Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "'Quattro secondi... tre... due...' il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.".
Note: Sullo storyboard questo capitolo era uno dei miei preferiti. Mi piaceva l'idea di ricreare da zero una puntata di TRL, provando ad immaginare cosa si sarebbero dette le due crew e Bill una volta in studio. Quando poi ho cominciato a scrivere, però, la cosa non si è rivelata facile come sembrava. Ho urlato, strepitato, cestinato, finché Liz - impietosita - non ha deciso di occuparsi della cosa. Quindi anche questo capitolo è una Tabata feat. Liz.
Un po' di cosine che magari vi interessano. Non mi capita mai di fare riferimenti con il reale, fatemi divertire un po'. Dunque:
1 - La foto di Backspin di cui parla Bill, è questa.
2 - Il simpaticissimo (come un virus intestinale) Patrice, è questo ometto qui (è quello che parla).
3 - Il primo video citato lo trovate qui.
4 - Il secondo, dagli oscuri meandri del passato del Bu, qua.
Cos'altro? Ah sì, se vi venisse lo sghiribizzo di vedere la timeline aggiornata, la trovate sul sito. E basta, credo.
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SET ADRIFT ON MEMORY BLISS

Questi ultimi giorni sono stati piuttosto stancanti.
Un po' perché sono i giorni peggiori, quelli dove manca poco. Un po' perché per questo motivo, chiunque mi conosca ha cercato di fare qualcosa per distrarmi intanto che aspettavo quel poco che rimaneva. Il problema è che nessuno mi ha chiesto cosa volessi fare io, e io volevo starmene in casa da solo, magari a rilassarmi. Ovviamente nel via vai di gente che andava e veniva, di stendersi due minuti in vasca o anche solo di svaccarsi davanti alla televisione di tempo non ce ne stato per niente.
Gustav prima, David poi; e quindi Andi, Georg e Chakuza che ha fatto la spola tra casa sua, l'Ersguterjunge e il mio appartamento, incrociandosi con Tom. Sembrava si fossero messi d'accordo: lui arrivava, mio fratello partiva. Uno dietro l'altro sono venuti tutti, da ogni angolo del mio personalissimo universo. Non mancava nessuno.
Qualche giorno fa, seduto sul mio letto, ho visto anche lui che mi guardava e sorrideva, con quel modo che aveva di guardarti che non sapevi mai se ti stava prendendo in giro oppure no. Mi stavo asciugando i capelli, è stato solo un istante ma nella mia memoria è ancora così nitido che mi è bastato per vederlo tutto.
Mi ha fatto notare che non dovevo lamentarmi di tutta quella gente che andava e veniva, che sono ancora la principessa ed è per questo che mi viziano tutti.
Nella mia testa, la sua voce è chiara quanto il suo viso.
Non è come ricordare vagamente il suono di come diceva le parole, è sentirlo parlare, come se in realtà fosse ancora qui.
Così mi ha detto che sono sempre la principessa e ho stretto forte la spazzola per aggrapparmi a qualcosa. Tom dice che se non smetto di piangere mi scioglierò e non rimarrà più niente di me; e io mi chiedo se voglio che resti qualcosa di me ora che non c'è più niente di lui. Poi ricordo che mio fratello morirebbe se morissi anche io, e all'idea di una morte effetto domino mi viene da ridere. Lo so che non è bello, ma so che lui riderebbe.
Anis rideva sempre quando qualcosa lo spaventava. Così fa meno paura, diceva.

Comunque sia, sono le due del pomeriggio e mio fratello ha passato qui la notte.
A dire la verità credo che sia solo il fortunato vincitore di una complicatissima partita a morra cinese in cui se la sono giocata un po' tutti questa nottata della vigilia; mi piace vedermeli riuniti ad un tavolo che tirano giù veloci sequenze di sasso forbice carta per vedere a chi tocca stare con la vedova la notte prima dello speciale di TRL. Ha vinto mio fratello, a quanto sembra. Ieri sera non avevo ancora finito di chiudere la porta dietro le spalle di mia madre, venuta fin da Loitsche per quattro splendidi giorni con suo figlio, che Tom si è presentato a casa mia, la sua sacca da viaggio e la chitarra, pronto per una serata fra gemelli: la salsa, The NoteBook, tutto il necessario da manuale, insomma.
Per un istante l'ho odiato, dico davvero. Volevo solo togliermi i vestiti, mettere quattro candele agli angoli della vasca e stare in ammollo finché non mi fossi rattrappito come una prugna; trovarmelo lì sulla soglia, che sorrideva amabile come me stesso quando non sono così sbattuto, mi ha fatto anche un po' girare i coglioni.
Poi mi sono reso conto che non ho mai veramente voluto stare da solo, che se mio fratello non si fosse presentato lì, probabilmente avrei finito per passare la serata avvolto nel plaid a guardare il mio album di fotografie. In realtà non ne avevo uno finché Anis non è morto; avevo un sacco di foto, quello sì, ma erano mucchi sparsi in giro per casa. La sera del funerale le ho riunite tutte sul pavimento del salotto, e ho cominciato a dividerle prima per mese, poi per occasione, poi in base al fatto che fosse da solo o ci fossi anche io, poi per i vestiti, e per un altro centinaio di caratteristiche stupide; tanto che sono rimasto alzato fino a tardi e non avevo ancora deciso quali inserire nell'album e quali scartare.
Alla fine le ho messe a caso. Ho cominciato a tirarle su dal mucchio con gli occhi chiusi, le guardavo e mi sorprendevo dell'espressione che avevo pescato. Era un po' come averlo lì, che non potevi controllare le sue reazioni.
Allora gli ho raccontato com'era andata la giornata: - C'era un sacco di gente, sai, amore?
E ho tirato su la foto e l'ho visto che sorrideva; gliel'ho fatta io quella, sul tourbus, una mattina che aveva detto qualcosa di stupido e ci stava ridendo su. Era ancora tutto scombinato, era Anis; non Bushido.
Quindi ho continuato a parlare. Gli ho spiegato che nessuno voleva farmi passare ma l'ho rassicurato: - Chakuza mi ha aiutato a farmi largo tra la folla.
Nella foto che ho tirato su c'era lui impegnato a cantare: gliel'ho fatta durante un concerto. Ero dietro le quinte, quindi il taglio è strano e lui è concentratissimo. Mi è sembrata un'espressione solenne. Anche quella è andata nell'album.
Sono andato avanti per un po', gli ho raccontato che Eko quasi piangeva e che lui mancava disperatamente a tutti. Foto dopo foto mi ha regalato di nuovo tutti i suoi sorrisi e tutte le sue facce buffe. Era anche arrabbiato a volte, con la mascella tesa e gli occhi scuri scuri, che a volte ti ci perdevi dentro e altre volte erano un muro, proprio.
Erano le quattro del mattino quando sono rimasto senza pagine nell'album, e avevo ancora un mucchio di fotografie da sistemare. - Ti ho messo una calla; ho detto all'improvviso. Non lo so perchè, ma in quel momento ho realizzato che la bara era chiusa e che forse non può vedere un bel niente. Ho detto: - Ti ho messo una calla. Sopra al legno però, perchè non ti hanno esposto. Eri già chiuso. David dice che lo hanno fatto per tua madre, che era meglio così. Comunque la calla te l'ho messa lì. Ecco.
E la foto che ho tirato su era bellissima. Era lui, con me; e tranne noi non si vede niente, ma io lo so che è stata scattata tra le coperte del mio letto, che ad inquadrare più in basso ci sono i nostri vestiti, io sono nudo e lui mi stringe attorno alla vita con le braccia forti, color nocciola. Nella foto però si vedono solo i nostri visi, fianco a fianco e io che rido come non ho più fatto da quando non c'è lui.
Sto guardando una foto anche adesso, comunque, quella che ho sullo specchio. E' una foto molto speciale, è quasi uno scherzo ecco, però a me piace. C'è tutta la crew, proprio tutta, non solo i ragazzi che mi odiano meno; Kay e Chaku sono di fianco ad Anis, come i cavalieri del re. Era una foto ufficiale, cioè, ne esiste una ufficiale proprio uguale, per un articolo di Backspin se non ricordo male. Quella che ho io, però, è lo scatto precedente; quello dove ci sono anche io che passavo di là e Anis mi ha portato di peso sul set e ha detto al fotografo di scattarne una. Così io sono lì, che sembra ritagliato da un’altra fotografia e incollato tra le braccia di Anis.
"Bill, sei pronto?" La voce di mio fratello arriva da dietro la porta della mia stanza chiusa.
