Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Chakuza e Fler non si sentono spesso al telefono. Anzi, in realtà non si sentono mai al telefono, perché Chakuza non è abituato a sollevare la cornetta e comunicare col prossimo suo in tal modo. Ma questa abitudine, in un modo o nell'altro, è destinata a cambiare quando l'uomo, in fuga da Berlino, si trasferisce in Austria...
Note: Storia completamente folle nata mentre blateravo con la Tab a proposito della febbre che Chakuza ci ha annunciato di avere su Facebook XD In serata discutevamo il fatto e ci siamo chieste "ma come avrà mai fatto a prenderla?". Tab ha suggerito che Chakuza potesse essersi gettato nudo in un lago alpino per impressionare una bella contadina circa la propria indiscutibile forza. E questo, invece, è quello che, a partire da ciò, ho tirato fuori io XD
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AYO, I’M TIRED OF USING TECHNOLOGY

Quando Chakuza mi ha chiamato, dall’alto del monte alpino sul quale s’è ritirato a vivere in eremitaggio ormai da qualche mese, nonostante il suo lavoro continui ad avere il proprio centro a Berlino, con o senza Ersguterjunge di mezzo, ho capito subito che sarebbe stato l’inizio di un problema.
Chakuza, voi dovete sapere, non mi chiama. Mai. Non chiama mai nessuno, in realtà, perché l’idea di sollevare la cornetta e comunicare col prossimo suo in modo diretto ed immediato non gli passa neanche per l’anticamera del cervello. È della scuola “dobbiamo parlare? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”, che in realtà è solo un modo come un altro per dire che per lui ogni scusa è buona per andare a bere, perché la sua filosofia si applica anche al “dobbiamo festeggiare? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”, al “dobbiamo tirare tardi a lavorare? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!” e, non ultimo, al “hai subito un grave lutto in famiglia? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”. Prendere una birra non è un qualcosa che si possa fare per telefono, come si potrà facilmente intuire, motivo per il quale per lui il telefono è inutile. Per fissare gli appuntamenti – per andare a prendere una birra insieme, s’intende – preferisce Facebook. Lui ti molla lì il suo bel messaggino sulla bacheca, e se tu lo vedi e rispondi bene, sennò sarà per un’altra volta.
Capisco che possa essere difficile entrare nell’ordine di idee corretto per comprenderlo, ma lui è così: semplice e allo stesso tempo assolutamente assurdo. Lo si accetta o lo si molla, io sfortunatamente l’ho accettato prima di capire bene a cosa stavo andando incontro e ci sono rimasto intrappolato senza poter fare più niente per liberarmene. Sono cose che capitano, uno non può avere sempre fortuna.
Da quando ci siamo messi insieme – la sequenza degli eventi che a questo hanno portato è anche in questo caso riassumibile prendendo spunto dalla filosofia di vita di Chakuza: “dobbiamo metterci insieme? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”, anche perché, se non ci fosse stata la birra di mezzo, silenziosa promotrice di questa relazione, dubito che sarebbe mai successo qualcosa – da quando ci siamo messi insieme, dicevo, Chakuza mi ha chiamato solo tre volte. Tre volte in tutto. Stiamo parlando di ormai quasi un anno di relazione, eh. Tre volte sono un numero allucinante anche per chi non è abituato a sentirsi molto spesso al telefono. Due di queste tre volte, peraltro, erano per dirmi che sarebbe tornato tardi da lavoro. Entrambe le volte aveva pensato di dirmelo su Facebook, ma nel primo caso non ricordava la password e non poteva perciò accedervi dal portatile di Stickle, e nel secondo caso era saltata la linea telefonica a causa di un temporale e non possedeva perciò l’accesso a internet. Se in queste due occasioni lui avesse potuto sfruttare il suo sistema preferito per interagire col mondo circostante, il conto delle nostre chiamate totali sarebbe tragicamente sceso a uno, e si sarebbe peraltro trattato di quella volta in cui era al supermercato e mi ha chiamato perché non ricordava se avevamo concordato di prendere una pizza – e una birra, naturalmente! – quella sera o avrebbe piuttosto dovuto comprare qualcosa da preparare al volo appena fosse rincasato.
