. Non stringe e non mi spinge, si posa lì e basta.
Mi muovo un po’ in avanti perché voglio trovare una superficie – una qualsiasi – contro la quale posarlo, perché voglio… non lo so nemmeno io cosa voglio ma voglio più libertà e stando così in mezzo alla stanza non ce l’ho, perciò avanzo ed alla fine trovo una parete, che non sarà il massimo della comodità ma almeno è solida e liscia. Fler ci si adagia contro ed io mi spingo contro di lui e rivoglio quella scarica lì, quella che ho sentito quando mi si è spinto addosso, arrivo a sentirla e mi ci perdo.
E lui allunga le mani e mi allontana. Un gesto secco ed affatto fraintendibile. Un attimo gli sono addosso, l’attimo dopo mi sta guardando come se non sapesse come darmi due di picche.
Vorrei dirgli che sto cominciando a farci il callo e di non preoccuparsi. Lascio perdere – mi chiedo quanto suonerebbe ridicolo e decido che sarebbe tanto.
- Pa- - comincio, ma mi fermo subito. – Fler?
- È tutto okay. – mi rassicura immediatamente lui, annuendo un po’ incerto, - Solo… basta così, per oggi, d’accordo?
Annuisco anche se vorrei mettermi ad urlare, nell’ordine, sull’okay che non esiste – perché niente è okay – sul basta così che non mi va giù – perché sono palesemente fuori di testa – e sul per oggi che mi fa ammattire su così tanti livelli che non posso nemmeno stare a contarli tutti.
- Senti, posso dormire qui stanotte? – mi chiede titubante.
Continuo ad annuire come uno stupido piccione e gli faccio strada verso la camera da letto – sono fuori di testa, è palese – se non che lui mi tira per la maglia e mi ferma ed io per poco non cado per terra ma mi volto a guardarlo come nulla fosse.
- Sì…? – cerco di informarmi sperando di non suonare come un completo deficiente, ma non mi viene bene.
- Dormo in poltrona. – annuisce tranquillo lui, - Mi dai solo la coperta?
Lo fisso.
- Ma non stai scomodissimo? – chiedo.
- No, va bene. – insiste lui, - Sul serio. Mi dai la coperta?
Penso che dovrei chiedergli perché non vuole tornare a casa sua. Ma ho un po’ paura di sentirmi rispondere che il problema non è che non vuole tornare a casa propria, ma che vuole restare qui nella mia. Il che è… decisamente troppo perché io possa decidere di affrontarlo adesso e con coscienza.
Sparisco in camera da letto e quando torno con la coperta lui s’è già rannicchiato in poltrona in una posizione incomprensibile. Lo copro e resto seduto sul divano finché non sono sicuro che dorma.
*
È giovedì. Gli ultimi tre giorni della mia vita sono riassumibili in pochi semplicissimi concetti e la mia mente è così stremata che ringrazio di essere ancora in grado di formularli.
Niente Bill. Che è in assoluto la cosa peggiore. Perché vuol dire che avevo ragione a pensare che “un po’” sarebbe diventato “sempre”. E non riesce ancora ad andarmi giù.
In compenso, Fler è venuto qui ogni giorno ed ogni notte s’è fermato a dormire. Sempre in poltrona. Ogni sera ha portato qualcosa da mangiare, tranne martedì, che s’è presentato senza niente ed io sono andato nel panico perché non c’era niente di veramente commestibile in tutto l’appartamento – forse la piantina di bambù che mi ha portato mia madre domenica, ma non sono sicuro che non sia già marcita anche quella. Alla fine gli ho fatto un uovo. Ce n’era uno solo, l’ho fatto a lui. Ha insistito per darmene a mangiare metà ed abbiamo passato il resto della notte piegati sul cesso a vomitare. Mercoledì, naturalmente, s’è presentato lui con del cibo chiesto palesemente in elemosina alla signora Lotte, che comunque l’ha preso in simpatia e lo fa con piacere.