"Un attimo! Arrivo!"
Tom ha dormito sul divano, stanotte. Il letto è solo mio, non può più toccarlo nessuno. Mi da fastidio anche solo che ci si siedano sopra. Ieri ho urlato a mia madre che si stava azzardando a rifarlo. Io cambio le lenzuola, io lo rifaccio, io sistemo i cuscini. E, ovviamente, io ci dormo dentro. Da solo. Anis ha dormito qui e ci abbiamo fatto l'amore. C'è morto sopra. Non posso dormirci che io, adesso. Qualsiasi altra persona sarebbe come profanarlo, non lo so.
Le prime due settimane non ho avuto nemmeno il coraggio di entrare in camera. Poi mi è presa la nostalgia e allora tornare in questo letto mi è sembrata la cosa più logica da fare. Per un po' ho dormito solo dalla mia parte, ma la metà di Anis rimaneva troppo fredda, così adesso sto esattamente in mezzo e allargo le braccia e le gambe, scaldo tutto così quando mi giro la notte, posso rannicchiarmi dalla sua parte al calduccio e fingere che si sia alzato per andare in bagno. Nel dormiveglia è consolante, e la mattina dopo non ho mai il tempo di pensarci davvero perchè passa sempre qualcuno a prendermi, parlare, distrarmi.
"Bill!" Di nuovo la voce di mio fratello. "Stiamo facendo tardi, posso entrare?"
Gli dico di sì e mi trova di fronte allo specchio mentre finisco di mettermi il mascara. Gli sorrido attraverso lo specchio: il mio riflesso è splendido. Sono in piedi da ore, mi ci sono impegnato, voglio apparire meglio del solito. Anis lo avrebbe voluto, credo.
Nella mia testa risuona il:- Fatti bello, stasera usciamo; che mi diceva al telefono. E io gli rispondevo sempre che ero già perfetto.
"Sicuro di volerti truccare?" Mi chiede. Lo guardo e capisce di aver detto un'idiozia. Come potrei non volermi truccare? Devono ricordarsi che sono io. Io per come sono, non per come sarebbe stato meglio che fossi. Che poi dovrei essere donna, per quello. "D'accordo, lascia perdere. Ho detto una stronzata. Comunque, tra due minuti usciamo."
Annuisco e lo vedo che scappa via di nuovo. Tom è nervoso e non capisco seriamente perchè. La situazione sarà difficile, ma lui non c'entra. Lui serve a me, probabilmente lo faranno parlare solo un paio di volte. Non dovrebbe essere nervoso, davvero.
Schiocco le labbra, quindi mi schiodo dallo specchio. Non faccio in tempo ad uscire dalla camera che mio fratello mi recupera e m'infila, letteralmente, nel mio cappotto. Mi chiude perfino i bottoni. "David è qui fuori. Tobi ci aspetta giù," mi dice sbrigativo mentre cerco di capire perchè mi sta trattando come avessi otto anni. Quindi mi tiene per la vita e mi guarda negli occhi. "Bill..."
"Che c'è?"
"Quando arriviamo, stammi vicino." Dice.
"Tomi, cosa?"
"Non ti allontanare da me," ripete. "Solo questo."
Mi ritrovo ad annuire senza averci capito granché, e poi mi abbraccia e preme le labbra contro la mia guancia per qualche secondo, per un attimo credo che non voglia lasciarmi più andare. Quando torna a guardarmi, sorride un po' di più. "Sei bellissimo," mi dice, accarezzandomi le braccia. "Li stenderai tutti."

Agli studi di TRL ci sono già stato quel milione di volte, eppure sono nervoso lo stesso.
Dal momento che di fronte agli studi c'è moltissima gente, David ha dato ordine che passassimo dal retro ma la situazione non cambia molto. La nostra auto viene bloccata dalla folla qualche metro prima di arrivare alla porta. Vedo David espirare dalle narici, segno che è così nervoso che potrebbe esplodere qui e ora. Dentro la macchina.
Guardo fuori e vedo quello che non mi aspettavo di trovare. Ci sono delle fan dei Tokio Hotel abbarbicate sulle transenne; le riconosco subito e non tanto dai cartelli, quanto dal fatto che urlano con tutto il fiato che hanno e sono seminude. Continuano a cantilenare il mio nome - Bill! Bill! Bill! - e sorrido perchè nonostante tutto mi fa piacere.
Quando è saltata fuori la mia storia con Anis, per davvero intendo, non le stupide dichiarazioni che fece per farmi arrabbiare, fra le mie fan ci fu una scossa di terremoto. Qualcuna dichiarò di amarmi comunque - perchè io ero io, indipendentemente dal fatto che fossi gay - e molte altre si dichiararono molto deluse. Mi dispiacque, ma mi sono sempre chiesto in che cosa le avessi deluse di preciso.
Ad ogni modo, David fu bravissimo a gestire la cosa ed organizzò la conferenza stampa del mio coming out, tra le urla di mio fratello e quelle della Universal. In barba a tutto la risposta del pubblico fu meravigliosa. E comunque io non avrei accettato qualcosa di diverso, non avevo nessuna intenzione di giustificarmi oltre.
Sono felice di ritrovarle qui, che mi urlano che sono dalla mia parte in una situazione così dove ho veramente bisogno di supporto. E, se mi fanno piacere loro, mi fanno ancora più piacere le ragazze con la maglietta bianca con la B rossa che spuntano qua e là tra le mie emo-vampire vestite di nero. Sono le fan di Anis, quelle. E quando finalmente con l'auto riusciamo a passare, sono lì che gridano il mio nome insieme alle mie fan.
E mi sento bene, dannatamente bene.
Fermiamo l'auto proprio davanti alla porta; quando Tobi scende, le urla si fanno più forti e Tom mi stringe la mano. Parla prima ancora che lo faccia David, e David sta zitto e guarda fuori.
"Tu scendi per ultimo," mi informa mio fratello. "Prima David, poi io. Aspetta che ti aprano la portiera, intesi?"
"Tom, calmati, ti prego," lo guardo negli occhi e cerco di capirci qualcosa. "Non è la prima volta che devo scendere da una macchina circondato dalle fan, ricordi?"
Lui non mi ascolta. "Fà come ti ho detto."
Ci mancava mio fratello a dirmi cosa devo fare. Prima mia madre, poi la Universal, poi David, Anis... e in fine lui. Che razza di Principessa sono se non posso mai fare di testa mia?
Sento gli scatti delle portiere, David esce col volto tirato. Nemmeno un sorriso per le ragazze che - se non lo vogliono morto credendolo un negriero - lo amano quanto amano me. Tom lo segue a ruota e non esce dalla macchina, rotola fuori. Sento il boato: non so se sapevano che ci sarebbe stato anche lui ma credo di sì, lo sanno sempre.
Due secondi e Tobi apre la mia portiera. Tom è lì accanto a lui e mi chiedo perchè non stia spargendo se stesso un po' ovunque, come al solito. Poi penso che forse non è il caso che lo faccia, siamo qua per un altro motivo.
Come metto piede fuori, mi trascinano via. Cerco di sorridere alle ragazze, anche solo per ringraziarle ma Tomi è molto sbrigativo, se non mi tira dentro gli studi di corsa poco ci manca.
Una volta dentro, è il solito turbinare di tecnici e assistenti che ci circondano parlando tutti insieme. Ho imparato che non ho nessuna necessità di ascoltarli perchè paghiamo David apposta per quello. Sarà poi lui a farmi un riassunto di tutto ciò che devo sapere. Tom mi indica i camerini e ci muoviamo in quella direzione. Mentre passiamo dò un'occhiata allo studio, il pubblico è già dentro ma nessuno, grazie a Dio, fa caso a noi.
"Nervoso?" Mi chiede Tom, stringendomi il braccio all'altezza del gomito.
"No," scuoto la testa. "Solo terrorizzato." Sorrido.
Svoltiamo l'angolo subito dopo Tobi, e vedo Chakuza parlare con Fler da una parte. Fler tiene le braccia incrociate al petto e lo ascolta attento anche se sembra un po' annoiato. Chakuza è tutto agitato e muove le braccia come a ribadire qualcosa. Sapere che è qui, che sarà in quello studio con me, un po' mi tranquillizza, e non me l'aspettavo. Insomma, mi sembrava che fosse un me contro loro. E mi rendo conto che è un noi contro l'Aggro Berlin. O forse no. Forse è semplicemente un noi, e altri, e mio fratello e i fan. Contro nessuno, perchè tanto il motivo di combattere lo abbiamo perso tre mesi fa.