Dunque, essendo io a conoscenza di queste informazioni, peraltro basilari se si vuole avere a che fare pacificamente con un individuo della specie dei Chakuza, questa strana razza che non alza mai la tavoloccia del water, getta calzini sporchi nel lavello invece che nella lavatrice – probabilmente confuso dalla somiglianza delle due parole – e comunica solo per grugniti espressi via mail, ho capito immediatamente che una sua telefonata non poteva annunciare niente di normale e rilassante.
Ho risposto con timore, chiedendomi che cosa diavolo potesse volere da me dall’Austria – sicuramente non andare a prendere una birra insieme – e perché sentisse il bisogno di farsi sentire per telefono adesso dopo due mesi di comunicazioni sporadiche via MSN.
- Fler? – mi ha chiamato incerto, - Fler, ci sei? Ma funziona questo coso? – l’ho sentito blaterare, allontanandosi per qualche istante dalla cornetta.
- Ci sono, Chaku, ci sono. – ho risposto, sollevando gli occhi al soffitto con aria supplice, - Come va la tua permanenza fra i monti? – gli ho chiesto quindi, - Ti diverti?
Durante l’anno in cui siamo stati insieme, io e Chakuza non ci siamo allontanati praticamente mai l’uno dal fianco dell’altro, complice il fatto di esserci trasferiti a vivere insieme praticamente subito. Più che una scelta dettata dalla passione, era stata una scelta dettata dalla praticità: essendo tutti parte di un unico grande gruppo di scimmie capeggiato dal gorilla alfa, Bushido, era più semplice stare raggruppati a grappoli, in modo da essere tutti facilmente recuperabili. Oltretutto, la scarsa abitudine di Chakuza ad avere a che fare più o meno col mondo rendeva praticamente indispensabile il dovergli gravitare attorno molto spesso. Giusto per evitare che si dimenticasse di avere un ragazzo perché non lo sentiva mai.
Questa condizione idilliaca – che funzionava perfettamente perché lui non aveva bisogno di chiamarmi e io non avevo bisogno di iscrivermi con un account personale a Facebook per stargli dietro – è durata fino a quando lui non ha stabilito di punto in bianco che tutto l’odio che aveva accumulato per Bushido e per lo scenario rap che qui fa da padrone era diventato improvvisamente troppo. Una mattina mi sono svegliato e l’ho trovato già perfettamente lucido con una tazza di caffè per mano, una delle quali era per me, seduto sul letto a gambe incrociate. Gli ho chiesto che problema ci fosse e lui mi ha spiegato che non ce la faceva più a restare in città, aveva bisogno di una pausa. Mi ha rassicurato sul fatto che non dipendeva da me come persone né da noi come coppia, semplicemente era giunto al punto di saturazione e, peraltro, non sopportava più l’iperpresenza continua di Bushido, motivo per il quale, se non voleva uccidere un uomo, faceva meglio a tornare in patria per un po’. “Va bene,” gli ho detto io, “vuoi che ci lasciamo per un po’? Vediamo come va?” ho proposto, ma lui mi ha lanciato un’occhiata da triglia e mi ha risposto “neanche per idea”. Ho cercato di fargli capire che, con le sue abitudini telefoniche e stando lui in Austria, ci saremmo persi di vista in ogni caso, ma lui ha ribadito “neanche per idea”, e allora ho sospirato e ho lasciato perdere.
Il che ci riporta alla telefonata, la prima dopo due mesi di quasi assoluto silenzio.
- Per la verità no. – mi ha risposto lui con aria mesta, dopo qualche secondo di assoluto silenzio. – Possiamo vederci?
Ho spalancato gli occhi.
- Chakuza, tu sei in Austria. – gli ho ricordato.