Io sono tornato due ore fa dall’ospedale. I punti non ci sono più, è rimasta una striscia di pelle di un colore completamente differente rispetto al mio. È così diverso che sembra non mi appartenga neanche. Ma è un po’ una ferita di guerra e… me la sono procurata per Bill. Perciò resta dov’è, poco da fare.
Fler e ciò che sembra un’intera coscia di capretto attraversano puntualmente la soglia di casa alle nove. Fler sorride. Il capretto profuma di rosmarino.
Il terzo concetto base che sarebbe il caso io smettessi di farmi casualmente sfuggire di quando in quando, è che io e lui – Fler, non il capretto – continuiamo a saltarci addosso da quando ha stabilito che può dormire sulla mia poltrona. Prima o dopo succede comunque, e la cosa si muove sempre nello stesso modo. Io mi avvicino – o lui si avvicina – io lo sfioro – o lui mi sfiora – io lo bacio – insomma, ci baciamo – e poi lui mi allontana. E non è facile, non è facile neanche per un cazzo separarti da un corpo caldo che ti si stringe contro confondendoti al punto che non sai più neanche su che superficie lo stai schiacciando, non è facile fermarti anche se l’altra persona ti fa capire chiaramente che non vuole più andare avanti.
Mi sembra assurdo metterla in questi termini ma sono così frustrato che penso potrei esplodere. Così la scena che ha luogo fra me e Fler è del tutto surreale.
- Ho portato il capretto! – dice lui con entusiasmo, - Ti hanno tolto i punti?
- Sì, sì. – dico distrattamente io, avvicinandomi, - Ma quanti chili di capretto sono?
- Non così tanti… - borbotta lui soppesando l’enorme cosciotto con gli occhi. Questo non è un capretto, peraltro, come minimo è un vitello. – Comunque ora ci mettiamo qui tranquilli e lo mangiamo, se resta… no, non lo conservo nel tuo frigorifero. Finiamolo tutto. – annuisce alla fine.
- Ma non finirà mai! – mi sporgo e cerco di metterlo via, - E poi non ho fame!
Non so perché sto facendo così. Non è che voglia saltargli addosso, sono solo incredibilmente nervoso, voglio darmi qualcosa da fare e se questo qualcosa sarà tagliare fettine dalla coscia del capretto gigante geneticamente modificato fino a domattina per poi avvolgerle nel cellophane e metterle in freezer, d’accordo.
Ho voglia di urlare.
- Come mai non hai fame? – chiede Fler curiosamente. Ed io ho ancora più voglia di urlare. – Non ti senti bene?
- Sto benissimo! – ansimo agitato, mettendo le mani sul capretto e tirandolo via, - Parliamo d’altro! Tipo, fa un freddo cane, ti pare? Accendo i termosifoni.
- Non funzionano. – mi informa lui, cercando nuovamente di raggiungere il capretto. Io riprendo a tirarlo via. Mi sembra di stare giocando.
- Come non funzionano? – chiedo allibito. È casa mia, saprò cosa funziona e cosa no.
- Sentivo freddo ieri ed ho provato ad accenderli, ma niente. Dovrai sistemarli.
Per un attimo accarezzo l’idea di strillare “be’! visto che palesemente conviviamo e l’unica cosa che ci manca per dichiararci coppia di fatto è che, Cristo santo, non si scopa neanche a morire, direi che mi aiuti tu a sistemarli, i fottuti termosifoni, no?!”, ma poi lascio perdere. È evidente che non posso dire una cosa del genere. Piuttosto mi butto dalla finestra.
- …insomma! – biascico, e vado ad abbattermi sulla poltrona.
Fler mi viene vicino lasciando perdere finalmente il dannato capretto, e mi fissa con aria preoccupata.
- Chakuza, tu non stai bene. – annuncia seriamente, chinandosi un po’ verso di me, - Vai a letto, guarda, domani mattina ti sembrerà tutto più semplice. – annuisce convinto. Non so di cosa cazzo stia parlando. Probabilmente s’è convinto io sia ubriaco.
Non sono lucido, è vero, ma l’alcool non c’entra. Rilasso le spalle e mi passo una mano sugli occhi, sospirando pesantemente. Fler sospira a propria volta e resta dritto davanti a me, le mani sui fianchi, chiedendosi probabilmente cosa dovrebbe farsene di questa versione isterica di me stesso. Mi chiedo cosa dovrei farmene anche io. Mi servirebbe una doccia congelata.