Chakuza alza lo sguardo e mi vede, ha il viso tirato sotto quel cappellino. "Hey!" Saluta mio fratello con un cenno del capo e poi mi si avvicina e mi guarda. "Tutto bene? Mi hanno detto che non vi lasciavano passare."
"Al solito," mi stringo nelle spalle. "Le fan erano ovunque."
E lui fa quella cosa lì, quella che fa ogni volta che mi chiede come sto e io gli rispondo che sto bene. Non ci crede mai; e mi scruta tutto, da capo a piedi, neanche ce lo avessi scritto in fronte se mi sento male. E finché non è convinto non mi molla. Alla fine sembra capire che non sto per collassare perchè annuisce.
Forse sta anche per dirmi qualcosa, ma uno dei tecnici si avvicina e ci avverte che la trasmissione inizierà tra cinque minuti, di prendere posto. "Dobbiamo microfonarvi," spiega poi. Ci muoviamo tutti verso lo studio, intanto che Chaku si sente in dovere di spiegarmi la situazione. "Voi due siete con noi," dice. "Hanno diviso lo spazio in due zone nette."
"E dall'altra parte, l'Aggro?"
Chaku annuisce. "Ma non ci sono tutti, soltanto Sido e Fler."
Fler, tra l'altro, ci ha seguiti ma non ci parla. Quando oltrepassiamo l'entrata dello studio, raggiunge Sido e si siede, col microfono già al suo posto. La stanza non è piccola, ma lo spazio è ridotto dalla quantità enorme di pubblico, che in effetti non mi aspettavo. Sono tutti zitti e fermi, però, e questo è un bene. I nostri divani sono di un giallo fulminante, e mi viene in mente che assomiglia al giallo delle pareti di casa di Anis; Saad, Eko e Kay-one sono già seduti e l'ultimo poso vuoto fra loro è quello di Chakuza. Io e mio fratello abbiamo un divanetto più piccolo alla loro destra, il resto dell'Ersguterjunge è ammassato nello spazio che resta. Lascio malvolentieri che Chakuza si sieda lontano mentre mio fratello mi aiuta a sistemare il microfono dietro ai pantaloni. Uno dei tecnici ci scandisce di nuovo il tempo.
David mi ha fatto avere una copia della scaletta qualche ora fa, l'ho letta ma non ne ricordo nemmeno un pezzo. David non voleva che venissi, mi ha fatto una paternale più lunga di mia madre e poi, quando si è reso conto che non avrei mai cambiato idea, ha parlato con la redazione e ha preteso e ottenuto che non mi facessero domande troppo private.
Uno studio televisivo, dall'interno, non è come lo si vede in televisione. Innanzi tutto ci sono molte più persone di quelle che ti fanno vedere, e ci sono più tempi morti. Quando passeranno i filmati, a casa li vedranno a tutto schermo, noi avremo un solo piccolo televisore lì a terra per controllare quando il video finisce, e un sacco di minuti da sprecare a guardarci tra di noi. Solo che questa volta, invece di avere accanto la mia band, ho quella di Anis - che non mi può vedere - e quella di Fler - che mi ha sempre preso per il culo. Mi stringo involontariamente a Tom che se mi stesse anche solo un po' più vicino probabilmente mi ingloberebbe. "Va tutto bene?" Mi sussurra.
Annuisco.
"Due minuti!" Annuncia il tecnico, sollevando le dita. Lo studio si mette in fermento, lo vedi proprio il cambiamento. Un attimo prima sono tutti lì che parlano, l'attimo dopo si muovono tutti: ordinano, sistemano cose, si preparano. Scorgo David in fondo alla stanza, dove non inquadreranno, appoggiato con una spalla al muro. Mi fa cenno con le dita che è tutto okay.
Inspiro ed espiro, la mano di Tom apparentemente appoggiata a caso dietro di me sullo schienale. Non può accarezzarmi la schiena, così cerca metodi sostitutivi per confortarmi.
"Quattro secondi... tre... due... " il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.
Subito dopo la sigla ci siamo noi in studio.
L'inquadratura è concentrata su Patrice che saluta il pubblico e dà il benvenuto a questa puntata speciale di TRL, che s'intitola King of Kingz - Ghetto Tribute. Un notevole sforzo di fantasia; mi chiedo che cosa sarebbe venuto fuori se avessero lasciato l'incombenza di trovare un nome a questa trasmissione ad un branco di scimmie lobotomizzate. "Anis Moahamed Youssef Ferchichi, in arte Bushido, era uno dei rapper più amati della Germania," Patrice scandisce il suo nome con voce partecipe ma introduce l'argomento come se fosse una cosa da niente. Come se stesse presentando l'ultimo singolo di Anis piuttosto che una trasmissione in suo onore dopo la sua scomparsa. Non gliene frega niente, ma finge il contrario.
Blatera per ore sulla grave perdita del mondo della musica con aria contrita, come se avesse perso un caro amico oltre che un grande artista di fama nazionale. Dio, e dire che ero davanti alla televisione, l'ho visto quando ha detto in diretta nazionale "Se avete qualcosa da risolvere, tu e Fler, risolvetevelo fra voi". Io so che quest'uomo non provava per Anis il minimo rispetto, ma dalle sue parole adesso non lo direbbe nessuno.
Devo fingere di non odiarlo, o di non odiare quello che la trasmissione rappresenta in realtà: un enorme occasione per fare su quintali di ascolti. Devo ricordarmi perchè mi trovo qui, su questo divano, così mi inumidisco le labbra e faccio finta di ascoltarlo con interesse. "E adesso il live di Zeiten Ändern Sich tratto dal 7 Live DVD, poi di nuovo in studio con la sua crew e con gli altri numerosi ospiti di oggi," la regia fa una carrellata dello studio e poi sfuma sulle prime note della canzone.
Il tecnico ci fa cenno che il video è partito. Patrice perde tutta la sua aria solenne e si mette a parlare con la truccatrice che lo ha raggiunto immediatamente; io, invece non riesco a staccare gli occhi dal monitor.
E' un colpo. Uno di quelli forti al cuore, che non ti aspetti e per il quale non sei preparato. Io vedo Anis sempre: nei miei ricordi, nei miei pensieri, nelle foto e in ciò che di lui vive ancora dentro la mia testa, però non ho più guardato un solo filmato da quando gli hanno sparato. Se l'ho fatto vivere è stato solo dentro di me. Quando lo vedo su quello schermo, quando compare sotto il cappuccio di quella felpa grigia e lo vedo muoversi - Dio, muoversi - il cuore mi si stringe così tanto che non lo sento più neanche battere. Per i primi minuti del video c'è solo il palco, e il fumo, e lui è tutto coperto ma non mi serve niente per riconoscerlo: le spalle, le braccia, la linea dritta dei fianchi.
Inspiro, perchè il mio cervello è impazzito. Una parte di me grida che è vivo, che è lì, e se è lì dev'essere vivo per forza. Il resto di me si ricorda che ha chiuso gli occhi dicendomi di non volersene andare. Il video è un montaggio del live e di alcuni momenti del backstage, quindi c'è Anis che canta - ed è bellissimo, e preso, e la folla si agita al suo comando - ma c'è anche Anis che scherza, e gioca con gli altri ragazzi. Ridono. E mi rendo conto che forse ho sbagliato anche solo a pensare di poter stare qui. Vorrei alzarmi e correre perchè proprio mi sembra di non farcela. Vederlo là dentro, voler allungare una mano e toccarlo e non poterlo fare è devastante. Tom mi accarezza un braccio e mi tira un po', vuole che smetta di guardare.
"Bill, girati," mi dice. E io lo faccio, perché la voce di Tom ha un potere particolare. Quando lo faccio, ed incontro i suoi occhi, Tomi sorride. "Va tutto bene. Io sono qui."

Patrice accoglie il rientro in studio, spiegando di nuovo brevemente la situazione perchè - mi pare di capire - siamo anche andati in pubblicità. E' difficile stare dietro a tutto quello che succede quando non sei inquadrato. David ci ha raggiunti sul divanetto durante la pausa, mi ha detto di calmarmi anche lui, devo avercelo scritto in faccia che non sto proprio benissimo. Secondo la scaletta, adesso dovremmo commentarlo questo video e per un attimo sono felice di non fare parte della crew. La parola tocca a Saad che era già pronto lì a parlare.
"Abbiamo appena visto nel video uno dei vostri show," sta chiedendo Patrice, con lo sguardo intenso puntato su Saad. "Che tipo era Bushido sul palco?"