- Lo so. – ha risposto lui, ma non ha aggiunto altro, cosa che ha reso evidente il fatto che la sua domanda esplicita era stata “possiamo vederci?”, ma quella implicita era “puoi venire qui da me?”. Ho sospirato profondamente, raccogliendo tutta la poca pazienza che mi era rimasta.
- Vuoi andare a bere qualcosa con qualcuno e non sai con chi? – gli ho chiesto. Giusto per esserne sicuro. E lì lui mi ha sorpreso.
- Ho solo molto bisogno di vederti. – ha spiegato, la voce bassa e un po’ incerta. – Pensi di poter fare un salto?
Ho accarezzato per qualche secondo la possibilità di perdere un’altra decina di minuti a spiegargli che non si usa l’espressione “fare un salto” quando si chiede a qualcuno di espatriare per raggiungere qualcun altro sui monti, ma ho rinunciato quando ho capito quanto sarebbe stato inutile. In parte perché lui non avrebbe comunque capito, e in parte perché la mia risposta sarebbe stata comunque sì.
Mi sono messo in macchina, pronto a dodici ore ininterrotte di guida, chiedendomi cosa diavolo mi spingesse a fare una cosa simile per un uomo che in due mesi aveva sentito il bisogno di parlare con me qualcosa come quattro volte in totale, nessuna delle quali comprendeva il voler sentire la mia voce, peraltro. Sono cose che uno si chiede. Ho continuato a chiedermelo fino a quando il pensiero non s’è fatto fastidioso, e a quel punto ho acceso la radio e non ne ho voluto sapere più niente.
Quando sono arrivato a casa di Chakuza, inerpicandomi su una montagna infinita e finendo di fronte ad una fattoria enorme sul porticato della quale lui mi attendeva agitando una mano in segno di saluto, con un sorriso che partiva da un orecchio e finiva nei pressi dell’altro, ho smesso di chiedermi qualunque cosa perché tanto avevo capito l’inutilità del tutto.
Gli ho sorriso anch’io, siamo entrati in casa e abbiamo fatto l’amore contro la prima parete disponibile. È stato invero piuttosto soddisfacente, e il fatto che lo fosse stato mi ha permesso di ignorare il problema fino a quando esso non s’è ripresentato da solo, qualche ora dopo, mentre passeggiavamo sulle rive di un lago montano poco distante.
- Wow. – ho detto io, osservandone le acque limpide e cristalline, piene di riflessi aranciati a causa del sole che tramontava dietro le montagne più distanti, - Ci si potrà fare il bagno?
Chakuza ha riso, stringendosi nelle spalle.
- D’estate, magari. – ha risposto, - O se vuoi morire anche adesso. L’acqua sarà non so quanto sotto lo zero. – ha riso ancora, ed io ho fatto lo stesso fingendo di volerlo spingere dentro e finendo poi semplicemente ad intrecciare le dita con le sue mentre continuavamo a passeggiare. Lui s’è preso qualche altro secondo di silenzio, prima di riprendere a parlare, senza guardarmi. – Andrai via presto? – ha sussurrato, palesemente deluso in anticipo dalla risposta che sapeva già di ottenere.
- Sì. – ho annuito infatti, - Domattina, subito dopo pranzo al più tardi. Ho un sacco di roba da fare a Berlino. – gli ho spiegato, sentendomi perfino vagamente in colpa.
- Oh. – ha mugolato lui, abbassando lo sguardo, - Pensavo che saresti rimasto un po’ di più. Mi sei mancato.
Io ho roteato gli occhi, sbuffando platealmente e fermandomi, piantando una mano sul fianco mentre l’altra rimaneva irrimediabilmente stretta alla sua.
- Forse ti sarei mancato di meno se mi avessi semplicemente chiamato. – ho ipotizzato, - Sai, giusto per assicurarti che fossi ancora vivo, o interessato a sapere che lo eri tu.
Lui ha inarcato un sopracciglio, perplesso.