Ed invece sollevo le mani e gliele stringo attorno alla vita, accarezzandogli vagamente i fianchi con i pollici.
- …ah. – prende atto lui, e resta immobile.
- …“ah” non è una risposta, Fler. – mi sgonfio io, stremato.
Lui trasale.
- Ma vuoi pure una risposta?! – chiede allucinato.
- Senti, ha senso non parlarne?! – chiedo io, ugualmente allucinato, tornando all’improvviso a guardarlo negli occhi.
Lui non se l’aspetta, tant’è che lo trovo che mi guarda con l’aria di una quattordicenne che non abbia proprio capito per quale motivo l’insegnante di ginnastica continui a fissarla con quegli occhi strani.
- Fler, mi dici qualcosa? – chiedo esasperato, stringendo la presa sui suoi fianchi, - Una qualunque cosa! Mandami a fanculo, se preferisci, però così non può continuare.
Lui esita. Mi guarda ancora un po’, poi si china su di me e cerca le mie labbra.
D’accordo, non è una risposta. Ma chi se ne frega.
Lo attiro per la nuca, lui si stupisce giusto per un attimo – è un attimo di rappresentanza, sapeva che l’avrei fatto – e poi, visto che la posizione così è scomoda, incastra le ginocchia ai lati del cuscino, vicino ai braccioli, così che sta a cavalcioni sopra di me ma non mi sta seduto addosso, che è una cosa intollerabile perché sta un casino lontano ed io invece me lo voglio sentire addosso sennò do di matto.
Faccio per tirarlo verso il basso e mi preparo a costringerlo se si rifiuta, ma non si rifiuta. Battiamo l’uno contro l’altro ed è la solita scarica, solo che poi continua, perché lui si muove ed ottiene uno strusciamento che Dio, mi manda in blackout, perciò lo tengo stretto per i fianchi e comincio ad odiare i vestiti, tutti, in blocco.
Decido che qui non possiamo più stare e scatto in piedi. Me lo trascino dietro, chiaramente rischiamo entrambi di morire perché non si può pretendere di alzarsi insieme da una poltrona e sopravvivere, comunque sopravviviamo per un qualche miracolo che non comprendo ed io comincio a spingerlo verso la camera da letto. Non mi sono ancora staccato dalla sua bocca neanche per un secondo. Non ci stiamo toccando moltissimo, per la verità, suona tutto un po’ troppo strano per prenderlo normalmente, però capita di sfiorarsi a caso, di tanto in tanto, ed i brividi sono fortissimi.
Non ci arriviamo, in camera da letto, Fler si abbatte contro la parete di fronte incespicando sulla moquette rovinata del corridoio ed io gli vado dietro, mi schiaccio contro di lui e lo sento che si ancora con un braccio al mio collo per non cadere. Non ci capisco molto, ho gli occhi chiusi, lui lancia un piccolo lamento ed io mi stacco dalle sue labbra – che sono gonfissime, Dio mio – e scendo a caso a morderlo sul collo, pure con una certa violenza, ma lui non sembra lamentarsi ed io penso Cristo, Cristo, Cristo, ci siamo, e dura tipo tre secondi.
Tre secondi sono il tempo che impiega Fler a schiudere gli occhi e visualizzare la camera da letto. Questi tre secondi li usa anche per irrigidirsi tutto, piantarmi le mani sul petto e spingermi via, come al solito.
- Fler… - mugugno affranto, perfettamente consapevole di stare riducendo in ginocchio la mia dignità, anche se alla fine mi pare di aver poco da perdere, nella situazione contingente, - cazzo, lo vuoi anche tu… - e non ho nemmeno il tempo di realizzare quanto stronza e cretina e fuori luogo suoni questa frase, che sono lontano già più di venti centimetri ed il calore del suo corpo non lo sento neanche per sbaglio.