"Atze era una forza della natura," risponde Saad, e un po' sorride. Io so che lui mi odia, ma so anche che voleva bene ad Anis. In quel momento capisco che se fa male a me stare qui, probabilmente fa male anche a lui. "Non stava fermo un momento, a volte era devastante. E fuori dal palco era anche peggio."
"Ti ha inseguito con un carrello," commenta Patrice.
Saad ride, ridiamo un po' tutti. "In realtà lì non si è visto," spiega, indicando il monitor,"ma poi ha cominciato a ridere e non ha smesso per dieci minuti. Era un bambino."
Patrice annuisce, condividendo l'ilarità generale. Guarda la sua cartelletta con le sue belle domande infilate una dietro l'altra. "Bushido fonda l'Ersguterjunge," la regia inquadra Fler che ha sul viso un'espressione indecifrabile, "nel 2004, giusto?"
Segue un coro di assenso generale, si parlano addosso e io li trovo carini. Seguo la discussione con interesse stavolta, non mi capita spesso di sentirli parlare di lui tutti quanti insieme. "E io leggo qui che avete fatto uscire moltissimi lavori fra album, sampler e singoli vari."
"Cinquantasette, dall'apertura a oggi," annuisce Chakuza, spostandosi sul divanetto. Appoggia la gamba destra in orizzontale sull'altra e ci gioca sopra col microfono.
Patrice annuisce a propria volta, accarezzandosi il mento con una mano. Non fa una piega.
Ed io mi preoccupo, perché dai conduttori imperscrutabili non sai mai cosa aspettarti.
Trattengo il respiro quando apre bocca, ed appena lo sento parlare capisco di avere avuto ragione a farlo.
“Ed in tutti questi anni di collaborazione non avete mai dubitato del suo operato o delle sue scelte? Mai nemmeno un contrasto?”
Ci sono cose che senza l’ausilio visivo non si capiscono. Il senso della sua frase… non sarebbe lo stesso, se il monitor di fronte a noi – quello oltre le telecamere, quello che ci mostra la messa in onda – non rimandasse il riflesso del mio volto.
Sono io la scelta della quale avrebbero dovuto dubitare.
Mi mordo un labbro e provo a non fissare la telecamera perché ho dannatamente paura di cominciare a piangere e non voglio farlo di fronte a tutti. Cerco la mano di Tom, di nascosto, strisciando sul divanetto, e la trovo immediatamente, come se mio fratello non avesse fatto altro che aspettare quella stretta da che ci siamo seduti.
Chakuza si agita subito, si inumidisce le labbra e riporta il microfono alla bocca.
“Noi non-”, comincia incerto, ma Saad lo ferma con un colpo di tosse, e Chakuza torna subito al proprio posto, in silenzio.
“Naturalmente,” dice con estrema tranquillità, “di fronte a certe cose ci ritrovavamo spesso un po’ spiazzati,” annuisce, “ma Bushido da noi non è mai stato in discussione. E perciò,” conclude deciso, guardandomi dritto negli occhi, “nessuna delle sue decisioni lo era.”
Io ricambio la sua occhiata e trattengo a stento le lacrime quando lo vedo annuire nella mia direzione. Vorrei piangere per un milione di motivi diversi che non c’entrano niente l’uno con l’altro. Ed ho voglia di alzarmi in piedi e ringraziare Saad, ma anche di prenderlo a pugni fino a fargli dimenticare da che parte è il cielo e da che parte la terra, perché una concessione come questa sarebbe stata molto più utile quando Anis era ancora vivo e respirava e dell’approvazione poteva farsene qualcosa. Adesso è sepolto a chissà quanti metri sotto terra, e che mi venga concesso un posto quando lui non c’è è del tutto inutile.
Ma immagino che siano anche queste leggi del Ghetto. Probabilmente, se Anis non fosse morto, io questo posto non l’avrei avuto mai.
“Naturalmente,” ripete Patrice, annuendo per l’ennesima volta come sapesse esattamente di cosa Saad stia parlando. In realtà non ne ha la più pallida idea, perché su una cosa quest’uomo aveva ragione, quando invitava Bushido e Fler a vedersela fra loro: la televisione non è il posto adatto per risolvere queste questioni. La televisione non c’entra niente, con queste questioni. E quindi Patrice non ne sa niente e non ne capisce niente. “E non vi ha stupito nemmeno la sua uscita a TRL?” chiede senza il minimo filtro – la telecamera mi inquadra di nuovo ed io lancio un sospiro stremato mentre colgo con la coda dell’occhio David agitarsi nel backstage – “Insomma, non è una cosa tanto comune, vedere un uomo di quasi trent’anni che espone in questo modo la presunta omosessualità di qualcuno.”
Sento Fler sopprimere a stento una risatina. È senza microfono, ma non può proprio risparmiarsi di sputare un “Ma se non facciamo altro dalla mattina alla sera?” che Sido blocca con un’occhiataccia e per il quale io invece mi ritrovo a ridacchiare a bassa voce. Ridacchia anche Chakuza, ma lui al contrario di me cerca di mantenersi serio perché forse non ha ancora realizzato quanto tutto ciò sia una farsa. La sua espressione tesa nel tentativo di non lasciarsi andare all’ilarità è tenerissima.
Patrice si comporta come non l’avesse nemmeno sentito. Il suo sorriso di circostanza è una delle cose più odiose su cui mi sia mai capitato di posare gli occhi. Ed il fatto che, in questo preciso istante, sia rivolto proprio contro di me, è ancora più irritante.
“E tu come l’hai preso, quell’episodio?” chiede, dando finalmente voce a ciò che tutti stanno pensando.
Questo ragazzino, com’è che si ritrova qua in mezzo a parlare di un rapper morto ammazzato?
Questo ragazzino è qua perché quel rapper lo amava. E se l’è visto morire fra le braccia, cazzo.
Scorgo appena David che mi fa cenni da dietro una telecamera, ma se lo guardassi probabilmente coglierei della disapprovazione, nei suoi occhi. O il tentativo di impormi dei limiti. In questo momento, non ne sento affatto il bisogno. Stringo la mano di Tom e parlo.
“In realtà quando disse quelle cose a TRL stavamo già insieme,” rivelo candidamente.
Osservo con un certo divertimento la consapevolezza farsi strada negli occhi di chi non c’era ancora arrivato. Patrice, per primo, e poi il regista, l’aiuto-regista, i cameraman, truccatori, parrucchiere e via dicendo.
Il conto è semplice. Ci arriva anche chi non è tanto bravo in matematica.
“Quindi…” esplicita per la folla il nostro conduttore, a disagio, “tu eri ancora minorenne, quando la vostra storia è cominciata.”
…mi rendo improvvisamente conto di ciò che ho detto, nel momento in cui realizzo che, se da un lato ho ottenuto ciò che volevo – zittirli tutti dicendo qualcosa che decisamente non si aspettavano – dall’altro è probabile che io possa aver detto anche qualcosa che probabilmente avrebbe fatto meglio a stare nascosto.
La pacca che David si dà sulla fronte la sento fin da qui, nonostante il brusio del pubblico di fortunati che è stato ammesso in studio. Tom stringe ancora la presa sulla mia mano.
“Bushido non ha fatto niente di sconveniente, finché mio fratello non ha compiuto diciott’anni,” dice, e sta mentendo, naturalmente, ma in questo momento non è un problema.
“E non trovi sia piuttosto sconveniente parlare di ciò di cui ha parlato Bushido a TRL, dato che allora Bill aveva solo diciassette anni?” chiede Patrice, spostando la propria attenzione su di lui.
L’Ersguterjunge tutta, dal divanetto, si mette in agitazione. Ho come l’impressione che metà del gruppo – in particolare Kay, sta scalciando come un puledro imbizzarrito – vorrebbe alzarsi e pestare quest’uomo dimenticandosi completamente della televisione.
Saad li tiene tutti fermi usando semplicemente la propria stessa calma. Li vedo tutti, si voltano a guardarlo uno per uno, e quando vedono che sta zitto e buono cominciano a tranquillizzarsi anche loro.
Vorrei essere altrettanto bravo a gestirmi.
Mi faccio forza, comunque. Tom non risponde, all’ultima domanda di Patrice, ed ha ragione a non farlo.