- Non ti interessava più di me? – ha chiesto, prendendo naturalmente fischi per fiaschi. Anche qui, solo perché le parole si assomigliano, suppongo.
- Non ho detto questo, Chaku. – ho chiarito pazientemente, - E comunque non è questo il punto. Il punto è semplicemente che avresti dovuto chiamarmi. Anche solo per sentire la mia voce, se proprio ti mancavo tanto.
Lui ha inarcato anche l’altro sopracciglio, sempre più perplesso.
- E per dirti cosa? – ha domandato con quella che mi è parsa sincera curiosità. Io ho sospirato un’altra volta.
- Anche niente, Chaku. – ho sbuffato, - Dio, ma non ci arrivi proprio, eh? Chiamarmi solo per sentirmi. Anche per non dirsi un bel niente di niente. Ti è chiaro adesso il concetto?
Lui ha distolto lo sguardo, aggrottando le sopracciglia così repentinamente da far quasi cambiare forma al suo viso.
- Io non le faccio, queste cose. – ha borbottato scontento. E lì, giuro, io non ci ho visto più.
- Già, tu non le fai, queste cose. – ho sibilato, sciogliendo l’intreccio delle mie dita con le sue, - Cos’è che fai tu? Tu resti qui da solo per mesi, a goderti la tua pace e a disintossicarti dall’aria sporca di Berlino, e poi quando ti gira, così, a caso, mi chiami come se mi stessi facendo un favore e mi chiedi di farmi mezza giornata al volante per raggiungerti, senza neanche dire per favore! Certo! E quando io ti chiedo di farti sentire ogni tanto, perché manchi anche a me, cazzo, tu cos’è che rispondi? No, naturalmente! Perché? Perché tu queste cose non le fai! Ti pare che io in genere monti in macchina ed oltrepassi il confine per andare a trovare chicchessia? No che non lo faccio! Ma per te sì! Perché stiamo insieme! Quindi tu perché non puoi fare per me una cosa che poi ti prenderebbe anche un centesimo del tempo che è servito a me per venire fin qui?! – mi sono fermato un secondo, cercando di riprendere fiato, e poi mi sono allontanato di un passo, rovistando dentro la tasca dei jeans per riemergere subito dopo col cellulare in mano. – Se proprio non hai voglia di sentirmi, - ho detto quindi, glaciale suppongo quanto le acque del lago a pochi passi da noi, - allora questo non mi serve a un cazzo. – ho concluso. Prima di lanciare il telefono in acqua.
- No! – ha strillato Chakuza, orripilato come se avesse appena capito in un istante il perché del mio momentaneo attacco di isteria, solo vedendo il cellulare affondare velocemente fra i flutti come un sasso. L’ho osservato per mezzo secondo dirigersi speditamente verso la riva e poi allargare le braccia ai lati del corpo per tuffarsi, ed è stato allora che sono tornato precipitosamente in me, ed ho spalancato la bocca, sconvolto.
- Chakuza! – l’ho chiamato, - Aspetta!
Ma era ormai troppo tardi. L’ho osservato impotente sparire di testa sott’acqua come aveva fatto il cellulare poco prima e mi sono precipitato in riva, inginocchiandomi e spiando l’acqua con terrore per cercare di intravederlo al di sotto della superficie, ma il sole era ormai sparito quasi del tutto dietro le montagne, e vedere qualcosa non era più tanto semplice. L’acqua mi sfiorava ogni tanto la punta delle dita, dandomi i brividi. Era gelida davvero.
- Chakuza! – ho chiamato ancora, ad alta voce, - Per carità, torna qui! Diosanto, ma sei completamente pazzo! Chaku! Non dicevo sul serio, per favore, lascia stare! Torna qui! – ho concluso, e giuro che avevo le lacrime agli occhi, stronzo di un nano austriaco del cazzo, e lui è riemerso in quell’istante preciso, a due centimetri massimo tre da me, inspirando in un colpo tutta l’aria che poteva ed aggrappandosi alla riva come una bestia ferita, ansimando pericolosamente. – Cazzo! – ho urlato io, afferrandolo immediatamente per la maglia bagnata e cercando di trascinarlo su, - Cazzo, Chakuza! Sei un coglione! Ma cosa t’è saltato in mente?!