- Forse è meglio che torni a dormire a casa mia. – borbotta confusamente, cercando di allontanarsi dalla parete senza per questo doversi avvicinare a me. Capisco che vuole veramente andarsene e cazzo, mi allontano. Cosa devo fare? Mi allontano e basta, cazzo.
Fler si muove lungo il corridoio ed io lo fisso e non so se vorrei uccidere lui o ammazzarmi da solo. Comunque non lo fermo. Quando sento il clack della porta che mi annuncia che è andato via, in compenso, mi dirigo serenamente verso il salotto e comincio metodicamente a distruggere casa. Prima i soprammobili – ormai mia madre porta solo roba di gomma. Qualsiasi cosa rimbalza sul pavimento e si perde sotto i mobili, ma non si rompe niente – poi i mobili – rovescio tutti gli sgabelli, uno dopo l’altro, ci finisce di mezzo pure il cosciotto del capretto geneticamente modificato che cade per terra e no, non si rompe ma di sicuro non sarà più mangiabile. Non so quanto tempo passi, so che me la prendo pure con i fornelli e con le cassettiere e so che per tutto il tempo non faccio che darmi del cazzone e non so neanche perché. Continuo ad avere difficoltà ad identificare il motivo del mio scazzo. Non so più neanche se è solo colpa di Fler. C’è ancora Bill, Cristo, è ovunque. È come se tutto partisse da lui. Non ce la faccio più.
Non so quanto tempo è passato quando arrivo di fronte alla poltrona. Mi viene voglia di farla a pezzi e bruciarla, almeno mi scalderei, ma poi la prendo per le gambe e la ribalto, sto accarezzando l’idea di saltarci sopra, sono sudato ed ansimo e non so come, sopra i miei respiri e sopra la rabbia, riesco comunque a sentire il campanello.
Fisso la porta con aria allucinata per un tempo lunghissimo, ci metto un po’ a rendermi conto che mi tocca comunque andare ad aprire. Prego in svariate lingue che non sia la signora Lotte – potrei averla svegliata. O qualche altro inquilino del palazzo, chissà fino a dove s’è sentito l’eco della devastazione.
E invece è Fler. Lo guardo e non riesco a realizzarlo, ma è lui. Mi fissa come non sapesse che dirmi, poi lancia uno sguardo all’appartamento, spalanca gli occhi e schiude le labbra.
Vorrei mandarlo a fanculo ma, quando apro la bocca, esce una cosa completamente diversa.
- Sei tornato…
Lui torna a serrare le labbra ed annuisce, semplicemente.
- E questo significa? – cerco di capire io, stringendo una mano attorno alla porta.
Palesemente non sa cosa dirmi. Abbassa lo sguardo, si tortura il bordo della felpa con le dita, poi torna a guardarmi e si fa avanti. Pressa le labbra contro le mie e sinceramente non mi serve sapere altro. Se mi manda in bianco di nuovo, però, giuro che l’ammazzo.
Mentre lo strattono con poca delicatezza verso la camera da letto – almeno quello posso offrirglielo – Fler cerca di ricavarsi lo spazio per qualche domanda fra le mie labbra.
- Chakuza… - ansima incontrollatamente, - ma come facciamo?
- In qualche modo. – rispondo deciso io, cercando di zittirlo, - Poi ci pensiamo.
- Poi è adesso. – insiste lui, cercando di allontanarsi, - Senti, è pericoloso, forse-
- Cristo. – lo interrompo, posandogli una mano sulla nuca e fermandomi un attimo prima di baciarlo ancora, - Sei tornato. Un modo lo troviamo. Non sarò… faccio attenzione, ok?
Lui esita un secondo e poi annuisce, io non ho la minima idea di cosa sto facendo né di cosa farò a breve ma lui mi lascia fare e finché lui mi lascia fare io sono a posto. Si stende sul letto ed io mi stendo sopra di lui, mi reggo sulle braccia e mi chino solo per baciarlo, non lo tocco quasi. Questa cosa non ha senso e non mi interessa. Lo prendo per un fianco e lo spingo di lato, spero che capisca che voglio che si giri perché non posso dirglielo ad alta voce.