“Anis…” riprendo quindi io, lo sguardo basso, “era una persona a cui piaceva stupire gli altri. Era tremendamente egocentrico, perciò era naturale che, dovendo scegliere un modo per farlo capire al mondo, avrebbe scelto il più fragoroso.” Perché Anis era davvero così, lo penso ma non lo dico ad alta voce, era rumore. Non ci s’infila nella vita degli altri col silenzio, non si diventa la vita degli altri rimanendo in disparte. “Io non ne ho saputo niente, finché non ho visto la trasmissione in tv.”
Patrice annuisce e mi si avvicina.
“E quando l’hai visto, come hai reagito?”
Scrollo le spalle.
“Ho riso,” e ride l’intero studio, “No, davvero,” rincaro la dose, sorridendo a mia volta, “mi sono perfino chiesto per quale motivo fare la richiesta pubblica, visto che già in privato ne avevamo a sufficienza,” aggiungo con un sorriso serafico, così che tutti la prendano per la battuta che, in parte, non è per niente, “Però alla fine ci sono arrivato. Era il modo che aveva scelto di dirlo al mondo.”
Patrice sorride bonario, tornando a spostare l’attenzione su mio fratello.
“E tu, invece? Come l’hai presa?” gli chiede, inarcando curiosamente le sopracciglia.
Tom le sue sopracciglia le aggrotta e si dà quell’aria seria e sicura con la quale in genere affronta tutti i drammi nella propria vita – ed anche nella mia.
“Quale delle due cose?” chiede di rimando, “Bushido che richiede un pompino pubblico o il suo stare con mio fratello?”
Patrice ride.
“Il suo stare con tuo fratello,” risponde.
Tom annuisce piano e dosa le parole, stringendomi più forte la mano.
“È stata una scelta di mio fratello, e in quanto tale meritava rispetto.”
Ricambio la sua stretta e sorrido fra me. Tomi sta dicendo un sacco di bugie, ma le sue scuse sono sincere.
“E su questo andiamo in pubblicità,” avverte Patrice, rivolgendosi gioviale alla camera, “A fra poco col resto della storia di Bushido e dell’Ersguterjunge. Restate con noi!” e le telecamere vanno in stand-by.
Sembra che lo stacco pubblicitario sarà piuttosto lungo, perché quando Eko chiede se può andare in bagno gli dicono di sì e non aggiungono di far presto. Lo vedo scivolare via dal divanetto mentre Chakuza si alza per sgranchirsi le gambe e Saad, invece, si rilassa contro i cuscini, lasciando andare un respiro di pura tensione. Chaku fa per venire da questa parte, ma guarda oltre la mia spalla e si ferma, perciò guardo anche io e vedo che c’è David che si sta avvicinando minaccioso. Mi faccio minuscolo ed attendo la strigliata.
“Io non ho parole!” lo sento sibilare tra i denti, “Volete darvi un contegno? Tom, tu sei sempre il solito porco, e tu, Bill…” sospira e scuote il capo, “…cerca di non esporti troppo, d’accordo?”
Si allontana scuotendo il capo ed io faccio per voltarmi a guardare Chakuza per fargli cenno che sì, ora può avvicinarsi, ma non lo trovo dove l’avevo lasciato e vedo che sta girellando come un avvoltoio attorno al divano su cui sono seduti Sido e Fler. Sido sta dicendo qualcosa sul non parlare a sproposito, sembra un padre severo, e Fler si disinteressa di ciò che dice con la stessa espressione annoiata di un bambino disubbidiente. Lo vedo alzarsi in piedi e raggiungere Chakuza dopo aver lasciato Sido a parlare da solo, e vedo che, appena lo raggiunge, Chaku si volta immediatamente e si ferma a guardarlo.
“Ma allora eri davvero ubriaco!” gli dice prendendolo in giro, io ripenso all’uscita di Fler di prima e mi viene di nuovo da ridere, ma mi trattengo.
“Non sono ubriaco!” risponde Fler, tirandogli un calcio contro uno stinco, “Era una battuta, e almeno tu potevi ridere! Ho fatto la figura del cretino!”
“Ah, che strano…”
Il loro dialogo sfuma nel brusio dello studio e s’interrompe del tutto quando l’aiuto-regista ci fa segno di riprendere posto.
Quando finisce lo stacco pubblicitario mi accorgo che mi batte forte il cuore. Realizzo che ho paura delle altre domande che potrebbe pormi Patrice e cerco di ripassare mentalmente tutte le altre occasioni in cui Anis ha parlato di me o io ho parlato di lui. Ce ne sono tante e sono tutte potenzialmente imbarazzanti, o almeno, sono state tutte precedute o seguite da cose che potrebbero potenzialmente essere imbarazzanti se le raccontassi.
La scelta della camicia che ho indossato ai Comet nel 2007, per esempio. Quando tutti si sono chiesti per quale motivo gli ultimi due bottoni fossero sganciati e mi si vedesse tutta la pancia. Anis mi aveva letteralmente imprigionato nel camerino ed ero riuscito ad uscirne solo un minuto prima del red carpet. A riabbottonare il tutto con discernimento non avevo nemmeno provato – il mio discernimento aveva smesso di esistere nel momento stesso in cui Anis mi aveva posato le mani addosso.
Oppure la volta in cui gli chiesero se fosse serio nei miei confronti e lui rispose che sì, le sue intenzioni erano molto serie, mi avrebbe portato ad Amsterdam e mi avrebbe sposato e poi saremmo partiti per una lunga luna di miele. La sera prima avevamo litigato per chissà che motivo idiota – non è vero, li ricordo tutti, i motivi dei nostri litigi, volevo invitare Tom a mangiare da noi e lui aveva protestato dicendomi che era già abbastanza stanco dopo una giornata di lavoro per non sentirsi in vena di tollerare anche mio fratello, ed io l’avevo presa malissimo – e insomma, Anis non era davvero tipo da scuse, però sapeva lo stesso come farsi perdonare, e quello era stato il suo modo.
Ed a cercare, a grattare appena un po’ la superficie dei miei ricordi, ne trovo a migliaia, di aneddoti simili. E d’improvviso mi rendo conto che mi hanno chiamato in questo posto per affondare le mani nella mia testa e buttare la mia vita su un palco, davanti ad una telecamera, molto più di quanto non sia già stato fatto con me fino ad adesso.
E mi fa piacere ricordare Anis per i suoi fan. Però non so se voglio davvero dividerlo col resto del mondo, in questo momento.
Mi salva un miracolo, è evidente, perché so che, se fossimo tornati in studio ed avessimo ricominciato a parlare di me, non avrei potuto frenarle ancora, le dannate lacrime. Ed invece, dopo la pubblicità, non si torna subito in studio, parte un filmato. Guardiamo tutti nel monitor e vedo una cosa che decisamente non mi aspettavo. Davanti a me c’è un Anis che ho visto solo su YouTube e in qualche foto a casa di sua madre, una delle volte in cui mi sono ritrovato da quelle parti con lui. È magro e incasinato, più magro e incasinato di quanto fosse quando stava con me. Non è fisicamente piccolo, però lo sembra.
È un Anis talmente lontano dal mio tempo che quasi mi stordisce.
È l’Anis che conosceva Fler.
Nel filmato stanno tutti e due su un palco. O meglio, si danno il cambio: uno dei due sta sul palco, l’altro scende e passeggia lungo l’intercapedine che separa il palco dal pubblico. Tutti tendono le mani, tutti vogliono toccarli, sia Fler che Anis cantano con una rabbia ed una passione che Anis non ha mai mostrato all’Ersguterjunge. In effetti, ora che ci penso, anche nelle sue canzoni più cattive, Anis non sembrava mai arrabbiato. Solo amareggiato, deluso, il più delle volte semplicemente tronfio e fiero del proprio successo. La rabbia era una cosa distante, perché anche quando se la prendeva con l’Aggro Berlin era più derisorio che infuriato.
Su quel palco, invece, all’Aggro Berlin c’era ancora. Ed Anis cantava con rabbia. Lui e Fler cantavano insieme gridando al vento che la Germania non se li meritava, che la Germania non li capiva, che la Germania poteva anche andare a farsi fottere, loro i soldi li avrebbero fatti comunque, ed alla fine sarebbero diventati re e l’avrebbero governata tutta.
Li guardo nel video e mi sembrano così simili che quasi mi confondo. Cantano le stesse cose. Con la stessa voce. Con la stessa furia. È un Anis che non mi appartiene affatto, questo; lo trovo bellissimo, ma non ne avrò mai alcun ricordo. Mi volto impercettibilmente a guardare Fler e lo trovo con lo sguardo azzurrissimo fisso sul monitor. Si morde un labbro, non sembra agitato né a disagio, è solo… concentrato. Come non volesse perdersi un attimo di ciò che sta guardando.