Lui non ha risposto, limitandosi ad ansimare ancora, carponi sull’erba umida, il mio cellulare naturalmente spento chiuso in un pugno.
- Sei un cazzone! – ho ripreso io, tirandogli una spinta alla quale lui ha risposto ondeggiando avanti e indietro, prima di tornare ad appoggiarsi per terra, ancora senza fiato, - Ma cosa ti sei tuffato a fare?! Tanto non funziona più! Sei un cretino, avresti potuto rimanerci secco! Ma ti pare?! Cosa vuoi che me ne freghi di questo fottuto telefonino?! – ho continuato a blaterare, finché lui non s’è sporto verso di me, coprendo le mie labbra con le sue.
- Ti chiamerò più spesso. – ha promesso, porgendomi il cellulare, - Cioè… comincerò a chiamarti. Però non lasciamoci. – ha annaspato ancora un po’, - D’accordo?
Io l’ho guardato negli occhi per qualche secondo, chiedendomi cosa diavolo fosse successo e soprattutto cosa cazzo avesse in testa. Dopodiché mi sono morso un labbro e mi sono spinto in avanti, abbracciandolo stretto e fregandomene di quanto era freddo e bagnato e generalmente un coglione.
- D’accordo. – ho risposto, sentendolo abbandonarsi contro di me alla ricerca di un po’ di calore corporeo.
Il che ci riporta quindi ad adesso, a lui steso nel suo letto di dolore che si lamenta per la febbre – “a trentanove e quattro, Fler! Perché non andiamo a prenderci una birra?” – impedendomi naturalmente di lasciarlo qui solo e abbandonato, perché non posso certo rischiare che muoia dopo aver cercato di salvare il mio cellulare, che invece, naturalmente, è defunto.
- Devo fare una telefonata. – gli dico, pensando che devo avvertire Bushido che non tornerò per qualche giorno, mentre lui si gira su un fianco, tirando su col naso.
- Che? – mi chiede, per un attimo troppo confuso dalla febbre per capire una cosa con la quale non ha la minima familiarità. – Ah, sì. Il mio cellulare è scarico, però, ho usato gli ultimi soldi per chiamare te. – mi fa presente, - E in questa casa non c’è la linea telefonica.
Io spalanco gli occhi, e poi sospiro.
- Una curiosità, Chaku, - domando, - che cosa rappresenta questa casa per te?
Lui scrolla le spalle.
- Ci sono cresciuto. – risponde con naturalezza.
- E la linea telefonica non c’è mai arrivata, giusto? – chiedo ancora io, un primo raggio di consapevolezza che entra a illuminare la stanza confusa del mio cervello attraverso la finestra che, con grande sforzo, sto per spalancare.
- Già. – annuisce lui. E tutto è più chiaro. – Però c’è il wireless! – commenta trionfante, tirando fuori il netbook da sotto il cuscino. Lo fisso allucinato. – Puoi usare Facebook. – spiega lui con ovvietà.
Io schiudo le labbra e faccio per dire qualcosa, ma poi rinuncio, prendo il netbook dalle sue mani, lo apro, lo accendo, e poi lo lascio cadere nella bacinella piena d’acqua fredda che ho riempito e che ho usato fino ad ora solo per rinfrescare le pezze che gli posavo ogni cinque minuti sulla fronte per evitare che prendesse fuoco.
- Fler!!! – strilla lui, sconcertato, - Ma che cazzo hai fatto?!
Io mi alzo in piedi e mi allontano verso un’altra stanza, una a caso che non comprenda la sua presenza, lasciando quel dannato computer a mollo. Nessuno saprà dove siamo e nessuno potrà rintracciarci nel caso volesse, ma non m’importa. Giustizia è fatta.
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