Grazie a Dio lo capisce, lo vedo voltarsi ed affondare il viso contro il cuscino. Da qui in poi so come si fa, non bene ma posso intuirlo. Lo spoglio appena, solo quello che serve, la situazione è già abbastanza assurda così com’è e possiamo prenderla solo come una soddisfazione momentanea, se non ci spogliamo del tutto. Voglio dire, cazzo, sono giorni che mi tira scemo. È una soddisfazione e basta. Non è niente di che.
Cerco di fare piano. Il preservativo lo trovo in fondo al cassetto. Non ricordavo ci fosse, lo speravo e basta. Cerco di lubrificarmi con un po’ di saliva – abbondante, okay, lo ammetto, sono terrorizzato, cazzo – non so esattamente quanta ne serva, direi che vado ad intuito. Spero di non combinare disastri.
Mi fermo al primo gemito. Fler lo soffoca contro il cuscino ma io lo sento lo stesso. Non gli chiedo se devo smettere perché non voglio smettere. Prego che mi lasci andare avanti. Ma è un po’ difficile rispondere “no” ad una domanda che nessuno ti pone, perciò io non chiedo e lui non risponde. Lo prendo per un assenso e mi muovo ancora.
- Piano. – mormora lui, ma non solleva il viso dal cuscino. Non so cosa fare. Avanzo piano, è l’unica cosa cui riesco a pensare; questa, e quanto sia simile la sensazione rispetto a quella che ho provato la prima volta. Sentirlo aprirsi al mio passaggio è ancora inebriante. Sentirlo tendersi sotto di me è eccitante.
Faccio sinceramente fatica a tenermi fermo.
E quando lo vedo scendere ad accarezzarsi fra le gambe tiro un sospiro di sollievo e comincio a muovermi più velocemente. Mi piego su di lui e scorgo un pezzetto della sua faccia – l’espressione è tesa ed addolorata – non sta bene proprio per niente ed ho il timore che accarezzarsi non sia altro che una distrazione neanche tanto efficace. Vorrei poter fare di più, vorrei provarci almeno, ma non lo faccio. Continuo a spingere ed a me, cazzo, piace tantissimo. Lui ansima e geme ma non sta bene. Non sta bene ed io dovrei smetterla di essere la causa di questo suo non stare bene.
Cazzo.
È così stretto che mi muovo a stento.
Al momento spero solo che non sanguini.
Vengo e lui probabilmente nemmeno se ne accorge. Lui non viene affatto. Smette di accarezzarsi nel momento esatto in cui io smetto di spingere, confermando che sì, si trattava solo di una distrazione.
Tutto ciò è deprimente.
Non posso neanche dire non sia stato bello. Ma cosa cazzo è stato?
Mi seggo sul materasso al suo fianco e lui rimane immobile a lungo, si prende un sacco di tempo solo per riprendere fiato. Almeno non sanguina. Non sembra nemmeno felice, comunque. Rimango in silenzio ed aspetto che sia lui a dire qualcosa. Il problema è che non dice niente. Passato qualche minuto, tira su i jeans e si rimette in piedi.
Lo fisso, sconvolto.
- Fler? – chiedo, - Dove… come va?
Se mi sta guardando, non lo so. È buio, non lo vedo.
- Tutto a posto. – dice a bassa voce.
- Sì, okay. – insisto io, - Dove stai andando?
Solleva un braccio, indica la porta della stanza.
- Sulla poltrona. – risponde piano, - La coperta… - si china a recuperarla dal comodino dove l’ha posata lui stesso stamattina, prima di andare via.
- Aspetta… - mi agito e mi rivesto, allungandomi sul materasso verso di lui, - Non puoi andare sulla poltrona, Fler-
- Sto bene. – mi interrompe lui. È durissimo. Mi fermo come paralizzato, lui se ne accorge e sospira, moderando il tono di voce. – Sto bene. – ripete, più conciliante, - Preferisco dormire lì. Dormo meglio. – sorride, sento lo sbuffo nel buio. – Buonanotte.
Vedo solo la sua sagoma che si allontana. Fler non dimentica di chiudersi la porta dietro alle spalle, quando se ne va.
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