Chi, invece, sembra davvero parecchio a disagio, è Sido. Ho come l’impressione che quest’uomo tutto vorrebbe tranne che trovarsi qui. Che è un po’ una sensazione che ci accomuna tutti, d’accordo, ma noialtri – io, Fler, Saad, Chakuza – lo sappiamo perché ci troviamo qui davvero. Per nessuno di noi questa è solo una trasmissione. Ci stiamo facendo gratuitamente del male perché è così che funzionano i lutti, qualsiasi cosa sia ciò che hai perso: ti ci immergi, lasci che ti ricopra tutto come un velo. Ne risorgi solo dopo. È un processo lento. Noi ci siamo nel mezzo.
Sido, con questo, c’entra poco. Eppure è qui e mi sento un po’ orgoglioso, per Anis.
Il filmato si conclude e noi torniamo in studio, Patrice non perde tempo a recuperare la propria cartellina e leggere ad alta voce. “Settembre duemilatre,” racconta con aria partecipe, “il successo di Bushido è appena all’inizio ed ancora nessuno immagina che, a solo un anno da questa data, lascerà l’Aggro Berlin per fondare la propria etichetta.”
Si prende una pausa ad effetto, la sfrutta per muoversi verso il divano su cui stanno seduti Sido e Fler. La telecamera stringe sugli occhi di Fler, il pubblico da casa non può vederlo ma io sì: sono ancora fissi sul monitor, che non è spento, è solo in pausa, precisamente sull’ultimo fotogramma di Anis prima della fine del video. Sembra uno sguardo perso, a guardarlo in televisione, ma io lo vedo che non è perso: Fler cerca gli occhi di Anis con i suoi. Mi sento disturbato.
Il fatto è che Fler è qualcosa di cui Anis parlava spesso, ma mai davvero. A toccare l’argomento con lui si ricevevano occhiatacce infastidite, tanto per cominciare, oppure una risata sprezzante, e sempre la solita solfa: un traditore, un codardo, uno stupido, ecco cos’è Fler.
Io non so.
Anis lo conosco- lo conoscevo: l’unico motivo per il quale provava della rabbia era per le cose che non era riuscito a trattenere abbastanza a lungo. Per suo padre, ad esempio. Per la storia fra Eko e Valezka, quand’era finita.
Credo che, quando Anis ha lasciato l’Aggro Berlin, l’abbia fatto sperando che Fler l’avrebbe seguito. Forse è questo, il tradimento di cui parla.
Ma io posso solo immaginarlo, perché Anis con me di questo non ha mai parlato davvero.
“È, questo, qualcosa che non si è mai veramente capito, nel passato di Bushido. Un po’ la parte oscura-”
“L’Aggro Berlin non è la parte oscura del passato di Bushido.”
Quando Fler parla, interrompendo Patrice, non se l’aspetta nessuno. Nemmeno il conduttore, che si volta a guardarlo come se, invece di averlo contraddetto, l’avesse preso a insulti senza un motivo. Ma è bravo, Patrice, a gestirsi gli ospiti, si muove con sicurezza: si riprende subito e si volta verso di lui, appoggiandosi al bracciolo del divano con aria complice, come un confidente navigato.
“Prego, prego,” incita con un cenno del capo. Sido lancia a Fler un’occhiataccia, ma Fler non la vede – o la ignora volutamente, non saprei. I suoi occhi sono cupi. Anche Anis aveva momenti del genere. E non lo si capiva più.
“L’Aggro Berlin non è stato un periodo oscuro,” ribadisce, e parla come non si trovasse davvero qui. Non guarda Patrice, non guarda la telecamera, continua a fissare l’immagine di Anis nel monitor. Non posso fare a meno di pensare che forse è proprio con lui che sta parlando. “Semmai, è stato il suo periodo d’oro. Eravamo giovani, ma la fama non ci aveva ancora istupiditi. E non cantavamo per spalarci merda addosso, cantavamo perché avevamo qualcosa da dire,” sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo. Lo guardiamo tutti, è un momento molto particolare. Mi sembra che Fler stia mettendo di fronte alle telecamere qualcosa di perfino più privato rispetto a quello che ho messo io. “I soldi danno alla testa solo ai deboli, comunque,” conclude scuotendo il capo, “è questo che non gli ho mai perdonato.”
Il nostro conduttore annuisce comprensivo. Mi chiedo perché non poggi una mano sulla sua spalla, s’intonerebbe perfettamente con quest’immagine melensa che vuole dare di sé, dell’uomo che sa tutto e che comprende tutto. Se io fossi davvero la principessa di qualcosa, l’avrei già messo a morte. Siccome mi sa che non lo sono, mi mordo un labbro e resto zitto.
“Sembra ci fosse proprio un bel rapporto, fra voi.”
Fler è preso in contropiede, non sa che dire, torna a guardarlo per la prima volta da quando siamo tornati in studio. “…ci conoscevamo da molto tempo…” butta lì, come servisse a spiegare.
“E come hai preso le accuse che ti sono state rivolte? Di averlo ucciso tu, intendo.”
Spalanchiamo gli occhi. Tutti, ma proprio tutti. Perfino Tom, che questa vicenda l’ha seguita solo marginalmente, si sente in dovere di dimostrare il proprio sgomento dischiudendo le labbra. Dopo quello che ha detto Fler, Dio, dopo quello che ha detto adesso, non puoi fare una domanda simile. È una scorrettezza tale che, stupidamente, penso che quest’uomo nel ghetto non resisterebbe un giorno. Lo farebbero fuori tempo niente. Devi capirlo subito, quando sei in quell’ambiente, cosa puoi dire e cosa non puoi dire.
“Puttanate,” boccheggia lui, e vedo Chaku agitarsi sul posto. Lo capisco, anche a me sta salendo un nervosismo assurdo. Vorrei prendere e alzarmi. “Se qualcuno ci crede ancora, quel qualcuno è un idiota,” rincara la dose, evidentemente ferito.
“Eppure,” continua Patrice, perfettamente conscio di aver trovato terreno fertile, “chi ti accusa parla di un movente piuttosto chiaro, e ce l’hai quasi confermato adesso. Ed eri lì, la notte in cui è successo, no?”
Vorrei davvero prendere e alzarmi. Le mani so menarle anche io. Ho le unghie lunghe. Di sicuro gli lascerei addosso qualche sfregio che ricorderebbe per un bel po’.
Invece si alza Fler, e nel suo sguardo c’è tanta fierezza e indignazione che arrivo a sentirmi inadeguato e sporco e meschino pure io che ormai alla sua colpevolezza non ci credo più da tempo.
“Sono puttanate,” ripete deciso, “come questo cazzo di programma,” e, senza una parola di più, si allontana verso il backstage.
Patrice non cerca neanche di fermarlo, un po’ di dramma era esattamente ciò che voleva, e visto che non mi ha ancora visto piangere – e non gliela darò questa soddisfazione, a questo figlio di puttana – provare con Fler era la cosa più veloce e più sicura. In sala cade il silenzio e Patrice sorride prima di voltarsi verso la telecamera e scusarsi col gentile pubblico per questa scena assolutamente imprevista ed alla quale cercheranno tutti di porre rimedio durante lo stacco pubblicitario.
Prima di andare in pausa, però, Sido chiede la parola. Prende il microfono che Fler ha lasciato sul divano, ed è calmo ed educato, addirittura cortese. Lo guardo bene in viso e mi chiedo se sia veramente questo l’uomo contro il quale Anis urlava tanto, nelle sue diss. Ha un aspetto incredibilmente innocuo.
“Fra le etichette discografiche,” comincia pacatamente, “è esattamente come fra gli esseri umani. Arriva un momento in cui smetti di capirti e non puoi più coesistere con l’altro,” scrolla le spalle. Anche lui parla con aria assente, però è una distanza diversa da quella di Fler. Continuo a pensare che quest’uomo non c’entri niente, con tutto questo, però è una presenza rassicurante, in un certo qual modo. “Ma Fler non ha ucciso nessuno,” dice deciso, guardando dritto in camera, “Fler c’è solo finito in mezzo. Ed è stato così un po’ per tutti noi, perciò io eviterei domande di questo tipo, da qui fino alla fine del programma.”
La pubblicità parte prima che Patrice possa rispondere.

Mi rendo conto di essere andato in stand-by solo quando vedo tornare Chakuza e Fler insieme. Fler ha addosso un’aria talmente scazzata che penso potrebbe esplodere da un momento all’altro. È palese che non ha nessun motivo di stare ancora in questo posto, e neanche nessun desiderio. Non ho idea di come abbia fatto Chaku a convincerlo a tornare dentro. Non ho idea neanche di dove sia andato a ripescarlo. Non mi interessa più niente, in tutta sincerità anche io sono decisamente stufo. Posso crogiolarmi nel mio lutto anche a casa, ho lasciato in mezzo le fotografie, posso ricominciare da lì. E invece mi tocca star fermo.
Mi consola solo il fatto che mancano meno di venti minuti alla fine della trasmissione, il che significa che probabilmente faranno un paio di domande a caso a qualcuno che decisamente non sono io ed alla fine mi permetteranno di andare a casa, dove dormirò fino a dopodomani, lo giuro.
Sono spossato.
Patrice riaccoglie il pubblico, che applaude, e non può proprio risparmiarsi un commento sul ritorno di Fler. “Le acque si sono calmate,” dice con un sorrisetto stronzo. Fler sbuffa, infastidito al massimo, ma non aggiunge niente.
Io sto quasi per rilassarmi contro lo schienale del divano, quando Patrice ricomincia a parlare.
“Fino ad ora abbiamo esaminato la parte più professionale e pubblica della vita di Bushido,” racconta serio, “ma Bushido era soprattutto un uomo. Con degli affetti, degli interessi ed una vita privata. È anche di questo che parleremo adesso con Bill Kaulitz, sicuramente la persona che, in quel senso, lo conosceva meglio.”
Ed io mi sento morire.
Lancio un’occhiata a David, che s’è pietrificato accanto ad una telecamera. Le domande private non erano proibite? Finché le cose le racconto io, d’accordo, ma che quest’uomo s’intrufoli nella mia vita, nel mio rapporto con Anis, nella mia cazzo di storia, questo no, non lo posso accettare. Non lo posso tollerare.
Non lo reggo.
David scuote lentamente il capo, non sa che pesci prendere. Aveva fatto firmare ai produttori un contratto, io lo so, David è sempre attentissimo a queste cose. Vedo già nei suoi occhi i meccanismi del cervello che si mettono in moto, lui che pensa a come risolvere, a chi fare causa, a chi togliere in tribunale perfino le mutande, ed io continuo a pensare che Patrice nel ghetto non sarebbe sopravvissuto un giorno. Penso questo, lo guardo e basta.
“Bill,” chiede comprensivo, “te la senti di parlarne?”
Non so che dire. No che non me la sento, mi pare ovvio. Non so perché non ho pensato a quest’eventualità, quando ho deciso che volevo venire ed aprirmi il petto in due. Non so perché non ho pensato che al mondo non bastasse vedere il mio cuore, che preferisse di gran lunga afferrarlo fra le dita e strapparlo via. Io lo sapevo che sarebbe finita così. Solo che la prospettiva di affondare un po’ fra i ricordi con una giustificazione valida per poterlo fare mi ha annebbiato la vista.
Tom mi guarda preoccupato. Cerco di nuovo David nel backstage, ma è scomparso. Mi prendo un secondo per avercela con lui, deve essere colpa sua, in qualche modo.
Sospiro.
“Suppongo di sì…” concedo distrattamente, con un mezzo sorriso. Sul divanetto dell’Ersguterjunge vanno tutti in tensione, come stessi per sputtanare chissà che.
In effetti è vero.
“Tu ed Anis…” mi salta il cuore in gola e spalanco gli occhi, “Posso chiamarlo così, sì?” non rispondo perché mi manca il fiato, ma no, testa di cazzo, non puoi chiamarlo così, non puoi chiamarlo così perché lo fai per pietismo in virtù di una libertà che non ti è mai stata concessa. Non commuovi nessuno, Patrice, ficchi le mani dove non devi, solo questo. “Com’è che vi siete conosciuti?”
Il mio sguardo si perde nel vuoto per qualche secondo. Poi stringo le mani in grembo – ho lasciato andare Tom molto tempo fa e non intendo tornare a chiedergli aiuto proprio adesso – e deglutisco, sperando di rimandare il mio cuore al proprio posto.
“Una festa,” racconto a bassa voce, “lui era ancora sotto contratto alla Universal. Chiacchierammo un po’, e…”
“Fu lui a provarci con te?”
Sollevo lo sguardo e lo omaggio di una smorfia infastidita.
“Assolutamente no,” dico, velenoso, “Non capisco cosa impedisca di pensare che sia stato io a provarci. È esattamente così che è andata.”
“E lui ti ha subito fatto sapere che anche da parte sua c’era dell’interesse…”
Comincio seriamente a chiedermi che razza di storia sia girata alle nostre spalle nello show business, perché ciò di cui sta parlando Patrice non c’entra niente con la nostra verità.
“Sono stato io ad insistere,” spiego asciutto. Non so perché non sto piangendo. Forse perché sono più arrabbiato che triste, in questo momento. “Anis s’è innamorato di me solo perché io, il suo amore, me lo sono guadagnato. E questo è quanto.”
Patrice annuisce tranquillamente e si siede sul bracciolo del mio divano. Io faccio fatica a non scostarmi disgustato.
“E dimmi, nella vostra vita privata-”
“La nostra vita privata” lo interrompo con un’occhiata glaciale, “è appunto la nostra vita privata.” Sorrido un po’. “Vuoi chiedermi com’era quando si svegliava alla mattina? Se era dolce con me? Se mi tradiva? Com’era a letto?” sbuffo e scuoto il capo, mi vanno un po’ di capelli davanti agli occhi ma li tiro dietro un orecchio con decisione. Non sto piangendo e voglio che lo vedano tutti. Voglio che lo capiscano tutti: Anis mi manca, ma non lo rimpiango. Non ho nessun motivo di rimpiangere niente. “Lui era perfetto,” dico fieramente, fissando dritto negli occhi Patrice, “è tutto quello che dovete sapere.”
Lui si tira impercettibilmente indietro. Vedo Tomi che ghigna soddisfatto, al mio fianco, mentre il pubblico si scioglie in un applauso scrosciante che non era previsto, dato che, teoricamente, non lo era neanche questa mia uscita.
Mi rilasso contro lo schienale e guardo Chakuza. Mi fa un cenno d’approvazione, una cosa piccolissima, china appena il capo e sorride. Gli sorrido di rimando, mentre ascolto distrattamente Patrice riassumere ciò che è stato fatto e detto durante la serata e salutare il pubblico ricordando l’orario di TRL del giorno dopo.

Non aspetto neanche un secondo. Appena ci danno il segnale di libero, mi alzo in piedi e tolgo il microfono. Non guardo nessuno e non vedo nessuno: voglio solo uscire da qui il più presto possibile, infilare in macchina e poi chiudermi in casa con le mie foto, i miei ricordi e il mio Anis che con le stupide insinuazioni di Patrice non ha niente a che spartire.
Imbocco il corridoio, incurante del fatto che, alle mie spalle, Chaku e Tom mi stiano chiamando. Trovo David che sta già litigando com'era prevedibile. Urla e strepita, minaccia ripercussioni legali su ogni fronte. "Il ragazzo è provato," sta dicendo e punta vagamente il dito nella direzione dalla quale provengo, finendo per indicarmi davvero senza volerlo. "Avevamo concordato per delle domande molto più generiche."
"Signor Jost, il signor Kaulitz si è dichiarato in grado di rispondere," gli risponde una donna ben vestita e pettinatissima. Ha la coda così tirata dietro la testa che dà l'impressione di smontarsi se solo le si togliesse l'elastico. Purtroppo quello che dice è vero. Il contratto sarebbe passato in secondo piano se Patrice fosse riuscito ad ottenere la liberatoria direttamente dalle mie labbra. E lo ha fatto, prendendomi in contropiede in diretta.
Nonostante questo, mi viene da sorridere stupidamente di fronte a David che mi chiama affettuosamente il ragazzo. Non posso essere il Signor Kaulitz per lui, neanche quando si parla di affari legali, non quando la prima volta che ci siamo incontrati avevo undici anni e lui mi superava ancora in altezza. Quello è durato poco, comunque.
Ad ogni modo sono stanco, l'ho già detto, e di ridere davvero non ho molta voglia.
"David, lascia stare," dico e lui si volta. E' così furioso che ci mette due secondi a capire che lo sto chiamando e gli ho chiesto di smettere. "Voglio andare a casa."
David si riprende e non discute. Qualunque disaccordo tra band e manager si discute in privato, è la prima regola.
E' così che ci ha insegnato a non fare capricci davanti a nessuno, ad obbedire ai suoi ordini per poi - in caso - protestare anche violentemente sul tourbus. E' per questo che la stampa non ha ancora avuto modo di sapere quanto io sia capace di battere i piedi e quanto si lamentino anche le due G, che passano per due tipi tranquilli.
David, difatto, non discute. "Va bene. Tra cinque minuti usciamo, allerto la security."
Mi sforzo di sorridere. "Grazie."
Il mio manager annuisce e si allontana, senza dimenticarsi di indicare la donna ben vestita e annunciarle decisissimo: "Avrà notizie dai miei avvocati."
Io mi stringo a Tom e sospiro. Se dio vuole è finita: niente più tributi, niente più inquadrature strettissime sui miei occhi. Non sono pentito - non ho la forza per esserlo - ma sono contento di essermi ripreso il mio Bushido e di potermelo riportare a casa. Ve l'ho fatto vedere, ma ora basta.
"Bill..." la voce tesa di Chakuza mi risveglia dai miei pensieri. Apro gli occhi e gli faccio cenno di continuare. Sta per parlare, ma David ci raggiunge di nuovo e quindi non ne ha il tempo materiale.
"E' tutto a posto, andiamo." E poi aggiunge: "Niente autografi, niente foto. Non vi fermate. Vi voglio fuori da questo posto il più in fretta possibile."
Sono perfettamente d'accordo, quindi annuisco. Tom e Chakuza scivolano al mio fianco immediatamente, imitano perfino i miei passi. Sorriderei se fossimo altrove.
Vedo Fler con la coda dell'occhio e mi pare che ci segua.
David ci fa uscire da dove siamo entrati ma la situazione è totalmente diversa. Quando ci affacciamo sulla porta si scatena il delirio: c'è un mucchio di gente in più. Hanno transennato ulteriormente e le ragazze scalpitano, chiamano il mio nome e quello di mio fratello. Qualcuno batte le mani e mi si solleva il sopracciglio in automatico.
David apre la fila e cammina spedito, dettando il passo a noi che gli stiamo dietro. Prima di uscire, abbiamo assunto la solita formazione: una delle guardie del corpo mi sta incollata addosso, l'altra è con Tom che scalpita - anche lui - e, per qualche strana ragione vorrebbe camminare più avanti con me.
Appena metto piede fuori, localizzo con un'occhiata le altre guardie della security; anche questo me l'ha insegnato David: devo sempre sapere chi mi può aiutare e dove trovarlo. Ironico che da lì a due minuti saperlo non mi servirà assolutamente a niente.
Facciamo soltanto cinque metri. Non c'è modo di arrivare alla macchina senza passare attraverso il corridoio umano transennato. Mi sforzo di tenere la testa alta e un'andatura non troppo sostenuta. Mi secca apparire scostante.
Le cose vanno fuori controllo un attimo prima che io - chiunque di noi, credo - me ne accorga.
Quando il pubblico grida, tu senti solo un vociare indistinto; alle volte ti arriva chiaramente il tuo nome e qualche frase imbarazzante, sì, ma per il resto sono solo grida.
Le urla di qualcuno che viene buttato a terra e spintonato, i suoni di una rissa insomma, non li puoi distinguere.
Ecco perché quando la transenna va giù è già tutto iniziato e tu non lo sapevi. Quando il ferro tocca terra con quel rimbombo di campana è già perfino tutto finito.
Da qualche parte alla mia sinistra volano offese. Io mi guardo intorno spaesato e l'unica cosa che mi preoccupa è che Tom si trova proprio da quella parte.
Guardo in quella direzione e la mia guardia del corpo fa lo stesso. Sull'errore umano ci puoi sempre contare, alla fine.
La rissa, in realtà, è solo davvero una rissa ma lo capiamo quel secondo troppo tardi. Quello è il secondo che ci mette la transenna vicino a me a cadere.
Mi volto di nuovo e lo vedo, l'uomo col passamontagna armato di coltello. Lo vedo così bene che penso: è una lama di dieci centimetri, sono morto.
Poi non capisco più niente. Sento correre, sento il mio nome e poi mi buttano a terra. Il grido di dolore che ne segue non è mio, però. Ho solo battuto una spalla, e neanche tanto, non ho fiatato.
Quando riapro gli occhi sono disteso a terra e Tom sta gridando: "Lasciatemi andare, cazzo!"
Il mondo ci mette più di qualche secondo a ritrovare un senso. La prima cosa che noto è che si sono zittiti tutti. Non è che stanno in silenzio, ma non gridano più; c'è come un mormorio.
La seconda cosa che noto è che ho le ginocchia immerse in una pozza di sangue. E che a seguirne la traccia collosa trovo Peter che non si muove e ha gli occhi chiusi. Peter che sembra morto.
"Chaku..." lo dico piano, perchè so che se mi esce di bocca poi è vero. Alla fine però urlo, perchè il sangue è sempre lì. "CHAKU!"
Gattono fino a lui e non me ne frega niente di niente. Del sangue. Della gente. Del brusio e delle mille voci che mi sembra di riconoscere. Non me ne frega.
Lo guardo e sta fermo, disteso sulla schiena. Lo guardo e ogni secondo c'è più sangue di prima. Mi ritrovo a pensare: non anche lui! Non anche lui!
E sento il panico che mi prende alla gola. Non ho materialmente la forza per prendere in considerazione l'idea che qualcuno gli abbia infilato un coltello nello stomaco, che stia morendo. Che perderò anche lui.
E' tutto come tre mesi fa. Tutto, tutto uguale. Il rumore di fondo, la gente che urla, il sangue. Il rosso, sulla maglietta bianca che si tinge ad una velocità spaventosa. Lo afferro e me lo tiro addosso, in ginocchio lì dove sono. "Chaku..." le lacrime che ho trattenuto di fronte a quel figlio di puttana di Patice escono fuori adesso. Mi ci soffoco mentre lo chiamo ininterrottamente. "Peter, Dio mio rispondi!"
Mi dondolo e dondolo lui. Una parte di me mi dice che è già morto, l'altra mi dice che non può esserlo e io non ascolto nessuna delle due e mi convinco che se rimaniamo tutti fermi non cambierà niente. Non morirà. Si fermerà tutto, anche il sangue.
Mio fratello continua a gridare e poi arriva Fler. "Bill spostati adesso," mi dice. La sua voce è tesa e netta e autoritaria. Non l'ho mai sentita una voce così, con quel tono particolare. Invece sì, penso vago. E' la voce di Anis, lui parlava allo stesso modo.
Io però continuo a stringere Peter perchè se mi muovo, se cambio qualcosa, il sangue riprenderà ad uscire. E lui a morire. "SPOSTATI!" Lo urla stavolta, e me lo strappa dalle mani, mi spinge via. Io cado all'indietro e c'è mio fratello pronto a recuperarmi al volo.
Sto piangendo così forte che non sento nemmeno le mie parole. So di pronunciarle, ma non le sento. "E' vivo? Fler?" Chiamo, lui non si gira. "FLER! Non si muove... Tomi, non si muove.. non si muove."
Tomi mi stringe, ho le sue mani sullo stomaco e mi appoggio contro il suo petto. Non è un abbraccio tenero, mi stringe forte perché sa che mi getterei di nuovo in avanti. Tom non dice niente, non lo dice e io penso che se non parla è perché non può consolarmi. E se non può consolarmi allora vuol dire che è morto. Peter è morto.
Fler solleva la testa, si guarda intorno con rabbia. Quei suoi occhi azzurrissimi quasi lampeggiano. Quando dice: "Qualcuno chiami una fottuta ambulanza," non guarda nessuno eppure tutti si sentono tirati in causa.
L'ambulanza arriva dopo pochissimo. Qualcuno doveva averla già chiamata, oppure sono stati molto veloci. Non so. I paramedici scendono dall'automezzo uno dietro l'altro come le squadre speciali della SWAT nei film americani. E anche Fler è un film americano perchè è lui a dire tutto, a fare tutto. "Ferita da arma da taglio sull'addome, il coltello probabilmente era seghettato, avrà bisogno di... non lo so, almeno quattro punti, ed assistenza immediata," dice ad uno dei medici mentre issano Chakuza su una barella. E la sua voce è di nuovo in quel modo, netta e secca. Il medico annuisce e Fler ha il viso tirato. Si china sulla barella, su Peter e sussurra: "Stai tranquillo, Atze, ne vieni fuori. Non preoccuparti."
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